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SCONFINANDO

SCHIAVITU'

    La parola schiavitů e il suo senso



Il Dizionario di filosofia di Nicola Abbagnano del 1964 (Utet, Torino) alla voce SCHIAVITU’ andava immediatamente oltre una possibile definizione del problema, riportando invece le giustificazioni e le condanne che di questa pratica hanno fornito alcuni filosofi antichi e moderni. Non poneva, quindi, questioni sulla natura e l’origine dello stato servile, in rapporto alle forme di vita, ai popoli, alle epoche in cui è sorta o si è maggiormente diffusa, ma dava semplicemente per scontato quel giudizio negativo che su tale pratica hanno espresso nell’antichità, rimanendo isolati, i filosofi stoici, e nell’età moderna gli illuministi che ne hanno reso "assurda e ripugnante la nozione stessa". Il Dizionario, pubblicato quando il problema non era stato riportato come ai nostri giorni all’attenzione generale, sembrava ancora far valere la fiducia nella forza delle idee di libertà, di eguaglianza, di diritti umani come se, nonostante questi principî, lo schiavismo non fosse stato praticato nel novecento tra i popoli più civili, per continuare ancor oggi in tante parti del mondo.

Nel mondo attuale si sente il bisogno di capirlo di più, andando a cercarne le origini, e i motivi della sua continuità, al di là di ciò che possono dirne la storia, l’antropologia, la psicologia sociale. Per questo proponiamo qui un’analisi fatta mediante gli strumenti della filosofia, disciplina che si rivela in grado di svelare il senso e la direzione dei percorsi che l’umanità compie senza per lo più averne consapevolezza.

Anzitutto osserviamo quali diversi significati emergano nell’uso della parola che la nostra lingua ha derivato dal latino medievale sclavum. Tale derivazione ci ricorda che nel medioevo il lavoro schiavile era molto diffuso, per il commercio che faceva l’impero di Bisanzio dei prigionieri fatti in guerra, provenienti per lo più dai popoli slavi (detti nella lingua bizantina sklaboi) delle zone balcaniche o russe. Per contro la parola latina servus non indicava più in quel tempo gli schiavi in generale, ma i contadini che erano asserviti ai padroni dei feudi. Questi ultimi, essendosi convertiti al cristianesimo, riconoscevano ai loro sottoposti qualche prerogativa di umanità, mentre non ne riconoscevano alcuna ai prigionieri venduti come merce. La parola slavi, quindi, divenuta in seguito schiavi, indicava una categoria di esseri inferiori, oggetto di quel disprezzo per quanti si arrendevano in battaglia che aveva spinto i vincitori, fin dai tempi più remoti, a non riconoscere ai vinti il diritto alla vita, e perciò a ucciderli o a ridurli con la violenza e l’imposizione delle catene a cose da sfruttare finché utili come "forza lavoro".

Fondata sul disprezzo è stata da sempre anche la considerazione di quanti erano costretti a servire perché ridotti in miseria, o di coloro che nascendo da servi erano per questo solo destinati alla servitù come condizione immutabile, e rapidamente abbrutiti da una vita faticosa, umiliante, senza riparo dalle malattie e senza possibilità di sviluppo normale, impotenti com’erano a sottrarsi allo sfruttamento. Ancora un secolo fa in Occidente la massa dei contadini e degli operai aveva per i benestanti un aspetto più ripugnante che commiserevole, molto vicino a quello dei mendicanti, dei mentecatti, dei carcerati, alle tante categorie degli emarginati. Il disprezzo nasceva ormai dalla paura di quanti si trovavano di fronte alla realtà di quello stato subumano a cui può essere ridotto chiunque precipiti in una estrema degradazione.

L’immagine degradante di quello stato servile occultava, tuttavia, la realtà di una condizione originaria perduta, e di conseguenza la responsabilità che gravava su chi esercitava lo sfruttamento a danno del più debole e su quanti ne godevano i frutti.

Ancor oggi, quando vengono rimossi tutti questi aspetti reali (disprezzo, degrado, sfruttamento, paura e responsabilità) si finisce col fare un cattivo uso del termine schiavo. Intendiamo, con il termine "cattivo", un uso che non ha più a che fare con il significato originario, essendo stato traslato ad altro. Ma questo allontanamento dalla verità della parola ne attutisce il senso e fa dimenticare l’intollerabile esperienza a cui si riferisce. Si dice, ad esempio, "schiavo" qualcuno che sopporta condizioni gravose o pericolose perché, per le ragioni più diverse, non riesce a farne a meno. Facendone una metafora, con quella parola indichiamo chi è reso debole dall’amore, chi dipende dall’uso di sostanze tossiche, chi rimane soggetto ad una persona mitizzata, o a qualche forma di plagio. Ovvero possiamo fare un uso strumentale del termine quando diciamo di essere tutti potenziali "schiavi" dinnanzi ad un potere che non controlliamo, come per lo più accade in fatto di televisione, o quando per fini politici identifichiamo nella parte avversa una volontà di dominio da cui occorre liberarsi.

Riferimento a
Battaglia delle idee
III, § 1




Eppure, tornando al passato recente, non si puòdire che il pensiero socialista dell’ottocento facesse cattivo uso del termine "schiavitù" per significare lo sfruttamento del lavoratore di fabbrica: infatti, anche se poté essere molto efficace nell’immediato della lotta politica di quel tempo, la portata semantica di tale parola si trovava già nelle rappresentazioni che del sistema di produzione industriale avevano fatto alcuni osservatori del secolo precedente. Una volta adottata dal pensiero socialista, la parola "schiavo" si rivestì di nuovi significati: da una parte appariva legata a un’inedita forma di lavoro in cui, per sopravvivere, dei lavoratori liberi consegnavano e perdevano se stessi, in cambio di un salario di fame. Dall’altra si caricò di una forza opposta: quella del modello organizzativo del lavoro di fabbrica da cui poteva scaturire una radicale trasformazione della società, divenendo la premessa di nuovi rapporti di potere (secondo l’utopia rivoluzionaria di Karl Marx), e di nuovi livelli di libertà (guardando sia alla storia delle lotte sindacali, sia agli sviluppi delle forme di produzione). Perciò possiamo dire che lo "schiavo delle macchine", nella storia occidentale, è una figura cardine, perché in essa sta il germe della moderna democrazia.