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SCONFINANDO

MONDO ANTICO


IL CONCETTO DI SCHIAVITU' IN GRECIA

LA SCHIAVITU' NELL'ANTICA ROMA

LE RIVOLTE DEGLI SCHIAVI NEL MONDO ANTICO

LA SCHIAVITU' IN ISRAELE: VECCHIO E NUOVO TESTAMENTO

IL PROBLEMA DELLA SCHIAVITU' NEL CRISTIANESIMO ANTICO

RIFERIMENTI TESTUALI ALLA SCHIAVITU' NELLA BIBBIA
(ANTICO e NUOVO TESTAMENTO)






IL CONCETTO DI SCHIAVITU' IN GRECIA

L'istituto della schiavitù fu accettato e giustificato da filosofi come Platone ed Aristotele, pur in contrasto con le premesse della loro speculazione metafisica ed antropologica, a motivo di una serie di condizionamenti di carattere storico-sociale. Era convinzione che un libero non potesse dedicarsi ai lavori più umili, a causa della radicale svalutazione del lavoro manuale. Inoltre, era convinzione che tra gli uomini esistessero differenze di natura tali da rendere alcuni solo idonei ad ubbidire, altri a comandare. Per conseguenza, ossia perché giudicata fondata su una situazione naturale, la schiavitù veniva ritenuta, in fondo, non solo vantaggiosa per il padrone, ma anche per il servo. Su questa convinzione, inoltre, pesava sinistramente un altro pregiudizio, che complicava ulteriormente le cose. I Greci ritenevano di essere per natura superiori ai barbari, e, di conseguenza, ritenevano naturale che i barbari, vinti in guerra, divenissero loro schiavi. Pertanto, sia Platone sia Aristotele giudicarono ingiusto rendere schiavo un Greco, ma naturale e corretto far schiavo un barbaro. Essi si limitarono a combattere una battaglia che, se da un certo punto di vista appare ispirata ad un ideale panellenico, in realtà ha un preciso risvolto razzistico, presupponendo appunto la superiorità della razza greca. Scrive per esempio Platone:

"Ebbene, e verso i nemici come agiranno i soldati nostri? - A che proposito? - Innanzitutto quanto a ridurli in schiavitù: ti pare giusto che una città greca abbia a rendere schiavi altri Greci?, o che piuttosto ciò non si debba concedere neppure ad alcun altra, in quanto sia possibile, ed a questo si debba avvezzarsi, a risparmiare la razza greca, stando bene in guardia dal non essere noi fatti schiavi dai barbari? - In tutto e per tutto, disse, è meglio risparmiarlo - Né dovranno dunque essi possedere alcun schiavo greco, e questo stesso consigliate agli altri Greci? - Precisamente poiché così si rivolgerebbero più contro i barbari, e non si offenderebbero tra loro" (Repubblica, V, 469 b-c).

Per quanto concerne la posizione di Aristotele, sembra utile riportare alcuni passi tratti da Politica, Torino 1955:

"Tutti gli uomini che differiscono dai loro simili tanto quanto l'anima differisce dal corpo e l'uomo dalla belva ( e sono in questa condizione quelli il cui compito implica l'uso del corpo, che è ciò che essi hanno di meglio), sono schiavi per natura e per essi il partito migliore è sottomettersi all'autorità di qualcuno, se ciò vale per gli esempi che sopra abbiamo arrecato. E' schiavo per natura chi appartiene a qualcuno in potenza (e per ciò diventa possesso di qualche altro in atto) e partecipa alla ragione soltanto per quel che spetta alla sensibilità immediata, senza possederla propriamente, mentre gli altri animali non hanno neppure il grado di ragione che compete alla sensibilità, ma obbediscono alle passioni. Ed il loro modo di impiego differisce di poco, perché gli uni e gli altri, gli schiavi e gli animali domestici, si utilizzano per i servizi necessari al corpo"; ed ancora: "che i Greci comandino sui barbari è naturale"

Un tentativo di infrangere il presupposto razzistico fu fatto da alcuni Sofisti e Socratici minori. Antifonte, per esempio, proclamava senza mezzi termini, che "di natura siamo assolutamente uguali, sia Greci che barbari"; ma senza motivare adeguatamente l'asserto; è però solo nelle filosofie dell'età ellenistica e soprattutto nello stoicismo e nel neostoicismo, che si giunge al fondamento teoretico del problema. Il principio della identità della virtù in tutti gli esseri razionali, comporta l'uguaglianza di tutti gli uomini virtuosi..

