Hall & Oates
'72 / '79

discografia anni settanta

 

 

 

 

 

 


 

Nei tardi anni Sessanta, Daryl Hall e John Oates sono due amici che frequentano la Temple University di Philadelphia. Daryl, l’indigeno, è già leader della formazione Gulliver (s/t, 1970, Elektra) ma ha inciso anche come "Daryl Hall with The Cellar Door". La parallela attività di session-man e di vocalist per gruppi soul di punta come Delfonics e Stylistics, gioverà enormemente alla sua affermazione come autore. John nasce a New York, ma da piccolo si trasferisce con la famiglia in Pennsylvania. E’ un gran collezionista di dischi rhythm and blues, se la cava con la chitarra, al punto che nel 1966 la radio del college passa già un suo singolo, “I Need Your Love”, che gli darà la spinta per fare della musica la sua professione. Philadelphia è già la città in cui suonano sotto traccia quelli che saranno i protagonisti del philly-soul nel decennio successivo, così non è strano che il duo rimanga molto suggestionato dall'aura black che permea quel luogo.

Nel 1972 Hall e Oates firmano per la label Atlantic e pubblicano l'esordio Whole Oats, titolo che gioca con l'assonanza dei loro nomi (un'utile antologia pre-esordio è Past Times Behind 1969-72).
Di quest'album acerbo ma promettente si accorgono in pochi, dapprima. Eppure esso timidamente rivela, versante soul-folk, il potenziale songwriting melodico che renderà celebre il duo nel volgere di qualche stagione.

I germi che porteranno al seguente Abandoned Luncheonette del '73 sono ormai piantati.
Whole Oats può intanto apprezzarsi come antipasto, soprattutto nei novelli intrecci vocali sullo stile Everly Brothers da parte di due musicisti bianchi che emulano i neri e nelle prime uncinanti melodie di Daryl Hall - “Georgie”, “Fall In Philadelphia”, “Goodnight and Goodmorning” - ineccepibilmente prodotte dal grande Arif Mardin (discografico e produttore che lavorò con tanti artisti, tra cui Aretha Franklin, Donny Hathaway, Dusty Springfield, Laura Nyro, Diana Ross).
Se “Southeast City Window” sa di James Taylor lontano un miglio, “Lazyman” è il primo esempio di ballata per voce-piano di Daryl Hall che produrrà eccellenti esiti; e poi c'è quella “Lilly (Are You Happy)” che attende in calce al disco, un’allettante romanticheria pop in stile Carole King, a base d'archi a cascata e di cori ebbri esaltati ("Are you tired of giving Lilly? /Are you really happy?"), tanto vicina alle atmosfere philly-sound quanto all'Elton John coevo della “Yellow Brick Road”.

Si arriva dunque ad Abandoned Luncheonette (1973, Atlantic, rist. 1990), grandissimo e misconosciuto album soul-pop degli anni Settanta. Al punto che chi fa risalire le matrici del moderno soul bianco al bowiano “Young Americans” dovrà spostare dietro di due anni le sue coordinate, semplicemente ascoltando i primi accordi dell’opening track “When The Morning Comes”, o la ballad rockeggiante “Lady Rain”.
Nuovamente diretto dal maestro Arif Mardin, è questo l'album dove tutto gira a meraviglia. Le armonie strumentali e i cori vellutati possiedono maturità e un senso prezioso, un valore primigenio, in un concept immaginario e concretamente immersivo assieme, amplificato sul ricordo, sulla nostalgia dell'infanzia.
Riflessioni ancora sotto-shock, su ciò cui portano i passi falsi, che colgono impreparati un giovane uomo, cambiamenti duri ad accettarsi: "Had I know you better then...".
Su questo mood indugiano brani come “Las Vegas Turnaround”, sinuosa e levigata come un pezzo di Bacharach, sul cui corpo assorto gli intarsi vocali dei due protagonisti accendono miriadi di colori, “I'm Just A Kid (Don't Make Me Feel Like A Man)”, ma soprattutto “She's Gone”. Perché “She's Gone” è la canzone di Hall & Oates, con il crooner che si chiede sconsolato: “What went wrong…?”. Relazione sacrificata, vita da ricominciare, e una domanda senza risposta gettata a terra: “Perché è successo, cosa non ha funzionato?”. In realtà qui funziona tutto splendidamente, dall’iniziale introspezione sommessa e per questo quasi sussurrata, fino al crescendo doloroso di una vibrazione interiore che non si dissimula. E si vagabonda scalzi, solitari ("my face ain't looking any younger.."), recludendosi lontani dal mondo dentro a ristorantini abbandonati, divorati dalla vegetazione. Pura allegoria dell'anima lacerata. L'estasi nell'assolo di sax e nel grido tormentoso dei cori rimbomba e rinfaccia che lei se n'è andata. Come eco strascicante regge il gioco Oates, decisiva controparte, nelle introspezioni di “I'm Just A Kid..”, profumate di inquietudini Bill Withers.

