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Octet - Cash and carry songs ( Diamondtraxx / Discograph:: 2004)
Octet è un duo transalpino composto da Francois Goujon (ex batteria di Lighthouse) e Benjamin Morando (già in D*I*R*T*Y Sound System ).
Il loro debutto "Cash and carry songs", circola alfine in tutto il globo, dopo un'anticipazione invernale nelle sole Francia e Germania.
In effetti sarebbe stato peccato mortale non diffondere altrove questo delizioso dischetto, che è esordio di maturità sbalorditiva, ennesimo spiazzante trip-attentato all'integrità dei generi musicali comunemente intesi.
Lapt-Pop ora lussuoso ora sbarazzino, come meglio conviene alla situazione. Denso respiro soul, variegata elettronica, ambient(i) post-rock, antagonismi resi qui fittizi, montati assieme e sequenziati con vitalità e disinvoltura, conservando nell'insieme un proprio intrinseco peculiare valore.
Intelligenza e gusto non s'esentano dunque dal vocabolario musicale di Octet, tantomeno suspance e divertimento. Voluttuosi acquerelli airiformi di "Sneakers & thong" e "Blind repetition", "Trackball of fire", adornati di vocalizzi di Suzanne Thoma; o le incipienti "hey bonus" e "4/4 waltz" (così rischio di citarle tutte) sono esempi di eclettismo, curiosità musicale, genio depistante.
Roba da infatuazione certa, da non sottovalutare; in effetti sento l'epidermide sollazzarsi.
Se sarà vero amore, dirà il tempo, ma le premesse sono quelle.OF MONTREAL
Of Montreal è il progetto del georgiano Kevin Barnes, chitarrista, prolifico autore e fantasioso interprete di musiche e testi, assieme a un gruppo di collaboratori racimolati dal nostro tra Cleveland e Minneapolis: i bassisti Bryan Helium (poi Elf Power) prima e Derek Almstead (anche batterista) poi.
Ad essi s'aggiungono il tastierista Dottie Alexander e Jamey Huggins alla batteria. Dopo i primi album, arriva nel 1999 A.C. Forrester, polistrumentista.
Sono contesi immediatamente da etichette come Bar None, Kindercore e la Elephant 6 di Robert Schneider.
Dopo Julian Cope, XTC, Flaming Lips, Dogbowl, Apples In Stereo e Olivia Tremor Control è dunque il turno di Kevin Barnes di… anzi, Of Montreal.
The Gay Parade (1999)
Narra la leggenda che Kevin Barnes chitarrista e compositore di Athens, Georgia, formò una band dopo una relazione interrotta con una ragazza di Montreal. Un fatto che lo segnò a vita, lo mostra il nome della formazione, Of Montreal.
The Gay Parade pubblicato nel 1999 è il terzo album della formazione, segue a due album e a un Ep.
Più esattamente, il concept é frutto della vulcanica fantasia di Barnes; costituisce forse il più concreto avvicinamento da parte di una contemporanea indie pop band allo spirito dell'epico Sergente Pepe beatlesiano.
Le sedici tracce dell'album sono legate a concept da un continuum di contenuti fiabeschi e da un senso infantile e sarcastico.
The Gay Parade è un carnevale pop ambientato a Lilliput, che solo qualche accasato di Elephant 6 poteva concepire al volgere del millennio.
Agrodolce, giocoso corteo nella forma melodica, istoriata di soavi arrangiamenti e di cori in falsetto che allestiscono variopinte e apocrife scenografie d'ispirazione psichedelica, sfigurate e al limite della farsa.
Sedici fiabe-sketch allegoriche della fragilità della condizione umana, raccontate con un timbro intenso e solidale.
Immerse in un pop'60 che è folk e beat, musical e acido.
Privo della risonanza delle storiche opere rock d'altri tempi, senza le stesse ambizioni e l'istrionismo, ma con ironia e sincerità commoventi.
Quest'album è un vivaio di creatività acuta e brillante in voci e strumenti, un fascino ambiguo e spiazzante, grazie anche al metodo amatoriale usato dal gruppo.
