L

The La's - (Go! Discs, 1990)


The La's ovvero l'ambrosia, la volontà e lo smalto del "brit-pop". O semplicemente, il suo antidoto.
Ci si perdoni questo incipit di clamorosa ovvietà, ma davvero, tirando le somme, a freddo, la creatura occhiuta di Lee Mavers (e solo sua) ha distillato, all'alba dei '90, il sentimento, l'emozionalità, il "sugo" del pop inglese che (non) sarà.
I La's sono entrati nella leggenda dell'indiepop con un solo album. Stanti le ripulse del proprio artefice Mavers (che ne contestò duramente l'esito), è sintesi ineffabile di semplicità costitutiva e di invidiabile "giovinezza" espositiva, tale da irridere ogni sovrastruttura altrui in studio. Tanto più misteriosa, se si pensa condensata in un solo album di neppure quaranta minuti. Che più spocchiosi successori non arriveranno a concepire neppure in sogno. Se si dice: "There she goes"… segue sempre un lungo sospiro. Quale esempio fu, questa canzoncina allegorica e civetta, di sublime artigianato pop britannico!

"La's", quindici anni e non sentirli. Come i 20 di "Steve Mc Queen". Attraverso l'occhio-specchio in copertina, inconscio e corpo, lo scorrere del tempo è pura apparenza. Recentemente ristampato da Polydor, "The La's" è un formidabile invito al risparmio per tutti gli ermeneuti del brit-pop: compri uno e butti via cento.


LA DÜSSELDORF

Un palese filo rosso collega il nuovo progetto di Klaus Dinger con le precedenti pubblicazioni a nome Neu!. In special modo il terzo capitolo Neu 75, formalmente riflesso e contemplante, un corpo disteso, l'autopsia di quel corpo ansioso, tormentato e psicotico delle prime due isteriche prove del '72 e '73.
Ma per contenuti è anche un passo a lato, intenzione che privilegia elementi di un'elettro acustica calorosamente filantropa, languida, tiepida, come reminiscenza amniotica.

L'attitudine è ancora esaltata e spasmodica ma non definita e incisiva quanto in passato. L'intenzione è un'altra, privilegia l'incontro allo scontro, la comunione all'esilio, e si esprime con vocalismi catartici, liberatori a volte profetico- euforici e sostituiscono il connotativo mutismo di Neu!, e che escono fuori ansiosi e liberi, come segregati per lungo tempo.

Il secondo lavoro dei LAD, a nome Viva, altro lavoro importante e variamente citato e mitizzato in futuro, esaspera questa direzione: è uno stravagante visionario concept album ancora più in bilico tra kraut e new-wave costruito su propositi freak anarco allucinati, pacifisti e libertari.

 


LADYBUG TRANSISTOR

The Albemarle Sound (Marge, 1999)

Gary Olson è uno dei tanti genietti pop prodotti dal sottobosco indie statunitense. Cantante e polistrumentista autodidatta (chitarra, pianoforte, tromba) nonchè arrangiatore scrupoloso, Olson trasforma il proprio progetto solo in un collettivo artistico variamente popolato, cangevole ma costantemente determinato.
Dall'esordio del '95 “Malborough Farms” al recente omonimo, la saga di Ladybug Transistor si fa tra le più fascinose, complici due capolavori, assoluti landmark quali “Beverley Atonale” (1997) e “The Albemarle Sound” (1999).

Un percorso che stilisticamente appaia l'ensemble Elephant 6 di Bob Schneider. Olson camuffa un timbro vocale prossimo ad Edwyn Collins e a Lou Reed visitando vellutati sentieri psichedelici in timbri folkpop alla Sagittarius/Millennium/Zombies, come e prima dei talentuosi promiscui colleghi Essex Green. Forme spontaneamente riassimilate, sovente sconvolte da festose arie pagane, surreali stranezze di strumento, mai valicando “la discrezione della natura” (“The Great British Spring”, “Aleida's Theme”).

