“Too Good To Be True - The very best of él Records” (2005, Cherry Red)


Breve elenco di principali elementi dell'Inglesità:
“Cricket, patriotism, tea, class, public school, bowler hats, sexual repression and the village green”.

Nel 1984 Mike Alway, discografico ed esteta musicale londinese con trascorse assistenze a indie-label Cherry Red e Blanco Y Negro, concepì una sigla personale, él, che contrapponesse alla “mediocrità imperante”, all'oppressione sintetica del pop coevo, un puro stile costruito sull'immaginazione più fervida, ideale fascinoso (“charming, boyishness”) “vivido e artefatto”.
Un illuminato, dorato artificio escapista che coniugasse scopertamente, quasi ostentando, proprio quelle topiche di 'englishness'.
Come un capo casting, Alway si mette in cerca di musicisti nuovi dai caratteri opportunamente scaltri e maliziosi, cui infondere 'lo spirito della scena'.

Individualità contro omologazione, è ciò che propugna e origina él Records nei propri intensi fervidi quattro anni di vita - quelli da titolo, 1984-1988-; anni di entusiasmanti ricerche nel pop foraggiati da Cherry Red “gli unici con coraggio e immaginativa ad aiutare la (mia) label” ricorda Alway.

Il pubblico inglese di contro si mostrò esitante e perplesso di fronte a una proposta tacciata di indulgenza e pretenziosità. Alway e soci chiedevano, essenzialmente come al cinematografo, di smettere i propri panni, ogni abitudine, concepirsi altri e volare assieme.
Volare: su tutto infatti avrebbe posato un'inesplicabile ineffabile leggerezza.
Un verismo trasfigurato in nome dell'arte, un'arte concorde tra vecchio e nuovo, che creava accentuando toni sofisticati e colori caldi, strumenti per arrangiamenti fastosi, colpi di scena e cambi di scena, starlet, poseur teatrali e fogge opportune, panneggi luminosi.

L'avanguardia aristocratica e surreale di él si espleta in una rivoluzione come ritorno, rimpatrio, esibizione; sguardo esasperato in via romantica ad un passato monumentale, inesistente e insieme iperreale.
Un'esperienza trasfigurante incancellabile che è stata in grado di coniugare storia e leggenda, disagio e satira, sibillino e umoristico.
Attraverso la propria lente trascolorava ogni cosa, da originarne, al cospetto, ammirazioni, suggestioni e plagi (mai neppure lontanamente all'altezza), ovunque dalla terra d'Albione sino a quella del Sol Levante.


EL Records verrà ricordata tra le più originali, avveniriste e collezionabili etichette pop di sempre. Può dunque intrigare una compila, estremamente ben redatta, sia pure recante un titolo gravoso (“the very best of”)? La risposta è affermativa.
Non è infatti sempre agevole pronunciarsi sugli assi, gli Lp indiscutibili dell'etichetta, perché appunto non tutti la vedono allo stesso modo. Ma l'epopea di él è anche volutamente elitaria, carbonara, tra innumerevoli depistaggi, nicknames durati un 45 giri o carneadi con cui esprimere un'idea a volte appena focalizzata. O si vedano le tante compile a tema (cfr. le seriali Bellissimo!, London Pavilion), anche a posteriori (Legendary B sides).

Questa frammentarietà discografica in qualche modo giustifica ed impone, una tantum, un tentativo di visione organica, tutt'altro che 'totale', ma utile come denominatore comune, accessibile e familiare, che possa rinverdire, a quanti 'pochi' più possibile, i fasti che furono.
Dunque arriviamo a “Too good to be true”, la più aggiornata tra le sublimazioni di él (e non la migliore, essendo impossibile oggettivare, come detto, tante facce e tante bellezze), ed è partenza ideale, patrocinando lo stesso Alway il mezzo “raccolta”, abbeccedario continuamente sfogliabile e ricomponibile.
Spezzettabile ma integro come un codice.

Insomma se non ci si è mai ritrovati tra le mani un “Appointment With Venus” “Royal Bastard” o un “Cadaquéz” in qualche fiera del vinile, un “Very best” in digitale è la migliore tra le alternative. Fa venir voglia infatti di scavare a fondo, conoscere tutti gli attanti della più eminente armata individualista del pop barocco.


Personalmente conobbi la magnificenza di él proprio attraverso una compila, a questa assai prossima, per scaletta. Si intitolava “Amen - The Last Desert Sunshine of él Records”, anch'essa postuma (1992, Richmond/Cherry Red), recante in copertina una forte allegoria della sorte di él Records: su fondo porpora ardevano di fuochi intensi un gruppo di ceri, a scapito della propria longevità.

Ed eccoci dunque alla scaletta proposta in “Too Good To Be True”, tra variazioni cinematiche, diari narcisistici, pantomime, artifici e fantasmagorie assortite. Da principio è come riproporzionarsi, innanzi a un reame astratto, improprio, smisurato.
Propongo una fittizia divisione dell'opera in due Tempi.
Primo Tempo. Si parte con l'irrinunciabile “Curtain”, dei cinematici Marden Hill, deliziosa ideale concertata intro di tutta sarabanda, che seduce e scaraventa in un altrove fatato. Fiati, clavicembalo e modulazioni morriconiane ove si esprime un tormento delirante epidermico, di magia e festa.