L'intro annuncia il rinnovarsi di un miracolo musicale:
“And everything looks new, again
In that old familiar way”…
Barnes é un menestrello sensibile e filantropo. Coinvolto ma non retorico. C'è una dolcezza lirica e surreale che dirige soggetti blues verso il comico.
Protagonisti dei bozzetti sono spesso individui insignificanti, indifesi e ripudiati, che raccontano come si salvano da sé con piccole risorse.
Dal nonnetto che abita la toccante Autobiographical grandpa:
“My wife is dead I live alone / in my little country home
I have my memories / and dogs for friends
My kids and grandkids come / to stay with me once a year
Though I'm happy often I feel lonely”
a quella del Miniature philosopher la cui occupazione gli impedisce di dedicarsi a Nietzsche, Camus e Voltaire.
Passando per il reietto in My friend will be me (consolato con una culla di falsetti celestiali):
"I wish I knew a man / Someone to help me stop being self consciousI wish I knew a girl /one to take away my fear of dying"
L'ideale è il raggiungimento di una felicità mediocre, il miraggio di una vita di quiete e affetto senza angosce, come descrive l'incantevole Neat little domestic life:
“You clean the bathroom and I do the dishes
I water the lawn and you feed the fishes
What a neat little domestic life that we live”
La malinconia si cauterizza con l'insopprimibile senso carnevalesco che presiede; servito da una attrezzatura bislacca d'antiquariato, puntualmente in bassa fedeltà. Campane, Corni, kazoo, manipolazioni di nastri, strumenti giocattolo, macchine da scrivere. E cori alla Kinks, deformazioni bambinesche (Tulip Baroo, una delle melodie più straordinarie dell'album); imprevedibili progressioni e variazioni o code strumentali.
E'il complesso dell'opera a funzionare magicamente, per come è stato concepito e montato assieme.
Kafka ma anche Lewis Carroll, nella vicenda di Nickee Coco, una bimba addormentatasi su un albero invisibile la cui sorte mette in apprensione una città intera.
La narrazione, introdotta con cascate di cori e controcori, si sviluppa con accenti Gabrieliani per concludersi nel lieto fine in cui Nickee viene ritrovata e festeggiata per le strade del paese.
Nell'epilogo un organetto riprende il tema iniziale, il narratore vi ringrazia per il tempo trascorso assieme e invita a tornare presto.
Il problema è che, una volta introdotti in questo reame di illusione, vorrete gettar via la chiave.
The Gay Parade è una sarabanda triste e lieta, disordinata e delirante, come i sogni.
Satanic Panic in the Attic (Polyvinyl, 2004)
Kevin Barnes sempre più istrione incontenibile. Il suo contagioso stile narrativo, intriso d'umorismo e sparsa genialità non fa prigionieri.
Chi non lo conosce si soffermi sul meraviglioso sito web allestito dal suo gruppo Of Montreal: la vitalità, i colori accesi delle immagini, le illustrazioni degli album così carica di luoghi e caratteri ebbri, naif, tornano ad animarsi nella musica.
Questo stile e questo progetto, ormai inconfondibile, da mosche bianche del pop, ripropone il pop dei padri col piglio dei figli apprendisti devoti.
Come il bellissimo, eccessivo “Coquelicot” del 2001, “Satanic Panic In the Attic” torna opera calderone, caleidoscopio inarrestabile che riplasma con emozioni e esuberanza tutte le cose.
Si può giocare con i termini cari a Barnes e soci (giocare neanche troppo per scherzo, ricordando nostalgie e dolori sparsi in tanti ritratti musicali del gruppo): il "panico" cui riferisce il titolo, è panico da folla che è panico da assenza di folla.
Ovvero, dentro la pazza folla! Le gloriose, gioiose adunate e marcie di mille voci fanno da campo d'azione, da scena ideale. L'umanità dei personaggi di questo autore, trasformati dall'insieme e da una luce nuova fuori dall'anonimato, riconducono a un desiderio di sostanziale miglioramento dell'esistenza, di comunione, divulgazione, dipinto con ardore genialoide e morbosa curiosità.
