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THE BARRY GEMSO EXPERIENCE - La Va Vie (Siesta, 2003)

La Barry Gemso Experience comprende un'orchestra al completo, dal leader Barry Gemso al pianista Charlie Capistrano, Gordon Nagro organista, Okii Onaka chitarra, Andy Badgerset basso, più uno stuolo di altri collaboratori strumentisti (a fiato, a corda, percussionisti, ecc..), tra cui l'ex Monocrome Set, Bid, ora Scarlet's Well.
I compositori Tony Robinson e Orson Presence (anche loro precedenti Monochrome Set) dietro le quinte, ad ordire e produrre il tutto. A quattro anni di distanza dall'esordio Ski Lodge Serenade (1999, Siesta) torna l'impeccabile orchestra bossa pop di Barry Gemso con la medesima line up a sedurre ancora col suo ammaliante stile e gusto dell'arrangiamento, a stabilire una continuità con i grandi maestri del passato.
Uno sguardo meno divertito e preparatorio del lavoro precedente, un impasto più eterogeneo ma similmente armonico, limpido, fastoso e gioioso.
Ondeggianti equilibri vocali e gentilezze strumentali evocano aromi, ambienti senza tempo.
Si avvicendano proiezioni John Barry, Sergio Mendes, Burt Bacharach.
Un senso di sofisticazione ma anche di scherzo e gioco, connubio di affabulazione e realtà, arte e vita. Ogni brano è interpretato da un differente carattere (Natasha, Randal Zanelli Singers, Kazmi Kubo, Emma & Miss Kitoff, Tony Palmer e altri).
Pop, bossanova, soundtrack music, fantasia pop, lussuria e lascivia a muover continuamente paesaggi, a bramar sensi e passioni (“perché guardi gli uomini latini con quegli occhi?”, da mr wonderful).
Dial s for siren, sandman, wood and magic, hitching a ride, the tyranny of dreams, future imperfect, chiffon samba: divine delizie, sempiterne prerogative Siesta ed él Records.
(maggio 2003)


The Bats - Law of things (Flying Nun Records, 1989)

Dopo "Daddy's Highway" dell'87 proseguiva qui la trionfale cavalcata dei neozelandesi The Bats (ex Clean), in praterie di squillanti jangle-chitarre ed estatiche cantilene.
Quest'opera è spartiacque tra decadi '80 e '90 nonché capolavoro del rock del Nuovissimo mondo. Tra citazioni di primi wavers britannici e qualche memoria verso band come Velvet Underground e primi R.E.M., "Law of things" vanta un songwriting eccelso, una sequenza di brani mozzafiato. Da "other side of you" a "mastery", a "nine days", passando per le indelebili "never said goodbye" e "smoking her wings", è puro paradiso pop.
Fantasie vocali, evocazioni e fasti strumentali: tutto degno delle migliori apparizioni pop psichedeliche anni sessanta. Ibridi alchemici tra le chitarre di Robert Scott e Kaye Woodward, il basso di Paul Kean e le raggianti vibrazioni folk del violino di Alastair Galbraith. Spirito, senso narrativo fiabesco e sentimentalismo intriso di nostalgia.
(giu. 2004)

 

BC Camplight - “Hide, Run Away” (One Little Indian, 2005)

"I was never the cool kid, but the cool kids liked me", è la frase con cui ama presentarsi il venticinquenne statunitense Brian Christinzio “BC” Camplight, pianista sin da giovanissimo e scrittore di canzoni d'eccezione, d'ottime frequentazioni (Bacharach, Rundgren, Randy Newman, Richard Davies, Ben Folds) e un talento fuori dal comune. Ama dirigere da solo la propria musica, suonando tutti gli strumenti, più qualche aiuto digitale (“se sapessi suonare la batteria…”).

“Hide, Run Away” è il debutto di BC Camplight -pseudonimo di Brian Christinzio-, un album fuori dall'ordinario che difficilmente si scrolla di dosso dopo l'ascolto. Questo giovane compositore americano sa come servirsi di molteplici tradizioni del pop (e non solo) senza prevaricare la propria originalità, firmando brani dalle armonie impeccabili e originali, finemente orchestrati da fiati e archi, tastiere elettroniche, oppure acustici in punta di voce e pianoforte. In più, dirige le danze come un produttore navigato.

Siamo indubbiamente al cospetto di uno dei debutti più memorabili dell'anno. Istintivamente orientato su parabole They Might Be Giants stagione recente, o più consciamente Billy Joel e Ben Folds, Christinzio concepisce un gruppo di canzoni “classiche” di viva bellezza che scivolano con grazia l'una nell'altra, componendo un corpo d'insieme vivido e coerente.

Continuamente stregato dal fascino della naivetè, dalle pulsazioni e forme di essenze immaginarie e sfavillanti, formicolanti e arcaiche, egli da del tu alla fabbrica dei sogni immergendosi e baloccandosi, riportandone su microsolco le visioni, perenni emozioni tra astrazione e consistenza.
E' il caso di “Emily's Dead To Me”, “Hide, Run Away”, “Parapaleejo”, “La, La, La”: portenti, tuffi al cuore non autorizzati, esempi di scrittura già lucidissima nonostante lo stato d'esordio; canzoni come pianeti a sé, smaglianti e trasognati luna park, plasticità squisitamente retrò. Mosche bianche nel panorama odierno.
Una ricognizione che coagula nuovamente pagine nostalgiche e beate della nostra memoria, percezioni che tingono ancora distese di gradazioni originarie.

