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 WEEN

God Ween Satan- The Oneness (1990, 2002, Twintone-Restless/Ryko)


Ecco la ristampa dell'esordio su Lp del duo di debosciati della Pennsylvania Aaron Freeman e Mickey Melchiondo, commissione per la non meglio identificata entità Boognish che apparve loro quando erano quattordicenni, imponendogli di diventare fratelli (Dean e Gene Ween) e diffondere il suo Verbo nella guisa musicale che esporremo, punendo prontamente i tentativi di insurrezione dei due malcapitati.

Negli oltre settantacinque minuti della riedizione di questo avventuroso prodotto, in origine edito nel 1990, si riversa disgraziatamente ogni capitolo dello scibile del quarantennio rock in chiave anarchico satirica, una demenzialità selvaggia ai limiti dell'ammissibile, una furia iconoclasta e una brama di scegliere e gestire autonomamente percorsi e linguaggi musicali.
Si scorre passando oltre ogni ambizione, con licenza e irriverenza assoluta, dallo sberleffo hard devastante di laconica misoginia, indubbia risposta alle riot grrrl che verranno (you fucked up, common bitch), al power pop distorto e indolente (tick, papa zit, nan), all'interludio bucolico ammantato di armonici cori (squelch the weasel, puffy cloud), alla pseudo ballatona canonica (birthday boy) o alla Dinosaur Jr con inserto jingle reggae dub (hippy smell), o la novelty zappiana che diverrà Ween-maniera (fat lenny, i gots a weasel, Wayne's pet, el camino, don't laugh i love you, quest'ultima ha qualcosa di straordinario nella propria coda).
Persino il traditional a cappella (up on the hill), il funkettino queery di Prince -ispiratore citato più volte- con cori da cartoon Warner (let me lick your pussy), fino penetrare il caos cacofonico più isterico, (bumblebee 1 e 2); e ovviamente, molto ancora.

God Ween Satan presenta ventinove tracce, tutte esperienze più o meno catartiche, espiatori lavabi per intelletti non più così avvezzi al gusto della sana, gratuita sregolatezza underground.
Una costante ricerca di compromessi, prestiti e mutui reciproci, autorizzati o meno, di forme e contenuti fra generi (o pseudo generi) rock, che qui si trovano spesso a (dover) convivere in un solo brano.
Il tutto ovviamente é nerdy e amatoriale secondo prassi indie; atto a compiacere i voleri dell'inquieto e non raccomandabile demone Boognish ritratto sulla copertina (Ween spiegano che il loro concept è puramente un inno, dunque un gospel).
Presto ci si persuade di stare dinnanzi a un'opera capitale per l'indie rock quello maiuscolo, che oggi per lo più se la passa male. Senza davvero badare a formati ed altri indugi indotti questa forma musicale fa della spregiudicatezza e della sfrontatezza creativa il proprio “credo”; riesce a mostrarsi sempre attuale.
Minacciosamente pantagruelico nella durata, infarcito peraltro di qualche pregiato inedito, God Ween Satan é in realtà più accessibile di quel che appare, mostrandosi scorrevole ed entusiasmante più di ogni altro (pur meritevole) prodotto che Ween licenzieranno, da The Pod (1991) a Pure Guava (1992), a The Mollusk (1997) fino a White Pepper (2000).
Come si suggeriva in album di altri tempi: play at maximum volume…
(maggio 2003)

Quebec (Sanctuary, 2003)

In questo nuovo Quebec i fratelli Ween danno risalto allo spettro ottuso di suoni che sempre ha contraddistinto la loro carriera, a partire dagli esordi (gli ormai storici God Ween Satan e The Pod), ormai prossima al quindicennio.

Da sempre ravvisiamo parecchia sostanza pop nel loro progetto di surreale e istintiva satira della musica popolare. Di certo, oggi come non mai: nella struttura dei brani, negli arrangiamenti scintillanti, mai sciatti anche nella burla più smaccata (ancora massiccia, ma più misurata e meno sconcia degli esordi) e non in ultimo negli intrecci vocali vivaci giocosi e deformati (ora a mò di Orco cattivo, ora a mò di Pollicino) ed altri effetti cartoon.
“Quebec” non lesina dunque frizzi e lazzi che hanno giustamente reso Ween paladini delle nuove (de)generazioni. Un'altalena di registri, di strumenti e trame ritmiche che vanno e vengono, insidiando e accrescendo movenze e sviluppo dei brani.