Difficile non intravedere i Beach Boys tra le magiche ondivaghe atmosfere di “lysergic cliss”. “Climb the ladder” più in là, è una pregevolissima Wilson-didascalia.
A volte s'affaccia il Todd Rundgren che preferiamo, mago e superstar, in ”rapture rapes the muses”, “chrissy kiss the corpse”, o nel synt di “spike the senses”.
Mestizia e smarrimento pervadono un'efficace immagine della solitudine di “City Bird” (city bird haven't you learned/ of the boundlessness of your freedom/ The sky is your blue kingdom), interludio di falsetti, arpeggi di chitarra acustica e ricami di flauto. L'uomo è davvero un animale sociale.
Il capolavoro dell'album è forse la vicenda di “how Lester lost his wife”, ennesima sarabanda Gabrieliana (...but I wasn't prepared to encounter the vision /Of she and It engaged in defiling of the sacred/ In an instant her face became so plaintive /And I watched as she transformed into the Black Amaranth... the Black Amaranth...).
Operation Rhino - Création collective Musique improvisée (1976)
Sostanzioso quanto occasionale raduno, in quel di Lione nel 1976, da parte di strumentisti fiore all’occhiello della scena free-impro francese del periodo, alcuni dei quali presenti nella NWW List anche individualmente (J. Berrocal e R. Boni).
Diciotto performers alle prese con ogni tipo di strumento, rock, cameristico, jazz, concrete musique, si cimentano senza giogo di struttura, in zone franche di caos e silenzio, tra ritmo, respiro, ricerca.
L’arsenale annovera 3 chitarre elettriche, percussioni, violoncello, clarinetto, piano, contrabbasso, trombe, ed altro ancora.Operation Rhino è un disco di improvvisata fantasiosa, visionaria e pregnante, di sfuriate e ripiegamenti, spazi sospesi e ‘polemoi’ tra strumenti, come terre ora arse dal sole ora scosse da fulmini, ora flagellate dalla tempesta.
Sintomaticamente anni ‘70 per cui una classica atmosfera viene costantemente sospesa, resa frammentariamente in fieri, non consente un vero abbandono, una passività, costringe a un’allerta neurotonica, vincola febbrilmente.Prossima ai raduni inglesi della Company (riproducendo l’ideale corrispettivo francofono a Bailey, Parker, Alteena e soci), in cui si evidenzia l’uso di strumenti di famiglia archi e cordofoni ad arco. Un tesoro interrato da cui imparare..
OOIOO- s-t (1998 KRS)
La copertina del disco preannuncia una genialità fuori dal comune, e prepara degnamente l'ingresso ad un capolavoro del catalogo Kill Rock Stars nonché uno degli esperimenti più suggestivi del neo-rock giapponese.
Innumerevoli e creative manipolazioni strumentali ed anarchiche stratificazioni noise (o noizu), strutture che ricordavamo appartenenti a questo o quello sono rese perfettamente irriconoscibili, mut(u)ate, commiste ad elementi esterni non ortodossi, acquisendo nuove forme, inedite funzioni, una carica sovversiva, a trasmettere scosse e perturbazioni.
Cellule folk alterate, ruminate, elettronizzate e riproposte ("sputate") alla Beck, sgraziati riff bordone e acrobazie vocali d'ogni genere -basti pensare che le tipa che presiede il progetto, è P-We ex Boredoms-. Una memorabile raccolta di nippo toons-deliri. Da non perdere.
(2001)
OPTIGANALLY YOURS
Nella sigla Optiganally Yours si camuffano due musicisti da San Diego, Rob Crow e Pea Hicks, chitarrista e cantante il primo, tastierista il secondo. Crow è una celebrità nel sottobosco indie rock (ultimamente ha raggiunto una buona fama coi Pinback), Hicks suona una miriade di organi e tastiere tra cui Optigan e parenti prossimi Chilton Talentmaker e Vako Orchestron.