  1. Se la natura umana è capace di saggezza, è necessario che gli artigiani, i contadini e le donne ed insomma quanti hanno forma umana, siano istruiti in modo da essere sapienti e che si crei una folla di sapienti di ogni lingua, condizione, sesso ed età (…). Di ciò si resero conto gli Stoici, i quali dissero che dovevano darsi allo studio della filosofia servi e donne, ed anche Epicureo che invitava alla filosofia gli inesperti di studi.[1]
  2. La virtù non è preclusa ad alcuno, è permessa a tutti, accoglie tutti, chiama a sé tutti, liberi, liberti, schiavi, re esuli. Non sceglie la casa o il censo, si accontenta dell'uomo nudo (nudo homine)[2]
  3. Gli Stoici affermano che identica è la virtù in Dio e negli uomini, restando, così, lontani dalla religiosità di Platone e dalla misura socratica.[3]

Tutti i popoli sono dichiarati capaci di virtù, la nobiltà di nascita viene bollata come scoria e raschiatura dell'uguaglianza, e viene espresso a tutto tondo il grande principio: nessun uomo è per natura schiavo.

  1. Bisogna chiamare propriamente stato felice o città questa sola comunanza reciproca degli dei, includendovi anche gli uomini assieme agli dei, se si vuole includervi ogni essere razionale (…).[4]
  2. Tutto questo universo deve essere considerato una sola città comune agli dei ed agli uomini.[5]

E' famosa la tesi stoica: "solo il sapiente è libero; gli stolti sono servi; la libertà è la facoltà di agire in modo autonomo, la servitù è la privazione di tale facoltà" (von Arnim, S.V.F., III, fr. 355).

Queste premesse sono portate a notevoli sviluppi nei Neostoici, in particolare da Seneca

  1. Se qualcosa di buono vi è nella filosofia è questo, che non guarda a stemmi: tutti gli uomini se si riportano alla prima origine discendono dagli Dei. Tu sei cavaliere romano, ed a tale Ordine ti ha innalzato la tua solerte attività: ma vedi che i quattordici sedili per molti sono chiusi e vedi che il Senato non accetta tutti, e persino l'esercito accoglie con un certo stento pur coloro che poi manda incontro a fatiche ed a pericoli, mentre la virtù è possibile a tutti, e tutti per essa siamo nobili. La filosofia non respinge nessuno e non fa speciali scelte: splende per tutti.[6]
  2. Non è un atrio pieno di ritratti affumicati che ci dà la nobiltà: nessuno è vissuto per la nostra gloria e non appartiene a noi quello che è stato avanti di noi: la nobiltà è data dall'animo, il quale, in qualsiasi condizione si trovi, ha sempre la possibilità di sollevarsi sopra la fortuna stessa. Supponi di non essere un cavaliere romano ma uno schiavo affrancato: ebbene tu potrai fare in modo da essere fra gli uomini nati liberi, tu schiavo affrancato, il solo veramente libero. In che modo? Tu mi domandi. Questo tu potrai fare se saprai distinguere i beni e i mali senza avere per maestra la moltitudine.[7]
  3. Qual è questo valore? E' l'animo ma l'animo retto, buono e grande. Tu non puoi chiamare tale animo altrimenti che un dio ospite di un corpo umano. E tale animo può avere per sorte di albergare così in un cavaliere romano, come in un liberto, come in uno schiavo. Che cosa è infatti un cavaliere romano, un liberto, uno schiavo? Sono nomi dettati dall'ambizione o dall'ingiustizia. Si può salire al cielo da ogni misero angolo della terra: sorgi e fa te stesso degno della divinità.[8]
  4. Sono schiavi, dunque uomini. Sono schiavi, dunque compagni di stanza. Sono schiavi, dunque umili amici.[9]
  5. Comportati con gli inferiori come vorresti che si comportassero con te coloro che ti sono superiori.[10]

e da Epitteto, che dalla parentela dell'uomo con Dio trae il concetto di universale fratellanza: Tutti siamo figli di Zeus, quindi nati dallo stesso germe, quindi fratelli per natura.