Vezzi hippie, decorativi naturalisti e antiquari abbacinanti ("Oriental Boulevard/Six Times”), aperture orchestrali d'ampio respiro, profuse sgargianti esibizioni corali che espandono trapassi allucinanti e nebbioline in tutto il paesaggio come in una trance beata (“Like a Summer Rain” da Jan & Dean e “The Swimmer” i due brani che fanno preferire, non senza riluttanza, quest'album al precedente).
E ancora, angeliche candide novelties senza peso ("Vale of Cashmere”), divertite didascalie in cui Olson si fa prendere a volte la mano, imbarazzando (“Oceans in the Hall”), ma anche incantando l'ascoltatore pellegrino con pietoso romanticismo ("The Automobile Song” e la morriconiana piece country "Cienfuegos”).
(marzo 2005)

 

LAURA NYRO - Nested (1978)

Nested è un ciclo di canzoni in chiave soul “sweet and bluesy”, agile compromesso tra il passato classico e il duttile presente della Nyro, che sapientemente somma le struggenti intimità in cui eccelle (“accompanying herself on the piano”) ad altri, possibili, condivisi chiarori (rosati) d’alba elettrica.
Ne emerge un’inedita e lussuosa armonia cromatica, che ricrea e ringiovanisce l’interprete; complesso frutto dello scrupolo dell’autrice e del supporto di musicisti come Felix Cavaliere alle tastiere o il bassista Will Lee, maestranze a seguito dedite a suoni d’avanguardia west coast pop e jazz-funky.
Sulla tecnica di lusso e sulla scaletta intrigante, suprema presiede la performance fiduciosa (“warm and mellow”) di Laura, a percorrere abissi.

Un’opera fresca e suggestiva, di difficile comparazione, tutta candore, eleganza e malinconia latente. L’idillio che preconizza l’arte di interpreti di valore come Valerie Carter e Rickie Lee Jones, la cui ristampa a lungo agognata ormai quasi insperata, è come un fulmine a ciel sereno oltretutto ben masterizzata. Che restituisce ai fans bramosi di questa creatura eletta, di questa fervida e riservata maliarda nuyorchese l’ennesimo compiuto canzoniere che per di più stupisce per la modernità dei suoni e l’assoluto accessibile (Fender Rhodes in più di un caso, groove funk), senza affatto rinunciare all’acuto struggente inossidabile, alla passionalità agitata e al delirante fluviale femminino, costanti indizi dell’arte Nyriana.
(Fabio R., 2009)

 

Larkin Grimm - Parplar (2008)

Larkin Grimm, interprete originaria di Memphis, Tennessee, giunge al terzo album e fatalmente incanta e affonda nell’aura insinuante e allucinatoria, outsider e naif di Young God Records di M. Gira.
Reduce da mille esperienze di vita, variamente romanzate tra estro girovago e formazione accademica, comunità e reclusione (la sua famiglia fu poi anche membra del culto The Holy Order of Mans) e forte oggi di una band d’accompagnamento che conta quindici elementi (“...of loose-limbed artists, bohemians, actors, perverts and degenerates…”), la Grimm sfoggia uno stile di scrittura eclettico e vivo e che forgia una forma-canzone intensa, impulsiva e primordiale, minimale e tormentata, quasi da pamphlet.

Attraverso questa musica ci si cala e ci s’abbandona in un’utopica, sibillina e grezza dreamland di folk astrale, dalle diverse anime. Un abisso scintillante e oscuro, scarno e lacerato, coi ritmi e le tensioni che sempre accolliamo all’etichetta di Michael Gira ("pigmalione" e co-produttore del disco).

In questa vivida fuga dal mondo in cui si è assieme osservati e osservatori, si apprende e ci si abitua a una libertà stilistica maliarda e dolorosa. Una fiamma brilla afflitta tra speranza e sofferenza, tra poesia e violenza, tra baruffe nevrotiche e bisogno di annullarsi nella folla. E’ tutto un proscenio di amore devoto, d'indole indifesa e istinto repulsivo; sfrenato tra inni religiosi, rituali e simbolismo (“Durge”, “Be My Host”, “Anger in Your Liver”, “How to Catch a Lizard”).

In “Parplar” il più naturale e isolato istinto acustico soul-blues georgiano, veste e talamo delle estrose e variopinte interpretazioni di Larkin, danza e sposa colorite accentuazioni strumentali trascendendo il puro gusto revival.
Gli impasti di strumenti più disparati (dalle corde ai fiati, agli archi–viola- banjo, fisarmoniche, harmonium...), le soggioganti contaminazioni tonali assieme all’estro calembour della protagonista, ritemprano la rigogliosa tradizione folk appalachiana e le influenze europee, fermi riferimenti del progetto Grimm-Gira.