La loro attività come duo inizia nel 1997: Crow è già attivo in almeno altri tre o quattro progetti paralleli (Thingy, Heavy Vegetable, Pinback oltre che a proprio nome), ma è soprattutto in Optiganally Yours che si può apprezzarne a pieno il talento di melodista pop creativo e insolitamente eccentrico.
Optiganally Yours hanno all'attivo in cinque anni due dischi ufficiali più una raccolta di inediti e altri rari o dal vivo.Spotlight On (1997 Headhunter/Cargo rec.)
Il progetto Optiganally Yours del duo Rob Crow e Pea Hicks di San Diego si plasma di un irresistibile e giocoso sguardo nostalgico e si sposa idealmente con le estetiche capricciose e squallide di camp, vintage e bizzarro. Un simulacro che celebra la memoria, autentica o plagiata, per mezzo di flashbacks e ricordi, di immagini corrose dal tempo risalenti all'infanzia.
Un'alleanza inscindibile di musica e psiche, pena svaporamento.
Il luogo della memoria ripercorso a ritroso, trasceso in vesti musicali low-fi, a volte anche opache, che simulano il ricordo sbiadito, l'immagine frammentaria, la fotografia ingiallita.
Il primo lavoro di Optiganally Yours é a nome “Spotlight On”. E' realizzato con l'ausilio dell'organo Optigan (acronimo di optical organ), un prototipo di sampler immesso sul mercato nei primi anni settanta per Mattel, oggi roba da rigattieri (oltre che di indie poppers feticisti).
L'Optigan é un organo a corde che riproduce suoni di strumenti da strumenti reali incisi su dischi ottici sostituibili. E'dunque in grado di simulare una gran quantità di altre macchine, riprodotte con una sporcatura tipica da vinile consunto, cornice-crosticina e a suo modo abbellisce.
“Spotlight On”, arrangiato interamente con quest'organo giocattolo è il piccolo irrinunciabile gioiello del gruppo, tra i dischi pop più misconosciuti e memorabili della scorsa decade, con una strana aura intorno a sé, sorprendente per spontaneità e compiutezza armonica oltre che per innumerevoli piccole invenzioni e graziose soluzioni strumentali.
Una lettura che mostra suggestioni bambinesche e innocenti, da pomeriggi spensierati alle giostre o al parco giochi. Una metafora efficace allestita con la particolare strumentazione di cui si serve per incidere, una metamorfosi naïf che ritaglia un posto a sé nel panorama del pop contemporaneo.
I brani si compongono in maniera simile a Heavy Vegetable, l'altra band di Rob Crow: stessa sorta di Xtc esordienti fatti girare a 75 giri, glassati deliri schizofrenici, allegorie delle irrefrenabili turbolenze e impeti infantili, ma allo stesso tempo vere composizioni, sobrie e a fuoco.
In questa scaletta, voci e coretti apocrifi accompagnano incipit di fantasiose marcette strumentali e up-tempo sorprendenti, manipolazioni che evocano spazi della memoria e del subconscio, a prefigurare un'estasi straniante, teneramente affettuosa.
“Mr Wilson” è uno spiritoso omaggio (don't have that attitude /you're kind of being rude/you need some flowers in your hair), che avvicenda volteggi d' Optigan e girandole frenetiche di vocalismi eterei.
“Compressor/expander” (I watched the children blowing bubbles/and pretty soon I have somehow forgotten all of my worries), “Patio” e “Remo” sono poi impareggiabili esempi di quest'arte di riadattamento: novelty in tutto e per tutto piovute da un grammofono anni '30.
Se una cover s'aveva da fare, doveva certo alloggiare da sempre in quel contesto mitico: ecco allora una folgorante riedizione di “Wichita lineman”, celebre brano fine anni sessanta di Jimmy Webb, ben impresso nella mente di Hix e Crow.
È un continuo vistare ammirati, in queste nenie dalle cadenze semplici ed epidemiche, atmosfere e musiche di un passato mitizzato e storicizzato, con riverente gusto e senso sperimentale, arte di scomposizione.