Nel 1974 è la volta di War Babies (Atlantic, rist. 1998, 2008), in cui Hall e Oates sono assistiti del giovane musicista e produttore Todd Rundgren, fresco reduce da tre acclarati capolavori in studio (“Something/Anything” 1972, “A Wizard, A True Star” ‘73, “Todd” ’74, Atlantic).
Il potenziale è enorme, eppure escludendo le inappuntabili abilità strumentali e i sontuosi vocalizzi dei tre a mostrare un affiatamento invidiabile, all'album mancano un po’ le canzoni. Inevitabile, dunque, un senso di amarezza per un’occasione non appieno colta, considerando la presenza di Rundgren, che del biennio 72-74 è forse, assieme ad Alex Chilton dei Big Star, lo scrittore pop più ingegnoso e brillante in circolazione.
In questo passo falso archiviato in fretta, egli impone un’esuberanza eccessiva calcando oltremodo la mano. Irriconoscibili e quasi glam, Hall e Oates su “Is It A Star”, “Screaming Through December” e “Son Of Zorro” trasformano la logora Luncheonette in una lustrata nave spaziale, ma col motore in avaria. Le tastiere e riffoni di chitarre space-rock provengono dal pianeta Utopia (la band che Rundgren andava formando in quel periodo).
I Tubes degli esordi demoliranno con graffiante, irriverente ironia questo esibizionismo (“The Tubes”, 1975, “Young and Rich”, 1976, A&M).
Di buon livello restano i brani più equilibrati, come “Can't Stop The Music (He Played It Much Too Long)”, l'impeto rock-soul in “You're Much Too Soon” e la volubile rock ballad “70's Scenario”.

A metà decennio 70 un colpo d'ala blue-eyed soul volge Hall & Oates verso un celeste Olimpo, la piena consapevolezza in un sound modernissimo e all'avanguardia, che s'ergerà autentico marchio di fabbrica.
Inaugura la stagione un contratto nuovo di zecca con l’etichetta Rca, da qui l'intenzione apparente del duo di voler partire da capo con un nuovo album “omonimo”, punto zero, rigenerante ripartenza. In realtà questo quarto album non è affatto tabula rasa, ma pura e lucida sintesi di quanto in “War Babies” era presente in eccesso.

Insomma, Daryl Hall and John Oates (Rca, 1975, Buddha Records 2000, rist.) coglie quanto di meglio creato dal passato musicale del duo.
Il mood del nuovo corso su cui s'iscrivono questo e i due successivi album è una particolare raffinatezza west-coast pop che estende e sviluppa in modo narciso le intuizioni dei primi dischi. Una leggerezza e pienezza di sensi soul e funky, toni strumentali morbidi e bassi, quasi cameristici, volti al massimo effetto.
Una sparsa e sottile naivetè di voci e strumenti va a diffondere le melodie, togliendone progressivamente peso.
Sin dai primi attimi, l'ascolto volge in turbinosi cori, tra sezione d’archi e tastiere. Dirige in studio il nuovo produttore Christopher Bond, che accompagnerà i nostri in tre album. C'è poi da aggiungere che questo è il disco di “Sara Smile”, certo uno dei discorsi amorosi “aurorali” nel pop degli anni Settanta che ha preso per mano migliaia di ascoltatori; che dal post-Beatles più ha saputo farli comunicare coi propri sogni, lanciandoli verso ipotesi e utopie. Eppure, “Sara Smile” raccoglie immagini fedeli di scene vissute, sguardi timorosi nella notte, tenere confessioni tra amanti. Ed è un brano davvero capace di abbellire la vita, come “I'm Not In Love” dei 10cc, un pezzo senza tempo che nella propria apparente semplicità e linearità di accordi si svela autentica galassia di sensi e sentimenti, e all’ascolto ci si accorge continuamente del perché.
Una gemma la cui avvenenza converrebbe isolare, custodire in sè, in uno scrigno di cristallo.
Invece, le altre “Camelia”, “Nothing At All”, “It Doesn't Matter Anymore” - stupenda - “Soldering” (chiudendo un occhio sulla discutibile “Gino”), coi loro tripudi d'archi, varietà e fluidità di linguaggi pop-soul, sincopi e timbriche funk-rock e finanche calypso, mostrano di non vivere affatto di riflessi altrui, cullano oltre ogni dire e confermano l'autore Daryl Hall, talento prezioso. Ottimi anche i contributi di Oates, fondamentale controparte.