Si allestiscono tensioni passionali in tinta teatrale e decadente (dall’excursus corale marziale “Ride That Cyclone”, passando per sincopi e sfumature poliritmiche georgiche in “My Justine” e “Fall On My Knees”, sino alla sciarada circense “Dominican Rum”) i cui ibridi stilistici, privati di pathos inopportuno o pastorizzato, infusi di travaglio, di  fragilità e lirismo malinconico, allertano ogni turbamento, drappeggiano ovunque di disagio esistenziale.

(02/12/2008)

 

LE MANS

Entresemana (1994)

A la hora del café
In quella luce chiarissima di pomeriggio di mezza estate egli era pronto a girare un disco di anonime cartelle. Quasi una condanna, quel rituale. Solo allora risvegliò in sé “Con Peru en la playa” degli iberici Le Mans: essa gli apparve subito la migliore pittura a catturare quell'istante in musica per sempre.

D’impeto fermò la ruota anzi scoloramento, e l'ep Entresemana iniziò allora a diffondersi, emanare il proprio luminoso intenso prodigio. Innalzandosi dipingeva pareti, la stanza, la strada, i palazzi, la città, il cielo.

recorrer
la ciudad
y después bordear
la playa

Peru va
siempre atrás
agarrándose fuerte a
mi espalda

Senza età e senza memoria, senza inizio né fine, egli parve in un’estasi, come ineffabile, malinconica fragile illustrazione amorosa mai vissuta, scene da un film di Rohmer senza i suoi "inferni leggeri di stagione".
Chitarra e viola di Ibon, la voce muliebre di Jone e percussioni infinitesimali atte a scandire per lancette nuove e a sospendere tutto il mondo senza scalfire.
Quasi perse i sensi in quel gorgo d’ambrosia, nel flusso di otto brani che sognano, vivendosi, ipotesi e varianti di perfezione assoluta della lirica indiepop.
E poi ancora…e poi ancora.

Intentar olvidar, ver su tabla entre las olas
Conducir, y volver por la noche de vuelta a casa
Ojalá él me quiera ver



Saudade (1996)
Aqui Vivià Yo (1999)


Ibon Errazkin e i suoi Le Mans sono di San Sebastiàn, Spagna. "Saudade", loro secondo album del '96, verte dal pop un po' approssimativo e inconcluso dell'omonimo Ep a un più ragionato e originalissimo percorso acustico ed elegiaco, crepuscolare, estremamente acuto e rigoroso.
La consapevolezza di uno stato disilluso ineludibile avvampa e avvolge ogni cosa. Liricamente sottile, questa musica possiede una tragicità bilanciata, fonda, struggente.

Tali caratteristiche di nudità, di calma bellezza e sublime apatia si rinnovano in "Aqui Vivià Yo" del ‘99, complesso e ineffabile epitaffio della band; lo stesso abbandono di se stessi a se stessi. Gli arpeggi delicati della chitarra folk di Errazkin colgono un senso intimo abbandonato e sperduto, a volte affidando alla delicata voce di Jone Gabarain di ammantare di poesia bianca, languida fragilità. E in questa prospettiva ogni realtà viene plagiata: fortuna e oblio, memoria e tempo presente. Si insinua un narcisismo candido e minimale. "Yin yang", "no vino estaba inferma" e "cancion de todo va mal" sono brani che mostrano la peculiarità di questo quintetto irripetibile; una natura ineffabile, un ardore nascosto, confinato e dibattuto in un perenne torm(i)ento.
(giugno 2002)

 

The Legendary Jim Ruiz Group- Oh Brother Where Art Thou? (1995, Minty Fresh)

Alla metà degli anni '90 spuntò da Minneapolis il compositore e chitarrista Jim Ruiz col suo gruppo, comprendente la moglie Stephanie e il fratello Chris. Si presentarono al pubblico con quell'appellativo legendary, non il primo della storia del rock, ma sempre un po' spudorato.