Come tornare bambini e assistere a uno spettacolo di marionette, con quell'entusiasmo e gli istinti perduti.
Optiganally Yours resterà il progetto parallelo di Crow e Hicks: tra 2000 e il 2001 pubblicano il secondo Lp “Exclusively Talentmaker” per l'etichetta Absolutely Kosher, ideale fratellino di Spotlight On.
(2003)
Exclusively Talentmaker (2000 Absolutely Kosher)
Tra il 2000 e il 2001 Optiganally Yours pubblicano il secondo Lp Exclusively Talentmaker, all'altezza del predecessore.
In questo lavoro Hicks e Crow sostituiscono l'Optigan con il Talentmaker e l'Orchestron, nient'altro che modelli avanzati di quel prototipo d'organo stesso, in grado di suonare più corde e di ridurre fruscii e sporcature (all'epoca non intenzionali!).
L'Orchestron in particolare contiene dischi con suoni preregistrati di Hammond, corno francese, violino, organo, flauto, violoncello, sassofono e cori umani.alcune melodie restano clamorosamente eccellenti e reiterano la magia del debutto: i'm bad at sports, geppetto, waves, held, donut.
Ancora e sempre immagini completamente immerse nell'infanzia. Il respiro è più ampio, come lo spettro musicale esplorato dai due. O.a.r. e Song for America sono quasi "suite".
Difetta un pò di continuità ma vanta ancora una buona freschezza (poddleman, ether), servendosi di un istrionismo a volte eccessivo.
Recentemente Optiganally Yours stanno facendosi un nome anche in qualità di remixer, contesi da molti artisti del sottobosco indie pop dance.
Dunque è scaturita una gran quantità di inediti e rari, commissionati da artisti come Kahimi Karie, Tipsy, Eureka!, Fantastic Plastic Machine, Human League.
(2003)
Orchid Spangiafora - Flee Past's Ape Elf
Un'opera d'avanguardia estrema: un montaggio di voci campionate e textures ambientali si susseguono ciclicamente e non.
Una sorta di turntable provvede a volte, a frullare o variare i pattern, che se pure procedono senza particolari 'crescendo' restano efficaci nelle proprie variazioni libere e in come vengono intessute, quasi musicalmente, inoltre l'effetto è spaesante e sconcertante quanto basta.
Per estetica questo disco può ricordare le opere choc in "psicofonia" del ricercatore Friedrich Jürgenson. Nessuno strumento musicale 'canonico' è implicato: inutile starlo ad aspettare nei tre quarti d'ora di durata.The Orgone Box - My Reply (Quince Records, 2005)
Rick Corcoran, inglese di Sheffield, è un artista di culto dell'indie pop. Può ricordare, in questo, l'altro autarchico Jeremy Morris.
Ex chitarrista nei Sugarbush e in Green Tambourines, Rick guida sin dai tardi anni '80 il progetto beat-pop-syche The Orgone Box (..."a name he'd discovered by reading about an energy-harnessing device invented by psychoanalyst Wilhelm Reich" -Allmusic), lo fa completamente autogestito, armato di tastiere d'antan, chitarre 12 corde, incisori 4 track/ 8 track, con qualche sparuta assistenza altrui agli strumenti (batteria, tastiere Roland Mc 300) e alla produzione.
Gli album di The Orgone Box sono sempre acclamati dalla critica ma vengono inevitabilmente “riscoperti” attraverso ascolti postumi, ovvero anni dopo la loro incisione effettiva.
Se ad esempio si prende questa recente ristampa del disco “My Reply” ad opera dei giapponesi, appassionati e filologi pop Quince Records, si scopre essere riedizione del primo omonimo del 1996, con variazioni della sequenza in scaletta e.. “…with 6 bonus tracks. The original track order has been re-jiggled and the track "Noddyland" left off”.