Si parte con l'insolita caciara ska di “it's gonna be a long night”, che arriva dolcemente a planare sulla melodia stranita di "zoloft" a base di tastierine giocattolo e falsetti; passando per contagiosi elettro-sketch come “so many people in the neighborhood”, marchi di fabbrica dai tempi di Pure Guava.
Ancora e sempre irresistibili arie di cartoon Warner Bros pervadono “happy colored marbles” e la sublime “hey there fancypants”.
Altrove ammaliano magiche litanie da vaudeville: “tried and true”, “among his tribe”, tutte organetti, chitarre e vellutati duetti vocali.
O ancora, la nashvilliana parafrasi pop di “chocolate town”; mentre “transdermal celebration” e “I don't want it”, sono omaggi e satire dei Beatles e dei Flaming Lips più sovraccarichi.

Non mancano sperimenti elettro-delici: “fucked jam” e “alcan road” nella loro efficace improbabilità dilatano ed espandono le dimensioni, le pareti dell'insieme, scongiurando un'epidermica, sia pur inebriante, superficialità.

Ma dove l'album mette definitivamente a tacere i sospetti di puro riciclo è nell'incredibile metamorfosi finale, a partire dal crescendo di “the argus”, ballata inestimabile che scava nel cuore, sublime atto di devozione alle anime perdute di folksters anni sessanta. Classicismo pittorico e appropriata strumentazione di fiati, mellotron, cori. E tutta l'opera acquisisce un valore aggiunto, si infonde d'un bagliore soverchiante.
“If you could save yourself (you'd save us all)” reitera questo inconsueto vento romantico.

“Quebec” torna ad essere insieme prestigioso ed encomiabile dopo un paio di prove più opache del duo Ween, che sempre sottende inarrestabile passione, geniale senso umoristico, spirito dissacrante e dissimultorio, onnivora cultura musicale.
(dic. 2003)

 

WILCO Yankee Hotel Foxtrot (2002)

La copertina mostra un albergo, teatro della narrazione, ma cosa è accaduto? Si è consumato un tradimento, favorito uno svelamento..oppure è un luogo puramente simbolico, accidentale?
Abbiamo un gruppo che si ritrova molto bene, dopo lo scivolone FM di Summerteeth, che era forte di alcune buone canzoni ma che troppo indulgeva verso un prevedibile (per quanto impeccabile) mainstream-pop.

La visita all' Hotel Yankee Foxtrot indica a Wilco ciò che Abbey Road indicò ai Beatles. Un "crossing" fatale. Le ipotesi di somiglianza tra l'ultimo Wilco e quei Beatles sono tutt'altro che azzardate.
Luogo di smarrimento e di rinascita, l'Hotel Foxtrot non dimentica affatto la sacralità rurale delle origini, filtrata in pigre accattivanti ballate pregne di umori languidi, disincantati e nostalgici, a cui questi introversi poeti urbani mescolano una sunny side folk pop più eccentrica e lunatica, all'occorrenza tenue e vaporosa. Linee melodiche, fughe strumentali che stemperano accortamente il clima, favoriscono riflessione e oblio; uno scirocco southern allontana i grevi nuvoloni dalla cima dell'albergo. Vuole essere un messaggio ottimista e di fiducia.
Un controllo esplorativo e personale mancato nell'episodio precedente dona a questi veterani una coerenza non priva tuttavia di alcune libertà ed espressioni antiretoriche. Il risultato è un lavoro completo, tradizionale e insieme d'avanguardia, sentimentalmente libero di mescolare contaminando i generi; forza visionaria, risvolti non sempre decifrabili… arcani, ineffabili, crepuscolari. Il genio pop dell'eclettico regista del progetto, Jim O'Rourke, non perde occasione di riflettersi nei capolavori Jesus, etc., American Flags.
(nov. 2002)



WINGS - Wingspan

Non spiace affatto sia stato raccolto il materiale di Wings, band di Paul McCartney fondata nel 1971, in una collezione antologica aggiornata.
Si era fermi, infatti, a quell' All The Best! del 1987 che faceva seguito a Wings Greatest della decade prima; entrambe piuttosto compresse, avare ed ingiuste verso le pubblicazioni di Paul negli anni settanta.
In realtà gli Wings, dopo i primi clamori suscitati dall'attesa di nuovo materiale post-Beatles, quasi mai riscossero un pieno e univoco consenso da parte della critica musicale planetaria, come invece puntualmente accadeva con i Beatles, a differenza del seguito di pubblico che anzi, in certa misura, addirittura crebbe.

