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XI
Tu ne quaesieris, scire nefas, quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius, quidquid erit, pati.
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum: sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem quam minimum credula postero.
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11
A Leucònoe
Non domandare quale sia la sorte
che gli dèi hanno dato a me o a te,
Leucònoe (non ci è dato di conoscerla),
e non frugare in cabale caldee.
Meglio piegarsi al vento del destino:
Giove può darci ancora molti inverni
o l’ultimo sarà questo, che ora
sfianca il mare Tirreno rovesciandolo
contro un muro di scogli. Ecco la chiave
in così breve vita il lungo filo
della speranza. Noi parliamo, e intanto
è già fuggito il tempo che ci guarda
coi suoi occhi maligni. Gusta il frutto
che puoi cogliere oggi, e non attendere
che sia maturo quello di domani.
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Tu ne quaesieris
(I, 11)
Non scrutare la fine
A me, a te, Leucònoe, decretata
Dagli Dei: saperlo è un’empietà;
Non perderti in oroscopi caldei.
Qualunque cosa capiti soffrirla
È molto meglio
E ci dia Giove molti inverni ancora
O sia già questo che le onde sfianca
Sui lisci scogli della costa tirrena
L’ultimo, tu rimani
Nel concreto, fìltrami i vini;
La speranza senza misura
Escludila dalla vita, è breve,
Noi parliamo e la rapinosa vita
È già fuggita.
Godi oggi la luce, la futura
Credimi è niente.
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