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THE RADIO DEPT. Lesser Matters (Shelflife\Labrador 2003)

Malgrado le incredulità di rito, ogni tanto il miracolo si compie ancora: imbattersi in un disco pop davvero clamoroso. Stavolta l’asso l’hanno pescato gli svedesi Elin Almered e Johan Duncanson, fondatori di The Radio Dept., attivi già da qualche anno ma debuttanti solo di recente.

Lesser Matters, esordio su lunga distanza, è stato realizzato con intense composizioni melodiche immerse in cascate di fuzz e di feedback in stile J&MC o Pastels, sfiorando lusinghe Sarah, ma anche con insorgenti crescendo a rinverdire magicamente la vitalità e la drammaticità dei migliori shoegazer.

A volte a prevalere è un’elettroacustica più confidenziale. Ma il merito essenziale di The Radio Dept. è aver realizzato questo insieme di canzoni pop spettacolari. In Lesser Matters tutto funziona assieme come non si ricorda da anni.

Armonie attentamente costruite, tenere e soavi, sensibili e vibranti, appena screziate da un tratto di bassa fedeltà, percorse da ritmiche spesso incalzanti e travolgenti. Un sensibile, surreale spleen che incrocia i fati dei Flaming Lips di race for the prize e i Suicide di cheree. L’imbarazzante fascino di brani come where damage isn't already done, keep on boys, why won't you talk about it, it's been eight years, strange things will happen non capita di incontrarlo spesso su un disco solo. O la pungente nostalgia nel capolavoro assoluto 1995, languida effusione sentimentale che brucia gli occhi, evoca lacerazioni, acuti tormenti che sorgono da abissi interiori. Dolci chiarori e cullanti trepidazioni, le vertigini elette che percorrono l’intera opera. Si impossessano fatalmente dell’ascoltatore, condizionano l’umore di una giornata.

 

RANDY NEWMAN

Good Old Boys (1974),
Little Criminals (1977)


Randy Newman é un cantautore dall'eclettismo decisamente atipico, certamente uno dei più validi e meno noti della sua generazione. Una scrittura la sua, densa di immaginazione e di senso cinematografico, che attinge a piene mani dalla way of life statunitense, cui egli dispone di una calorosa, abbacinante dimensione spaziale, 'widescreen'.
Un ragtime sarcastico il suo, che trasfigura continuamente il reale in un pamphlet da Technicolor hollywoodiano dalle forti tinte melodiche, intrise d'un umanesimo straziante di arrangiamenti, dense orchestrazioni (che lui stesso, figlio di musicisti e di provenienza classica dirige e produce); elegie di colori e forme a testimoniare possibili rinascite.

L'insolito, spiccato senso coreografico permette a Newman di allestire vivaci ritratti corali, affiatati e in tiro come un musical, contesti d'insieme, riti da età dell'innocenza tipicamente 1970's.
Ogni vicenda nelle canzoni di questo abile e vissuto pittore folk hollywoodiano, anche quando il tono agrodolce si accompagna dal solo pianoforte, si fa esemplare, mondo a sé.
I personaggi che Newman tratteggia e riporta sono gamblers, o poveri diavoli che pagano con la vita inesperienze, o giocatori che scontano colpe nella gabbia perenne dello strazio nostalgico, tra debolezze, peccato, illusione.

Good Old Boys (1974 Warner) è una sorta di concept vitalissimo, organico e fluente, per certi aspetti anticipatore dell'affresco Altmaniano di Nashville; un 'southern discomfort' alla Stephen Foster dallo sguardo sfocato/a fuoco sulla grande bolgia umana, uno zoom al caleidoscopio sul circo statunitense.
Little Criminals (1977, Warner), bissa in un mordace, dimesso-aggressivo anfiteatro umano che campa tra strazi ed euforie, che tira avanti tra viaggi e funerali, tra desolazione e redenzione, cui Newman abbatte il confine tra memorie e fantasie, vita propria e utopia, volgendo tutto in probabile.

(2002, 2007)

Raymond Boni - Pot-Pourri Pour Parce Que (Hat Hut G)

Tra tradizione e avant-impro si colloca quest'opera di Claude Bernard e Raymond Boni: "Pot-Pourri Pour Parce Que" (1977).
Anch'essa annovera degli ‘staccato' ovvero plettrate veloci sulle corde di chitarra di Boni, i cui suoni a volte dilatano con effetti eco tipo ‘surf' music. Efficace controparte, coi propri astratti nervosi fraseggi, alla vivaci descrizioni aeree del sax alto di Bernard.

