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HALF-HANDED CLOUD "We Haven't Just Been Told, We Have Been Loved" (asthmatic kitty records, 2003)

John Ringhofer risiede a Knoxville, Tennessee, di nascita hawaiano.
Multistrumentista, ambizioso e genialoide, al suo secondo lavoro, per Asthmatic Kitty Records, che per l'occasione ha edito l'esordio Learning About Your Scale.
Voci e strumenti a mò di rappresentazione farsesca e sbarazzina, una baruffa novelty pronipote di Frank Zappa…oppure Half Japanese alle prese con la discografia dei Fab Four.

Titolo spiritualmente indovinato per questo secondo lavoro di Half-Handed Cloud, one man project che propone un gustosissimo tipo di pop melodico minimale, come un Brian Wilson bambino entusiasta fra i suoi strumenti giocattolo (o preferibilmente scordati) che si animano in modo vorticoso e incontenibile.
Venticinque schegge ultra melodiche in ventiquattro minuti di durata in cui suonano voci, tromboni, armonica, organi fino a… condizionatori d'aria.
Le voci(ne) sono sottotono o in falsetto, spesso a cappella simulano o rincorrono strumenti, si rispondono fra loro, si attorcigliano con fare scherzoso. Assieme a strumenti umorali scorrazzano gioiosamente come fossero a ricreazione, vanno a comporre brani completi oppure composti di sotto parti come le medley di un tempo.
Half-Handed Cloud aggiorna lo speed-pop di gruppi come Heavy Vegetable e Sex Clark Five, per chi li ricorda.
Gruppi frenetici di una decade (e passa) fa, che usavano dire tutto in un abbozzo o un'impressione, che mutuavano trame punk-core affidandole alla melodia, realizzando brevi ibride canzoni con frastornanti e incalzanti stacchi, cambi di passo, motivi complicati; l'impressione é che girassero a settantacinque giri.
We Haven't Just Been Told… fa proprio quel sistema, ancor più declinato verso la filastrocca.
E'sintetico nel senso che pressa gli elementi al minimo, comprimendoli come un file zip. In altre mani questa materia suonerebbe persino barocca.
Col trattamento di John Ringhofer si ottiene un effetto frastornante, un senso di fatalità e di incompiuto molto stuzzicante.
(primavera, 2003)

Han Bennink - Solo (Icp 1)

Han Bennink –Olandese, inizia da giovanissimo come batterista a seguito del padre percussionista. Si rivela presto uno dei numi tutelari dell’improvvisazione europea, un saltimbanco lucido e scalmanato, astratto e contemplativo. Spesso in coppia col pianista Misha Mengelberg, ma anche Peter Brötzmann e Fred Van Hove, rinvenendone elementi di continuità di percorso, negli anni settanta Bennink partecipa a dischi passati alla storia come Outspan 1 e 2, Actions, Balls, Einepartietischtennis, The Berlin concert.

Il titolo di questo disco, ‘Solo’, fa ovviamente riferimento alla performance del musicista, ricavata da concerti del 1971/72: assoli ora alla batteria, proponendo suggestivi, 'classici' (per Bennink!) frammenti schizoidi, ora alla tromba, a sax e a strumenti a sonagli anche esotici, in cui il nostro raglia detriti di nota come un respiro disturbato.
Una vivacità contagiosa e un senso inquietamente rituale viene offerta da cambi di ritmo inusitati, da sibili e schiamazzi ancestrali.
La potenza di quest'uomo e musicista, è dunque ben tesimoniata da questo disco.
Seguirà l’ottimo Nerve Beats, altro ‘flusso’ panico e solitario, nel 1973.

Han Bennink - Misha Mengelberg - Een mirakelse tocht door het Scharrebroekse (ICP 013)
Released on 6 flexidiscs. 1972

Destino ha voluto che uno dei frutti più lucenti dello sposalizio artistico Mengelberg / Bennink sia stato edito in 6 EP/flexidisc, formato che certo non ha giovato alla reperibilità e la fama che quest'opera meriterebbe.

