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SCONFINANDO

SCHIAVITU'

Nuove e vecchie catene

a cura di Serena Olivetta e Antonella Patete

Nessuno Stato riconosce formalmente la schiavitù, ma gli schiavi esistono ancora. Nell'era contemporanea più che in passato. E non c'è un movimento internazionale che cerchi di combatterla. Intervista con Kevin Bales, uno dei massimi esperti mondiali su questi problemi.

Sono 27 milioni gli schiavi nel mondo. Una cifra allarmante, che non ha paragone con nessun'altra epoca storica. E si tratta di un fenomeno che riguarda tutto il pianeta, il Sud in via di sviluppo come il civile Nord. Perché la globalizzazione è anche questo: la diffusione delle pratiche più brutali, l'affermazione di un modello economico che considera le persone alla stregua delle merci. Ne parla Kevin Bales, autore de "I nuovi schiavi", (Feltrinelli 2000), ricercatore del Roehampton Institute di Londra.

Chi sono gli schiavi nell'epoca dell'economia globale?

"Ci sono schiavi nel mondo intero e nell'intero sistema economico. La maggior parte di essi è collocata ai gradini più bassi dell'economia e si trova nel Terzo mondo. Ma ci sono schiavi in quasi tutti i Paesi, e alcuni lavorano nelle aree che alimentano le parti più ricche dell'economia. Sono le persone più deboli e vulnerabili, quelle che possono essere controllate con la violenza. Il che significa che la maggioranza di essi sono donne e bambini".

Quanti sono gli schiavi?

"Le stime più restrittive parlano di 27 milioni di schiavi nel mondo. Ma si tratta di stime basate sulla definizione che schiavo è colui che viene controllato con la violenza, non è pagato ed è sfruttato economicamente. Ma vale la pena di dire che ci sono delle attività che vengono considerate come schiavitù dalle Nazioni Unite e che non rientrano nelle definizioni che ho dato. Basti pensare a quelle forme non libere di matrimonio che hanno luogo in molti Paesi come l'Afganistan. Per le Nazioni Unite si tratta di una vera forma di schiavitù. Oppure il lavoro nelle prigioni. Alcuni Paesi ne accusano altri di avere schiavi che lavorano nelle proprie prigioni, ma nessuno ammetterà che le proprie prigioni hanno degli schiavi al loro interno. Ma io non faccio riferimento a casi come questi, perché voglio prendere in considerazione un concetto di schiavitù che nessuno può mettere in discussione".

Su che cosa lavorano questi schiavi, cosa producono?

"Un po' di tutto, ma principalmente materie prime e beni che costano poco, a basso livello tecnologico. Non bisogna dimenticare che oggi gli schiavi non sono tenuti in questa condizione per tutta la vita, ma solo per brevi periodi e quindi nessuno si preoccupa di trasmettere loro delle competenze specifiche. Coltivano grano, raccolgono noci di cocco, lavorano nei campi di cotone, trasportano pesi, scendono in miniera, vendono oggetti, sono costretti a prostituirsi, fanno gioielli o abiti semplici, tagliano foreste, pescano. Tutte cose semplici, lavori primitivi: gli schiavi non lavorano certo in televisione".
La crescita della schiavitù sembrerebbe legata alla globalizzazione economica. E allora per combatterla è necessario fare ipotesi di economia alternativa?

"Le forme alternative di economia si sono rivelate un mezzo molto potente nell'arrestare la schiavitù. Soprattutto il microcredito. Ho visto un villaggio in India, dove tutta la popolazione era stata ridotta in schiavitù per produrre sabbia, spaccando le rocce. Tutti, anche i bambini. Poi un attivista di un altro Paese costituì una piccola unione di credito tra dieci donne, che cominciarono a mettere da parte una rupia ogni due settimane, e dopo qualche mese avevano abbastanza denaro per riscattare il debito di una persona. Successivamente riscattarono il debito di altre due persone. Quando gli altri videro che potevano essere liberati, dissero: "Non pagheremo i nostri debiti. Rifiutiamo di farlo e siamo liberi". E le altre donne nel villaggio formarono altre unioni di credito e si dichiararono libere. Così portarono via i bambini dal lavoro, usarono le loro unioni di credito per comprare materiale didattico, e adesso tutto il villaggio è libero. Tutto è cominciato con una piccola unione di credito".