Più ironia che spocchia era sottesa, invero, ad ogni buon conto si conquisteranno la gloria sul campo. L'esordio di Ruiz è un album smisurato quanto il proprio titolo. In copertina inaugura una foto cimelio di famiglia, "Oh Brother…" ripercorre assolate boulevards e Aztec Camera, Bible, Orange Juice. Ma soprattutto Ruiz illumina discorrendo elementi di (pop) quotidiano con linguaggio eclettico e sapiente, sommando omaggi alla tradizione musicale americana folk, gospel, con misteriosa naiveté, un'intimità e un'arte poetica tra miraggio e memoria.

"Mij amsterdam", "sturmtrooper", "urban gentlemen", "every other Sunday", "oh porridge" sono tutti flash ammalianti, fatali nella memoria. Con le loro fluidità ritmiche e la loro solarità impareggiabile folgorano la pelle e idealmente, inorgogliscono padri putativi come Bacharach, Brian Wilson, Gary Clark.
Dopo ormai diversi anni di attesa, è il caso di chiederci: "Jim, where art thou…"
(2001, 2004)

 

THE LINGER EFFECT - Beautiful Machines

Beautiful Machines raccoglie versioni di brani inediti sul lato A, o tratti da CDr, Ep e cassette, alcune delle quali tristemente fuori stampa (si veda la copiosa Love Songs For Late Bloomers), più apparizioni in compilations (sul lato B).
The Linger Effect da Newfoundland, Canada, è titolare di un'intricata discografia per la quale si rimanda al sito personale.
Beautiful Machines irradia un pop-wave che ripesca dalla tradizione underground delle etichette Teenbeat e Cherry Red Records.
Melodie gentili in foggia di ballata ariosa di puntuale romanticismo, soave melanconia bissata dai vocalismi suadentemente ombrosi e destituiti del performer.
Una leggiadra policromia dream-psichedelica, rintocchi esotici e una preziosa aura di raffinatezza che mai s'erge a solennità.
Complice il senso amatoriale infuso, che costruisce i brani, tra Eggs e Unrest di Mark Robinson.
I fan di questi suoni non dovrebbero mancarne la conoscenza.

A volte guizzi di vitalità jangle-pop a base di chitarra e contorni di tastiera scuotono le acque ma senza mai assalire, conservando la delicata armonia compositiva a sovrintendere, e favorendo una suggestione sedativa per l'ascoltatore.
(agosto, 2004)


LOCH NESS MOUSE

Loch Ness Mouse si formano a Höland, Norvegia, nel 1992, dai fratelli Ole Johannes e Jørn O. Åleskjær.
Si aggiunge il batterista Emil Nikolaisen (nel 2003 viene rimpiazzato dalla sorella Hilma) e la tastierista Helga Trømborg da Skulerud, a un passo dalla città natale degli Åleskjær.
Dichiarano una passione per il pop statunitense anni settanta, seguono autori storici come Beach Boys, America, Todd Rundgren, Steely Dan ma anche contemporanei come l'ensemble Elaphant 6.
Tra le influenze più recenti do Loch Ness Mouse, c'è Friends dei Beach Boys e In an Airplane Over The Sea di Neutral Milk Hotel, ascolti che hanno modificato lo stile compositivo e il gusto di arrangiamento dei norvegesi, al punto da prolungare la gestazione della loro opera più recente, Key West, per assumere guest star da Gerbils, Neutral Milk Hotel, Of Montreal….

“11-22” (2005, Perfect Pop Records)

"11-22" (“Eleven-Twenty-two”) è il terzo album dei Loch Ness Mouse. E apporta subito una novità, un clamoroso cambiamento in fatto di forme armonico ritmiche per questi norvegesi di Höland. Le marcate predilezioni Wilsoniane che originarono “Key West” (2003), fanno ora strada a un più sofisticato, esaltante pop californiano anni settanta.
Sin dall'ingresso strumentale di “Yolanda” infatti (molto vicina ai climi dell'ultimo Steely Dan: assolo chitarra, synt, trumpet, charming voice..), a ospitarci è, sorpresa, un vellutato, impeccabile traslucido West coast pop modello fine 70's.

Lanciato in orbita da glorie come Stevie Wonder e Ned Doheny, il West coast-soul pop è sempre molto gradito ove, tornando, riesca ad attecchire oggi, palesandosi in tutti i crismi.
Sembrano materializzarsi dalla coda dei nostri occhi assolate boulevards californiane, schiere di vocalist soul d'eccezione ad accoglierci; strumenti e timbri dalle inclinazioni funk-pop, controcanti pregevoli, arrangiamenti di tutto punto e inossidabile leggerezza fusion a presidiare.
Pensate ad esempio ai primi Phoenix e Tahiti 80, alla loro recente vicenda: con questa formula hanno costruito la loro fortuna.