Paul era giunto alla soglia dei 30 anni e aveva deciso di mettere su famiglia. Probabilmente voleva qualcosa di diverso, piuttosto che ricominciare daccapo con una band che tentasse di emulare e superare il passato prossimo.
Il primo disco post-Beatles di Paul, pubblicato nel 1970, intitolato semplicemente McCartney e realizzato completamente da solo, esprime appunto un'ansia di fuga, un desiderio di tranquillità, di liberazione da assordanti clamori.
La moglie Linda ebbe, nel post-Beatles e in particolare nell'affare Wings, importanza basilare, fu elemento insostituibile per realizzare un tipo di mood, di armonia che Paul inseguiva, agognava. Definiremmo Linda un nuovo John Lennon, sul piano dell'amicizia, per Paul, per cui e con cui tornare a condividere passioni e ragioni.

Nei Beatles, le canzoni di McCartney si indovinavano per la sua personalissima indulgenza verso la melodia, e verso tematiche prettamente amorose; un microcosmo che ricompare in queste canzoni in modo ancora più univoco, frequente, insistito. Laddove il nostro non cede alla tentazione, sempre insidosa, di gigioneggiare, di parodiare se stesso, riuscirà ancora a costruire canzonette irresistibili, meravigliose.

Un'altra topica dell'era Wings fu lo status di band avventurosa, girovaga, giramondo. Gli album sono pieni di immagini (a volte anche in copertina) che ritraggono Paul e compagni in ampi spazi all'aperto, con vestiti brandello, a contatto con la natura, a mitigare ansie, a depurare l'organismo, a scrollarsi di dosso eredità imbarazzanti e soffocanti, a dimenticare se stessi e, insieme, a ritrovarsi, riappropriarsi di valori primigenii ed imprescindibili che la celebrità aveva celato, offuscato, e che prima o poi, si reclamano indietro.
Questa esperienza modificò nettamente il nostro, il suo carattere, diede origine a insicurezze e instabilità, a ripensamenti, ingenuità e debolezze.
"..mi dicevano: che ne sai dove ti porterà la strada nuova? Ma io cambiai rotta".

Se alcuni Long Playing dell'era Wings hanno resistito all'urto del tempo risultando ancora oggi autentici capolavori pop (Ram, Band On The Run, Wings Over America), altri hanno risentito di un certo inaridimento della vena creativa di Paul, ricurvandosi, accusando un colpo ferale. La qualità musicale media delle songs di Macca si abbassa notevolmente.

In un immaginario colloquio col Paul di metà anni '70 , gli confideremmo di razionare le pubblicazioni, ponderare, ripensare attentamente il suo progetto, evitare un profluvio.
Altrove non ci saremmo mai sentiti di consigliare a un iniziato una raccolta, per intraprendere la conoscenza con una qualsiasi band. Perchè le raccolte, oltre a rappresentare un'operazione scopertamente, fastidiosamente commerciale, sono il sistema più sbagliato per un primo approccio; ammazzano l'integrità della scoperta e di un'opera musicale concepita come corpus, solo e soltanto in un certo sistema e in una certa disposizione. Le raccolte riducono estremamente l'effetto sorpresa, e quindi, il più puro piacere dell'ascolto.
Eppure ci scopriamo estremamente bendisposti di fronte a questa raccolta di Wings (e limitrofi), che rappresenta un'eccezione, perchè sta a mostrare soprattutto ai detrattori che anche dopo l'avventura con i Beatles Paul McCartney ha scritto molte canzoni più che buone, anche ottime, eccellenti (molte delle quali udibili in nessun altro modo, essendo edite, a loro tempo, solo come rari singoli).
Il trovarle tutte insieme, finalmente, in questo Wingspan, al di fuori di dischi che spesso non le meritavano, potrà aiutare a rendere loro giustizia, finalmente, nonostante qualche inevitabile dimenticanza oggettiva (monkberry moon delight, splendido esempio di rock grezzo e ubriaco, su tutte, ma anche warm and beautiful e winter rose).
(giugno 2001)

 

Wondermints s-t (Toy's Factory, 1995)

Questo debutto dei losangelini Wondermints si mostra tra i vertici inarrivabili dell'eredità Beach Boys, rinvigorita per magia nei'90 anche tramite gruppi come Jellyfish e High Llamas.
Questo insieme di canzoni concepito in bedroom su un 4-piste, fu dapprima diffuso durante i concerti, attraverso cassettine “colorate” autoprodotte (alla Phish, per intenderci).
Il suono di quest'album oscilla tra slancio pop-syche, esotismo ed eleganza classica; vive della magia di simbiosi e alternanze tra i compositori Nick Walusko e Darian Sahanaja, soprannominatisi wonderman & mintboy (da qui il nome del gruppo).

