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Green - White Soul (1989 Megadisc)

Nel 1985 nascevano i Green, trio di Chicago guidato dal cantante chitarrista e compositore Jeff Lescher, il cui agile e sensibile melodismo richiamava gruppi pop inglesi degli anni '60 ma anche il poprock di casa propria (Tom Petty, J.Mascis, Bob Mould).
La fortuna è stata avara con loro, ma averne poca è capitato a tanti. Forti di quest'album e del precedente, il fastoso indiavolato "Elaine MacKenzie", Green poterono dirsi i successori più degni e auspicabili di Kinks e Big Star. "White Soul" è un disco straordinario, di un'inaudita intensità che pochi hanno potuto concepire, e a cui è il caso di offrire un riscatto, per quanto tardo ed esiguo.
Una gran varietà di temi, umori, registri e variazioni metriche per una sfrenata e memorabile danza poprock. La voce di Lescher possiede una agilità unica e impressionante, in grado di vertici timbrici esaltanti. Che si inerpichi e si sgoli negli slanci pop-core di "I'm in love with you", "My sister jane", "I don't even need her", che si presti al garage di "I beg, you cry", "Give me your hands", o che si logori e si squagli nelle melanconiche ballate "Night after night" e "Monique, Monique". Quest'ultima è una delle più commoventi confessioni, inconsolabilmente romantiche, di una generazione d'autori perduta. Inestimabile.
(2003, 2005)

 

Groups in Front of People - 1 (Bead, 1979)

Due soli lasciti per Bead da parte dell’esperienza Groups in front of people, una delle tante mistioni di musicisti di impro, volti noti e meno noti scaturite negli anni ’70: qui siamo tra inverno ‘78 e inverno ’79. Le line-up sono differenti, fissi i tre Maarten van Regteren Altena al basso, Peter Cusack, chitarra e Guus Janssen al pianoforte. Nel secondo dei due album, “2”, si aggiungono Parker e Lytton, sax soprano e percussionista con più prove assieme alle spalle, prendono parte al progetto, assumendone di fatto le redini.

Su “1” opera il quintetto di Gunter Christmann (trombone), Maarten van Regteren Altena (basso e violoncello), Peter Cusack (chitarra), Guus Janssen (piano), Paul Lovens (percussioni, zither). Differentemente da tanti connubi di strumentisti, i brani sono realizzati collegialmente per la quasi interezza del disco.
Ma la cosa che più s’acclara del progetto GIFOP è l'impalpabilità acustica, l’economia del suono, il cui smunto accenno limita il flusso facendo avvertire presenze senza paventarle mai innanzi.
Come dopo un black-out a muoversi restano parvenze in mimo che scuotono turbamenti sotto una malleabile quiete. C’è tutta la stasi, l’apparente inerzia: sin dal principio, “1” suona infatti incorporeo, etereo e leggero, non come agoni e slanci impro del resto del mondo.

Di tanto in tanto, una lingua di pianoforte (Janssen con la sua tecnica), brandelli provano a delineare un percorso, si versano melodicamente ma è una stura pulviscolare, fantocci e micro organismi schiamazzano e s’agitano per beffa, senza tendenza.
Le intenzioni sono solo accennate, secondo un esercizio di micro-impro acustique quasi lasciato segregato alle orecchie, che si afferri solo remoto eco, brandelli eletti a sintagmi eloquenti. Che producono senso.

Molto spazio pertanto si affida a pause, ove far (ri)suonare riposo, gli strumenti semmai annodano le pause tra un vuoto e l’altro. Vuoto, a ben vedere, solo nominale.
Inessenziale è il dire: l’enunciato si disgrega irrimediabilmente, il linguaggio è aborrito, si frastaglia.
E’la quintessenza, la natura stessa dell’improvvisazione: ecumenico dissolto nel gesto singolo e viceversa, singoli si incrociano a fare caos.

2

"Evan Parker, soprano and tenor saxophone; Terry Day, drums, percussion; Maarten van Regteren Altena, bass; Peter Cusack, guitar; Guus Janssen, piano; Paul Termos, clarinet; Paul Lytton, percussion."

