Supertramp - Breakfast In America (A&M, 1979)


 

“and when you're up on the stage
it's so unbelievable
...unforgettable...

 

Questa recensione è un delirio d'amante, è la storia di un'ossessione.

Agosto 1992, entrai al negozio di dischi, non trovando nulla di nuovo mi misi a cercare e prendere alla rinfusa, adocchiai il nome Supertramp che avevo già sentito, c'era l'album “Breakfast in America”, chiesi che roba fosse al commesso che disse “ma che scherzi… Breakfast in America”...Certo che copertina. Lo presi.
A casa lo feci girare. Ebbene, quella volta ho vissuto la mia più grande, subitanea felicità musicale. Passione al primo ascolto, roba da non credere, da dire no è impossibile, riascoltiamolo subito daccapo, è un abbaglio.
Speranza e inquietudine si accendevano, brano dopo brano presi a fare il tifo, che accada l'impossibile e la magia non si spezzi, che il pezzo brutto non arrivi mai.
E il pezzo brutto non arrivò mai. Ma soprattutto, quanti clamorosi in fila, che sequenza sbalorditiva, misteriosa.

Della partenza deve avermi frastornato quella massa roboante di strumenti, tempesta di corde, il piano elettrico che appare dal nulla, dal silenzio e si riversa su "Gone Hollywood". Impossibile non sbalzarsi nel mezzo, immedesimarsi nella storia avvolta in quelle folate d'inquietudine percettivo-emozionali.
“It was a heartbreaking…”. Notai subito la prossimità tra la voce di Hodgson e i Bee Gees febbricitanti, ma questo era qualcosa di più. Uno sgargiante dolore strumentale si diffondeva ovunque, parossismo da subito, triste, penetrante saudade, poi l'inopinato arrestarsi: “Ain't nothing new/ In my life today”; a parlare i silenzi, pensieri, strumenti notturni, muta focale incentrata sull'attesa.
Poi un nuovo rovescio, dialogo emozionale, straziante deriva wilsoniana trascinata dall'ennesimo fiammeggiante groviglio di strumenti. Un pittoresco e incoraggiante baccanale, primo di dieci, vortice che sfuma e sommerge ogni cosa, ogni avventura, star e disgraziati tutti uguali, camere d'albergo e limousine in profondi abissi turchini.

Ripenso poi la sorpresa allo sbocciare di "The Logical Song". “When I was young it seemed that life was so wonderful”.. già avevo sentito questa canzone da qualche parte!… Mentre si produceva quel miracoloso flusso di ineffabili gioie e angosce, scorrendo in cromie di cori come corso di fiume, ancora oggi rinnovo il dubbio: come fu ordito un simile equilibrio... Quel perfetto incipit, o quel debordante grido di sax quasi un'allegoria d'una condizione alienata. E poi la conclusione, tra sassofono, drumming concitato, effetti digitali misti a wurlitzer e gli isterici gorgheggi. “The Logical Song” è in effetti la canzone amata anche da chi non apprezza il gruppo. Restano dentro la focale, tenebrosa emozionale; le liriche amare e sconsolate su tonalità strumentali di contro chiare e trasparenti, terse e pulite, che poi accomunano l'intera scaletta dell'album.
A proposito, ogni brano del disco è inscindibile dal contesto. Si sfalda, altrimenti, l'alchimia. Si diffidi da tutte le raccolte.

Ma quello che mi portò a sragionare e a rivelarmi per sempre l'unicità di questa pasta, il suo prodigio, fu il ritornello di "Goodbye Stranger". Da impazzire, da morire di suggestione e tormento amoroso. Un passaggio sublime e avvolgente, indelebile apice romantico di basso, voce falsetto, batteria.. forse per me l'attimo “pop” più bello di sempre, l'ideale che avevo sempre cercato da una canzone sin dai traumi beatlesiani della tenera età. Ancora meglio è come si preordina l'attesa a quello zenit assoluto: brevi e minacciosi riff hard di chitarra, note di tastiera diafana e poi la cullante, straziante alcova strumentale piano-acustica. Il modo in cui il piano predispone il ritornello è qualcosa di emotivamente rapinante. E quando la tastiera rinnova l'ardore e in quel perfetto fuggevole celeste fischiettio, accade qualcosa di eccezionale, vanamente inseguito in altre migliaia di raccolte di canzoni. Luogo di accattivante languore e di cinismo assieme, dopo l'amore, afflizione e rammarico. Tenerezza e passione viscerale come non mai, esulano dal testo in senso stretto e planano via a pelo d'acqua. Quanto brivido di seduzione anche nella carnevalesca fantasia della coda, a divagare in una lucida follia, l'eccitazione comunicata nell'assolo di chitarra di Hodgson, un fluido magico.