  1. Gli fu chiesto come si può mangiare in modo da piacere agli déi. "Se si può farlo come si deve, rispose, e cioè in maniera ragionevole, e così pure con temperanza e misura, non lo si fa anche in modo da piacere agli déi? Quando tu chiedi acqua calda ed il servo non ti obbedisce, o, se ti obbedisce, te la porta tiepida, o non si trova neppure in casa, allora, il non adirarsi, il non dare in escandescenze, non è il piacere degli déi? - Ma allora come sopportare tali persone? - Schiavo, non sopporterai tuo fratello che ha Zeus per padre, è nato come figlio, dallo stesso germe che te e dalla stessa discendenza celeste, ma per essere stato collocato in una posizione un po' più eminente, t'atteggerai subito a tiranno? Non ricorderai chi sei e su chi comandi? Non sono uomini della tua stessa stirpe, fratelli per natura, discendenti di Zeus? - Ma io ho il diritto d'acquisto su di loro, essi non l'hanno su di me - Vedi dove guardi? Non è sulla terra, sul baratro, su queste infelici leggi che sono leggi dei morti? Alle leggi degli déi non guardi? [11]

Non sembra dunque essere un caso che la storia della Stoa si concluda con Epitteto, uno schiavo liberato e con Marco Aurelio, un imperatore.

 

 

LA SCHIAVITU' NELL'ANTICA ROMA

TUTTI i popoli antichi conobbero la schiavitù,ma presso nessun popolo gli schiavi furono così numerosi come presso i Romani quando essi diventarono i padroni del Mediterraneo.Secondo una antica usanza,comune a tutte le popolazioni antiche,i prigionieri di guerra (soldati,ma anche “civili”, donne e bambini compresi) diventavano schiavi del vincitore.
Anche Roma, espandendosi, ridusse in schiavitù i vinti. Non abbiamo notizie precise sul numero degli schiavi nel mondo romano: gli antichi non ci hanno lasciato notizie attendibili al riguardo ed i calcoli degli storici presentano un largo margine d’incertezza.
“ Dal momento che un prigioniero di guerra puoi venderlo, non lo uccidere: lascia che pascoli tra gli stenti e che ari,che trasporti cereali e derrate” consigliava il poeta Orazio. Lo storico Tito Livio ci consente di avere una idea di quanto fossero numerosi gli schiavi conquistati grazie alle guerre. Nel 286 a.C., durante la prima guerra punica, furono condotti dall’Africa più di 20.000 prigionieri,tutti venduti come schiavi; la conquista dell’ Epiro,nel 167 a.C., fruttò un numero di prigionieri impressionante: 150.000. Giulio Cesare, secondo talune testimonianze antiche, avrebbe deportato dalle Gallie un milione di uomini.Sono cifre enormi ed ogni campagna militare aggiungeva nuovi schiavi; oltre che dalle guerre, il mercato degli schiavi era rifornito,più modestamente,ma anche più regolarmente, dai pirati,che assaltavano le navi e vendevano come schiavi i marinai ed i passeggeri. Diodoro Siculo informa che nell’isola di Delo,il più grande mercato di schiavi del mondo romano,si vendevano ben 10.000 schiavi al giorno. In percentuale gli schiavi erano circa il 30% della popolazione,ma potevano essere, in certi periodi, anche il 70%.All’epoca di Traiano solo a Roma vivevano 400.000 schiavi, su 1.200.000 abitanti. Lo stesso Traiano, dopo aver conquistato la Dacia, vendette 50.000 prigionieri.Anche i cittadini romani potevano divenire schiavi. . Una delle Leggi delle XII Tavole iniziava in questo modo: Se il padre vende il figlio tre volte ……,dopo la terza vendita, il figliolo così trattato, era libero dalla patria potestà.Fino al IV Sec. A.C., chi non era in grado di pagare un debito “ era condotto alla casa di colui che gli aveva intentato causa e qui era incatenato”. La schiavitù per debiti pesava come un incubo sui più poveri. Infine, si poteva cadere in schiavitù rimanendo prigionieri dei pirati che, con le loro scorrerie terrorizzavano gli abitanti della costa egli equipaggi delle navi.
Gli schiavi erano impegnati in tutti i lavori. Erano camerieri,cuochi,balie,portatori,parrucchieri,ma anche pedagoghi, lavoravano nelle botteghe come operai specializzati. Anche lo Stato possedeva molti schiavi usati per lavori di pubblica utilità: Il maggior proprietario di schiavi era l’imperatore che li utilizzava per la riscossione dei tributi,per il duro lavoro nelle miniere,nelle cave di marmo, nei latifondi imperiali.
Gli schiavi erano numerosissimi soprattutto nella dimora dell’imperatore:essi curavano il suo guardaroba,ognuno per un diverso tipo di indumento,molti erano addetti alla sua persona:bagnini,massaggiatori,profumieri,parrucchieri etc..; altri ancora cucinavano i cibi e servivano l’imperatore durante i banchetti.