L’esibizione live accentua a questi happening, dalla “wide variety of musical material and attitudes..” un che d’obliquo ineffabile e transitorio, esaltato e straripante, di scomposto e spiritato, secondo al solito, l’ispirazione del momento, il saccheggio all’aleatorio; nella particolare aura di quiete indistinta che esala ed estrania queste “marginali” performances.
Uno spirito salutare che rigenera e rinnova la materia ascolto per ascolto.
Imprevedibile, ‘rusty’, agitato e dinamico nelle trame prodotte, inquieto e convulso nelle esplorazioni; una vibrante energia en plein air, in afflato collettivo condiviso o in slanci solo di questo o quel musicista. Anche nella seconda puntata Groups in Front of People (in realtà prequel di “1”, in quanto montaggio di primi colloqui musicali) intavola un concilio come anche sarà quel cult torrenziale monumento all’indeterminato che è “Pisa 1980 Improvisers Symposium” di scuderia Incus, con molti comprimari del resto già d’esperienza GIFOP.
Auspichiamo che qualcuno (Emanem?) ristampi il catalogo vinilico di Bead (1975-1987) per intero. Rivivrà così un’epoca straordinaria e irripetibile per un’improvvisazione collettiva: pur secondaria e nascosta, necessaria quanto altri alfieri per come ha catturato fermento e vibrazioni di quei tempi.


GYPSOPHILE

Unaneelmi

Gypsophile, progetto di Guillaume Belhomme, è solo uno dei tanti, innumerevoli nomi che s'affacciano solo parzialmente sul mercato, accontentandosi più che altro di farsi conoscere, far girare i propri risultati ad un ristretto giro di conoscenti e amici. Fosse stata questa la sorte di Unaneelmi (2000, Clover records), ci saremmo dovuti privare di un sorprendente, delicato acquarello, crocevia tra bossanova, jazz e pop, il cui punto di forza si rinviene, assolutamente, nel senso di leggerezza e di discrezione che sprigiona. Come un Eden appena sussurrato, bisbigliato, da Tracey Thorn, o come dei Crooner ancora più prudenti. Diviso tra cantato inglese e francese, realizzato nella più completa autarchia, prevalentemente acustico, appena sfiorato, insaporito, da fragranze electro, Unaneelmi di Gypsophile può dunque vantare molti brani decisamente incantevoli, in perfetta simbiosi l'uno con l'altro. In the day our tears turned into rain, già nota ed apprezzata in una raccolta della serie Little Darla Has A Treat For You, oppure di you drive me so, e di lament of 2 ex-lovers, Guillaume aggiorna lo stile di James Taylor depurandolo di qualsiasi compiacimento; allestisce una musica che evoca magicamente clima umido e luoghi equatoriali. Figlie di climi tropicali, di estati umide e pioggie periodiche, come anche sembrano voler suggerire le immagini nel booklet, dispensate, anch'esse, con misura. A volte una toccante, partecipata afflizione, come nel caso della conclusiva i'm away, arricchisce, aggiunge nuove espressioni, nuove luci, nel confondersi dei colori.
(primavera 2001)

De loin les choses

Ancora più del precedente, pregevole esordio su lunga distanza Unaneelmi, questa seconda prova del parigino bossa aficionado Guillaume Belhomme evoca senza compromesso scenari umidi, equatoriali, piovosi.
La voce, la chitarra e alcuni loop gentili sono gli utensili abituali con cui il nostro costruisce i propri piccoli mosaici, eleganti e scarne miniature, dense di sottili malinconie e struggenti, ma sommesse, afflizioni.
In questa nuova occasione fanno ingresso basso, sax e piano, premunendosi di non rubare il proscenio, anzi, sostenendo, esaltando, la voce dell'interprete.
Per la prima volta interviene anche una voce femminile, una sorta di co-protagonista ideale, di alter-ego coadiuvante; compagno di viaggio, sostentamento del crooner; evanescente creatura a lenir dolori e rinfrancar lo spirito con la sua soprannaturale levità e leggerezza.
La voce di Guillaume è una voce dal passato. Vive unicamente nutrendosi dei propri ricordi, e raccoglie le proprie visioni contemplando il sogno, la sua realtà. In questo modo é perfettamente in grado di ricavare risorse per l'avvenire.
Il risultato che si ottiene è una raccolta di visioni e d'immagini, perfettamente amalgamata, equilibrio di fantastiche utopie e reali memorie.
L'ascoltatore, o lo spettatore che dir si voglia, non è assolutamente in grado di scorgere la demarcazione tra prime e seconde, tanto il narratore è capace a dissimulare e a confondere.
(2002)

