Introducing Jandek
© Fabio Russo
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I Threw You Away
The Humility of Pain

Dopo tre album senza compromessi, di soli effetti e crooning recitante, Jandek torna ad accompagnarsi con la chitarra. Ma i tre a cappella sono trascorsi non senza lasciar tracce.
Qualcosa è cambiato, forse irreversibilmente, nella comunicativa. Quanto, sarà il tempo, ancora una volta a mostrarlo.

I Threw You Away e il successivo The Humility Of Pain, entrambi dello stesso anno 2002, sono dischi che si somigliano parecchio, a partire dalle copertine, che ritraggono angoli di strade costeggiate da fila di case sotto un cielo plumbeo.
S'è identificata l'origine degli scatti, grazie ad elementi in più nelle fotografie: il luogo è il Nord Europa, l'Irlanda. Le immagini (come anche quella del successivo The Place) non sono recenti.
Sono scatti desolati, depressi, marginali, che ben si accoppiano con lo stato d'animo mostrato dall'autore.

Sul piano musicale, in questi due album le corde della chitarra acustica non vengono pizzicate, ma strascicate, come a riprodurre naturalmente effetti, grappoli di riverberi, a cascata. Come a voler addossare alle corde il peso di un' esistenza, e del mondo intero.
In questo senso blues turned black, lungo brano d'apertura del primo dei due, è un capolavoro di angoscia, astrazione e camaleontismo, autentica rinascita. Qui Jandek rilegge, riplasma, legittima nuovamente la propria carriera.

L'album I Threw You Away è stato paragonato ad altri degli anni ottanta. Se medesimo è il potere di suggestione, assieme a The Humility Of Pain questo fa paio a sé; album esuli e alienati dal contesto. Si vedrà invece, quanto i successivi Corwood riprenderanno da questo uno-due.

La novità principale è nell'approccio del protagonista. Dopo i tre precedenti senza strumenti e una voce distorta da effetti, la sua interpretazione risulta abbassata (di un'ottava) il tono è più grave, possente, gemebondo, a volte anche ostile. Ma se prima ci s'identificava col performer, veicolo d'espressione, specchio di inquietudini, di emozioni, in questo paio più che spartire "simpatia" si resta ad assistere sgomenti e inquieti.
L'interprete è perennemente devastato. In una sorta di delirio libero, istrionico e smembrato, l'autore simula lo stato d'ebbrezza, un piagnisteo (Blues turned black, work of art, frozen beauty...).
Per tutta la durata degli album, l'interprete si lancia in guaiti che concludono in acuti strascicati. Si fa guidare dalla chitarra acustica e da qualche effetto brumoso. Di rado, e sul solo I Threw You Away, spunta un'armonica cauterizzante (sulla title track ad es.).
Monotonia, paesaggi flessi e cavi, ancora più estrapolati da struttura ed armonia.

Un collasso oltre il collasso costituente di sé l'opera jandekkiana. Uno strazio, un patimento vissuto dall'artefice che percepiamo necessario per la purificazione del suo spirito. Come fece Edipo accecandosi. Questi album proseguono la gelida, artefatta astrazione dei precedenti esprimendo pura alienazione interiore, rovesciata addosso, nelle orecchie, come hanno scritto, "in your face-suffering". Una realtà suggestiva, esasperata, che brancola; un cul-de-sac per ogni volontà, intenzione, proscenio.

The Place

Concept sullo spaesamento, sul disorientamento che il protagonista sta vivendo. Esplicitano le immagini in altro luogo dei recenti Lp.
La scena stavolta è in Inghilterra, Chester. Il nostro è catapultato in un altrove irriconoscibile, del quale stenta a raccapezzarsi, le cui oniriche e lugubri sembianze si confondono con la realtà.
Gli spettrali manichini in tinta rossa (a richiamare un senso di gelo più caldo), in vetrina nell'immagine di copertina, appaiono gli unici minacciosi esseri/parvenze di questo tetro parto della mente.
The Place, luogo fatale di perdita, apolide, non possedibile tantomeno padroneggiabile, ancora e sempre necessario.
L'autore controlla la propria temperatura emotiva, smorza ogni atto plateale scandendo senza sbavature e trascinamenti, e recupera un po' del fascino delle opere migliori delle scorse decadi.
I "periodi" sono esposti dal nostro durante l'affievolirsi dell'eco delle forme sonore, ancora un breve periodo di silenzio e nuovamente, una nuova detonazione. Il risultato è affascinante e inquietante.

