pagine metafisiche: il giainismo



«Meglio incontrare una tigre che non questi eretici,
perché la prima fa perdere soltanto il corpo,
ma questi ultimi l'anima!»

(in Max Weber, Sociologia della religione, 3.
Torino : Comunità, 2002. - P. 194).



Il Giainismo è l'unica, fra le eresie contemporanee al Buddhismo, ad essere sopravvissuta in India sino ai giorni nostri. "Eresie", queste, nel senso che respinsero la tradizione del Brahmanesimo, l'antico ottimismo vedico, i sacrifici cruenti e l'ineluttabilità del ciclo del samsara, delle reincarnazioni, sapendo indicare una via alternativa di redenzione. Il Giainismo deriva la denominazione dai suoi aderenti, i Giàina, i "seguaci del Gina", il "vittorioso", ovvero di Mahavira, il fondatore. Mahavira non fu, però, che l'ultimo di 24 Tirthamkara, "attraversatori del guado" dell'esistenza, una serie di profeti che si sono succeduti, più o meno leggendariamente, nel corso della storia remota del movimento, fino agli ultimi due, Parshva e Mahavira, appunto, le personalità di cui abbiamo notizie certe e storicizzabili.

Già nella vita di Parshva si nota quel basso continuo caratteristico del Giainismo successivo: il non considerare la vita un "valore". Arthur Schopenhauer in Germania nel secolo XIX dopo Cristo, proprio sulla scorta delle filosofie giainista e buddhista e dell'idealismo kantiano, riuscirà a teorizzare coerentemente questa concezione, chiamando noluntas la redenzione finale, il nirvana. Se la vita è dolore, l'affrancarsi dalla vita è l'unica soluzione possibile: il merito di queste nuove filosofie post-vediche è stato quello di mettere l'accento su soluzioni che ovviassero al coinvolgimento di metodi violenti, come il darsi la morte con suicidi "scandalosi", per usare un'espressione evangelica (Mt V), e non con la lucida tranquillità razionalistica, riscontrabile anche in un altro movimento filosofico dell'antichità, lo Stoicismo (e ben sappiamo quanto l'Ellenismo greco debba ad interferenze-influenze indiane!). Parshva, dicevamo, alla veneranda età di cento anni decide di accomiatarsi dalla società e dal mondo e si ritira sul monte Parasnath nel Bihar, lasciandosi morire per inedia. La morte volontaria (Schopenhauer direbbe nolontaria!) per inedia costituisce, così, un topos nelle biografie degli "illuminati" giaina: Buddha, al contrario, risvegliatosi sotto l'albero della Bodhi, respinge Mara, lasciva dea della morte, e decide di diffondere le verità attinte a beneficio dell'umanità. Questa è una delle differenze fondamentali tra Giainismo e Buddhismo, uno iato etico tra, rispettivamente, apologia dell'ascetismo (forse solo pel Giainismo possiamo parlare di ascetismo-fine-a-se-stesso: il mondo, al massimo, è solo un mezzo, non lo scopo! Schopenhauer 1983: II, 26) e scetticismo ascetico, o etico in generale, metodo che il Buddhismo tende a generalizzare a tutte le manifestazioni esistenziali, una specie di laissez faire disimpegnato che possa garantire la tranquillità d'animo necessaria ad una vita equilibrata e serena, ma che rischia di finire per confondersi con l'aurea mediocritas di un aristotelico modus in rebus deresponsabilizzante. Diciamo che l'etica giaina è un'etica forte, impegnata, che non dubita affatto della priorità dell'ascetismo sull'edonismo: se v'è un dubbio, allora la risposta è da ricercarsi piuttosto sull'astinenza che sul dettato di Basilide: "Avendo calmato il fuoco con l'effusione di seme, prega con buona coscienza" (Simonetti 1993: 149). Le varie sette frequentate dal Buddha nella giovinezza non lo convinsero affatto e anche l'esperienza dell'ascetismo esasperato lo lasciò al punto di partenza: aveva bisogno, insomma, di fare un'assoluta epoché, quindi anche meta-ascetica, totalmente meta-fenomenica, per quanto l'ascesi possa essere considerata fenomeno tra fenomeni. Ma questa interpretazione cozza contro il paradosso di ogni volontarismo: è ovvio che anche l'abbandono di ogni volontà è una "volontà"! È perché usiamo il linguaggio che ci troviamo di fronte ad un'ulteriore barriera ermeneutica: Mahavira come Schopenhauer conoscevano con certezza, empiricamente, l'essenza dell'ascesi, ma non potevano efficacemente spiegarla, dimostrarla scientificamente, un po' come la definizione del tempo per sant'Agostino, e proprio per la limitatezza strutturale della nostra logica, della nostra dialettica, della nostra ragione, del nostro intelletto, e ancora di più del nostro incoercibile passaggio dal concetto alla parola alla scrittura, come mirabilmente raccontato dal genio di Platone nella settima epistola.