Gli schiavi nelle campagne
I grandi proprietari terrieri affidavano,solitamente, l’amministrazione dell’azienda agricola, la villa,ad un sovrintendente, il villicus , uno schiavo che il padrone apprezzava per competenza,fedeltà,capacità di lavoro. Sulle qualità ideali di questo schiavo gli esperti antichi non erano affatto d’accordo:secondo alcuni ,doveva essere istruito e possedere una certa cultura generale,perché potesse essere in grado di seguire la contabilità dell’azienda; secondo altri il villicus sarebbe dovuto essere completamente analfabeta per evitare che falsificasse i conti.Su un elemento sembra concordassero tutti: il villico era obbligato ad osservare un comportamento adeguato: non dare,per esempio,troppa confidenza agli altri schiavi che lavoravano alle sue dipendenze e mangiare ad una tavola separata, ma,nel contempo, mostrare di condividere i disagi degli altri schiavi partecipando agli stessi lavori,mangiando gli stessi cibi e così via. Il villico non aveva moglie,perché agli schiavi era proibito il matrimonio legale,aveva,però, una compagna la villica che nell’azienda svolgeva un ruolo molto importante: ella curava settori vitali della gestione della villa: la dispensa,le cucine,l’infermeria,la tessitura dei vestiti,la mungitura,la tosatura degli animali. Una azienda di medie o grandi dimensioni contava diverse centinaia o addirittura migliaia di schiavi agricoltori che richiedevano sorveglianza continua per evitare il rischio di fughe o rivolte.Tra gli schiavi il villico sceglieva,a tal fine, i suoi sorveglianti o monitores ,individui odiatissimi,perché esercitavano il potere con brutalità,sfruttando i compagni e denunciandoli per ogni minima mancanza.Tra gli schiavi dell’azienda si distinguevano due categorie fondamentali: gli schiavi victi cioè incatenati ed i soluti non incatenati. I victi ,marchiati a fuoco,fiaccati dal lavoro, erano alloggiati negli ergastula ,ergastoli, locali sotterranei con finestre altissime ed irraggiungibili. I Soluti, invece,subivano un trattamento meno duro ed alloggiavano in stanzette o capanne.”Si vendano i buoi invecchiati,i capi di bestiame e le pecore difettosi,lo schiavo vecchio,lo schiavo malandato ed ogni altro peso morto” scriveva con indifferenza Catone il Censore. Molti padroni abbandonavano gli schiavi ammalati per evitare di curarli o li uccidevano e, solo a partire dall’imperatore Claudio, furono varate alcune leggi che intesero porre un freno ad inaudite crudeltà,ma forse anche perché, è ovvio sospettare, gli schiavi erano divenuti meno numerosi.Un gruppo a parte era costituito dagli schiavi pastori ,che guidavano greggi anche di mille capi e restavano assenti dalle aziende per lunghi periodi: erano scelti tra gli uomini più forti e resistenti,capaci di trascorrere le notti all’addiaccio o sotto capanne improvvisate. Erano gli unici schiavi a portare le armi per respingere gli assalti degli orsi e dei lupi e gli attacchi dei banditi, per questo erano anche gli schiavi più temibili e pericolosi.