Una vertigine di tenebra è ordita dal suono, stavolta elettrico. Le sterzate di chitarra elettrica scavano più in profondità, con rari e minimi effetti eco aggiunti. Notevole in particolare, il risultato del duello tra armonica e chitarra sulla conclusiva the stumble.Cascate di note, fraseggi circolari di chitarra si alternano a consueti pensieri affanni detti con ansia ma con più ambiguità ed ermetismo.
Cinque tracce strettamente legate nel tema, simili anche nei titoli, ugualmente prive di melodia e struttura. Riff che grondano e precipitano, accompagnano alternandosi all'esposizione del racconto.

The Gone Wait

A soli quattro mesi di distanza dal precedente The Place, esce un nuovo album, The Gone Wait, per voce e basso.
Dopo il pianoforte classico che guidava la title track di The Beginning (1999), ecco dunque un altro strumento per una nuova soluzione espressiva (pur non altrettanto ardita), con cui l'autore esplora e modula nuove ipotesi di suono, rimettendosi in gioco per l'ennesima volta.


A seguito dei tre inesplicabili album "a cappella" tra 2000 e 2001, si può a ragione pensare a una coerenza, alla continuità di un nuovo percorso che, a partire dai sofferti I Threw You Away e The Humility of Pain del 2002 prosegue nel 2003 nella stessa direzione. Jandek rinnova il senso istrione con una performance dal tono grave, alterato (se la confrontiamo con altri lavori recenti), prosciugando gradualmente gli accenti ma conservando simili raggelanti atmosfere strumentali.

Dunque nuovamente, inquietudine ostilità e disorientamento dominano la scena da cima a fondo.
The Gone Wait
ha una copertina gemella a The Place, l'album precedente di cui è coda, appendice. Si punta ancora a un tipo di shock, i colori caldi accesi in contrasto con la glacialità delle immagini e dei suoni (voce e strumento); il basso "caronte" segna e imprime una narrazione di modello tragico, sempre tra parossismo e deliquio. I went to hell, I was a king e I found the right chance sono i brani più significativi in questo senso.
Assieme a I Threw You Away, questo è il disco più intrigante del periodo in corso.

 

Shadow Of Leaves è il primo disco che a mio avviso evidenzia, oltre al solito stile ormai segno, un'inerzia contenutistica, un sintomatico ripiego tormentoso e critico in questi anni sulla produzione in studio del texano.
Jandek s'affida nuovamente al suono del basso per indagare e sondare nuovamente le proprie viscere. Nonostante la figura del basso costituisca ancora una novità in questa produzione, Shadow Of Leaves può definirsi sostanzialmente simile al canceroso The Gone Wait, (ma più piano e meno torbido), già di per sé consanguineo del chitarristico The Place.
Dunque una trilogia possibile, trilogia paranoica, dell'oblio amnesico, inerme rifugio in una "zona morta".
Shadow Of Leaves comprende tre brani di improvvisazione costante, una forma nervosa, sbavata e distorta, vivace e penetrante. La title track d'apertura sfiora la mezz'ora di durata. La narrazione di J. è monotona, compassata e a volte priva di forze, beffarda e sconsolata, riversa su toni allarmati e disagevoli. Il suono corposo e scuro del basso "coscienza" propaggine esterna, contrassegna il corso coi caratteristici cavernosi "ritorni". Rimbalzi di note come figure d'ombre addensate. Itemi sono inquietanti, foschi, imprecisati, vaghi. Costante il riferimento a un you, presenza fantasmatica (sdoppiamento di sé?), indefinita e asessuata, già massiva su The Gone Wait.
L'insinuante copertina silvestre torna a mostrare l'uomo. In questa occasione sfoggia un sorriso non privo d'ambiguità. Addossato a un albero, haircut di sempre, abito nero elegante ma fuori misura, come in Somebody In The Snow.
Per la prima volta si sono notati segni di artificio in una cover di Jandek: qualcuno (lui stesso?) è intervenuto infoltendo "artificialmente" la vegetazione boschiva (alcuni elementi risulterebbero duplicati di altri!). Un nuovo adattamento ai tempi, dopo le recenti ristampe del catalogo in digitale…


The End of It All

Glasgow Sunday

What a difference a day makes, tutto in una notte, quella del 17 Ottobre 2004, in Scozia, al festival Instal04 tenuto a Glasgow: la prima performance in pubblico di Jandek.