Perché ha affermato che ci sono più schiavi oggi che in ogni altra epoca storica?
"Prendiamo ad esempio la tratta degli schiavi nell'Atlantico, che è durata 350 anni. Si stima che in quel periodo 13 milioni di schiavi siano stati portati dall'Africa verso l'Occidente. Oggi gli schiavi sono il doppio di quelli di allora. Certamente questo dipende anche dal fatto che abbiamo 6 miliardi di persone. Quindi non si tratta di un'affermazione completamente esatta. Ma anche se gli schiavi fossero solo 27mila, sarebbero comunque sempre troppi".

Che si può dire dell'Italia?

"L'Italia gode di una splendida posizione geografica: ha il sole, un clima mite, è completamente circondata dal mare. Ma ciò la rende anche un posto attraverso il quale è più facile fare arrivare gli schiavi in Europa. Ed è anche il posto più vicino ad alcune delle persone più vulnerabili. Pensiamo alla guerra nei Balcani: ogni volta che c'è una guerra aumenta anche il numero degli schiavi, perché si creano delle fasce più deboli. Perciò mi sento molto solidale con l'Italia, che si trova in prima fila rispetto a questo problema. Si tratta di un'enorme sfida a livello legale, economico, morale. Perché l'Italia deve riuscire a elaborare delle leggi che permettano di distinguere gli immigrati clandestini dagli schiavi veri e propri. Ma è anche una sfida economica, perché l'Italia deve trovare il modo di riabilitare le persone che sono state introdotte in qualità di schiavi. L'Italia ha firmato la Dichiarazione universale per i diritti dell'uomo, che al terzo articolo ripudia la schiavitù e sancisce la lotta contro di essa. E così arriviamo alla sfida morale: l'Italia sarà capace di mantenere le sue promesse? E gli italiani riusciranno a guardare a persone che sono completamente diverse da loro e dire: questo non è soltanto un ladro o un mendicante, ma uno schiavo? Non è una cosa facile. A nessuno viene dato un cartellino con la scritta: sono uno schiavo".

Che differenza c'è tra la schiavitù nel Sud del mondo e quella dell'Occidente?

"In buona parte del Terzo mondo, anche se non ovunque, la schiavitù è una tradizione radicata nella società. Così in Pakistan, Nepal, India, nel Sud Est asiatico il legame tra schiavo e padrone fa parte della storia e della cultura del paese. Inoltre si tratta per lo più di schiavitù da debito che si tramanda di padre in figlio. Ma fa parte della natura stessa della globalizzazione che la schiavitù del mondo sviluppato somigli sempre più a quella del Terzo mondo. Gli schiavi diventano ovunque più economici, sono asserviti per periodi di tempo più brevi e sono trattati in maniera più brutale. E questo avviene in Italia come in India. Le persone sono diventate veri e propri oggetti. Come una penna di plastica: si compra, si usa e quando si rompe, si getta via".

Cosa può fare un Paese per combattere la schiavitù, e cosa possono fare i singoli cittadini?
"La prima cosa è che i cittadini devono essere sensibilizzati e venire a conoscenza di questa situazione. Poi devono cominciare a porre domande, a chiedere ai loro politici cosa stanno facendo per combattere la schiavitù, e così anche ai loro rappresentanti religiosi, alle imprese in cui hanno investito il loro denaro e alle banche.

È importante comprare prodotti che facciano parte di un circuito di commercio equo e che siano in grado di fornire la garanzia di non essere stati prodotti da persone in stato di schiavitù. Dobbiamo smettere di definirci consumatori, e cominciare a definirci esseri umani, persone che non tollererebbero mai la schiavitù né per se stessi né per i loro bambini. Solo quando cominceranno a fare questo, i governi inizieranno a prendere misure contro la schiavitù. Ritengo che non sarebbe molto costoso mettere fine a questo processo se i governi del Nord usassero il loro potere. Perché con il costo di un sottomarino potremmo fermare buona parte della schiavitù nel mondo. Infatti la schiavitù ha un valore molto basso, e una volta che gli schiavi vengono liberati hanno bisogno di poco sostegno dal momento che, anche se tenuti nell'ignoranza, sanno bene come vivere e come lavorare. Se verrà data loro una possibilità, riusciranno ad ottenere la libertà".