Eloquence Des Fatigues

Terza prova di Guillaume Belhomme alle prese con una bossa amatoriale intrisa di elettronica.
L'atmosfera allestita è soffice, quasi indefinibile, timbricamente rarefatta. L'interpretazione si mantiene in tono, pudica e sommessa.
Per certi aspetti la proposta di Gypsophile mantiene sempre la stessa classe, attrazione e suggestione informale. Si ascolti ad esempio la friabile leggerezza dei panneggi in pour eux, plus tard o a moi, ma vie.
Tradiamo forse un po' di rammarico nel veder questo terzo Eloquence Des Fatigues rinunciare così facilmente a quella feconda materia pop che negli esordi trionfava, definiva ossatura, pur gracile, leggiadra e aggraziata.
Guillaume mostra di non aver più bisogno della trascorsa semplicità un poco ingenua, favorendo un impressionismo quanto più intaccato, ritenendo inopportuno prolungare forme e toni giovanili.
La sua arte si fa adulta, misurata, temperata. Si erge sopra il rimpianto. Si intinge di lirismo aeriforme, si dirada, si assottiglia inseguendo simboli e poesia dei prodromi restando a volte a brancolare irrisolta.
Belhomme si conferma meritatamente un piccolo e solitario cantore idealista che porta avanti un progetto coraggioso e improbabile, violato delle intemperie per costituzione.
(primavera, 2003)

Les Profils Des Dômes

Guillame Belhomme è un artista emotivo e curioso, che avverte sensibilmente la necessità di rinnovarsi. Un richiamo, un bisogno di aggiornare la propria ricerca, non accomodandosi in una formula.
I suoi lavori sono diari percettivi, sensori sentimentali. Ascoltati in sequenza mostrano una notevolissima volontà di estendersi, reagire, propagarsi oltre.
Tra gli esordi pop istintivi, influenzati dalla bossanova, e un approccio via via più meditato, prospettico e non privo di autocritica, persiste un rapporto, s'intravede un processo parallelo, un flusso continuo e ininterrotto.
Nel nuovo album "Les Profils Des Dômes", primo per la label personale di Gypsophile, Lenka lente, si rinnova ancora e sempre quel senso di istantanea, precaria e incantata malinconia atmosferica, cifra stilistica di questo insolito e dimesso songwriter francese.
Si offre una vista intima, serena e destituita, che comunica un'esemplare naturalezza (“les voutes immenses- sous”).
L'approccio musicale di Belhomme e dei suoi collaboratori, ripensato negli anni, è più consapevole e distinto ma è sempre anche libero, gioco magico e oscillante, nella sala d'incisione.
Geometrie assolte, senza contorni, si coagulano con liriche sottilmente recitate (la meravigliosa coda di sassofono su “devant des fleurs singulieres”, un senso di attesa, tramato assieme alla chitarra acustica, in “Kathleen, Isobel”).
Quel già noto senso del cantautorato d'oltralpe, quel suo trasporto sentimentale senza tempo e insieme nostalgico ("pour efficacer quoi? et attendre"), si protende in una dimensione inusitata, in uno spazio di musica libera e senza regole. Libera di comunicare con il silenzio, libera di influenzarsi freejazz, psichedelia, minimalismo (“autrement”).
Il corallo è simbolo richiamato nelle ballate “l'etiopienne inuit”, “la doreuse du Djai Khan”, ma è tutta la scaletta a costruirsi e vivere nel variare di luci ed ombre. Composizione e improvvisazione s'implementano. Diversi sensi, diverse nature in contatto, discretamente (“l'accord de Vidor”).
La continuità tra i brani non argina la corrente ed estingue le differenze in un tutto organico.
Senza struttura fissa, plasmandosi, questa musica si dirama, assume idealmente nuove forme.
Lo stesso autore augura agli ascoltatori non mero appagamento ma curiosità, un invito a perdersi nelle tante direzioni musicali che richiama e suscita questo inestimabile album e progetto.
(primavera, 2004)


GORKY'S ZYGOTIC MYNCI

Barafundle (1997 Fontana)

Gorky's Zygotic Mynci nascono nel 1990 a Carmarthen, Galles, dal chitarrista figlio d'arte John Lawrence e dall'amico tastierista e cantante Euros Childs. Entrambi sono anche compositori.
Completano la formazione Megan Childs violinista, Richard James al basso ed Euros Rowlands alla batteria.
La label indipendente Ankst li scrittura nel '94, da quel momento in poi i Gorky's hanno pubblicato una pletora di opere tra album lunghi ed Ep.
Sono poi passati a Mercury, Sony, Beggars Banquet.
Nel 1998, dopo la pubblicazione dell'album “Gorky 5” Lawrence lasciò il gruppo.