Il nostro uomo, presentatosi come "a Representative of Corwood Industries” ha sfoggiato un completo nero e un cappello nero. Ha cantato e suonato la chitarra elettrica, per circa un'ora, assieme a Richard Youngs al basso e Alexander Neilson alla batteria.
L'esibizione dal vivo ha diviso i fan, per poi ricompattarli, dopo averne apprezzato il materiale: per chi non c'era, è circolata via internet in 24 ore una registrazione 'bootleg' di ottima qualità, poi confluita, nell'aprile 2005, nella Corwood 0779 Glasgow Sunday.

L'ennesimo coup de theatre del texano. Oltre ad aver mostrato assoluta disinvoltura ad esibirsi dinnanzi al pubblico (per poi dileguarsi nella notte, dopo aver lasciato un paio di soddisfatte dichiarazioni ai colleghi di palco), il musicista è apparso, direttamente e per la prima volta, con un corpo e un volto, quello che più si sospettava, ritratto dalle copertine, ovviamente più invecchiato. Si spezza così uno dei tabù incrollabili dell'artista –chi è? chi suona e chi canta?- e s'è potuto identificare una volta per tutte l'artefice del progetto Jandek.

Dal vivo, Mr.Corwood ha evocato un paio d'immagini cinematografiche, quella del “Reverendo” di “Night of the Hunter” e il presentatore profeta delirante di “Network”(1976, Sidney Lumet).

L'esibizione, non priva di un paio di momenti di interazione col pubblico, ha riprodotto in forme e contenuti i recenti lavori in studio. L'insieme, sempre fantomatico e oscuro è decisamente vivo e pulsante, immerso nel clima "live", si riappopria dello spirito degli album elettrici dell'artista, come Telegraph Melts e The Living End.

Una esibizione difficile da dimenticare. Da not even water a the other side; otto brani inediti di moaning-guaiti elettro-noise-blues; liriche fantomatiche, ermetiche e inquiete, e i brancolamenti-clangori di chitarra, marchi di fabbrica del nuovo corso.
Jandek is the blues”, è la condivisibile dichiarazione di Keiji Haino. In pochi, oggi, suonano da sempre così viscerali.
I contributi strumentali di Youngs e Neilson, (artefici nel 2004 delle ottime pieces etno-kraut-deliche "Ourselves" e "Beating Stars" dai vivi connotati Agitation Free), sono da intendersi del tutto improvvisati. Assieme al texano i due hanno allestito e cesellato fosche e suggestive jam dalle parvenze “post”, non dissimili dall'album in studio di cui sopra.
Un magma d'altronde assai plasmabile, ma anche istintivamente affine ai neozelandesi Thela e a certi Sonic Youth.
Sulle note di copertina di Glasgow Sunday nessun riferimento a nessuno, ma non è una novità. Lo stesso Smith non si identifica col progetto Jandek, definendosi piuttosto "rappresentante".

The Door Behind
A Kingdom He Likes
Raining Down Diamonds
Khartoum
Khartoum Variations

Newcastle Sunday

Primo doppio album nella discografia di Jandek: “RECORDED LIVE: THE SAGE GATESHEAD ENGLAND MAY 22, 2005.”, informa il retro-cd. Nessuna menzione, invece, per gli attanti, chi e come. Ma è norma.
In copertina troneggia plumbea una facciata del Castello di Dover (Kent), il disco è il resoconto del concerto realizzato dal musicista texano –nuovamente ‘in black’, voce e chitarra elettrica- al Sage Gateshead (presso Newcastle) nel maggio 2005 assieme con Richard Youngs al basso e Alexander Neilson alla batteria.
La stessa line-up, si noterà, del primo concerto inglese di Smith effettuato nell’ottobre dell’anno prima, a Glasgow.
Di questo concerto come di molti dei successivi, è circolato un bootleg di scarsa fedeltà acustica, il cui recupero può però servire a indagare notevoli differenze di missaggio operate in studio da Corwood: una produzione che avvolge in una performance limpida e magmatica, più un burbling d’effetto ‘smussante’ non dissimile da alcune ristampe del repertorio più remoto.
Da come appare l’insieme non può non suscitare favori ed entusiasmo, è ancor più immersivo e magnetico del primo Glasgow Sunday: un flusso che sgomenta e paralizza, incanta l’ascoltatore trascinandolo in medias res, nell’evento.
Lo Jandek dal vivo, quello elettrico di questi primi concerti, attua una particolare chimica tra diverse forme d’improvvisazione; non difformi tra loro, tutto è infatti indeterminazione, ma, da principio, sconnesse. C’è lo stile inquietante delle prove recenti del cantautore, guaiti blues e ammassi di trame chitarristiche, in strati come fasci di nervi e neuroni combusti, abbinate a una cupa psichedelia spaziale (il basso di Youngs) e singulti di ritmo convulso, schizoide (il drumming di Neilson).
Questo insieme instabile nel dipanarsi si organicizza, esplorando oscurità si rannuvola in fumi densi e incandescenti, fluiti ed esalati in quest’ora e mezzo.
Tutti pezzi inediti, da Depression a Other End of Town, Mangled and Dead, Some Other Name, Shadow of the Clouds: l’enigma dell’uomo, l’asciutto emblematico pessimismo radicale del Jandek ‘recent period’ si presta trasmigrando e detonando in un impetuoso trip allucinogeno, che è antinomia di imploso-esploso, di anima spirito e corpo strumento, grottesco e spirituale.