Bigger Than Both Of Us (1976, Rca, 2002 rist.) conferma Bond alla produzione e si svela un altro gioiello. L'esito del primo lustro di collaborazione è premiato con una scaletta soul-pop di inarrivabile qualità ed effetto. Laddove Abandoned Luncheonette era l'album passivo e sconsolato, qui si respira tutt'altra aria, ottimista e frizzante. Non meno coinvolto empaticamente, ma quasi “simulato” nella turchina suite dalla copertina.
Il brano che spopola nelle chart è stavolta “Rich Girl”, gustosa reprimenda confidenziale (“It's so easy to hurt others when you can't feel pain/ And don't you know that a love can't grow/ 'Cause there's too much to give”). Daryl Hall conosce a menadito la propria particolare abilità di musicista seduttore, misurandovisi al meglio. ”Back Together Again”, “Crazy Eyes”, “Do What You Want, Be What You Are”, “Kerry” si svelano grazie esemplari che spargono pollini di philly sound, mai disgiunte da una rara, abile, beatlesiana misura armonica compositiva.
Oasi confidenziali come “Falling” mostrano, d'altro canto, assorte purezze soul.

In questo stesso anno, Hall è in studio con Ruth Copeland, una interprete inglese d’origine e americana di residenza, che con Daryl condivide il background musicale (soul bianco, funk), ma non il medesimo fato propizio. La collaborazione è nel 45 giri "Heaven": tutto un intrecciare vocalizzi appassionati in un bagno d’archi e fiati: la quintessenza Motown-sound; appare un'outtake di Bigger Than Both Of Us.

Beauty On A Back Street (Rca 1977, rist. 2008) fa eco. Definito a volte il disco arena-rock del duo, mette in luce la cover "Why Do Lovers Break Each Others Hearts", gioiello di Phil Spector/Bob B. Soxx, puro metadiscorso sui gruppi vocali, eroi degli adolescenti anni Sessanta tra cui i nostri. “Bad Habits And Infections” emana aromi 10cc.

Di colpo Daryl Hall e John Oates sono divenuti intoccabili; la critica, incredula, ammette di aver perso o sminuito qualche passo e corre a ritroso. E' anche il tempo di tirare le somme di quanto svolto sinora, con un paio di antologie, la pre-esordio Past Times Behind-1969-72 e No Goodbyes (1977, Atlantic, con tre inediti). Ma arriva anche il primo live: Livetime (1978, Rca, 2002, BMG rist.), ricognizione sul palco a buoni livelli, intriganti le fantasie di “Sara Smile” e “I'm Just A Kid”, mentre “Rich Girl” si scioglie in inno cheerleader, pura estasi collettiva. Rincresce un po’ la brevità del disco.

Daryl Hall & John OatesIn seguito alla pubblicazione di Beauty… (1977), John Oates si affranca temporaneamente dal progetto per questioni extra-musicali. Nell'estate di quell’anno, per tre settimane, Daryl Hall è in studio d'incisione, stavolta con Robert Fripp. Col leader dei King Crimson egli condivide una solida amicizia e affinità musicali impreviste (“anche se Robert è inglese e non di Philadelphia e le sue radici non sono blues, la sua chitarra esprime un linguaggio soul”, racconta Hall). Fripp era in cerca di rinascite artistiche e dopo i sinodi col Bowie di “Heroes” giunge questa collaborazione che frutta il solista Sacred Songs (Rca, 1980, Buddha, 1999 rist.), strepitosa raccolta di febbrili agoni vocali e rapinose magie strumentali; sorta di raro paradosso artistico che accende una vibrante comunione, una mirabile tensione “esoterica”, via eterodossie pop-soul e avanguardia rock d'ampio respiro.
Come un ponte magico steso tra vecchio e nuovo continente, questo disco pagherà pedaggio al proprio, pur minimo, margine di rischio, al proprio inaudito lignaggio, licenziandosi quando (e se) ha fatto più comodo all’etichetta, ovvero tre anni dopo sulla scia del milionario Voices (“per scelta di qualche cocainomane della Rca la pubblicazione dei nastri rimase congelata fino al 1980: la ristampa Buddha contiene una scrupolosa cronaca del misfatto e una lucida testimonianza firmata dallo stesso Fripp”. Bruno Anastasi, Radiopeninsula).