Gli schiavi nelle miniere
Nelle miniere la schiavitù romana si esprimeva più crudelmente: migliaia di schiavi erano obbligati a ritmi di lavoro massacranti;solo gli individui più robusti riuscivano a resistere per qualche tempo alle fatiche,all’ambiente malsano,ai crolli; la maggior parte moriva in pochi mesi.Le miniere di rame,di piobo,d’argento della Spagna ,quelle d’argento della Sardegna, quelle di ferro dei Balcani, quelle d’oro delle Alpi e dei Pirenei consumavano uomini come oggi una caldaia consuma carbone.

Gli schiavi nelle città
Gli schiavi che abitavano nelle città ( schiavi urbani) erano solitamente utilizzati per i lavori domestici: camerieri,cuochi,lavandai. Compiti di maggiore responsabilità erano affidati,invece,agli individui più colti: scribi,contabili,cassieri,segretari,bibliotecari; uno schiavo pedagogo aveva un valore commerciale notevole. Gli schiavi greci, catturati durante la conquista dell’Oriente,diffusero a Roma la cultura greca nelle sue varie manifestazioni( teatro,poesia,arte,filosofia ecc) e schiavo affrancato fu il primo autore della letteratura latina: Livio Andronico.
Gli schiavi urbani erano largamente utilizzati nei laboratori artigianali,dove lavoravano come falegnami,orafi,tessitori,ceramisti.
Il 75% degli operai delle officine ceramiche di Arezzo era costituito da schiavi.
Altri,ancora,erano: muratori,pittori,marmisti,barbieri,calzolai,sarti,panettieri,manovali,attori,
medici,architetti. Non c’era,insomma,attività, al di là di quella politica e militare, che non fosse svolta da schiavi.Parafrasando Karl Marx ,lo schiavo era l’elemento su cui si basava l’intera vita economica della società.la quale era caratterizzata,appunto,dal modo di produzione schiavistico. Gli antichi non inventarono macchine,attrezzi,congegni che avrebbero potuto rendere meno dura la fatica non perché non ne fossero capaci,ma perché non ne avvertirono la necessità: vi erano gli schiavi,merce abbondante e di nessun prezzo.L’essenza della schiavitù,antica e moderna, risiede,pertanto,nella totale perdita dei fondamentali diritti umani: la libertà,la dignità,il rispetto,il diritto alla vita,alla scelta professionale,al credo religioso,alla famiglia: Lo schiavo è “ una cosa “, un oggetto di proprietà del padrone: SERVILE CAPUT NULLUM IUS HABET , così si legge nel Digesto. Lo schiavo può essere venduto,sfruttato,ucciso,per questo Aristotele lo paragona ad un animale domestico.I Romani ritenevano lo schiavo uno “strumento parlante”: essi erano soggetti a barbare punizioni,ma anche a particolari ricompense.Le punizioni inflitte erano le più disparate: dalla fustigazione alla bruciatura con lamine di metallo rovente,alle mutilazioni di vario tipo. Allo schiavo che aveva tentato la fuga si imprimeva un marchio a fuoco sulla fronte con le lettere FUG (fugitivus); a chi avesse compiuto un furto le lettere FUR( ladro).Per le colpe più gravi erano previsti vari tipi di condanna a morte: la più frequente era la crocifissione.Una società schiavista,come quella romana,poteva reggersi,infatti,solo sul terrore e su di una ferrea disciplina,ma non poteva evitare di distribuire ricompense fra cui quella della libertà ( i liberti erano gli schiavi affrancati). La concessione della libertà era un fenomeno molto importante sul piano sociale,per almeno due motivi:
1) La speranza di ottenere la libertà placava il desiderio di ribellione dello schiavo e lo sollecitava ad un comportamento docile e rassegnato.Senza questa speranza la società romana sarebbe stata una gigantesca polveriera sempre sul punto di esplodere.
2) Con l’inserimento nella cittadinanza di tanti uomini nuovi e provenienti da tutte le parti del mondo,la società romana si arricchiva di energie umane e culturali che,altrimenti,sarebbero rimaste inespresse.Quinto Orazio Flacco era figlio di un liberto.I liberti,certo,non potevano ricoprire magistrature,né arruolarsi nella legione,né sposare persone libere,ma i loro discendenti erano cittadini romani a pieno titolo.