Qualità, queste, “ovviamente” non colte dai soliti scribacchini yankee (le cui orecchie meriterebbero indubbiamente di incontrare lo scoiattolone di copertina), quest'album offre, al contrario di tanti bluff di plastica da loro gonfiati, autentiche emozioni possibili.
C'è molta Europa in questo album, ci sono i colori della tradizione, figure circolari, ed è una tradizione di cui Christinzio si vale in virtù della propria eterna ricorrenza. Capiterà quindi, di intendere nel titolo della ballad commiato “Sleep With Your Lights On”, una luce accesa interiore, come un appello alla nostra individualità irriducibile e più inviolabile.
D'altro canto, brani gustosissimi come ”Couldn't You Tell” (esaltante), “Blood And Peanut Butter” e “Richard Dawson” si assimilano invece alle cose di Dolour, AC Newman e Sparrow. Avvincenti pezzi pop guidati dal piano elettrico, ricchi di retaggi power-wave tardo settanta.

(settembre, 2005)


BEACH BOYS Pet Sounds (1966)

Più che giornate di sole e ricreazioni, Pet Sounds sa evocare nubi, ansie, malinconie, disillusione. E'un paesaggio-passaggio che appare al termine di una stagione (intesa anche in senso lato, musicale.. pur predicendola nel 1966, sembra d'essere nel '70).

E' esattamente il crepuscolo dell'estate. Fuori dal finestrino del treno che, a passo d'uomo, riporta a casa, si vede un lungomare nuvolo e selvaggio, ragazzi che sistemano le tavole da surf sui furgoni, un mare in burrasca che fa provare inquietudini, un'intensa brezza inebria e stordisce.
Pet Sounds è un racconto in capitoli sulla stagione che è trascorsa, che ora manca allo spirito.
Un momento particolare, una sensazione che presto si estende e riverbera a tutta l'esistenza.
La stagione di un uomo che pensa alla sua gioventù. La malinconia muta in modulazione.
Chissà cosa ne è stato, cosa ne sarà, delle speranze e della fiducia nei pensieri di wouldn't it be nice. C'è qualcuno, da qualche parte, che "ancora crede in me" dopo tutto ciò che fu, rinfrancati, ci si ritrova a cercare un pianto liberatorio nella propria coscienza.
La nostalgia rigonfia di let's go away for a while stempera in pulviscolo atmosferico: non è che il nostro sguardo su spiagge che fuori corrono via, velocemente, dentro un silenzio. Caroline no testimonia un cambamento avvenuto e irreversibile. Storia d'innocenza perduta, fuggita.

Musica triste e intensa perchè sensibilmente memore (Sloop John B, God only knows what I'll be without you..). Che sposo idealmente a uno dei tanti drammi di celluloide di fine anni sessanta, ma più emblematico e metaforico: Last Summer: cominciava col ritrovamento di un gabbiano ferito sulla spiaggia deserta, poi il cambiamento che travolge ogni purezza, e un bellissimo, memorabile, silenzioso tramonto nel finale che troneggia, col proprio passaggio, su tutto.
L'immortalità di Pet Sounds risiede nel suo essere opera eternamente in passaggio, transitoria, perennemente in corso, un'Endless (end of) Summer, musica che libera un'armonia panica e vertiginosa, un fascino sublime: arcano, classico e misterioso.
(giugno 2002)

 

BEACH HOUSE - Devotion (2008 Carpark)

Avvolgente e attonita prova di forza amorosa da parte del duo di Baltimora, Maryland, Alex Scally (a chitarra e tastiere) e Victoria Legrand (canto e organo), che bissa qui il già esemplare esordio omonimo dell’ottobre 2006.
L’avvallo invernale è mimato dalla fragilità e dalla sfibrata lirica sentimentale e si cura omeopaticamente, da vampate blues in un velluto di luce dream-pop.
Spiazza non poco l’ardente e tenue alone di trame strumentali, come ardito romanticismo rinsavito, intenso e vestito in sgargianti cromature fuori moda. Che sparge con premura e inquadra oniriche un gruppo di canzoni antiquate, spaesate e dolci, adorne d’un fascino remoto d’ingombrante avvenenza, rigonfiando ogni cosa di valori luministici di classica, eccedente intensità.

“Devotion” appare come un sortilegio immaginoso fuori tempo, ritorno di fiamma di una magia in disuso. Nella sua fluente, istintuale individualità, Beach House suscitano e richiamano alla mente le gesta di semidei andati, combinando memorie di Mazzy Star e Galaxie 500, Silvania e Sugar Plant, la cui arte chimerica e psicologica seppe negarsi ai limiti dello spazio, oltre il transitorio, fino alla trascendenza.
Stormi di delicati cori misti come eco del Tempo perduto scendono e rifrangono su vertiginosi manti di tastiere e strumenti in riverbero. Chitarre delay, fiochi effetti fuzz, magnetici chiarori dream arroccati entro soffici e vistosi wall of sound, evolvendo moltiplicano il desiderio, avviluppano l’ambiente di tante piccole mani carezzevoli.