Corcoran si sente perfettamente a proprio agio ad incidere tanto agli Abbey Road studios quanto nella propria mansione allestita ad uso e denominata "House in the Woods". Influenzato dal beat e dal pop psichedelico di album come "Revolver" dei Beatles ed "Evolution" degli Hollies (ma anche Alex Chilton e Big Star), questo cantante e polistrumentista prospetta nei suoi album una vera e propria rifioritura di quei generi, in chiave opaca di riproduzioni in bassa fedeltà, d'epoca Guided By Voices e Pavement.
Rick Corcoran possiede pertanto uno status di culto forzato: questo “Lennonized popsike” concepisce dischi come demo casalinghi, presiede il progetto Orgone Box da quindici anni incidendo e ibernando una grossa mole di brani che mano a mano confluisono, senza fretta, su album come “Things That Happened Then” -pubblicato dall'inglese Minus Zero nel 2002 e co-prodotto da un nume tutelare come Gus Dudgeon ma datato almeno dieci anni prima-, o sull'omonimo esordio del '96.
Quest'ultimo in particolare, sia per qualità intrinseche sia per difficoltà di distribuzione, possiede i crismi della leggenda.
Salutato da Forsyth, titolare di Minus Zero, come il "very best pop album to come out of England in the last 20 years", fu da lui ristampato nel 2001 e sinora occultamente venerato da tanti fans del pop-rock “underground”. Oggi è rititolato “My Reply” e rilanciato massivamente sul mercato sì da poterne tutti apprezzare gli incantesimi oltre tempo, il fascino nitido, spontaneo e immaginifico, il candore e la forza di seduzione impareggiabili.
Brani come la meravigliosa "Judy Over the Rainbow", realizzata ad Abbey Road, “Beat Generation”, “World Revolves”, “Disposable”, “In the Right Hands”, “Hello Central…”, "Find the One" o la title track possiedono il sapore del classico sempiterno, della hit mancata e tanto più ammaliante e fresca, accostandosi Corcoran sovente ad atmosfere dei dischi “Creation” di Alan McGee, finanche agli Oasis del primo album.
Altrove l'autore predilige atmosfere più velate, preservate, spirituali, come presiedendo un cenacolo.
“There'll Always Be Attitudes”, “Bubbles”, “Guilt Trip”, “Mirrorball 2”, spartiscono eccentrici segreti per pochi carbonari eletti; qui in particolare Rick mostra di conoscere per filo e per segno e di saper raccontare come pochi musicisti delle ultime generazioni, non certo meno di un Bob Schneider, l'essenza di quel pop mistico e “panetnico” anni '60 che ama.
Consiglio a chiunque di non perdere i dischi a nome The Orgone Box, “My Reply” in particolare. Potreste rinvenirvi tracce straordinarie di memoria e d'immortalità.
(autunno 2005)
ORPHEUS
Parafrasando Isaac Hayes, questo gruppo oltre a precorrere i tempi arrangia sopraffine canzoni pop proprie o altrui come fossero piccoli drammi. Sintomatici brani come Door Knob, o I've never seen love like this. Incantevoli arrangiamenti reminiscenti, intrecci vocali che avevamo ammirato nei contemporanei Simon & Garfunkel e Free Design; trucchi avveniristici (vedi Never in my life), spesso sinfonici ma mai eccessivi, prolissi o kitsch a senso unico. C'è sempre un'aria di curiosità refrigerante, predisposta per resisterne. A volte prevale il vaudeville, registro canoro giullaresco alla Bonzo Band (Borneo). A volte un senso di arcano, ambiguo, naif. Qualcosa che resiste allo svelamento (The dream) e che produce ballate ipnotizzate, sospese nel tempo (Mine's yours). Oppure semplice e diretto artigianato pop che sa dissimulare la propria complessità (She's not there, Congress alley, Just a little bit).
Se di "Roses" si presta attenzione al testo, gli anni sono petali di rosa spinti, plasmati dal flusso del vento. "not roses no rainbows no anything can make gardens in the sky". L'atmosfera è trasparente e delicata, sembra si sia trovata un'oasi neutra in cui poter ripercorrere, in echi di ricordo, tutte le età, nella frescura umida e soleggiata alla riva di una spiaggia selvatica.