I Gorky's esordirono giovanissimi nei primi '90 come fantasiosi emuli scavezzacollo di Kevin Ayers e Daevid Allen (“peanut dispenser”, “Y ffordd oren”, “Merched Ya Neod Gwalt Eu Gilydd”), per poi evolvere in personalità raffinando ricerca timbrica.

La dimensione di tradizione, surrealtà, misticismo e inconscio è percorso di tirocinio, rimozione di ansie, redenzione di colpe.
Sarà questo che tiene incollati ai neuroni innumerevoli passaggi, leggiadri particolari di questi magici e iridescenti spettri armonici, svelati a suon di strumenti folk (chitarra spagnola, violino, cornamuse, flauto), o più rock ortodossi (steel g., percussioni, harmonium, piano, Hammond, sax).
La coppia di compositori Euros Childs e John Lawrence ha mostrato in “Barafundle” un singolare potenziale melodico urgente e allarmato, un talento visionario e pittorico come pochi altri nella recente storia pop.
Lodevolmente audace la scelta bilingue ed encomiabili i cori misti a comporre sgargianti mosaici eufonici che vantano eredità luministiche.

Impossibile non farsi sedurre da una nostalgica ballad come “patio song” (“isn't it a lovely day/ oh my patio's on fire/ isn't it a lovely day/Oh no words are wisdomd from liars), con indimenticabile finale in gallese. O dalle tinte accentuate, inquiete e struggenti, di “diamond dew”, “the barafundle bumbler”, “better rooms...”, “sometimes the father is the son”.

Malinconie, sorrisi tristi, dolci tensioni, suoni morbidi e colori floreali invocanti gli stessi angeli che un tempo unsero Donovan, Incredible String Band, Zombies, Fairport Convention, Blossom Toes.
Poi un paio di folli interludi a confondere, la pseudo fanfara “hywl fawr i pawb” e l'ineffabile arcadico di “the wizard and the lizard” con tanto di scacciapensieri aereo.
L'elettro sberleffo di “miniature kingdoms” omaggia gli esordi del gruppo, nonchè i colleghi e compaesani Super Furry Animals; altro non è che l'ennesima parafrasi della tradizione lisergica andata.

Con questa maliarda, pressochè completa neo assise canterburiana, il combo gallese ha sfiorato la sommità pop folk-syche.
“Barafundle” rimane un abbagliante anacronismo dei nostri tempi in grado di restituire parte del fascino di un'epoca e di una stagione musicale irripetibile.
La magica aura si protrasse ancora un poco (nel più sbilanciato, fosco e spigoloso “Gorky 5 ”, 1998, forte di brani come “sweet johnny” e “hush the warmth”), poi lentamente svanì, dissolse nelle sulfuree lande grigio-rosa.
(primavera, 2004)

Gorky 5 (Fontana, 1998)

Un disco controverso, dalle suggestioni invernali, dall'assimilazione piuttosto lenta e difficile, non privo di particolarità (e di qualche tentazione ruffiana) ma è limitato da troppi passi sbilenchi.
È l’ultimo prima dello scioglimento del duo compositore Childs/Lawrence (quest’ultimo lasciava il gruppo quell’anno stesso), la cui collaborazione aveva dato i natali a tante sgargianti e sfrenate armonie pop/folk/psyche; Gorky 5 si condiziona in una sfiducia da opera ‘postuma’ con cui non venire a patti, quasi tangibile all’ascolto.

Fu pubblicato un anno o poco più in seguito al sapido, appassionato calderone Barafundle col quale non regge il confronto e mi deluse al momento dell'acquisto. Ancora intriso di mistero e di magico, si svolge in una sintomatica inerzia, in una sorta di limbo di alienazione: è il disco meno spontaneo e divertente della carriera dei gallesi.
Gorky 5 si riscatta nell’esperta produzione di Gorwel Owen e in qualche episodio isolato, qualche gemma grezza ancora reperibile ai cigli del varco (‘Dyle Fi’, ‘Sweet Johnny’, ‘Not Yet’, ‘Hush the Warmth’), comunque mai completamente assente nelle opere del gruppo gallese.