What Else Does the Time Mean


Glasgow Monday

Ottenuto da una performance di 90’ dal vivo il 23 maggio 2005 al “Center For Contemporary Arts Glasgow Scotland”, Glasgow Monday aka “The Cell” ha alimentato, sino alla propria pubblicazione avvenuta a luglio 2006, ogni sorta di ipotesi, chimere, leggende.
Numerose testimonianze dei presenti riferivano con entusiasmo o stupore qualcosa di nuovo e inaudito riguardo all’opus jandekiano e disco alla mano così è stato. Non solo: è stato assoluta antitesi (apollinea) al concerto del giorno prima (dionisiaco), Newcastle-Gateshead.

"The Cell", contenuta in questo doppio dal vivo un lunedì sera a Glasgow, è una suite pianistica di nove tappe (più intro strumentale), di pacata impronta classicista, sapientemente ariosa e spirituale. Come resoconto esistenziale inesorabile, trance fatata, radiografia sofferta ove l’autore interpreta ancora una volta un sé, accomiatato come non mai; una scansione mite e inerte senza cuspidi o lapilli.
Le ulcere di I Threw You Away si rovesciano in uno stato di naturalità neutra, di ammansita estrinsecazione docile e desolata. Non c’è più sgomento, panico, terrore: le opere di Jandek raccontavano un’interminabile caduta, The Cell ci parla ora, senza dolore, dalla superficie del fondo inerte, nominando l’infinitesimale di sé.
Jandek produce un gesto controllato e fluido, senza soluzione; affine al casuale-imitativo di John Cage per Satie, già proprio di certo Basinski e di Chauveau. Il suo piano si staglia imponente sullo sfondo ed è perfettamente accordato. J. genera eventualmente linee melodiche quiete e minimali (pattern già abbozzato sui 20’ di The Beginning, 1999), cui associa un etereo angelico soliloquio modulato in punta di voce, quantomai equilibrato e razionale (si pensi al crooning dei Lambchop più quieti, si è detto), controparte tra le più intense mai offerte da Corwood, che riesplora la magia e il lieve deliquio di Only Lover e delle “Moon So Blue” giovanili.
Il pubblico come bloccato al cospetto implode e sprofonda in un silenzio che accentua il vigore e drammaticità della performance. “For me it lent a great tension to the silent passages between the playing, where I would sit as still as possible, trying to be totally silent, almost not even breathing. This tension was released each time when Jandek started playing again”. (B. Krakow)
“(Jandek) without his hat, and without a guitar, he was less of a costumed figure, more simply Himself” (S.Tisue)…è magnificamente assistito, in intensità e discrezione, sortilegio e vaga inquietudine, da Richard Youngs al contrabbasso ed Alex Neilson alle prese con numerose percussioni, piatti vibrati, ad allestire un background di pulviscolare “feedback type noise”. I due sono ormai complici, tessitori sempre più opportuni e irrinunciabili per Corwood. La sigla, l’espressione “Jandek” appartiene e include anche loro di diritto, come fu negli anni '80 per Eddie, Nancy ecc.