Senza soluzione di continuità scorrono soavi questi richiami, ritentive beatlesiane; la spiritualità strumentale di David Gilmour soffia pungente sulle delicate sfumature tonali di Victoria, nelle tinte quasi fiamminghe di “You Came To Me” e “D.A.R.L.I.N.G.”.
Tra radi litorali e scaglie di specchi scorre e danza l’energia umana. Mirabile in questo contesto la cover di Daniel Johnston “Some Things Last A Long Time” (dall’album “1990”).

Un’acuta, errante naturalezza si arresta in un istante di durata eterna. Il candore primigenio da gruppo vocale anni 50 plana su “Wedding Bell”, “Turtle Island” sino alla tormentosa, devastante “All The Years” inibendosi poi su “Heart Of Chambers” e sulle policromie volubili di “Gila”: “Devotion”è già più d’un mezzo classico.

 

Bearsuit - cat spectacular

Questo è un piccolo sorprendente album pieno di trucchi, smanie, turbinii, genialità sparse.
Deliziosamente spartito tra sketch e introspezioni, "Cat" è un contenitore patafisico e dislessico divertito e casuale, compresso all'inverosimile.
Memorie, nostalgie d'un po' di tutto, groviglio di baby strumenti; uno zibaldone "sandieghese".
Punk twee pop. Più chiaro di così.
(2004)

 

THE BEES

Sunshine hit me (2002)


Un disco pop spensierato e grazioso, ma anche prezioso, più del solito. Può ricordare una maniera di fare che ha preso piede da Beta Band in poi, si dispone un arsenale di strumenti o giocattoli digitali, si satura l'ambiente di invenzioni e piacevoli citazioni altrui, con una perizia assemblativa in grado di disorientare. L'arte chirurgica di Beck e di Solex.
Punchbag che apre e Sky holds the sun che chiude il disco basterebbero da sole. Due capolavori pop modello "bacharachiano".
Angryman potrebbe appartenere a Kid Creole, No Trophy a Peter Tosh. Minha Menina è una cover piuttosto anonima, perchè calligrafica, della gemma di Os Mutantes. This town e Lying sono mesti interludi folk, Zia (sic) una delizia percorsa da un fumoso pianoforte senza tempo. Sweet like a champion ha le inflessioni degli Optiganally Yours.
Ciò che più rimane, forse ancora più delle canzoni, è una densa aura arcana e naif che percorre tutto il disco; una sbiadita impressione atmosferica seventies, la stessa nostalgia e il malinteso che si prova guardando una vecchia fotografia scolorita, che ci incanta per la sua fragilità.
(dic. 2002)


Free the Bees (2004)

Qualche tentazione hippie era già in passato sgamata, ma mai avremmo presunto una tale rivoluzione, una tale ineccepibile mimesi spirituale. Dopo quell'esordio elettropop quasi perfetto, gioviale e ironico che fu "Sunshine Hits Me", ecco un esemplare non-seguito, un'esuberante rivolgimento "acid" che torna a deformare la musica.

Rimbalza inopinatamente l'era di Nuggets, più vera del vero: quegli sgargianti torrenti di chitarre, quegli organi e tastiere, quelle armonie vocali, quegli intensi e purissimi drappi melodici folk-esotici.
"Free the Bees" suona come (è) un grande, perduto album di 35 anni fa.
Alan Mc Gee patron della Poptones avrebbe volentieri scambiato tanti suoi epigoni poco convinti con un disco vibrante e appassionato come questo. Tra i maiuscoli del 2004.
(giu. 2004)

 

BEN FOLDS FIVE
Whatever And Ever Amen (1997 Sony/Epic 550 Records)


Nei primi anni ‘90 Ben Folds, Carolina del nord, si mette a comporre canzoni pop con continuità, e ad incidere dischi. Il progetto allestito assieme a tre amici, due strumentisti e un produttore, si chiama Ben Folds Five, ma agli strumenti sono in tre. Folds dirà che “five” suonava meglio di “three”.
Nella sua band del college, i Majosha, Ben faceva il bassista, ma poi ha messo mano al pianoforte. Nei Five, dunque, Ben suona il piano, Robert Sledge il basso e Darren Jessee la batteria; tutti e tre responsabili dei cori. Caleb Southern alla produzione.
La chitarra è completamente assente, sarà questo uno dei motivi della particolarità della musica del terzetto. La quale, curiosamente, non ricorda quasi per nulla i forieri tirati in ballo: Elton John, Billy Joel, Joe Jackson, 10cc. O i più recenti Jellyfish e Wondermints.

Questo si deve alla particolare pulsione satirica dei Folds Five. Una preziosa suggestione domestica, grinta e compattezza infuse dal post punk, sul piano formale (strumenti intenzionalmente sguaiati) e contenutistico (l'invettiva misogina nel brano Song for the dumped :“give my money back…you bitch! and don't forget…to give me back my black T-shirt!” o la rivincita contro i gufi di One angry dwarf…“now I'm big and important... Look who's telling who what to do! Kiss my ass good-bye”). Questo fa suonare estranei, rende altri, leggeri, strumenti come archi, pianoforte, violoncello e viola.
L'esordio omonimo del 1995, per Caroline, è già un lavoro esemplare. Il trio sconcerta (sorprende) la critica: merito di una freschezza e di un'energia inaudite in un disco pop. In Folds la verve strumentale si mischia con l'umorismo nerd da debosciati. Il piglio cartoonistico è quello di Zappa e Rundgren.
Strumenti presi d'assalto, anche picchiati; vocalizzi che da armonici si fanno irriverenti, sgraziati e isterici. In brani come Jackson Cannery, Julianne, Where's summer B?, Underground, tutti strepitosi, i Ben Folds Five sono i figli ribelli dei Beach Boys.