RICHARD YOUNGS- Sapphie (1998)

La dolce mestizia dell'elegia di Sapphie svetta rarefatta e toccante nella propria intensità umorale. Sofferti e sconsolati afflati, regolari come un respiro, sottili eppure taglienti, viscerali, una voce anima che esprime tutto il proprio smarrimento, la fragilità e l'abbandono, per la scomparsa dell'amico.
Una voce che è insieme disincanto e richiamo disperato, estremo tentativo di trascendere lo spazio e il tempo per recuperare il calore, restituire un po' di vita a chi è andato per sempre. Una chitarra elusiva, misurata, memorabilmente triste, a volte sostituisce, a volte soccorre come presenza l'interprete sperduto, sospeso sul margine del vuoto. Una tenerezza nel proprio propagarsi, attraversa e investe ogni cosa e avvolge la coscienza.

 

RICHIE ROME - Deep (1980)

Dopo i lavori come African Suite e Flower, questo “Deep” firmato a proprio nome conclude un ideale trittico del Richie Rome produttore-autore allo stesso tempo.
E’ il disco del definitivo ‘affondo’ romantico da parte del celebre arrangiatore e compositore della disco music, sorta di quieta, precorsa abdicazione (lì a poco Rome uscirà dalle scene).
In testa, la suggestiva e già nota (perché apparsa in compile in tema) title-track, sensuale e maliosa oltre ogni dire, sorta di downtempo immersa in climi afosi e reami soffusi di synt e tastiere, appropriati luoghi di seduzione esaltati da archi e corni, dal basso eloquente di Vinnie Fay e dalle chitarre di Ronnie James. Il tutto scorre fatale e magico, un discreto ‘vocorder’ appare così dal nulla a dirigere scambiandosi con la consueta schiera di ancelle vocalist.
Non più i turbini, i rapimenti e le ustioni delle altre prove: il disco, nella propria alterità, si innesta su un clima soul-soft-disco decisamente privato (“silently yours”, testimonia uno stesso titolo). Un’ideale “Love Story”, autobiografia toccante, come una resa incondizionata all’amore siglata dal genio di Philadelphia (nella melliflua “Remember me”, che anticipa ebbene sì, le atmosfere di “La Boum” o nello sbraco in coda “My wish for you”), ma che a distanza di tempo può suonare anche come una malinconica rinuncia. Il tutto è abilmente interpretato e addobbato, forse è ‘solo’ un buon sottofondo, ma in quanto questione privata dell’autore sentirei di apprezzarla in quanto tale. (7)


Rita Calypso

Rita Calypso è una misteriosa apparizione femminile non meglio identificata come tale Ana Laan, la deliziosa creatura che si cela dietro al moniker.

Apocalypso (Siesta, 2003)

Sicalyptico (Siesta, 2004)

“Apocalypso” fu un esordio che letteralmente inebriò i sensi.
Il nuovo “Sicalyptico” di recente pubblicazione, è nuovamente scintillante in arrangiamenti e produzione, opera dell' ormai inconfondibile coppia Ramón Leal e Mateo Guiscafré, e altrettanto regalmente interpretato dalla Laan.

Tra primo e secondo album, tuttavia, quasi immediatamente ci si accorge di qualche cambiamento nei contenuti.
“Sicalyptico” è l'album della consapevolezza, della ricognizione amarognola, e si propone di andare oltre le cartoline dal Paradiso del primo album.
Dal sito Siesta: “sicalipsis es 'malicia sexual, picardía erótica' y sicalíptico es sinónimo de erótico”. Buono a sapersi, ma in verità non riesco a trovarvi alcunché di sensuale, piccante, tantomeno erotico in quest'album.
Non è una critica, tutt'altro. Più che idealizzare nuovamente la realtà, bissando “Apocalypso” (con l'aggiunta, magari, d'un “redux”?), mi sembra che Rita e soci abbiano voluto affrontarla di petto, sacrificando i dolci conforti e i teneri impulsi delle affabulazioni.
Lo fanno attraverso una scaletta di brani sempre seducente e maliziosa, ma più problematica e tormentata.
Intendiamoci, c'è spesso ancora il fior fiore di pop songs anni '60, come “wailing of the willow”, “believe”, “the drifter”.
Eppure, quella grazia civettuola, amabilmente svenevole nei brani passati, ora si altera e macchia il proprio virginale candore e s'invischia di pece.