Ogni sorta di speculazione, si diceva, è stata mossa sul tema portante di The Cell ed ha accompagnato quest’anno d’attesa: il leit motiv di questo solenne e incantato concept sarebbe la malattia cronica/terminale in cui verserebbe l’artista, il cui fisico sottile, ossuto, alimenterebbe (osservazione peraltro smentita da numerose altre iniziative discografiche di Corwood ed esibizioni dal vivo a venire) e dalle liriche, definite a sproposito ‘inusuali’ per Jandek (se si leggessero ad es. quelle di Worthless Recluse, si noterebbero non poche affinità), che offrirebbero una metafora alquanto esplicita: cella come letto d'ospedale, o tomba (“A Cell - solitary/ Well doctor, the wound has healed”).

Austin Sunday

Il doppio CD “Austin Sunday” racconta la quarta esibizione live di Jandek tenutasi il 28 agosto del 2005 nella città del natio suolo texano: la prima in assoluto oltreoceano. Una delle preferibili, se non la migliore in assoluto, fra le pubblicate: dopo la meraviglia inconsulta, il sovrannaturale del pianoforte classico della sera di lunedì a Glasgow, la magia si ripete rinnovando quello stile narrativo che fa del nostro uomo “un unicum”. Levandosi in corde elettriche, in una voce flebile, arida e limpida e in elegie del ripudio e sul ripudio, esprimono e stillano direttamente da pure radici blues.

Come sempre in Jandek sul piano strumentale la creazione corrisponde all’esecuzione: incanta l’affinità tra i musicisti, ben due batterie, Nick Hennies e Chris Cogburn e Juan Garcia al basso, intuiscono e assecondano in assoluta, diluita saggezza e ponderata levità lo scorrere e il contagiare di questo flusso antico, ingombrante, tanto più grande di loro. Il diffondere, sussurrandosi, diabolico del secolare spirito tragico, errante, ramingo, doloroso.

Ancora una volta dunque, l’autoaffermazione è nell’autodistruzione. Unico sollievo possibile da ogni cosa è il rifugio, secondo un principio di similitudine farmaceutico, nel dolore stesso: battersi con l’insoddisfazione e l’insoffribile, aprire le proprie ferite, far parlare i propri spettri. La cura è in questa non-cura, assaltando ciò cui l’istinto di sopravvivenza muove e favorisce, nutrendosi nel morbo cronico e nella perenne inquietudine.

Nella viva teatralità e nella sovraesposizione della dimensione pubblica, il dis/fatto privato risalta, sporge senza smarrire il proprio individuale misurato nucleo pudico (ideale estensione dei casalinghi solipsismi di Glad To Get Away e Khartoum), facendosi coscienza collettiva e accentuando mistero e profonda inquietudine.
Come un corifeo J. fa partecipare ed esprimere nel dialogo solitudine e relatività, in visioni sensitive perturbanti e claustrofobiche tanto quanto la magnetica scatola di eco che sovente accompagna le prove di studio.



The Ruins of Adventure


Manhattan Tuesday

Il 6 Settembre 2005 a Manhattan ha avuto luogo il quinto ‘live’ di Jandek.
Pubblicato in doppio CD nell’aprile 2007 come “Manhattan Tuesday”, esso è il primo di due giorni di concerti realizzati dal musicista texano nello stesso mese a New York.
Dopo il quieto, stregato pallore di “Glasgow Sunday”, il nostro è nuovamente alle prese con una tastiera, un sintetizzatore “Korg”, che rievoca taluni toni e timbriche familiari ai cultori del progressive sinfonico.
Da “The Cell” prosegue l’intento di una liberazione, di un riscatto del corpo dall’insostenibile gravezza del mondo. È il tema di un nuovo doppio, il cui sottotitolo recita: “Afternoon of Insensitivity”.
“Manhattan Tuesday” è una torbida abulica rivelazione per lunghe tessiture strumentali, ambientata in un immaginario asfittico pomeriggio ove farsi agire, investire dagli eventi, e rovistare, meditare.
Il crooning porge e analizza sensazioni, perlustra, come da un’alcova protetta, per monologhi interiori, stati di sfiducia e diffidenza, coscienze di inadeguatezza. Da qui l’insensitivity cui fa riferimento il sottotitolo dell’opera: una confessata ammissione, la mancanza di adesione dei propri sensi al mondo, in uno stato in cui sostegno e partecipazione vengono necessariamente meno.
Si diceva dell’organo: ovviamente non è una performance da virtuoso, lo strumento è come mezzo e non fine: l’uso è calibrato, esatta controparte alla voce, insomma. Ogni intervento estremamente misurato, concentrato in bave di suono che lastricano un instabile selciato scosceso, terreno per la transitoria comunicazione orale.
Si prepara una strana e inedita combinazione tra il caleidoscopio sonoro offerto dagli incroci organo/chitarra elettrica trattata e l’apatia, quasi un “flusso di coscienza”, della comunicativa. Costantemente affiancata dai suoni ‘effettati’ di Loren Mazzacane Connors (altro solitario vibrante artista uscito negli ultimi anni dall’isolamento), a esaltare un senso spaziale, uno spazio trascendente, mistico, soprannaturale, che fa assumere una valenza precipua, persino oggettiva alla manifestazione dell’animo.
Matt Heyner (double bass), e Chris Corsano (batteria) completano la formazione di questa serata di tarda estate a Manhattan.