Il nobile Vardhamana, com'è anche chiamato Mahavira, fiorito alla fine del VI secolo avanti Cristo, attraversa tutti gli stadi canonici della vita indiana, sposandosi e procreando. Ma quando i genitori, seguaci di Parshva, scelgono la via dell'inedia, si staglia in lui l'obiettivo esistenziale da raggiungere. Trentenne inizia la pratica di quello che possiamo chiamare "monachesimo itinerante", elemosinando, sottoponendosi a digiuni e privazioni di ogni genere, esponendosi nudo alle intemperie, strappandosi i capelli in segno di mortificazione (e di umiliazione estetica), abitudine, questa, rimasta fino ai giorni nostri. E a 43 anni raggiunge finalmente la verità, la rassegnazione assoluta, "l'indipendenza dal merito" (Martinetti 1981: 49), avendo "sradicato in sè ogni inclinazione all'amore e all'odio, ogni preferenza verso le cose piacevoli e ogni desiderio di allontanare le spiacevoli" (Della Casa 1993: 22). Per trent'anni si dedica al proselitismo, fondando parecchi monasteri: si spegne a 72 anni, avendo esaurito in sè ogni forza vitale, ogni volontà, liberandosi così definitivamente dal ciclo delle reincarnazioni. Fino al 79 dopo Cristo la vita della comunità riesce a svolgersi abbastanza tranquillamente, riuscendo cioè ad arginare gli inevitabili dissensi interni, le differenti sfumature interpretative della vita e dell'insegnamento del Maestro. Ma col concilio di Pataliputra, appunto, avviene la celebre spaccatura tra l'ala rigorista dei digambara, i "vestiti d'aria", che consideravano la nudità l'unica forma accettata di vivere rettamente il Giainismo, e gli shvetambara, i "vestiti di bianco", indubbiamente molto più moderati. Gli storici occidentali hanno sempre collegato i famosi gimnosofisti (specie di fachiri ignudi celebri per la loro immobilità o la "cieca" perseveranza con la quale guardavano fissi il sole) proprio coi giaina, a significare ancora di più come doveva essere seguita e apprezzata quest'etica in tutto il mondo ellenistico, dalla Magna Grecia fin sulle sponde dell'Indo conquistate da Alessandro il Macedone. Molti regnanti abbracciano, così, la nuova fede: l'imperatore Chandragupta corona la propria esistenza terrena con la morte volontaria, così come Kumarapala e il suo consigliere Hemachandra. Ashoka e la dinastia Maurya ne divengono diretti protettori e la elevano al rango di quella che oggi chiameremmo "religione di stato", soprattutto grazie alle missioni nei paesi di lingua telegu e tamil. In questi regni vengono alfine vietati la caccia e il carnivorismo, vengono fondati numerosi ospedali per animali, viene dissuaso il consumo di bevande inebrianti e l'abitudine ai giochi di fortuna, secondo un'etica rigoristica le cui radici metafisiche spiegheremo meglio più avanti. Questo clima di austerity viene irrimediabilmente incrinato, sul finire del secolo XII dopo Cristo, dal sopraggiungere della furia islamica, delle sue frange, cioè, più violente e fanatiche, che riescono, tra l'altro, a scalzare per sempre il Buddhismo dalla sua terra di origine! Il Giainismo riesce a sopravvivere grazie alla potenza economica conquistata nel tempo da alcune famiglie particolarmente in vista nella società e nella politica indiane. È curioso, infatti, notare che, sempre sulla scorta della loro etica, i giaina non possono praticare nemmeno l'agricoltura, vista sempre come una forma di violenza inflitta alla natura, all'altro-da-sè: le uniche figure professionali tollerate hanno finito per essere quelle del banchiere e del mercante, soprattutto di pietre preziose! I laici, che possono sposarsi e sono maggiormente coinvolti nel secolo, si prestano per mantenere la comunità monastica, elemento che richiama l'organizzazione interna di altre religioni, come il manicheismo e il catarismo.