La title track è la quattro. Una marcetta memorabile, “Not much of a girlfriend/ never seems to get a lot/ Take a jumbo cross the water/ like to see America/ See the girls in California”. Che malia e quanta umanità in quei gorghi, risacca di cori acuti prima che riparta la giostra e passi a “Oh Darling”. Già quinto brano, "Oh Darling" è ripensamento, rovesciamento affettuoso della “Goodbye Stranger”. Dopo una modulazione di piano parte il canto e in “well you know, I'm gonna…be around you, all about you, always by your side”, si leva un intersecarsi di voci mozzafiato. Dopo un ritornello magnetico e disperato, l'inabissamento dei cori, un profluvio in fade-out.

“Take The Long Way Home”, con le sue ampie aperture di corde e woodwind , inaugura inquietante e misteriosa il secondo lato, piazzando un altro refrain strepitoso e lacerante in prossimità della “...and when you're up on the stage, it's so unbelievable, unforgettable, how they adore you...”, e giù un'altra luce di cori, intermezzo floreale prima del congedo. Questo lato è più meditativo, offre un pathos vespertino quasi a bilanciare l'antimeridiano di prima, e allora: “Lord Is It Mine”, invocazione con ingresso di linea di piano classico, protagonista nel brano assieme al canto solo di Hodgson, wilsoniano come non mai. "So give us an answer, would you/we know what we have to do"... Il ritornello è realizzato assieme a sonagli, tastiera e poi un clamoroso straziante calco di batteria acuisce il registro: altro momento che brucia gli occhi.

Un paio di ripetizioni, che comunque giovano al contesto: la bolgia massiccia di “Just Another Nervous Wreck” (modello “Gone Hollywood”) e la danza di congedo, isterica e sconvolta, affidata a visioni e allucinazioni di un essere puro e non corrotto: “Child Of Vision”, in grado di redimere e far rinascere i peccatori.
“Casual Conversations” anticamera regalava una melodia paesaggistica, soave e diafana, che stempera arie sostenute e spezza la tensione tra i due titani di sopra.

Nelle storie di questo disco spasima un’umanità vitale e tormentata, agitata dal peso di una scelta, emozionata da un rimpianto, in una giostra incessante di eccitazioni e inquietudini. Una dialettica umorale di luci ed ombre, gioie e amarezze, cui fa fronte l’impulso indomito, giungendo a nuovi approdi, ad altre Americhe.

Da anni e anni l'ascolto di “Breakfast In America” influisce, suggestiona, mi cambia. Adesione e simbiosi, ma in più mi divora, mi consuma, lede e cicatrizza. Attraverso queste note il tempo rallenta, si arresta, scandiscono altre lancette, in un reame periferico e d'artificio, ardente e simbolico, tragico e intriso di tinte accese, esasperate. Un'opera vertiginosa che tocca il cielo del pop, che anzi è sé cielo del pop, che giunge all'apice d'una carriera già inestimabile per quanto espresso negli anni 70, ma che rischiava di estinguersi lasciando poche tracce, spegnendosi fiocamente in sé, senza clamore: il carrozzone rock aveva puntato i riflettori altrove, tra punk e wave d'ogni sorta, ci voleva un forte richiamo, colpo (di reni) da maestro o si sarebbe implosi.