Ritroviamo una voce jandekiana simile a volte al periodo giovanile; altrove invece si affacciano le cuspidi e gli squilibri più comuni delle opere del nuovo millennio.
Oppure, il texano sa persino affrancarsi completamente dal passato, mostrandosi sorprendentemente, fisiologicamente equilibrato, diremmo assolto, sollevato, sottratto definitivamente dallo stato di vittima, non più prigioniero dei propri sensi.


Brooklyn Wednesday

Primo quadruplo della discografia, resoconto del torrenziale concerto in due distinti set da 75 minuti l’uno, tenutosi il mercoledì 7 settembre 2005 a Brooklyn, New York.
Jandek è alla chitarra elettrica assieme a Matt Heyner dei residenti No-Neck Blues Band/NNCK al contrabbasso e al virtuoso, giovane percussionista free-improv, Chris Corsano: stessa la session-line del giorno prima a Manhattan.
Nella seconda parte dell’esibizione il texano passa a una peculiare chitarra ‘fretless’ senza tasti (modello Multiac Nylon Fretless) che utilizzerà anche in tutto il seguente concerto, a Glasgow.
Sul piano musicale, questo show s’approssima, tra i già editi, sia al Newcastle che all’Austin: simili gli intrecci di chitarra elettrica col double bass di Heyner (che sostituisce l’omologo Richard Youngs in terra d’Albione), per un magma strumentale teso e convulso, alternato a momenti più riservati e calibrati che offriva in particolare la prima incursione in terra statunitense; luoghi la cui programmatica e desolata inquietudine è ben assecondata dalle due controparti del texano.
I due compari in sinergia leggono e assistono le intenzioni tra difformi cadenze, singulti e black-out (destroy the day, city punding down, just enough), porgendo a Jandek lo scenario più propizio al proprio strazio, l’esorcismo a quell’angoscia nel teatro della performance, in un fuoco vivo condiviso.

Come maremoti, i brani si stendono in cullante psichedelia oltre i dieci minuti e nelle proprie improvvisazioni, oniriche, con conflitto o senza clamore, allargano visuali (prammatica l’apertura del live, put me there), come un lungo orizzonte ‘stream’, un flusso ininterrotto si fa via via dalla pratica della materia. Tutto un mondo interiore erompe, si libra e si consuma tra lucidità disincantata e trascendente escapismo ove lo spettatore catalizzato si affida, si fa lusingare e giace, come morto a galla. La narrazione puntualmente ‘low’ e ‘groggy’ afferma inconfondibile un mood plumbeo di desolazione e meraviglia che è anelito di libertà, esalazione dai limiti del corpo, sospeso sui margini dell’abisso, in un penetrante inquieto respiro d’infinito.

The Myth of Blue Icicles


Glasgow Friday



 

Glasgow Sunday 2005

Un concerto inciso una sera dell’ottobre 2005 a Glasgow; la seconda volta di Jandek per Instal Festival, la stessa domenica di un anno prima in cui si mostrò al mondo per la prima volta dal vivo.
Si tratta del live più breve diretto dell’artista texano, e tra i più originali: due le tracce, venticinque minuti l’una; profonde le differenze musicali tra esse.. quasi in completamento antitetico.
Così riassume il sito di Seth Tisue: "Set 1: harmonica (with speaking and singing) + Loren Connors (electric guitar); set 2: drums (no vocals), Heather Leigh Murray (lap steel guitar, wordless vocals), Alan Licht (electric guitar).