Mahavira non ha lasciato scritti, al pari di Socrate, Pirrone e Gesù Cristo. La tradizione orale si è presto concretizzata in una serie di testi sacri, scritti nel pracrito ardhamagadhi. Il canone delle 46 opere della Siddhanta, riconosciuto dagli Shvetambara, non è naturalmente altrettanto appieno accettato dai Digambara, che ne sottolineano divergenze disciplinari e dogmatiche. Essi pensano che la tradizione diretta sia venuta corrompendosi nel tempo e che solo una tradizone orale possa avvicinarsi ai detti di Mahavira. La Siddhanta, comunque, non contiene una rivelazione divina, giacché il Giainismo è religione schiettamente atea, che potrebbe benissimo partecipare delle dimostrazioni dell'inesistenza di Dio proprie dell'altro grande sistema indiano, il Samkhya (Martinetti 1897; Schopenhauer 1983: 511, classifica le religioni non in monoteistiche e politeistiche, bensì in pessimistiche e ottimistiche; egli così sentenzia nei manoscritti postumi: "I parsi, gli ebrei e i maomettani rivolgono le loro preghiere a un creatore del mondo; gli indù, i buddisti e i giainisti invece invocano dei vincitori, in un certo senso dei distruttori del mondo. È evidente che il cristianesimo autentico, o perlomeno quello neotestamentario, appartiene a questa seconda classe; ma storicamente è legato, in modo assurdo e sforzato, con qualche elemento della prima" Schopenhauer 1981: 335, uno dei tre famosi passi dove Schopenhauer parla del Giainismo; gli altri sono Schopenhauer 1989*1: 1533 e Schopenhauer 1989*2: 201). L'universo è eterno e increato e composto da un complesso di sei classi di sostanze elementari... Il Giainismo elaborò, in effetti, una cosmologia e un'ontologia davvero complesse e sterminate, che sarebbero difficili da riassumere in pochi tratti. Le anime, ad esempio, sono infinite ed eterne, e questa è un'ulteriore differenza dogmatica col Buddhismo, che tende invece a polverizzare l'essere e a negare ogni permanenza. Il lessico rimane quello di tutta la tradizione indiana: termini come yoga, karman, samsara, moksha, per citare solo i più importanti, coniati nell'ambiente illuministico delle Upanishad, formano l'humus del Giainismo come del Buddhismo come del Samkhya come del Brahmanesimo posteriore (che ha assimilato, ad esempio, in questa sua panteistica foga sincretista, la figura di Buddha addirittura ad avatar di Vishnu!). Motivi gnostici s'intrecciano a motivi squisitamente originali: le reincarnazioni ci servono, ad esempio, ad esaurire il karman negativo accumulato con azioni improprie, ma alla fine, prima o poi, esso si esaurirà fatalmente: la responsabilità personale è il perno su cui ruota questo lasso temporale. I "tre gioielli" sintetizzano la soteriologia giaina: retta fede, retta conoscenza, retta condotta. Gli aradhana, la scala santa eretta verso la salvazione, è composta da 14 gradini, che conducono gradualmente verso il distacco dai sensi, dalla materia, quindi dal corpo e dal suo dominio: l'ultimo passo è la sallekhanà, il suicidio per stenti, stadio riservato a pochi fortunati eletti, bramosi che l'illusione di questo mondo fenomenico non incida più sul karman, o su quel che resta di esso! La macchia principale per il nostro karman è costituita dalla violenza: ahimsa significa letteralmente proprio non-violenza, pratica attuata nei confronti di tutte le creature e che ha fatto la fortuna del Giainismo, costituendone il suo elemento universalmente identificativo (Gandhi stesso riconosce l'origine della sua Weltanschauung dalla religione giaina conosciuta nell'ambiente famigliare, cfr. Odifreddi 1998: 21), e chi non ha visto almeno una volta quei monaci dotati di mascherina e scopino, estremamente cauti nel non ingerire inavvertitamente (o calpestare) povere creature? Che la sallekhanà, poi, possa essere considerata un suicidio è tesi affatto discutibile, come dimostra l'antropologia culturale o la storia del nostro stesso Cristianesimo ereticale medievale o le riflessioni di Montaigne, Thomas More, Cyrano de Bergerac o Maupassant... I giaina si difendono ricorrendo alla scappatoia eristica "microbiologica", ovvero: la propria morte provoca la morte anche dei propri microbi (una vera strage!), ma sarà anche la vita per miriadi di altri batteri sarcofagi! E, comunque, bisogna anche considerare che la nostra "vita" equivale diuturnamente alla "morte" di miliardi di microrganismi al minuto! Insomma, sono questi dei sillogismi che mi paiono molto deboli, soprattutto alla luce della scienza moderna... Indubbiamente, però, testimoniano una preoccupazione morale onesta e nobilissima, che merita tutta la nostra attenzione e ulteriori approfondimenti! È tutta questione d'intenzioni! Come riassume Claudia Pastorino su internet: "Un individuo costantemente vigile è sempre non-violento, anche quando, per una circostanza imponderabile, causa involontariamente una violenza; mentre un individuo disattento è sempre violento nel suo cuore, anche quando non causa una violenza". Nel 1975, 2500° anniversario dell'illuminazione di Mahavira, è stato standardizzato un simbolo per riconoscere l'appartenenza al giainismo: un palmo della mano rivolto verso lo spettatore, col significato di pace e piena disponibilità. Un altro simbolo, questo invece assai più tradizionale, è lo svastica, la croce uncinata poggiante su un braccio: esso rappresenta i quattro stadi della reincarnazione (mondo infero, animale, umano e sovrumano) ed è solitamente sormontato da tre punti (i tre gioielli) e una mezzaluna, la liberazione.