Sono tanti, tutti, i brani memorabili: anticonvenzionali e in libera coazione. Pop sì, prevalentemente, ma libero e presago, senza formula e tempo, in cui “Il dualismo tra sacro e profano scorre costante, tra intuizione e pratica, tra spirituale e carnale” (note della ristampa).
“Something In 4/4 Time” è il miglior pezzo di Hall & Oates mai rimasto nel cassetto: un delizioso, ironico banchetto pop-sixties immerso nella luce obliqua dalla chitarra di Fripp e immortalato in vocalizzi del desiderio.
Parimenti, “Why Was It So Easy” rapisce all'istante: è naufragio romantico e fremito malinconico; è l'anelito, la scia di cometa che Phil Collins inseguirà un'intera carriera; questione appunto di lignaggio.
“Babs And Babs” riversa sapienti pennellate di Gibson e onde-loops Frippertronics, come lisergico fumo arcobaleno sparso su un corpo pop mitteleuropeo; mai utopia fu così avvenente.
Su “NYCNY”, Hall è in una trance indotta dal fervore strumentale; Fripp albeggia in jam abrasive e violente, mescendo pattern come fosse in studio a ordire altre pagine di “Red”. Si vira poi in una danza mistico-nevrotica, tra tastiere à-la Rundgren e conclude in un’esaltante, isterica ulcera di chitarre.
Intriganti, nel loro avvenente eclettismo, le altre “Farther Away I Am”, “Don't Leave Me Alone With Her”, “Survive”, “Without Tears”.
Sacred Songs è un disco capolavoro da portare nelle scuole. Robert Fripp ricambierà qualche mese dopo, invitando Hall a collaborare al suo solista “Exposure”, pubblicato lì a poco (1979, EG/Polydor, rist. 2008).

L'anno seguente, il 1978, Hall e Oates pubblicano nuovamente assieme Along The Red Ledge (Rca, rist. 2008), un disco dalle tante facce. I due, sempre più perfezionisti, si mostrano come non mai reciproci "concorrenti" musicali. Ciascuno infatti sembra inseguire liberamente le proprie suggestioni-ossessioni senza negarsi o intralciarsi con l’altro e l'esito è spesso efficace. Quanto è melodico e spirituale Hall, tanto è abrasivo e conciso Oates, l'ossimoro funziona. C. Bond e David Foster si spartiscono la cabina di regia, numerosi gli strumentisti (Todd Rundgren, Robert Fripp, la band di Elton John).
“It's a Laugh”, “Melody For a Memory” e “Have Been Away For Too Long” plasmano voluttuose i solchi e celebrano, coi morbidi vocalizzi di entrambi i protagonisti, il verbo soul, anche oltre lo standard usato. Un omaggio al wall of sound spectoriano è poi “The Last Time”, tra le più emozionanti performance sentimentali di Daryl (“remember the look in your eyes.. it really ripped me apart”): un chorus d'intrigo e inquietudine immerge, finalmente, l’ossessione amorosa in un folgorante fade-out.
Non manca in “Along…” qualche grintosa e convulsa graffiata hard. Se “Alley Katz” è onestamente un pugno allo stomaco all'album, bene va con “Serious Music” e “Don't Blame It On Love”. Quest'ultima implica uno stranito e dinamico inserto chitarristico frippiano che prefigura l'avveniristico “Discipline”, concepito dai King Crimson lì a poco.
Un contagioso carnevale a “Pleasure Beach” richiama poi le agrodolci nostalgie della “Crocodile Rock” di Elton John: la band è in effetti la stessa (Kenny Passarelli, Roger Pope, Caleb Quaye, rispettivamente a basso, batteria e chitarra), ma il capolavoro del disco è nella propria coda, una riflessione di Hall, personale e privata, dalle suggestioni pittoriche: la piece pianista “August Day”. Un’alba di tastiere a levare, una narrazione atmosferica di pasta astrale e un’armonica a contrappunto con le sue onde libere insinuanti, che lastrica ogni orizzonte e mitiga ogni dolore.

“And the sky turned heavy grey/ August day”.

E’ ormai il tramonto degli anni Settanta, nel ‘79 imperversa la disco-music e il cosiddetto adult-oriented rock. X-Static (Rca, Buddha Records 2000, rist.), che conferma David Foster alla produzione, ne viene influenzato.
Un ibrido attraente ma con poca focale: manca l'intreccio, il puro intrigo. C’è spazio tuttavia per “Wait For Me”, ennesima gemma di Hall, giostra di voci e ritornello che sparge un’irresistibile scia d'amore, anticamera dello stile suadente e sensuale che apparterrà a Voices (1980, Rca).
Questo, assieme al bell'ingresso “The Woman Comes And Goes”, è il brano su cui si torna volentieri. Il resto può rivalutarsi come prova essenzialmente west coast pop: il suono del synth di Steve Porcaro è infatti quello dei Toto.
X-Static è in larga parte pretesto per orge strumentali (tre bassisti, quattro tastiere, cinque i chitarristi), dimostrativo nell'estasi di “Running From Paradise”; è come una fotografia che fissa il gruppo in movimento, durante la metamorfosi definitiva AM: bisogna concedergli una certa disposizione. Ma a buon grado, dati frutti venturi come Private Eyes (1981, Rca), mitico e mitizzato album degli anni 80, per tre quarti puro capolavoro pop.
Ma forse questo fu un altro capitolo dell'avventura. Gli anni settanta erano andati via per sempre...

(2005, 2009)