A voler trovare similitudini, per quanto forzate, con l’opus Jandekiano, si può pensare a Lost Cause (1992): due facciate effettivamente opposte tra loro, la prima delle quali impalpabilmente eseguita, sentimentalmente afflitta e tormentata, che quasi dissolve il proprio artefice nell’atmosfera, nel vacuo rappreso di una cantina. La seconda invece, un delirio brado e psicotico, orgiastico e dissonante.
“Glasgow Sunday 2005” parte con “the grassy knoll”, Jandek all’armonica sfoggia un crooning straziato e ammansito, quasi una resa dolce e mesta, irreversibile. Loren Connors alla chitarra elettrica rimpiazza ineccepibile il chitarrista senza nome dei dischi anni ’80; rifiorisce il blues elegiaco e isolato di lavori come Blue Corpse e Living in a Moon so Blue.. quel senso che ancora ambiremmo da altri episodi in studio.
“Tribal ether”, a seguire, è rovescio della medaglia: baccanale catartico a saturare il campo e lo spazio; quasi un’altra “Electric End” ma decisamente più a fuoco, dall’atmosfera orgiastica e bollente, un incendiario rituale collettivo. Medesimo a ogni modo, lo spiazzamento, il potere irretente.

London Tuesday
Skirting The Edge
Hasselt Saturday
Helsinki Saturday
Not Hunting For Meaning
Portland Thursday


(2003 - 2009, Fabio Russo)

con asterisco (*) le opere in vinile ristampate in CD dal 1999 al 2003. Tutte da Corwood.

Ready for the House (1978) * Six and Six (1981) * Later On (1981) * Chair Beside a Window (1982) * Living in a Moon So Blue (1982) * Staring at the Cellophane (1982) * Your Turn to Fall (1983) * The Rocks Crumble (1983) * Interstellar Discussion (1984) * Nine-Thirty (1985) * Foreign Keys (1985) * Telegraph Melts (1986) * Follow Your Footsteps (1986) * Modern Dances (1987) * Blue Corpse (1987) * You Walk Alone (1988) * On the Way (1988) * The Living End (1989) * Somebody in the Snow (1990) * One Foot in the North (1991) * Lost Cause (1992)* Twelfth Apostle (1993)* Graven Image (1994)* Glad to Get Away (1994) White Box Requiem (1996) I Woke Up (1997) New Town (1998) The Beginning (1999) Put My Dream on This Planet (2000) This Narrow Road (2001) Worthless Recluse (2001) I Threw You Away (2002) The Humility of Pain (2002) The Place (2003), The Gone Wait (2003), Shadow Of Leaves (2004), The End Of It All (2004), The Door Behind (2004), A Kingdom He Likes (2004), When I Took That Train (2005), Glasgow Sunday (CD 2005, DVD 2006), Raining Down Diamonds (2005), Khartoum (2005), Khartoum Variations (2006), Newcastle Sunday (2006), What Else Does the Time Mean (2006), Glasgow Monday - The Cell (2006), Austin Sunday (2006), The Ruins Of Adventure (2006), Manhattan Tuesday (2007), Brooklyn Wednesday (2007), The Myth of Blue Icicles (2008), Glasgow Friday (2008), Glasgow Sunday 2005 (2008), London Tuesday (2008), Skirting The Edge (2008), Hasselt Saturday (2009), Helsinki Saturday (2009), Not Hunting For Meaning (2009), Portland Thursday (2009)

 



Note

Un ascolto attento potrà rivelare non poche differenze dei suoni dei brani su Cd coi medesimi apparsi su vinile all'epoca della prima apparizione sul mercato. Nel passaggio dal formato vinile a Compact Disc, Jandek è infatti intervenuto riducendo rumori (voci e suoni) e modificando variamente (e discutibilmente, forse) sbavature varie.

Nel 2005 gli album Six And Six (0740, 1981) e Chair Beside A Window (0742, 1982), Ready for the House (0739, 1978) e Blue Corpse (1987), sono stati, nell'ordine, remasterizzati. Nel 2006 è toccato ad Interstellar Discussion (1984). I precedenti release in CD degli stessi (editi nel 2000-2001), come pure i vinili storici dell'intero catalogo, sono fuori mercato e dichiarati "obsoleti". Quando i vinili scompariranno dal mercato andrà via con essi una cospicua fetta di storia dell'artista targato Corwood.

Si ringrazia Seth Tisue per l'ispirazione e per la preziosa collaborazione.