Trattasi di un live tenuto nel marzo 1972 a Breda (NL), il cui personnel recita: Misha Mengelberg (piano), Han Bennink (drums, percussie, vocals, trompet, etc.).
Chi ha ascoltato il più reperibile Live in Berlin (eseguito assieme a Brotzmann e Albert Mangelsdorff) oltre agli altri Balls, Tschus, Topography of the lungs, ha idea di cosa possano combinare dal vivo questi musicisti che dal jazz partono per esplorare causticamente o in quiete, con originalità le possibilità degli strumenti, l'effetto ottenuto per chi riceve sovverte lo stato abituale di coscienza favorendo maggiore disponibilità; è una musica-sintesi dei cinque sensi.

Nel depistamento ottenuto dalla convivenza/amalgama di percussioni lancinanti/rallentate e un piano jazz-classicheggiante ed effetti vari in penombra, questa performance entusiasma, l'affiatamento degli esecutori è massimo.

Hanne Hukkelberg - Little Things (Propeller recordings, 2005)

Hanne Hukkelberg è una musicista norvegese esordiente, che propone un elettro-pop imbevuto in atmosfere blues e soul a base di voce, pianoforte, chitarra, batteria ed elettroniche (il suo sito suggerisce il titolo “dusty jazz”).
Indubbiamente volubile, eccentrica ed affascinante, Hanne in questo “Little Things” potrebbe suonare come un crocevia malizioso ed estatico, tutto già al femminile, di Cocorosie, Niobe e Goldfrapp.
Musica come respiro, che lambisce equivoca, emanazione densa di frammenti, embrionale.
Invero questo soffio sottile, imprevedibile, diafano e dolcemente utopico, potrebbe assurgere a nuovo modello di “soul fusion”; acustica, romantica, fatta d'immaginifici accostamenti e sperimentazioni tra strumenti nobili o rimediati.

Quest'album, anticipato dall'ep di “Cast Anchor”, è stato pubblicato qualche mese fa nella natìa Norvegia, in scaletta invariata. Ed è un'incantevole, pigra sorpresa riservataci da questo pigro scorcio d'anno.
Sobriamente interpretato dalla nostra assieme ad ospiti suoi connazionali come Jaga Jazzist, Kaada, Shining ed Exploding Plastix alle prese con strumenti e basi di suoni digitali, il disco della Hukkelberg mostra considerazione e rispetto per radici musicali profondamente europee, insidiose seduzioni da Angelo Azzurro (cabaret, piano bar) unitamente a un gusto interpretativo blues afroamericano nobile e primordiale.

Ella gioca con la sua sensualità, percepibile in punta di toni soul, bassi e acustici, senza rinunciare a sorprendere e depistare, e con che gusto, con quale urgenza di trasformazione.
Impalpabile e sinuosa, Hanne sa come intrigare, movendo finezze, suscitar pruriti dei sensi.
“Searching”, “little girl”, “do not as i do”, “ease”, “conversion” episodi come niente, che si compiono in semplici frasi, ramificano dentro piccoli miracoli che sottilizzano e riflettono simboli con naturalezza.

Happy Mondays: Bummed (Factory, 1988)

A fine anni 80 il pop inglese si contaminava con forme ballabili di dance-rave. Gli Happy Mondays di Manchester furono tra i primi a fiutare le potenzialità di tale amalgama, che in effetti risciacquò il pop coevo dalle pastoie dell'usato. Il cantante Shaun Ryder presiedeva il progetto Happy Mondays dall'inizio degli anni ottanta con la sua ex-"baby gang" tra cui il fratello Paul, bassista e lo pseudo ballerino Bez.
"Bummed" è il secondo album, ed è pentolone ribollente aromi più disparati, mosaico sgargiante, fantasioso e surreale, bizzarro e capriccioso, forte di composizioni eccitanti e intriganti ancora oggi. Caleidoscopi quali "performance", "country song", "brain dead", "lazy itis". Il raccolto di questa semina sarà il maestoso "Pills 'n'Thrills And Bellyaches" album ciclone che spalancherà loro le porte della celebrità.
La performance di Ryder é uno sfacciato utilizzo vocale tra dialetto e dileggio, lagna e lingua in codice. Un nuovo insolente J.Rotten la cui ostile nenia, assieme alle oltraggiose liriche, è ciò che esalta i brani, li deforma e stranisce, con buona pace di certi retrogradi scribacchini rock nostrani dell'epoca. La fortezza Madchester si sarebbe presto sgretolata per far posto all'entropia brit-pop. Fu ciò che i bastardi si meritarono.
(2003)

 