La Rosa (per Emily) ha un valore segnico e simbolico più forte di altre cose o fiori. Lo ha quando è presente, ma ancora più quando è assente...."not a rose for Emily". Caducità e transitorio (il tempo) credo sia il messaggio.
La condizione di Emily non è che un' allegoria dell'uomo stesso.
OTTO SHOW - The Very Spit Of
Otto Show è indicato come “il misterioso terzo elemento di Montgolfier Brothers”. Nel 2004 via Annika rispuntano le registrazioni di Otto Smart in arte Otto Show (da non confondersi con la produzione dell'omonimo James), cantautore discreto e Drakeiano .
Richard Quigley, anima di Montgolfier Brothers e At Swim Two Birds nonché proprietario della Vespertine and Son, pubblica oggi il secondo album, che come il primo è raccolta giovanile di tenere melodie da camera.
La gloriosa, fantasmatica Vespertine and Son esce sporadicamente dalla propria oscurità. Recente è la presentazione di Otto Show (aka Otto Smart), silenzioso autore dalla provincia di Rochdale, Lancashire, a cui qualcosa Vespertine evidentemente deve, definendolo il 'terzo Montgolfier Brother'.
L'esordio omonimo di Smart, di un intimo acustico strepitoso e insolubile, fu congedato un anno fa da Annika.
Ora giunge “The Very Spit Of”, raccolta di incisioni ancora in 4 piste che la leggenda vuole provengano dagli stessi archivi dai remoti anni ottanta, da qualche cassetto della stanza del giovane Otto (il quale riserverebbe ancora circa cinque ore di incisioni..).
Egli si è servito, oltre alle fedeli chitarre, pianoforte e sorde percussioni, di strumenti atipici per la musica pop comunemente intesa quali glockenspiel, toy xylophone, alto saxophone, ukelele, flageolet; l'atmosfera che ricrea è straniante, assolutamente decontestualizzante, calibrata e suggestivamente spontanea. Si diffonde un sentimento di ignavia originato da un vago assottigliato malessere.
Una travolgente purezza. Fossero incisioni di questi anni, definiremmo Otto un volenteroso sensibile giovane musicista che va perfezionandosi sulle orme e i turbamenti di un Quigley, di Chuzzlewit o di River, e invece sorpresa: viene assai prima di essi. Rispuntando queste cassette dai primi anni ottanta, la prospettiva cambia alquanto.
La voce serena inconsolabile del nostro, dolcemente percossa in 'interiors' Wyattiani, non turba il veleggiare costante, armonioso e imperturbabile di strumenti a fiato e di corde tenui e gentili, come un'orchestrina jazzy o alternata, bossa. Il tutto appare come sorpreso e rimescolato con naturalezza da suoni atmosferici provenienti dalle finestre aperte della stanza del ragazzo.
Il fatto che maliziosamente dubitiamo della autenticità di questa storia (ma autentica è!), della lontana origine di questi nastri giova certo a favore della inscalfibile idilliaca aura di questa piccola preziosa musica.
Come se Devendra avesse esordito coi Wilde Flowers, o i Marine Girls occasionalmente di stanza a Canterbury.
Decisamente più vicina ai nudi germogli di Lawrence Hayward (dei Felt) nonché ad elegie riservate dell'odierno Gypsophile, che non ai protagonisti del pop anni ottanta: “The style is totally out of synch with the 80s”, così riporta il sito della distributrice radiokhartoum e non si può che attestare. Si potrebbe persino definire, con le dovute misure, un piccolo precursore del cantautorato più genericamente inerme e disilluso, della nostra attualità.
Appena più vivace e meno timido e acustico dell'eccellente esordio omonimo, ma altrettanto prezioso: “The Very Spit Of” nuovamente svela in Otto Smart il miglior compagno 'vintage' che ci potessimo augurare con cui attendere in trepidazione lo schiudersi primaverile. Oggi.
(febbraio 2006)