Certo resta un fatto inconsueto per l'indiepop contemporaneo, persino bizzarro se si pensa al domicilio di Loch Ness Mouse. Eppure su “11-22” tutto 'suona' perfetto e mite, con dinamismo straordinario e anche ambiguo e sofisticato; riprodotto come abitassero in California da una vita catapultandoci tra un big-bang soul-pop e potendone cogliere ogni sfumatura e colore.

Il gruppo norvegese aggiunge e rinnova di suo quel peculiare talento melodico che ha reso l'album “Key West” una piccola irrinunciabile autorità in fatto di pop dal nuovo millennio. Qui confeziona un album ancora estremamente piacevole, zeppo di potenziali hit.
Si prendano le deliziose “Swing 2 Lo” e la title track, o la godibilissima “A Name For 2002” quasi Austin Lace (ormai gruppo di culto anche in Italia), o “Yours to Begin With”, “Golden Trumpets, Silver Saxophones” coi loro contrappunti esemplari ed altre ancora non riferite, che si svelano in netta ostensione e accentuata scioltezza.
Un disco di puro entertainment, ma sapido e vitale da cima a fondo.
(gennaio, 2006)

Key West (2002, Perfect Pop Records)

Dico subito che Key West, il secondo lavoro di Loch Ness Mouse, è un incanto e si basa su gusto e talento melodico.
La solita corsa agli predecessori sarà breve, Key West non ricorda nulla in maniera insistita.
Beach Boys, a loro non si sfugge mai; dischi come Friends e Holland in particolare sono stati preziosi incontri per i ragazzi norvegesi, conquistandone purezza e amabilità comunicativa, facendo semplici temi complessi (ceylon sailor, hanna & the twins, in the city in the morning, marker numbers).
Fra i gruppi affini recenti, metteremmo i Call and Response.
Rispetto a questi, Loch Ness Mouse non hanno forse all'attivo un capolavoro del calibro di "california floating in space", ma si riscattano offrendoci un album di livello costante dal principio al termine.

Spunti e progressioni armoniche limpidissime, cori maschili e femminili angelici auriga, fantasie strumentali sfavillanti, fiati e suoni analogici che allestiscono un pittoresco sortilegio di eldorado pop che sa essere nostalgico e corrente assieme.
Una notevole varietà stilistica alterna con naturalezza toni confidenziali ad energici. Ed ecco sfilare altre perle, I just lost my heart to mary ann, jules verne, quay west, salty hair.
(maggio, 2003)

 

LOOSE FUR s-t (2002-2003)

Loose Fur é frutto di un incontro artistico di musicisti di provenienza differente: Jeff Tweedy, mentore dei Wilco, gruppo rock pop roots, e Jim O'Rourke e Glenn Kotche, mai paghi sperimentatori del suono.
Loose Fur si avvale di una libertà sempre più in voga nel rock evolutivo all'alba del nuovo millennio: una licenza di commistionare generi di continuo, trasversalmente, sentimentalmente, alla faccia della logica (di mercato), dipanare e manipolare suoni, alterare timbri, allestire atmosferiche aperture strumentali.
In questi casi l'impressione è quella di aver sempre più a che fare con dischi "esperimenti in corso" (musicalmente, ma anche graficamente parlando) e sempre meno con opere compiute.
Le melodie di base aprono verso polifonie, dissonanze e improvvisazioni, e poi con gesti sempre più minimi, vanno distendendosi in quiete e comunicano un senso di incompiuto e di aleatorio.
A favore di questo esordio diremmo che tra i protagonisti non c'è mai convivenza forzosa. Si conoscono da anni, lavorano costantemente su una progressiva consapevolezza atta a congiungere, a intendersi, a somigliarsi l'un l'altro mantenendo comunque la propria specificità. Un intrigo reciproco che sfocia spesso in una fluida, dinamica naturalezza, come dimostrano le trame armonico astratte in so long e chinese apple.
La musica produce un'alone trasognato, allucinato ed enigmatico che permane sullo sfondo. Appare una continua, rinnovata precarietà.
A non convincere completamente è il versante melodico, a volte retorico, stucchevole, non del tutto a fuoco, non certo aiutato dal canto monocorde.
Musicalmente stemperato, dunque. Un risultato molto simile agli ultimi Wilco, ma che solo a tratti entusiasma (la perfezione armonica di elegant transaction sembra esser sottratta da Halfway To a Threeway, oppure la superba chinese apple in chiusura), fa rimpiangere il capolavoro a cui avrebbe potuto portare.
In definitiva: se son rose fioriranno, le prossime sessioni in studio dei Loose Fur porteranno con buone probabilità un ottimo lavoro.
(gennaio, 2003)