BIBLIOGRAFIA

H.DESCHAMPS . Storia della tratta dei negri dall'antichità ai giorni nostri, Momdadori, Milano, 1974

J.MEYER Schiavi e negrieri. La grande tratta, Universale Electa Gallimard, Trieste 1996

L.JONES Il popolo dei blues, Einaudi, Torino 1968

A.HALEY, Radici, Rizzoli, Milano 1978

BALES KEVIN I nuovi schiavi.La merce umana nell'economia globale. Feltrinelli

CASTAGNETO PIERANGELO Schiavi antichi e moderni, Carocci

POSTIGLIONE ANACLETO La schiavitù nella società e nella cultura antica attraverso le testimonianze degli scrittori greci e latini. Edizioni Scientifiche Italiane

CARANDINI ANDREA Schiavi in Italia. Gli strumenti pensanti dei romani fra tarda Repubblica e medio Impero, Carocci

LA SCHIAVITU' IN ISRAELE: VECCHIO E NUOVO TESTAMENTO

Nell'antico Israele, come risulta dalle disposizioni civili e penali contenute nel Pentateuco, la schiavitù aveva un doppio regime: gli schiavi stranieri (prigionieri di guerra o acquistati) rimanevano tali per tutta la vita, pur facendo parte della famiglia e pur venendo ammessi, una volta circoncisi, al culto. Inoltre, la legge limitava i diritti dei proprietari sui loro schiavi, ne tutelava la vita ed estendeva loro il riposo sabbatico. Gli schiavi israeliti (cioè persone che si fossero vendute o che erano state vendute per debiti) dovevano invece essere liberati dopo sei anni di schiavitù, a meno che essi non dichiarassero formalmente di voler rimanere per sempre con il padrone. In particolare le schiave acquistate per essere mogli, se il padrone prendeva altre donne, conservavano i loro diritti coniugali, e se non le voleva più tenere con sé diventavano libere.

IL PROBLEMA DELLA SCHIAVITÙ NEL CRISTIANESIMO ANTICO

Un probelama fondamentale che la Chiesa antica dovette affrontare è quello della schiavitù. Poiché nelle comunità cristiane vi erano molti schiavi convertiti, fin dagli inizi viene elaborata una risposta. Nella società romana, com'è noto, lo schiavo non conta nulla: semplice oggetto, è un bene che può essere acquistato o venduto; rientra quindi nella categoria del diritto di proprietà e del commercio. Non ha diritti né familiari né patrimoniali, ancor meno politici; non può contrarre matrimonio legale né fondare una famiglia e la sua condizione è ereditaria. È vero che per influsso dello stoicismo i rapporti tra padrone e schiavo erano in parte migliorati; le misure concrete adottate nel II secolo dal governo imperiale riconoscevano agli schiavi il diritto di costituire un peculio e controllavano il diritto di vita e di morte del padrone su di loro. Ma l'istituzione servile restava senza contestazioni. La predicazione di Pietro e di Paolo afferma, fin dagli inizi, un principio rivoluzionario: la fede nel Cristo porta la libertà spirituale agli schiavi come a tutti gli altri uomini, poiché tutti sono ugualmente figli di Dio.