GUIDED BY VOICES - Earthquake Glue (Matador Records 2003)

Guided By Voices dell'Ohio sono una leggenda dell'indie pop-rock di sempre. Responsabile primo, Robert Pollard, chitarrista ex insegnante di Dayton, che riproduce musica in ogni guisa, da quando è capace di intendere e di volere.I Guided... sono infatti ritenuti alfieri del cosiddetto suono low-fi, in bassa fedeltà. Il gruppo è in circolazione da quasi vent'anni (da assai prima, invece, nelle proprie cantine), con line-up cangevole; ricordiamo, una su tutte, la diserzione di Tobin Sprout, sorta di alter ego di Pollard. All'attivo hanno una quarantina tra album ufficiali, ep ed innumerevoli progetti individuali.

Il musicista Pollard trae ispirazione dalle proprie scorribande in città, dai postumi delle sbornie. La mattina presto, quando qualcun altro alla stessa ora va in piscina o a correre (o scrive recensioni), lui è al tavolino tra booknote e chitarra; recupera –emicrania permettendo- ciò che gli è capitato la sera prima e traduce in versi. Creare è la dipendenza primaria, bisogno fisiologico. Non c'è nient'altro per lui al di fuori di questo. Non per mitomania, per sopravvivenza. Parole abusate, che avrete già letto, è vero. Ma eloquenti per Pollard come per nessun altro. Fa fede l'impressionante mole di musica concepita, sin da tenera età. Persino la sala d'incisione è un surrogato. Non credo possa mai abbandonare.
Non discuto affatto i feticisti pronti a rincorrere ogni vicenda del rocker maestro elementare di Daytona. Per quanto questo alchimista è capace di ordire, e per come usa fare con mezzi sparuti e tempi irrisori. Pollard possiede l'ingegno creativo, sempre e comunque. E' un apostolo del beat pop che ripudia i nuovi metodi digitali; ma soprattutto è autore a sé. Il barlume di genio s'intravede sempre, nei dischi accreditati a GBV come nelle proprie minori opere soliste e negli innumerevoli side-projects (Airport 5, Circus Devils, His Soft Rock Renegades, Go Back Snowball).
Questo recente Earthquake Glue dista quasi vent'anni dai primi lavori, per certi aspetti ci appare un ritorno sui viottoli tracciati agli albori della carriera della band. Il metodo dei Guided By Voices: “lo-fi per pudore”… sono stati sempre carbonari e dimessi perché, a loro dire, troppo reminiscenti d'altro rock; l'obiettivo è dunque rimasto divertirsi a migliorarsi come scrittori di canzoni. In tutti questi anni c'è chi ha seguito ovunque la voce agretta di Pollard. Più di ogni cosa, forse, ci ha sedotti quella voce ambigua, come e dove s'insinuava con coraggio e fatalità, a capofitto tra grovigli, tralci intricati, tra aguzze lamiere. E per le ennesime, impercettibili variazioni contenutistiche (e liricamente allucinate, surreali) di ogni canzone, di ogni album.
Earthquake Glue, certo, risparmia la spregiudicatezza no-fi dei primi anni, distorsioni vocali e strumentali. Quel sistema era del resto il “mezzo” (l'unico possibile in tempi di fame) per incidere, dichiara Pollard, e non il fine, come tutti fanno oggi. L'album é forse il più ispirato degli ultimi anni (diciamo da Mag Earwhig!, 1997), ed implica una maggiore cura dei suoni ed equilibrio formale, mantenendo (recuperando) alcuni tratti distintivi del gruppo.
C'è parecchia di quella grinta che ci stupiva in meraviglie come Propeller, Bee Thousand, Alien Lanes. Melodie accidentali, dalle fatali imprevedibili evoluzioni, spesso incompiute, che sembrano venir fuori dal nulla.
"My son my secretary my country", "A trophy mule in particular", e "Beat your wings" sfoggiano le classiche cromature pollardiane; litanie sottilmente inquiete e insinuanti, sospese, interrotte.
La strepitosa "My kind of soldier" in cima al disco sa come vendersi esaltando l'anima rock più primitiva, smaniosa ed eccitante dei Guided. "I'll replace you with machines", "She goes off at night", "Dead cloud" e "Useless inventions" sono colpi a segno, esempi di beat pop-rock come si faceva un tempo, secco, grezzo e d'alto voltaggio. Effondono spiriti fine settanta, affini a quei gruppi…. Shoes, Beat e Cheap Trick.
Quando poi ci si imbatte nello splendido tradimento di "Mix up the satellites" ci si inchina dinnanzi a tale esempio di irresistibile finezza ed instabilità melodica, che si leva come mellifluo effluvio dai rottami di una vecchia incidentata auto da corsa. E si comprende quanto Pollard significhi, ancora e sempre, per il pop contemporaneo.
(autunno, 2003)