THE HIGH LLAMAS

Affinata la propria arte di scrittore pop nei Microdisney, lo scozzese Sean O'Hagan concepisce nel 1992 il progetto High Llamas, dapprima come idea solista, sviluppato poi come gruppo vero a proprio con sede a Londra.
Assieme a O'Hagan, compositore e chitarrista, c'è Marcus Holdaway a piano e tastiere, Jon Fell al basso e Rob Allum alla batteria.
La miscela originale di High Llamas è un Vaso di Pandora zeppo di riferimenti musicali a Brian Wilson, Van Dyke Parks, Steely Dan, ma anche Carla Bley, Kurt Weill, Morricone e altra musica da film 'sessanta di provenienza italiana.
Un progetto tanto ammantato di garbo e gentilezza di maniere quanto Microdisney erano pungenti e aggressivi.
Gli album di High Llamas sono cicli di canzone che anelano a congiungere, decontestualizzando, forme pop con etnica, psichedelica, classica.

Gideon Gaye (Target Records, 1994)

Conclusa l'avventura Microdisney, Sean o'Hagan si mette in proprio e si dedica alla passione per gli studi d'incisione gli arrangiamenti vellutati. Canta, suona chitarra, piano, tastiere, organi Moog e Vox assieme a collaboratori quali Marcus Holdaway e John Fell.
Beach Boys, ma anche Steely Dan ("the dutchman" e "checking in cheking out" rivelano uno studio affatto scrupoloso per arte e immaginario di Fagen e Becker) nonchè Van Dyke Parks, cui rimanda il gusto indicibile per drappeggi e raffinatezze armoniche, sin dai caratteri di copertina che omaggiano l'album "Song Cycle".
Gideon Gaye è una landa di fantasie stranite e di memorie rapprese, di sogni torpidi ("the goat looks on") e forme acide ("taog skool no", "up in the hills" e l'estasi esotica di "track goes by"). Seguirono altre opere tra cui la sublime vastità di "Hawaii"(1996) e l'aerea e spontanea "Cold and Bouncy" (1997).
(autunno 2003)


 

Hummingbirds - LoveBUZZ (1989, RooArt)

Hummingbirds furono la più gloriosa teoria di "nouvelle vague pop" di terra australiana.
Nacquero nel 1986 dalle ceneri di Bug Eyed Monsters per volere del chitarrista e compositore Simon Holmes, assieme al bassista John Boyce (poi rimpiazzato da Robyn St. Clare), Mark Temple alla batteria e Alannah Russack, voce femminile e chitarra aggiunta. Produsse Mitch Easter dei troppo dimenticati power-popper Let's Active.

Nel 1987 arrivò il primo singolo del gruppo, carico di gloriosi presagi: “Alimony”, struggente voluttà e inquieta malia ardue da dire a parole. Seguirono altri singoli tra cui le tenere querelle di “Get On Down/Everything You Said”, missate ex-novo e assiemate sull'esordio “LoveBuzz” nell'89.


I romantici intrecci vocali tra Simon, Robyn e Alannah vanno a ricamare tenere utopie e sofferti agoni di coppia. Come torride decomposizioni sentimentali alla “Rumours” dei Fletwood Mac: muovendosi, scuotono assordanti e multiformi scenografie sinfoniche strumentali, che erompono come fantasie, quasi emanazioni di quelle infinite paste di voce, di quelle fantasie amorose.

Talk to me-Don't talk to me / Leave me alone!”: così assale il refrain di “Blush”, apertura d'album, denso vapore di colori armonici, languido e risoluto, esca infallibile come altra non c'è.

Questo Lp s'immerge così in turchine bufere di squisito jangle/power pop, tra i più sublimi concepibili e mai realizzati. Acute e finissime melodie di chitarre, squillanti e assordanti, ora selvagge ora domestiche, sezioni ritmiche di Marte, struggenti vocalizzi.
“She Knows...”,”Hollow Inside”,”Word Gets Around”, sono irrefrenabili girandole di intensità sconcertante, che fatalmente avviluppano l'ascoltatore in un fragoroso vortice che accorpa un flusso di suono.

Hummingbirds tornarono nel '92 con l'ancora pregevole “Va Va Voom” mai pubblicato da noi, altri due Ep del '93 e poi lo scioglimento.
Nel 2002, la raccolta “Greatest hits” a cura di BMG aiutò a fare un po' d'ordine e pulizia, recuperando i singoli e la brillantezza di molti brani nel remaster digitale.
(inverno, 2005)