Jessica Griffin, in arte Would-Be-Goods, con aiuti agli strumenti dalla sorella Miranda e di Monochrome Set, è la madrina di él. Ci porge “The Camera Loves Me”, dall'omonimo debutto, importante album dell'etichetta di Alway e prodotto dal Keith West ex Tomorrow, nonchè “Cecil Beaton's Scrapbook”.
Due avvenenti quadretti di pop chitarristico nervoso e magnetico, quanto poi la pregevole “Thames Valley Leather Club” a firma Kevin Wright , ovvero Always, altro personaggio chiave del club.

Si parlava di Monochrome Set, che pure hanno avuto la loro stagione él: autori ideali per Alway grazie al loro peculiare melange melodico naif. Qui affondano il colpo con “The Jet set Junta”, mentre l'eufonico timbro del proprio leader, l'aedo mellifluo Bid, sfoggia quel mosaico di corde sgargianti che è “Love”.

Ascende poi al trono The King Of Luxembourg, aka Simon Fisher Turner, uno dei protagonisti assoluti dell'impareggiabile chimica él. 'This peter pan type figure' concede due policromie viscontiane, nell'operetta “Trial of Dr Fancy” prima e nelle frenesie di “Valleri” poi. “Sotto una batteria frenetica un sottile suono di corno inglese si prostra tre minuti per lasciare la chitarra acustica delirare baroccamente: un maelstrom di chitarre snob votate a essere abbattute dalla rivoluzione proletaria” (A. Calzavara).

Vic Goddard e la sua leggendaria novelty bacharachiana “Nice On The Ice” pattina tra dense intimità di xilofoni, fiati e pianoforte, imprimendo per sempre nella memoria dell'ascoltatore quell'“hey there/Everybody”.
Le voluttuose inclinazioni nelle mediterranee brezze “You Mary You“ e “Guess I'm Dumb”, due vibranti ascese della 'romantic voice' di Louis Philippe (aka Philippe Auclair, il più grande compositore alla corte di Alway), istoriano due mosaici di incantevole soavità classica in sequenza, attestandone l'indivisibilità d'allure.

Secondo Tempo. Inaugura Anthony Adverse, incarnazione di Julia Gilbert, col frenetico gesto latino “The Ruling Class”. La raccolta “The Incredible Anthony Adverse”, contenente l'Lp “Red Shoes” più singoli sparsi, con musiche e arrangiamenti curati da Louis Philippe, davvero fa fede al proprio nome accomodando l'intensa Julia tra i nomi irrinunciabili di él.
Le è affine la raffinata, magica bossa “It's a Beautiful Game” dei criptici Cavaliers, dondolata tra il Joe Jackson in trasferta statunitense e i 'tristi tropici', inquieti, infinitamente lontani, di Isabelle Antena.

Più sul crinale della stravaganza pendono Bad Dream Fancy Dress, particolarissimo duo femminile pizzicato da Simon Turner, che dopo quasi vent'anni protrae il mistero nel suo prodigioso intruglio, irrisorio e perverso, spontaneo e allegro, poltrone ma irresistibile di Shaggs e punkpop in "Curry Crazy". L'altro brano, "Discoteque", è un'impalcatura pop funky, come dei Tom Tom Club ancora più demenziali.
L'esito è sconcertantemente twee ante litteram.

Le limpide arrendevolezze, le turchine schiarite del cristallo amoroso “Oh Constance” ('you're my dearest friend'….), nuovamente Marden Hill, esprimono epitome sensuale a'la Aluminum Group con abbondanti dieci anni d'anticipo, mentre “Nicky” è un'aggraziata illusione ottica d'un giovane ferrato prestigiatore, Momus, che qui apparecchiava l'ingresso di él in quel di Shibuya, Tokyo; uno dei luoghi prediletti per la fortuna dell'etichetta di Mike Alway.

Questa raccolta "Too Good To Be True" tiene particolarmente conto di singoli non facilmente rintracciabili come “Umber Wastes” di Turner, dalla soundtrack di Caravaggio, o “it's a beautiful game” del citato, leggendario combo Cavaliers, a ritrarre il quinquennio di él come autentica fucina o loggia privata musicale; una “Pop Free Music Society” in fervida e continua attività.

Fine. Applausi.
Perplessità in calce. Stupisce l'assenza, date le ambizioni 'Very Best', del piccolo classicone “It's Love” (dei baby chimera Hunky Dory), e della fenomenale “Maria Celesta” (scritta da L. Philippe per Anthony Adverse, tra oblio e abbaglio sensoriale, una delle ineguagliabili vertigini di él), ed altre, troppe ancora, ma ok, qui è già tutta carne magra, sarà per la prossima volta.
Parte del resto si può iniziare a cercare sfogliando altre pagine di questo sito.