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  GERMI

Cos’è questa roba? E’ la domanda che feci a mio fratello nel ‘95 quando mise a suonare Germi sul mio stereo, lui mi disse….”boh un gruppo che mi hanno rifilato al negozio, a me sembrano buoni”.

Mio fratello ha da sempre precorso i tempi, quando avevo dieci anni mi mise in cuffia Back in black degli AC/DC. Così non ero proprio a digiuno di suoni duri e potenze sonore…ma mi chiedevo…queste cose si possono fare anche in italiano? CCCP, i primi Litfiba e Marlene Kuntz  ce li avevo già nel sangue, ma quella voce ruvida che urla forte e distorta “Sono la stasi che cambia vestito, qui per te” proprio non mi andava giù. Pensavo, come si permettono di fare i Nirvana?

Questa è la reazione normale di chi come me era abituato a sentire i dischi “seri”arrivare dall’estero accompagnati dalla classica frase…”eh… il rock come lo sanno fare gli inglesi”. Per cui ho preso il disco e l’ho messo via. Ma qualcosa era evidentemente rimasto del primo sofferto ascolto.

L’ho ripescato qualche tempo dopo perché per abitudine mi forzo ad ascoltare quello che a primo impatto non mi convince e, come sempre mi succede, dopo tre ascolti mi ha convinto e dopo dieci mi ha fatto impazzire e dopo mille o non so quanti ad oggi non mi stanco di scoprire cose nuove.

Per primi i testi, a prima lettura così inconcludenti ma altrettanto ricchi se colti frase per frase, pezzo per pezzo, sequenze di incisi che si spiegano da soli, tratti profondi, evocativi di stati d’animo vissuti da chi scrive e iniettati a chi ascolta come liquido di contrasto per colorarne il cuore là dove le emozioni si nascondono. La capacità di Agnelli di centrare perfettamente il punto dolorante mi destabilizzava ”…Ti vedo passare Sopra la corrente Non senti sconcerto Posso avere il tuo deserto?”…e chi non ha provato a navigare sulla corrente per non doversi cercare nulla che la corrente da sola non procurasse, finendo per contemplare desolato il deserto che rimane quando l’acqua finisce?

Tante di queste interpretazioni mi hanno fatto vagare qua e la tra le parole dei testi, e ancora mi succede a distanza di quattro dischi. Se vi capita di non aver ancora ascoltato qualche lavoro degli After, provate a leggere i testi ancora prima di sentire le melodie, per non distrarvi,….fa effetto!

Il fine di un artista è nella mia visione quello di stabilire empatia con il suo pubblico, un canale preferenziale in cui i messaggi possano fluire grazie a un liquido che ne faciliti il movimento e li renda digeribili…mi piace nuotare tra i brani degli Afterhours.

Il liquido di germi trovo che sia la musica. Una musica che amplifica l’effetto dei testi. Sembra dettata dalle note. E’ una affermazione che non riesco a dimostrare, sarebbe come spiegare perchè mi piacciono da impazzire le cozze.

Trovo però vero, questo si, che gli Afterhours abbiano immediatamente trovato il “suono giusto”, un suono molto personale, costruito con attenzione, dove si trascura l’uso dell’elettronica a favore delle ricche sfumature consentite soltanto dove si può anche sbagliare, e sbagliando creare. Chitarre “Ferrose”, suonate e percosse per davvero a far rimbombare quel senso di disperazione e mal-sopportazione dell’essere tutti uguali che trasuda fortemente dalle pareti del disco. Un suono vecchio, perché è il POP che domina la scena, ma interpretato in una chiave del tutto nuova nel panorama indipendente italiano. E’ infatti un disco quasi per niente politicizzato, meno ossessivo di certe tendenze paranoiche alla CCCP, molto intimo ma POPolare appunto, dove si parla di tutti e di tutto quello che ognuno può sentire cesellato su musiche tutto sommato melodicamente ordinate e piacevoli. Una formula molto atipica per il panorama “Indie” dove per essere alternativi è necessario urlare angoscia o slogan morali su musiche al limite della percezione per non essere ingabbiati tra i “commerciali”. Ma il disco ROCK velato dal POP parla ugualmente di cose molto belle e profonde.

L’incomunicabilità (….Sono così dispiaciuto Che tu non riesca a capirlo Ho tutto in testa ma non riesco a dirlo) fa il paio con certe pause allucinanti e psichedeliche di note che si arricciano come gatte pelose arrabbiate attorno alle corde delle chitarre, in modo confuso e incomprensibile fin quasi alla stasi. E’ tutto piatto, senza differenze negli anni ’90, malattia “Germinata” nel decennio precedente, negli anni del “Bumm”.  

La paralisi dove tutto cambia per finta (Sono la stasi che cambia vestito, qui per te Sono l'inganno che non vuoi scoprire, qui per te I mutamenti sono dei servi…..), il facile trasformismo di opinione, la disponibilità a lasciarsi plasmare tipica degli anni ’80 (….Nuova dimensione nella strategia Per l'unico padrone avuto in vita mia Se non l'uccidi ti ci puoi alleare Così che poi la tua carne sia Plastilina). Un disco contemporaneo insomma, che parla di come ci si sente sbagliati o giusti ogni giorno. Stati d’animo insomma, veri o presunti, ma sempre concreti. Questi i messaggi che mi hanno passato le tracce di Germi.  

Parlando di brani: il meno preferito “Giovane Coglione”, trovo testo e musica un po’ ingenui, il brano preferito senza dubbio “Posso avere il tuo deserto”….basterebbe il meraviglioso titolo a farmela preferire.

Il germe ha trovato terreno fertile quel giorno del ’95, e non sempre i germi portano malattie (o si?!)

  Marcello