Whatever And Ever Amen è classicità insolita e sberleffo, devoto ma ribelle, monumento e insieme insulto alla sua musica, ai suoi elementi costitutivi. Come e più dell'esordio, Whatever… è girandola floreale, zibaldone carnevalesco, celebrazione delle umane emozioni.
Whatever And Ever Amen convive fra differenze, avvicina opposti. Europa e America, un ego scalmanato ed elegante assieme, gioia convulsa e voglia di abdicazione; istinti epidermici e amare riflessioni esistenziali si susseguono e si compenetrano senza sosta.
Regna un equilibrio quasi surreale: la malinconia si stempera con un senso di scherzo cialtrone, un senso del comico sfrenato, di “take it easy”, e ritornelli memorabili.I colori del piano di Folds, le arie intonate, eleganti, miti e descrittive possono volgersi o spartire la scena con furibondi vortici lancinanti: intensità che variano con l'oscillante approccio strumentale del performer. Il fracasso delle percussioni di Jessee, il basso grossolano di Sledge sono i migliori assistenti possibili.
Ciò porta a concepire il tipo di pop ibrido sofisticato, romantico e scalmanato di Selfless, cold and composed, e di Battle of who could care less.
La già citata One angry dwarf and 200 solemn faces è saggio della sregolatezza e dell'arte funambolica del trio, giunta a maturazione. Alla narrazione incalzante si affianca a una sbalorditiva fuga strumentale da virtuoso, che cita Gershwin, Jerry Lee Lewis e persino gli alchimisti del progressive.

La stregante melodia off-Broadway di Fair, il suo sentimentalismo, la soave fatalità (“but then all is fair, all is fair in love”), per via di quei cori languidi e glicemici, non fa prigionieri, scaraventa il disco nella stratosfera, nella leggenda. Un senso tragico carveriano nella vicenda di Brick, una decisione irreversibile, un lirismo amaro e pungente (“and we drive/now that I have found someone/ i'm feeling more alone/than i ever have before”).
La devozione nelle ballate minimali e appartate Cigarettes ed Evaporated fanno pensare a un Randy Newman particolarmente toccante. L'inno spensierato e trascinante di Kate, altro capolavoro melodico, gioiosa sarabanda felliniana che tramuta il sentimento amoroso nel desiderio di appropriazione fisica.
Missing the war e Steven's last night in town sono due festival di vocalismi armonici anni'60..
(lug. 2003)

 

Bernard Bonnier - Casse Tete (1984)

Un’esperienza straniante e intensa l’ascolto di questo album da culto assoluto, ove tutto è dinamico e fremente.
L’empirico, filtrato attraverso la lente dei media, volge in suoni d’alienazione, danza omnibus di ritmi, ossessione e distruzione. Suoni forieri in un lucido montaggio postmoderno che svela un solo, grande, amplificato campo magnetico volto in musica, tra attrazioni, giochi fonetici, segmenti mnemonici.

Bernard Lubat - Lubat, Louiss, Engel Group Live In Montreux 72 (1972)

Ennesimo sorprendente act marchiato a fuoco dalla NWW List che vede un quartetto occasionale di musicisti d’area francofona.
Il batterista e tastierista Bernard Lubat (già nella serie Vibrations e poi con Mad Ducks e con Michael Portal), cui è erroneamente attribuito l’album come ‘solo’ nell’elenco di Stapleton e soci, è affiancato in questo concerto in quel di Montreux Jazz festival, giugno ’72, da personalità scafate come Eddy Louiss al piano elettrico Fender (e già con Getz, Luc Ponty poi con Petrucciani ecc..), il bassista Marc Bertaux e Claude Engel alla chitarra elettrica (tra i fondatori di Magma, Omega Plus e attivo in album di culto spesso dimenticati come “L'Enfant Assassin Des Mouches” di Jean-Claude Vannier).

Particolari alchimie e magnetismo pervadono sotterranei questi quattro lunghi brani di jazz-rock contaminato, di stampo primo ’70 d’irresistibile, contagiante aroma vintage. Spiccano timbri Fender, soli di chitarra come istanti di fissità soprannaturale; talora percussioni tribali che infondono climi freak-psyche alla Don Bradshaw-Leather.
Improvvisazione certo, ma anche coesione indubbia tra i quattro ‘incantatori’.

Ma è certamente decisiva la suite finale, “Mickey Schrœder’s dream” a staccare un biglietto per il posto in lista: qui succede esattamente ciò che non ti aspetteresti da un prodotto del genere.
Dapprima, Lubat al Fender tratteggia morbide panoramiche d’ampio respiro, poi capovolge quell’ambiente ben definito, solare e pallido, in notturne, livide sterzate di synt, piatti, echi ambientali, voci ombra e percussioni effettate. Trasmettendo una sottile, percepibile inquietudine
Come prendessero vita i residui inquieti (se non ostili) delle orge strumentali che anticipavano.