A volte si sente infierire sulle emotività più profonde e indifese, un sistematico killing me softly tra avvolgenti falsetti e tessiture vocali d'altissima resa, si ascolti “she opens the heaven's door”, “playtex aviary” ma soprattutto “tracy hide”, uno degli inni sempiterni e più indimenticabili del pop da camera.
Altrove prendono il sopravvento sussulti passionali più generici ma altrettanto efficaci come “shine”, “global village idiot” e “time”, dal piano stonesiano e dai viluppi Raspberries.
O altrove, come Kinks e Badfinger che jammano dal vivo, celebrano il “carnival of souls”.
Di Wondermints, Brian Wilson ha detto: "If I had (them) in 1967, I would have taken Smile out on the road". Qualche anno dopo, sarebbe successo davvero...
(agosto 2002)

 

Woorden - Woorden (1968)

l’omonimo del ’66 (altri segnalano 1968) di questi olandesi “Woorden” è un cascame inconsulto di recitazioni sciamaniche, di profezie enfatiche e incalzanti, di sedimenti free-psyche e vagiti vichinghi. Su tutto un’aria di dannazione.
Lo sfondo, da principio è mutuato al jazz: contrabbasso e batteria, cui s’aggiunge un’armonica stradaiola e ‘rings’ come un Bruce Palmer esausto in mezzo al suo deserto a “ciclo completo”, ad apocalisse scoppiata.
Altrove, in ripiegamenti e risacche, si presentano detriti musicali meno identificabili, sparsi secondo il modo di una psichedelia tribale, smaniosa e tzigana a base di corde, percussioni, scampanellii e soprattutto voci ansiose, accese, in preda a esaltazione.

Un cambio repentino aggressivo/quieto è suscitato dall’avvento di una sorta di fata giunta “dall’altra parte della montagna” su un docile tappeto di fingerpicking, sfuggente e spettrale, direttamente dall’isola stregata, teatro del Wicker Man. Questa sibilla ingannevole pervade e estenua, non a caso al volgere del termine, ogni musica, attanti, ascoltatore.



Worm Is Green "Automagic" (2003, Tmt Entertainment -Thule Music)

Worm Is Green sono islandesi formatisi nel 2000, originari di Akranes, non distante da Reykjavik.
Arni Asgeirsson e Bjarni Hannesson a samplers e synt, Þorseinn Hannesson alla batteria, Vilberg Jonsson al basso, Gudridur Ringsted e Ragnar Kjartansson al canto.
Dopo molte apparizioni prestigiose come all'Icelandic Airwaves Festival, il suono della band si è andato evolvendosi in direzione dei primi Piano Magic, Icebreaker, múm.

Difficile pensare ad "Automagic" come a un debutto, mostrando nei propri tredici brani una disposizione invidiabile, un esemplare senso visionario, un'organicità linguistica che è solito mostrarsi dai veterani.
Conseguenza più diretta della pervicace attività in studio degli islandesi Worm Is Green.

Un percepibile senso pop immerso in un tappeto ambientale ralenti, una Tundra isolazionista, landscape-concept spettrale e ricca su cui proliferano e ruotano come girini, sensitivi micro organismi di ritmo e impercettibili frammentazioni di energia, onde radio, elettronica minimale.
Si prenda l'esemplare bellezza mite e transeunte di “shine”, i cui inquieti e tumultuosi vocalismi misti si avvolgono in spire di nebbia; o le impalpabili vitree apparizioni del Passato su “morning song”, richiami di maliarde perdute dal Tempo.
Tastiere di limpida, memorabile naturalezza malinconica si assimilano fatalmente (fade-out) nell'aria, nell'atmosfera.

Le esplorazioni nella foschia di “drive thru” e “Sunday session 1.0” cercano, senza soluzione, ancora, richiami con il tutto, mostrano un ardente desiderio di ricongiungimento con la Natura.
E la superstite vitalità nella rarefazione di “walk thru”: ricorrente è quest'idea di attraversamento, di perlustrazione thru, attraverso, esponendosi a inabissamento, sparizioni, dissoluzioni.
Una sorta di esplorazione ardimentosa di timori atavici, fibra per fibra. Memoria, inconscio, desiderio di Spazio attraverso l'incantesimo del suono sintetico.
Valga “amazing things”, e una stranita, assorbita eco, produzione di memoria (d'ambiente) di “love will tear us apart”.
(gennaio 2004)