 

Louis Philippe - Ivory Tower (1988)

Nel 1988 Louis Philippe (alias Philippe Auclair) era uno dei baroque pop-makers più speciali in circolazione, in grado di trovare in quattro e quattro otto, melodie di disarmante bellezza.
“Ivory Tower” pubblicato nell’autunno di quell’anno da él Records, nella sua edizione completa in CD è un ideale, torrenziale compendio dell’arte forbita e appassionata di questo artista, una sintesi d’autore dell’arte di Brian Wilson e dei Beatles, con un livello di maturità decisamente superiore alla semplice somma delle parti.

Armonico, personalissimo, erudito per via della raffinatezza degli arrangiamenti, della ricercatezza melodica (lieve e ricca assieme, mai pedante) e dei testi. Autore di alcune tra le canzoni più indimenticabili del repertorio pasticciere éL, su “Ivory Tower” Auclair sorprende affrancandosi dall’immagine di 'instant-hit maker' allestendo un mosaico di luci e colori vibrante e tormentato, una fortezza inaccessibile da contemplare ammirati. Un concept che aggiorna e reinventa il softpop anni ’60, smaterializza e ricompone in ponderata naturalezza esibendo un gusto carnevalesco sottilmente intellettuale senza prescindere l’accessibilità del genere.
La versione in Cd assomma l’edizione vinile originale più alcuni pezzi negati in origine e varianti strumentali.

L’autore delle indimenticabili “you mary you” e “Maria celesta” ci delizia qui con perle quali “night talk”, flash che riluce magia Steely Dan, l’irresistibile, vivace “smash hit wonder”; e ancora inquietudini in passo fluente e morbidi panneggi su “all stands still”, “every word meant goodbye”, “hot summer evenings”.
La wilsoniana “guess i’m dumb” che inaugura l’album, è destino a confondere magicamente identità ed eredità; venne eletta singolo della settimana da NME e Melody Maker

 


LUC FERRARI

Presque Rien

- Presque Rien N° 1 Ou Le Lever Du Jour Au Bord De La Mer" is still your most famous piece...
- That's true. I wonder why that is. (…) I wanted to be a radical as possible, and take it to the limit in terms of using natural sound, by not including any artificial, sophisticated sound at all.

Ancora oggi Presque Rien è un documento inestimabile il cui ascolto regala emozioni uniche. E pur nel proprio gesto invisibile, minimo e tacito, è un montaggio di straordinaria tensione ed eccitazione.
Quanti dischi escono così oggi, eppure qui per la prima volta il compositore “concreto” si annullava nell'aria, come un petalo, spia nell'atmosfera, registrando suoni che non potrebbero essere più comuni e quotidiani, montandoli poi artatamente, evolvendo e procedendo in studio, senza far accorgere.
Ne vien fuori sintesi-sintonia magistrale, quasi inconscia.
Si costruisce una progressione e una tensione impalpabili e influenti. Una sequela di “agenti”, di corpi naturali, ignari attanti presentati e poi combinati sino a farne amalgama.

Once I'd done "Presque Rien N° 1" I didn't need to be that radical anymore ”.

In seguito verranno per Luc Ferrari altri lavori superbi, morbosi e affascinanti, come Danses Organiques, Petite symphonie intuitive pour un paysage de printemps, À La Recherche Du Rythme Perdu , ma anche Presque Rien 2   (dal sottotitolo “Ainsi continue la nuit dans ma tête multiple”), controparte notturna alla prima, risvolto ancor più intima e confidenziale, forse più manipolata ma non meno smaniosa e 'tangibile'.
Bisbigli (del cronista, che qui gioca in metalinguaggio) e ambiente appaiono inghiottiti in un solenne spettro d'oscurità notturna, dando corpo a gioco di accanita, incrollabile inquietudine.