 

BIFF BANG POW! The Girl Who Runs The Beat Hotel (1987 Creation)

Quest'album la cui malinconica, memorabile leggerezza in forma di luminosi trapassi pop d'Albione resta negli occhi e nella mente di chi lo ascolta, adesca e abbranca senza rimedio le anime più vulnerabili e romantiche.

Protagonisti di questo tormentato e luminoso amarcord, chitarra ed organo dell'Alan McGee patron di Creation, le voci, quella di Christine Wanless in primis; e l'emotività galoppante in brani come “someone stole my wheels”, “he don't need that girl”, la pre-Sebastiana sarabanda di “Love's Going Out Of Fashion”, la ballad “she shivers inside”, ma soprattutto la memoria lucida nella poesia storna, spoglia, mozzafiato, di “the happiest girl in the world”.


Indimenticabile.

BIG STAR - Third

Third è il capolavoro di Chilton, va ben oltre ogni definizione o recinto di 'genere': laddove i precedenti inventavano il 'powerpop' per i posteri, assieme ad altri campioni anni settanta come Shoes, Scruffs, Toms, eccetera, ed erano più lavoro di squadra, giovanili, epidermici (nessuno dimentica il grande Chris Bell, co-regista agli esordi, poi scomparso nel '78).

Third rimane un'opera assolutamente misteriosa, nata e cresciuta in cattività, pubblicata anni dopo la sua realizzazione. La maledizione di Chilton, aver precorso i tempi al punto da bruciarsi.
Third è una realtà enigmatica, un'aura stordente, elusiva, meravigliosamente ambigua. Tante direzioni, figurazioni melodiche, omaggi alla tradizione e baratri di disperazione che reagendo assieme originano alchimie come assolute vertigini estetiche.
Questa Femme Fatale assente, scolorita, eppure senti che è parte essenziale all'insieme, gigantesca come tutto il disco. Che sviluppa, per contrasto, fasci di luce che sono abissi esistenziali, musica taumaturgica.


L'ordine dei brani, la scaletta, è quanto mai opinabile nelle numerose ristampe del disco.
Chiarisco subito che a Third/Sister Lovers la questione non tocca più di tanto, perchè comunque lo giri è sublime. Debbono essersene accorti i discografici,  perchè ci sono differenze enormi nell'ordine delle tracklist nelle 4-5 ristampe dell'album, e la cosa mi infastidisce un pò.

elenco le ristampe in mia conoscenza (io il disco l'ho conosciuto con la Line).

LINE Records (ristampa anno 1985, 87)
http://rateyourmusic.com/release/album/big_star/the_third_album
PVC (1985)
DOJO (solo vinile)
RYKODISC (1992, 2006)
http://wm08.allmusic.com/cg/amg.dll?p=amg&sql=10:3ifixql5ldfe
4 MEN with BEARDS (2007)
http://rateyourmusic.com/release/album/big_star/3rd/

ciascuna con una copertina diversa.
la più bella è la 4 MEN with BEARDS, la più nostalgica è la Line.

Identica non è neppure la partenza del disco. 'Kizza me' e 'you can't have me' prima e seconda ugualmente su Ryko e Line, ma la 4 Men e la Dojo iniziano con 'shake it noel'. E' già un bel misfatto, non credete? La partenza a volte, è tutto..

Poi: la ristampa Rykodisc (quella per intenderci con la orripilante copertina pin-up che non c'entra una nespola) prosegue con 'big black car' che sulla Line è relegata all'ultimo posto.
'O Dana' precede 'femme fatale' mentre nella RYKO la segue, inoltre qui 'Whole Lotta Shakin' Goin' On' è una bonus track e sulla Line è la sesta traccia.


Insomma, Third è stato, e resta un mistero, non ancora decrittato completamente, e forse mai sino in fondo, anche per questo, chi anticipa cosa, chi segue, chi viene ripescato...tutto pare scivolare via rimane solo una depressione terminale e tutto il meraviglioso della vita, che riesce a stillare da quel baratro.

Forse, Third di Big Star è l'unico grande esempio di disco leggendario dalla sequenza non sequenza, puro disordine creativo, construktion-kit in perenne fieri "tanto come lo giri viene bene, è arte"... shuffle a piacimento e gusto delle label.