La particolare propensione alla teoresi e alla sistematicità fa dei giaina anche dei notevolissimi scienziati (matematici, astronomi) ed artisti: i templi, soprattutto nel Gujarat, dove rimangono circa 1 milione e mezzo di fedeli (lo 0,15 % degli indiani: si noti che i buddhisti rimangono lo 0,2%, con la differenza, però, che si sono diffusi in tutto il mondo), sono raffinati gioielli, paradigmatici di certa architettura "barocca" (ridondante, cioè, di fregi ed ornamenti) estremo-orientale. Naturalmente solo i monaci possono aspirare alla liberazione: i laici ne accettano scientemente la proroga in una vita successiva... Ale rigoriste vietano il monachesimo al sesso femminile (che dovrà rinascere, quindi, sotto spoglie maschili), altre negano ogni valore ed efficacia ai culti esteriori, sorti in aiuto alla debolezza umana e alla finitezza delle sue capacità intellettuali. Ma il giainismo è dottrina aristocratica ed individualistica: non v'è Dio e l'uomo deve raggiungere autonomamente l'illuminazione, questa conoscenza immediata e diretta della Verità. A differenza del Buddhismo, però, l'ascesi e non la concentrazione mentale serve allo scopo! "Per Mahavira la conoscenza assoluta è qualità in certo senso accessoria, poiché sopravviene quando è stato allontanato tutto ciò che contaminava l'anima" (Della Casa 1993: 98). Purtroppo, col tempo all'ateismo si è venuto sostituendo il culto teistico dei jina (Martinetti 1981: 49), e questo ci ricorda, ahimè, la simile involuzione superstiziosa e ritualistica del Mahayana buddhistico (Martinetti 1981: 60), come di tutte le religioni tradizionali nello scontro con le necessità del secolo, del tempo, del fenomeno (Schopenhauer 1983: 115).

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«Si preoccupava di togliere i vermi dalla strada e di metterli in un posto sicuro perché non fossero schiacciati dai passanti»
(Fonti francescane, editio minor, [458]).


«Non facendo più nulla, non temo di fare del male»
(Anatole France: Il giardino di Epicuro. - Valentano : Scipioni, 1995. - P. 88. - Pecca un po' troppo di estetismo: parla, infatti, continuamente di tabacco e di lardo!).


«A conclusione dell'assemblea nel tempio [nella festa della Pajjusana, il giaina] compie un atto di pentimento, con cui chiede il perdono dei suoi vicini per tutte le offese involontarie loro fatte e decide di non portare nel nuovo anno alcun risentimento o lite»
(Langley 1984: 220).


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