Danses Organiques (1971-73)

Uno dei padri della musique concrete mette a segno un' opera rivelatrice e foriera.
Voci muliebri aleggiano, si disperdono fantasmatiche, parvenze stranite, invasate. Una situazione affine a quella vissuta dai 'duelle' di Jacques Rivette, dai protagonisti di La maman et la putain di J. Eustache, o di qualche Rohmer che riaffiora dalla memoria... ad ogni modo, Francia.
Si ordisce un libero gioco senza regole su ritmi tribali, tastiere, sensitivi, trascendenti, a figurare una sorta di inquieta(nte) misteriosa iniziazione. Un'energia pregnante, filamentosa; successione di immagini e situazioni, mai percepite prima, esplorazioni oniriche, surreali, misteriose, profonde e oltre. Sconvolgenti.
Scoprire "quel tipo di piacere unico che nasce dalla relazione delle donne con altre donne" (T. Modleski)
(2002, 2004)

(2002, 2004)

 

Lunchbox

The Magic Of Sound (Magic Marker Records, 1998)


Il cantante e polistrumentista Tim Brown (chitarre, tastiere, batteria) anima ad Oakland, California, il gruppo Lunchbox, assieme a Donna McKean (al basso, voci e tastiere).
I due si servono di amici collaboratori agli strumenti: Shannon Handy (batteria), Alvis Catalano (chitarra), Patrick Main (organo Farfisa), Jeremy Goody (tromba).
La particolare miscela musicale del duo è stata definita ragionevolmente “good-mood pop”, si pensi a Holiday, Minders, Charming.

Lunchbox é l'ennesimo folletto da sottobosco “indiepop” statunitense, tra i tanti che nel tempo hanno pubblicato un paio d'album, e in cui può imbattersi soprattutto l'appassionato, il ricercatore di queste sonorità, in qualche retrobottega musicale.
Tornando a casa col bottino, egli sa bene che musica sarà: piacevole e trasparente; un lavoretto con cui cullarsi e dividere assieme qualche mezz'ora.
A volte invece si pesca l'asso.
Dai primissimi istanti il debutto dei Lunchbox disvela una superiore caratura melodica, e si resta ammaliati dalla sensibilità e dalla qualità di “The Magic Of Sound”, inarrivabile raccolta di armonie brillanti, azzurre e argentee, “everyday”, di cui munirsi per esempio a marzo inoltrato, quando una delicata e aromatica brezza primaverile fa i suoi timidi approcci nell'atmosfera.
Per il sottoscritto “lotion” é la più bella pop song mai concepita sotto la durata di un minuto.
Fatale malia, sublimazione in cui sciogliere affanni, fiammeggianti deliziose chitarrine, intrecci vocali in estasi e drumming frenetico, concentrati in questa nicchia. Piccolo, plausibile anticipo di Paradiso.
Una sorta di incrocio fra i primi Police, gli irresistibili Promise Ring di “Nothing Feels Good”, più certo sparso balsamo britpop ironico (Supergrass, Bis, Super Furry Animals).
“Just because” schernisce (con) Damon Albarn, mentre l'incedere frenetico e infettivo di “a special feeling”, “still life”, “wanna reach you” e “little things”, è della medesima pasta. Fra onnipresenti tastierine e organi, queste canzoni sono tutte variazioni di visioni raggianti che illuminano i sensi e anticipano gli umori dei più recenti spontanei Belle And Sebastian.

“The Magic Of Sound”, avvisiamo, é album indiepop in senso stretto, che dunque si fugge ma sa anche imprimersi dentro.
Ineguagliato per trasporto e fisiognomica, lode d'ogni espressione estroversa, euforica, ingenua.
La pensosa inquietudine di “so much about you” dagli istinti pop-syche Elephant 6, è invece un anticipo di ciò che riserverà il futuro a Lunchbox (nel successivo concept “Evolver”, ultima prova sino ad oggi), tastiere più fosche e opprimenti ad allestire un senso dark-pop non malvagio.
Ma solo “The Magic Of Sound” fa venir voglia di uscire in strada e mettersi a correre follemente, come in quel film di Leos Carax..
(marzo 2004)