 

THE BIRDTREE orchards & caravans (2002)

Jewelled Antler può considerarsi l'erede più legittima di Kill Rock Stars. Ne eredita lo stesso gusto iconoclasta e della mescolanza indiscriminata, lo stesso spropositato coraggio a scovare e scommettere su pseudo promesse dell'indie, che non arriveranno mai, o se lo faranno tanto avranno già dato il meglio. Si riservano un luogo privilegiato in ogni collezionista che di fronte a questi prodotti può compiacere il proprio ego un po' Syd Barrett un pò Glenn Branca.
A prescindere dalla propria etichetta, e tirando un po' le somme, i suoni di Birdtree potrebbero comporre uno dei prodotti musicalmente più affascinanti di quest'anno. Space-psichedelica umorale in bassissima fedeltà, seducente senso di eco della casa accanto, lontananza e confine; un mosaico pure visibilmente (risibilmente dirà qualcuno) "rimediato" dei mezzi di studio non proprio faraonici prediletti dai portatori delle "nuove" estetiche indie-wave.
Field recordings, riverberi, suoni altr(u)i, rimbombi, fragili arpeggi e una voce inesorabilmente sperduta, quella dell'autore, solipsista, Glenn Donaldson. Costui presiede suoni e collage, chitarre, bozouki, banjo tenore, batteria, wurlitzer, campane, pianole elettriche giocattolo, armoniche e quant'altro. Effetto e seduzione nell'insieme, senza dubbio.
(2002)

 

BOBBY CALLENDER Le Musée de L'Impressionnisme

Impressionismo e soul, due universi si incrociano in una sconvolgente ossessione romantica, un tripudio come flusso onnidirezionale ininterrotto, che travalica la forma-canzone per farsi concept-panneggio e mosaico carnale. Psichedelica, pop, funk, in un assordante abbaglio, una sinfonia sensuale in cui pittura e musica sgorgano e versano da uno stesso spirito torrido. Callender stregato e sfrenato cerca lo stesso effetto spaziale pittorico, le dissolvenze cromatiche e gli effetti di luce, gli echi e i rimbombi, l’armonia aurorale di quella pittura, attraverso un autentico rapimento estetico che conta pochi eguali nel pop.

Quasi un’affezione psicosomatica, un mimetismo tale, al cospetto e nei riguardi del “senso profondo” dell’opera, che approssima l’autore a un punto tale da esprimere in francofono, uno smarrimento dal quale (non) cerca di destarsi, orientandosi, sperimentando attorno a un linguaggio nuovo di ebbrezza, respiri e aneliti ("Monet, Monet, Monet..."), impressionista e radiante a sua volta, messo in orbita da strumenti fraterni, come turbini in estasi.
Troppo davvero perchè fosse compreso, tanto nel ‘75 quanto oggi dopo la ristampa; tanto più voto sincero, monumento amoroso autentico.
(Fabio R., 2009)

THE BOOKS Thought for food (2002)
MARZ Love streams (2002)

Misteriosi oggettini idealmente accostabili, alieni nel 2002 che manifestano un'esigenza di linguaggio differente, più sottile, rinnovabile nel subconscio. Un esemplare senso del collage, costruito assimilando attimi casuali, frazioni subliminali.

The Books in particolare realizzano un Camoufleur sul lettino dello psicanalista, un prodotto assolutamente libero e suggestivo, leggero e equilibrato, libero da condizionamenti indotti, avvincente nella sua progressione, ardito nella sua arbitrarietà semantica fatta di conversazioni cut-up, di field recording, di accostamenti formali improbabili.
"i was born in the day the music died" sentenzia la voce, e sulla base un mirabile raggiro ai Pink Floyd.

Marz documenta sin dalla copertina le pulsanti ansietà e le agitazioni della comunicazione, la proliferazione e la contaminazione di idiomi, di codici emotivi, prediligendo poi un romanticismo aereo, etereo e delicato che a tratti richiama Mice Parade e Drake; un imbarazzo di valzer di eventi e disturbi che favorisce un'ostentazione libera ad un tentativo di ordine, criterio e giudizio alla narrazione, richiamando il flusso sciolto, incontrollabile e disorganizzato del pensiero, del sogno.
La forza del risultato è nello shock che sanno dare approcci fortuiti ma esemplarmente appropriati come questi; il clamore di trovare una simbiosi, una continuità e suscitare in chi ascolta, in chi "vive", particolare emozioni e sentimenti. E poi la sapienza di orchestrare insieme tutta l'esecuzione, trovare un senso di non-compimento ideale. L'urgenza è trasmettere pulsioni, vertigini nel proprio frenetico alternarsi e sovrapporsi reciproco.
(dic. 2002)

 

BOREDOMS- Super Roots 6 (1996)

Questo ennesimo lavoro dei Boredoms è da considerarsi come un sunto degli ultimi 30 anni di storia del rock più sperimentale, riproposto in una sorta di centrifuga mimetica e dislessica.
Un delirante collage avanguardista, visionario e psichedelico; un calderone in cui gruppi come Neu!, Can, Faust, Red Crayola, Talking Heads, Devo, ecc... vengono rimescolati, "rigiudicati", resi irriconoscibili grazie a un' opera di notevole, creativa rilettura.
Questo lavoro è evidentemente figlio del Postmoderno per via della incontrollata casualità, degli arditi accostamenti, che rinveniamo al proprio interno. Non sa mostrare, né esporre un Enunciato chiaro e comprensibile, e l' anarchica schizofrenia domina incontrollata.
Troviamo un brano, leit-motiv del lavoro, che viene ripetuto, sottoposto a diverse velocità come nel capolavoro dei Neu!, "2", prima linearmente, poi velocizzato, rallentato, trattato e osteggiato con feedback e distorsioni di vario tipo.
Troviamo anche tracce, resti, avanzi di sublimi aleatorietà cosmiche di valore essenziale; intermezzi comici, ma anche pulsanti, schizoidi ritmi Byrno-Eniani a riprender vita dal limbo. Quel che si ottiene un senso di rottura, un relativismo ironico e deviante all'interno del linguaggio.
I Boredoms appaiono dei maestri nel saper riproposizione qualcosa di nuovo dall'usato, un usato per di più sotto forma di frammenti e disgregazione.
Loro riescono ad assiemare, a trarne un collage, restituendo ad ogni cellula una nuova dignità artificiale, post-mortem.
(2001)