Riscattati dalla servitù del peccato, gli schiavi sono, dunque, chiamati allo stesso destino soprannaturale dei loro padroni, poichè Dio non fa distinzioni tra le persone e la sola schiavitù è quella del peccato. Di qui una conseguenza importantissima che Paolo spiegherà ampiamente: lungi dal predicare la rivolta sociale, Paolo afferma che ciascuno deve restate nel posto voluto per lui da Dio; dunque, che lo schiavo deve restate sottomesso al suo padrone. Facendo dello schiavo non più solo una persona secondo il diritto naturale, ma proclamandolo uguale al suo padrone agli occhi di Dio, che ha riscattato l'uno e l'altro, il cristianesimo formula un principio che non poteva non condurre alla futura abolizione della schiavitù.

Gli apostoli non hanno mai, in effetti, giustificato l'istituzione servile, come hanno fatto con l'autorità statale. La Chiesa antica non ha mai sostenuto che la condizione dello schiavo potesse discendere dall'ordine naturale delle cose. Ma, come lo stoicismo, pur superando la nozione di uguaglianza naturale, ha accettato una situazione di fatto. I vescovi e i Padri della Chiesa, troppo profondamente radicati nella mentalità della società antica, non hanno potuto condannare la pratica, allora universale, della schiavitù, che pareva loro essere la necessità di un ordine socioeconomico che nessuno si sognava di distruggere. Nondimeno, definendo un nuovo principio di uguaglianza fra gli uomini, tutti figli di Dio ed eredi del Cristo, la Chiesa mina l'istituzione servile. Ormai, afferma Paolo, "non esiste più Giudeo né Greco, non esiste schiavo né libero, non esiste uomo o donna: tutti voi siete una sola persona in Cristo Gesù".[12] Per questo motivo in tutti i riti liturgici, che si tratti del pasto eucaristico o del battesimo, gli schiavi sono trattati come i liberi. Insieme sono membri della stessa e nuova alleanza, poiché, come dice Paolo, "lo schiavo che è stato chiamato nel Signore è liberto del Signore! Similmente, il libero che è stato chiamato, è schiavo di Cristo". Alla fine del IV secolo uno dei piu grandi teologi dell'epoca, Gregorio, vescovo di Nissa, può quindi argomentare contro la teoria risalente ad Aristotele, secondo cui una legge naturale giustificherebbe la schiavitù: "Quando voi condannate alla schiavitù un uomo che è per natura libero e padrone di se stesso, fate una legge contraria a quella di Dio… che ha stabilito (l'uomo) signore della terra affinché la dominasse" .[14]

L'influsso del cristianesimo sull'evoluzione del diritto romano si è fatto davvero sentire solo dopo il riconoscimento, da parte dello stato, del cristianesimo come religione prima tollerata e poi ufficiale nel IV secolo. In questo periodo fondamentale del basso impero l'impatto della nuova religione sui costumi appare chiaramente dall'analisi del diritto privato: condanna del concubinaggio, riconoscimento del contratto di fidanzarnento, maggiore facilità nell'affrancamento degli schiavi, preoccupazione di riconoscere e di rispettare la persona umana, di assicurare l'unità morale della famiglia Questa mutazione della legislazione civile si inserisce armoniosamente nell'evoluzione generale del diritto romano, già segnato dall'influsso dello stoicismo, che sosteneva il riconoscimento di un diritto naturale e l'uguaglianza di tutti gli uomini. La nozione di equità, che compare nel Codice fin dal 314, denota un evidente influsso cristiano. In effetti, fin da Paolo, l'equità risulta una virtù necessaria ai capi delle comunita, in quanto è basata sulla teotogia stessa dell'Antico Testamento: è il segno della giustizia di YHWH, pieno di indulgenza per il suo popolo, e si fonda su una legge religiosa che la giustifica. La giustizia umana deve, anch'essa, assumere la dimensione religiosa e morale dell'equità. Non può limitarsi a giudicare secondo la lettera del diritto, ma deve usare anche clemenza, umanità, moderazione e dolcezza. Tutta la legislazione degli imperatori del V secolo risponderà anche al desiderio della Chiesa di trasferire l'equità biblica nell'esercizio della giustizia. La Chiesa avrà sempre maggiori opportunità di riuscire in questo sforzo dato che nell'impero cristiano il vescovo sarà incaricato sempre più frequentemente di amministrare la giustizia. Accettando le istituzioni giuridiche romane, la Chiesa cristiana si è organizzata in una società che nelle intenzioni era al servizio di tutti, ma sempre nell'ambito di una civiltà ancora lontana dall'essere egalitaria. La Chiesa si è, quindi, dimostrata l'erede più diretta dello stato romano, pur mantenendo, in teoria più che in pratica, l'esigenza di principi che andavano spesso contro quella stessa società pagana, societa pagana che tuttavia i cristiani non potevano rinnegare del tutto, essendo essi stessi da poco usciti dal paganesimo e ancora vicini a coloro con cui condividevano la vita quotidiana.