“Breakfast In America”, mistificazione, evocazione, Eldorado, Graal. Inopinato centro pieno tra migliaia di possibili rotte incerte. America come viaggio decisivo, viaggio di scoperta e di luce, viaggio bruciante: reca assieme rinascita e declino.
Inevitabile corto circuito della formazione, laddove dal pop-prog avvelenato nel concept dal cuore di tenebra “Crime Of The Century” (1974), piece noir-pop per eccellenza, nonché capolavoro senza eguali, si produssero due album decisamente buoni che ne stemperavano il monoverso alienato in un estro ironico nomade e spaesato, ardente.
Qui invece dopo “Child Of Vision” ogni cosa fatalmente raggela e si pietrifica a contatto con l'atmosfera. La vena creativa dei Supertramp in primis, che espieranno con lo scioglimento, mesmerizzando dapprima col più classico doppio dal vivo -"Paris"- che oltre a un gustoso ripasso accendeva una grande ansia per l'ascolto, in scaletta, dei brani “americani”, quelli luccicanti e fatati; e poi con “…Famous Last Words…” tornati in studio: altra storia, rovescio, reazione esplicita e passiva. Dopo un'esigua e fioca resistenza ("It's Raining Again", "Put On Your Old Brown Shoes", "C'est Le Bon"), iscriveva in sé l'emblematica resa, il capolinea.

Per alcuni, i Supertramp si erano raccontati per l'ultima volta in “Fool's Overture” (1977), suite di inenarrabile ricchezza espressiva, il loro capolavoro “duro e puro”. In effetti è summa di quanto mostrato sino ad allora in carriera. Poi l'inspiegabile alterazione, metamorfosi.
Dunque un gruppo che visse due volte? Come spiegare la differenza tra gli album precedenti, che nulla avrebbero lasciato sospettare, e quel “Breakfast in America”?
O forse era la stessa pelle sin dall'inizio? “Rose Had Everything Planned”, “Asylum”, “Dreamer”, “School”, “Ain't Nobody But Me”, “Sister Moonshine”, “Lady”, “Give A Little Bit” erano dunque concreti avvicinamenti oltreoceano?
Chi lo sa. “Breakfast In America” resta il ciclone che da sempre è, patto col diavolo per spalancare le porte del giardino dell'Eden.

(estate, 2005)



"Crime of the Century" began to build the group's following, but its real masterpiece would come with its sixth album.
The sarcastic humor of "Breakfast in America" starts with the striking cover image, which is seen as if through an airplane window. A plump, maniacally grinning, and very American waitress stands in for the Statue of Liberty, her back turned to a New York skyline constructed of kitchen utensils, egg cartons, and condiment holders. (…)As anyone who has ever traveled Route 66 can tell you, the soul of this country can be found at its roadside diners, so it's little wonder that Supertramp begins its overview of this country's landscape with a hearty breakfast (though as the musicians chow down in the back cover photograph, each of them is reading a British newspaper).

Supertramp relocated to Los Angeles to record the album, and the group worked at that city's Village Recorder. Appropriately enough, the disc opens with the spare and moody "Gone Hollywood," contrasting the image of America's dream factory with the protagonist's actual surroundings "in this dumb motel/Near the Taco Bell/Without a hope in hell."
The conflict between the American ideal and the American reality runs through the album's 10 songs…
(Jim Derogatis, 2002)



Designer Mike Doud drew various illustrations combining breakfast and America -- one of the rejected sketches depicted giant Cheerios rolling down Arizona's Monument Valley in a flood of milk.

The band preferred Doud's illustration of the Statue of Liberty holding an orange-juice glass, so Doud's associate, Mick Haggerty, went about selecting a model. He brought in a busty beauty, then what Haggerty calls "a Tom Waits kind of girl," both of whom the band vetoed. Eventually, they found the matronly woman whom Haggerty dubbed Libby. Haggerty also built a miniature Manahattan out of breakfast implements. The motif inspired a huge promotional campaign that featured such items as laminated menus, spoons, plates and cans of orange juice.

"It's New York seen through the eyes of someone that sees it not as a gateway to the east of America but as a gateway to Route 66," says Haggerty, an Englishman. "It was a West Coast treatment of an East Coast icon."
(superseventies.com)