Vision creation newsun (2000)

Chi avrebbe osato pensare che una band come i Boredoms fossero potuti arrivare sino a questi livelli, soprattutto alla luce dei primi due album (ricordo quell'accozzaglia dadaista che era Onanie Bomb Meets The Sex Pistols), essenzialmente basati diciamo sulla sperimentazione, su rumori, distorsioni, grida e altre emissioni corporali.
Col passare degli anni e delle pubblicazioni discografiche i BORE sono maturati in maniera vertiginosa, impressionante, meravigliando gli amanti dell'indie sound planetario con quel piccolo capolavoro che era Super Roots 6, anno 1996.
Una crudezza autoreferenziale quanto masochista fa posto a una maturità che non si osava neppure pronosticare. Una mutazione, una vera e propria rappresentazione del Post Moderno in ambito Rock, pieno com'era delle più disparate suggestioni, impressioni, di ogni scibile musicale del dopoguerra, ma programmaticamente, com'è tipico di questa corrente culturale (e per la quale molti provano un sistematico rigetto): disgregato, frammentato, caotico. Anche inesorabilmente, beffardamente ironico.

Il mondo li aveva scoperti (sia pure un mondo sotterraneo e parziale), e ne aveva lodata un'indubbia cultura musicale, prodigio di sintesi: saper sorprendere recuperando e miscelando elementi dissimili e/o opposti, mettendo assieme un edificio e saperlo mantenere in piedi utilizzando essenzialmente resti, avanzi.
Un Neu! 2 riveduto e corretto for new people. In seguito sono venuti Super Roots 7 e Super roots ae, sullo stesso filone.
A ben vedere questo Vision Creation Newsun mostra evidenti parentele con i lavori precedenti. La stessa necessità di esprimere, comunicare disordine, caos, ma adesso, anche esplosione. Estro-flessione degli esperimenti che in passato la band giapponese realizzava sotto cute. Vision Creation è dunque una vera esplosione, e un vulcano che erutta è il perfetto contraltare visivo. E' composto da un'unica, lunga suite di 70 minuti circa, che è un magma inarrestabile, travolgente. I ragazzi sono colti, non ci piove. Hanno smesso le vesti di demenziali impuniti, e si sono mostrati perfettamente a loro agio nel riproporre in modo personalissimo, entusiasmante, l'usata materia, perlopiù occidentale, di base psichedelica, acida, krauta, prog cosmica risalente a un trentennio fa aggiungendo tripudii, visioni, tribalismi alla Eno-Byrne, più estasi Sun Ra, Pop Group, Rip Rig & Panic; evitando illusorie promesse del decennio '80 sono approdati agli anni '90 appena trascorsi. Ne hanno ricevuto programmi, regole, topiche trovando forma per i contenuti. (feb. 2001)

 

Polly Bradfield - Solo Violin Improvisations (1979)

Ironia e loquacità nella copertina di questo piccolo sublime monumento alle proprie chirurgiche ossessioni in una pratica concreta di libertà. Un dialogo teso/improvvisato con l’accento su frammenti dispersi, che è assieme rigoroso e caparbio colloquio con uno strumento in cerca della propria più chiusa, ultima essenza.
Strumento spoglio, acustico senza orpelli, amplificatori e propaggini di sorta.

Un piccolo dolce, maniacale, irretente atto che schiude e stilla un nettare infinitesimale, emana voci e versi ancestrali, quelli di un nuovo essere. Il gesto della Bradfield è tagliente come una cesoia, calibrato allo spasimo. Costantemente rinnovato, indolente e aspro, vessante e ironico, preservato in un estre(re)mo.
In questa sofferta dinamica di scomposizione, di depravata autopsia, il violino pigola, gracchia, stride capriccioso come un neonato, come un nuovo essere in cerca d’espressione, alla scoperta di un possibile linguaggio.
Nel metodo dell’improvvisazione un nuovo battesimo contro ogni deterioramento della pratica retorica e al di là di recinti linguistici indotti. Un’altra identità, remota e oltre il proprio ruolo dominante, un viaggio a ritroso e in nuce che esamina e scandaglia, intorno e dentro, assiduamente ogni recesso.

 

BRIAN - UNDERSTAND (1992)

L’indole di Ken Sweeney esprime la stessa straziante consapevole tristezza che scuote Bob Wratten e F.M. Cornog; corde che stillano desolazione amorosa al cospetto di un mondo magnifico e crudele.
Ma Ken è un pittore capace di forme di colore puro, di tinte emotive intense, dilanianti (‘Understand’, ‘A Million Miles’, ‘You Don't Want a Boyfriend’, ‘Big Green Eyes’), con cui affronta risoluto e senza compianti il destino, una sorte già pronunciata e deformata dal peso di un’inaccettabile condanna.