Ricercando verità, si fa introspezione in sé. Raccogliendo e interpretando cocci di relazione, c'è ansia di solitudine, come mostra la sequenza di "the key witness”, “if (the biggest little word)”, "good to be around”, “georgianna peach pie”, “only friends”, "look at me”.
Tutte pieghe di dolore, interpretazioni spesso superiori come ci ha abituato la Calypso.
Qualche sollievo viene offerto da “on the trail” coi suoi opportuni camuffamenti bossa tipici di Siesta, e il gioiello “it´s hard to say goodbye”, che cattura e imprime in sé ultime, estreme luci di consolazione.

 

Rita Lee - Build Up (1970)

Build Up è un esordio rigoglioso e brillante. Una deliziosa Rita Lee al massimo del suo istrionismo espressivo è coadiuvata da Rogério Duprat ai preziosi arrangiamenti, Elcio Decario co-scrittore di alcuni brani; in più, produttore a sovrintendere, Arnaldo Baptista, chitarrista e ‘creatore’ in Os Mutantes, il gruppo con cui la Lee aveva appena realizzato uno zibaldone come “A Divina Comedia”, uno dei vertici della band.
La ristampa di Build Up da parte di él Records/Cherry Red suona come un tributo a un disco e a un’interprete che deve aver contribuito a suscitare in Mike Alway la propria idea, l'immaginifica scuderia discografica che negli anni ’80 rinnovò in Inghilterra i fasti del pop barocco.

Scoprirne il perché è a portata di mano, si svela non appena l’album avviandosi anima una sarabanda di vivaci, piccole stravaganze melodiche da bohemienne, sparpagliate e luminose; contaminate ma senza eccedenze, segnate da uno spirito sensibilmente eccentrico e inquieto, percorse da un senso magico e incantevole, come al cospetto di miraggi, illividenti evanescenze più tipicamente prodotti dell’arte visionaria.

Ginger Rogers, Jane Birkin, Nico, Liza Minnelli nella stessa donna. L’esuberante vitalità di Sucesso aqui vou eu, Calma, Prisioneira do amor, And I love him e la toccante, soave intensità di Viagem ao fundo de mim, Josè, Tempo nublado, percepiscono sensibili abbagli nel subconscio emotivo.

 

 

RIVER- Once Upon A Time
Fabrice Hervé, francese di Nantes, è cuore e anima di River.
Once Upon A Time è una creatura concepita tra il '96 e il '98 nella propria dimora assieme a pochi compagni cui confessarsi.
Once Upon A Time é d'un intimo strepitoso, modesto e ardente, ansioso e palpitante.
Lo stesso velluto pop-dream-psyche di Sarah Records.
Dopo anni di passione e lacrime versate su quei vinili, Hervé si fa tutt'uno con quella nebbiosa materia celeste, si asserve inseparabile al proprio ricordo, carpendo di quella rara delicatezza la più intima, inquieta, dolce essenza.
Disinvolto, il nostro confinato romantico pronuncia quella ineffabile vanità, quel rancore contuso che, a contatto con la puntina di giradischi, assume forma di tormento inalienabile.
Fabrice ritaglia quella grazia in una personale e peculiare aura nostalgica, malinconica, di voci e strumenti.
Stories of love, Suicide, Suddendly, Down, 25-10-95: sogni di gloriose tempeste sul mare, disperate dolcezze e trafiggenti spasimi, iridati rifugi di riflessione e sorgenti di ogni parossistica grazia.
Afflati di smarrimento esistenziale che modulano emozionalità intense, le misteriose eteree impronte di Cocteau Twins (si ammiri Inside your arms).

S'alternano, quasi a volersi cauterizzare, con spinte mondane, esortazioni al piacere dei sensi (per quanto effimeri si percepiscano) di Tu as beau e Ici ce soir, apparenti evasioni non a caso intitolate in madre lingua.
Assieme con Beach song e A night with Inès ripristinano vivide distanze Sarah (Cracknell, sempre aleggiante, sempre divina), con spiritelli Unrest che smaniano tutt'intorno.
Per poi nuovamente ripiombare nel sentimentalismo leso, ferito, giustiziato dalla sconfitta, inesorabile destino.
Mary's street su un lato come Eric's trip sull'altro; armonici virgulti, penetranti adombrate implorazioni ove smarrirsi, e smarrirsi, e smarrirsi.

Once Upon A Time é un tuffo al cuore. Uno degli orgogli dell'etichetta, un dono sublime da serbare gelosamente.
Da preservare (anche da se stessi) e concerdersi in deputate occasioni.
www.river.fr.st