Bisogna constatare che la situazione del cristiani che vivevano nel mondo era sempre una situazione ambigua. Pur mescolati agli altri uomini, pur partecipando alle stesse attività professionali e condividendo sempre di più la stessa cultura, i cristiani non erano tuttavia del mondo. Vivevano nella comunità umana formata dalla Chiesa, in attesa della comunità futura del Regno che sarebbe venuto. Tutta una tradizione, dal Pastore d'Erma (metà del II secolo) alla Città di Dio di Agostino (V secolo), ha sottolineato il carattere passeggero e temporaneo dell'esistenza terrena. Il cristiano è uno "straniero su questa terra; proviene per nascita da una città terrena, ma è prima di tutto cittadino del cielo, che abita la terra come uno che non vi si ferma".[15] È questo il paradosso che hanno vissuto i cristiani del mondo antico".

RIFERIMENTI TESTUALI ALLA SCHIAVITU' NELLA BIBBIA
(ANTICO e NUOVO TESTAMENTO)

Schiavitù in generale (A.T.)

  • Gn 12,16; 16,1; 24, 35; 29, 24; 30, 3-43; 32, 6.17;

43, 18;

  • Es 11, 5;
  • Ez 27, 13;
  • Lv 25,39;
  • Nm 31, 9.18;
  • 2 Re 4,1;
  • Am 1, 6.9; 2,6; 8,6;
  • Ne 5,1-13;

Comportamento degli e verso gli schiavi

(A.T.)

  • Es 21, 2-11.20-21.26-27.32;
  • Lv 25, 39-55;
  • Dt 5, 14-15; 12, 12; 15, 12-18;
  • Ger 34, 8-22; ;
  • Gl 3, 2;

(D.C.)

  • Sir 7, 20-21; 10, 25; 33, 25-33;

(N.T.)

  • Lc 17, 7-10;
  • 1 Cor 7, 20-24;
  • Ef 6, 5-9;
  • Col 3, 22-4, 1;
  • 1 Tm 6, 1-2;
  • Fm 1-25;
  • 1 Pt 2, 18-20

NOTE

[1]Lattanzio, Div. Instit., III, 25. Platone aveva in effetti tentato nel Menone di recuperare l'identità della virtù in tutti gli uomini e di riconoscere che uomo, donna, vecchio, giovane, schiavo e libero, se hanno una virtù, possiedono una identica virtù. Il suo discorso subì però un mutamente nella Repubblica. Il programma educativo dell'Accademia risulta poi decisamente aristocratico e quindi, agli antipodi sia rispetto a quello stoico sia di quello epicureo.
[2]Seneca, De Beneficiis, III, 18.
[3]Von Arnim, S.V.F., III, fr. 252.
[4]Dione Crisostomo, Orat. XXXVI, par. 23, fr. 334
[5]Cicerone, De le gibus, I, 7, 23.
[6]Seneca, Epistolae, 44, 1-3
[7]Seneca, Epistolae, 44, 5-6
[8]Seneca, Epistolae, 31, 11
[9]Seneca, Epistolae, 47, 1
[10]Seneca, Epistolae, 47, 11
[11]Epitteto, Diatribe, I, 13, 1-5
[12]Galati, 3, 28.
[13] 1 Corinzi, 7. 22
[14] Sull'Ecclesiaste, 4
[15]Sozomeno, Storia ecclessiastica, 6,16