 

BRIDGE- Preppy Kicks (1994)

Un altro inarrivabile oggetto del desiderio. Il delizioso e sempreverde Preppy Kicks di Bridge, assoluto splendore, opera ripescaggio indiscriminato dal passato ("da passati"), raccontando con ammaliante, seducente lievità, con apparente semplicità, materie "raccolte" che verranno esposte con assai più ruffianeria, maniera, e minore creatività da altri autori all over the world.
L'ambiente è festaiolo, dominio d'un easy listening che racchiude in sè una vasta gamma di stili.
Girotondo di cabaret, vaudeville surreali balletti stile Broadway, soul jazzismi, lounge ed exotica, il tutto ottenuto dissimulando con grande sapienza il proprio intimo sofisticato. Si raggiunge una perfezione difficilmente eguagliabile da autori occidentali, perchè è un risultato anche ambientale, differente sensibilità culturale, risultato di un processo di sintesi "fascinosa" arduamente esportabile o riproducibile.
Preppy Kicks, già ascoltato altre volte e, insieme, mai prima d'ora. Terra d'archi svolazzanti, di organetti, di strumenti a corda e a fiato scintillanti e soavi. A volte si privilegia l'introspezione, si sfiora una preziosa, delicata intimità, ma ammiccando, rivelando confidenze preziose ed intime.
Privilegiato, confuso, stregato, l'ascoltatore (occidentale) vanifica ogni ostilità per lasciare lentamente, fatalmente, pervadersi.
(2001)


BROADCAST

Pendulum ep (2003, Warp)

L'ep Pendulum di Broadcast anticipa di qualche mese la pubblicazione dell'album Ha Ha Sound, su lunga distanza.
Un sestetto di pop decisamente instabile e avanguardista, laddove Ha Ha Sound celebra una smarrita purezza pop-syche.
Apre il singolo pendulum: atmosfere alienate e caustiche su cui la voce della Keenan distende ogni immaginazione, per planare e perdersi dolcemente nel limbo di small song IV.
One hour empire è un immersione claustrofobica noir, un'attrazione da pellicola bianco e nera talmente vivida che sembra di vederla, spartita fra distorsioni tastieristiche e percussioni di ispirazione jazzistica.
Still feels like tears è una rinfrancante oasi di melodia dall'andamento incalzante.
Le doti del batterista Neil Bullock si esaltano ancora nell'art-rock di violent playground.
La conclusiva minus two è una scardinante, frammentaria, arcana suite concreto-avanguardista, di grande efficacia. Ma niente paura, è pur sempre pop.

Ha Ha Sound (Warp 2003) 

I Broadcast sono l'orgoglio di Birmingam. Una città che deve aver ispirato non poco le atmosfere, le sensibilità musicali dei concittadini Pram, L'Augumentation, Plone, Novak, Magnetophone.
Ma le celestiali alchimie e gli inediti incroci linguistici di Broadcast c'entrano e non c'entrano in tutto questo, fanno molto storia a sé.
Trish Keenan è la cantante; una voce sensualmente minimalista, che plana su infiniti tessuti sonori, carezzandoli.
Roj Stevens alle tastiere, James Cargill al basso, Tim Felton chitarra, Keith York, Neil Bullock e Steve Perkins alla batteria.
Incidono assieme dal 1996, fra 7'', Ep e Lp, fra Warp, Duophonic e la rimpianta Wurlitzer Jukebox, Broadcast rappresenta una delle band più magiche e seducenti, tra le migliori in attività.

Colour me in che apre il nuovo lavoro di Broadcast è l'abito da indossare, chiave di volta per introdursi e disvelare un emisfero completamente incantato, immerso in suoni, echi e colori che ibridano soundtrack pop, psichedelia, folk, jazz noir, avanguardia, exotica, attraverso uno stile personale e inconfondibile.
I Broadcast sono un gruppo volto all'esplorazione della galassia del pop più immaginifico e sensuale, un misto accattivante di confidenziale e sofisticato, avant e retrò compiuto la magia della strumentazione analogica.
Lisergici come Pram e Ladybug Transistor, con l'esotismo delle raccolte “parallele” Switched On degli Stereolab.
Dove questi ultimi concepiscono uno stile cerebrale, iterativo, ironico, le incursioni armoniche dei Broadcast paiono più casuali, naif.
Posseggono una dimensione pittorica e illusionistica.
Fluttuazioni espanse e dilatate, ed anche esili, spettrali, disciolte in romantici e quasi trasparenti giochi di fantasia in grado di alterare la percezione.
Nel corso delle composizioni i Broadcast pongono rifrazioni, spiazzanti tranelli, insidie, piccoli agguati alla norma.
Before we begin, valerie, minim, lunch hour pops, ominous clouds, the little bell…. rivelano una straripante magica essenza, l'aura arcana e straniante di un luna park di provincia a tramonto del dì di festa.
Un senso di surreale e fiabesco, di premonitorio; una tempra trasognata in timbri vocali e strumentali, linearità e oscillazione, affinità fra musica e psiche.
Ogni album dei Broadcast è unico, frutto di appassionate ricerche, di una scrupolosa metodologia artistica che rinuncia a satelliti e basi conquistate, ripartendo da zero.
Torna esordio per ritrovare quelle esaltazioni, energie e passioni della prima magica ascesa.

(giugno, 2003)