Teoria Politica, di Gianpiero Magnani

IL TRIONFO DELLA FILOSOFIA

CONTRATTO E LIBERTA'

Solo in un ipotetico stato di natura originario, secondo i filosofi contrattualisti, gli individui possono ragionevolmemte accordarsi sulle regole fondamentali che ordineranno la socità civile e lo stato politico nei quali andranno successivamente a vivere. Il contratto sociale, infatti, il risultato dell'interesse comune a cooperare; attraverso esso, ciascuno rinuncia ad una parte della sua libertà, sceglie di vincolare il proprio comportamento a regole a lui esterne ( leggi, valori, tradizioni ) e con ciò elimina le situazioni di conflittualità e di incertezza che renderebbero malsicura e inefficiente la sua posizione nello stato di natura originario dove, si suppone, tutti gli individui sono in continuo conflitto fra di loro. Optando per l'ordine costituzionale, il singolo cittadino di fatto neutralizza parte del suo potere politico in cambio di regole di condotta certe, valide per tutti, che producono maggiore sicurezza e maggiore benessere.
Possiamo interpretare lo stato di natura dei filosofi contrattualisti come una condizione nella quale a ciascun individuo è lasciata la massima capacità politica: in esso ogni essere umano è un soggettto politico dotato, per così dire, di poteri costituzionali, è in grado cioè di decidere la totalità delle regole alle quali vincolare il proprio comportamento e quello degli altri. Essendo ogni individuo un eguale soggetto politico, tuttavia, l'efficacia reale del potere politico collettivo che ne deriva risulta essere straordinariamente debole: poichè tutti possono decidere su tutto, e di fatto tutti decidono su tutto ( nessuno delega ad altri il proprio potere politico ), in realtà nessuno decide.
Passando dallo stato di natura allo stato civile, tuttavia, l'individuo non neutralizza completamente il proprio potere politico, non cessa completamente di essere un soggetto politico; il passaggio dallo stato di natura (ipotetico ) allo stato civile non è mai definitivo; al contrario, esso è sempre condizionato: il consenso può venir meno in qualsiasi momento, per le ragioni più diverse, e con ciò viene meno anche la neutralizzazione del fenomeno politico. In tal caso, i cittadini (o alcuni di essi) possono rivendicare la restituzione della delega politica concessa, o di parte di essa, e con ciò avviare processi politici (fare rivoluzioni, attuare riforme, dare vita a programmi, costituire partiti o movimenti nuovi, eccetera).
Il consenso condizionato del cittadino nello stato civile si contrappone quindi al potere politico incondizionato dell'individuo nello stato di natura: in entrambi i casi, sia che si tratti del potere politico dell'individuo, sia che si tratti del consenso condizionato del cittadino, l'oggetto della contesa (potere contro consenso, stato di natura contro società civile, libertà contro legge, politica contro neutralizzazione) è sempre costituito dai fini collettivi che si vogliono raggiungere, piuttosto che dai mezzi necessari per raggiungerli. Sebbene la discussione sui mezzi possa diventare essa stessa controversa, ed assumere un significato politico: quando si tratti, per esempio, di scegliere o meno l'opzione violenza come mezzo per raggiungere i fini stabiliti, come strumento per trasformare l'ordine sociale (economico, culturale, giuridico, ecc.) esistente.
Una tipica questione sui fini è stata sollevata da John Rawls: il problema posto è quali principi dovremmo scegliere a fondamento di una società bene-ordinata, nella quale i rapporti fra i cittadini siano equi e regolati da una concezione pubblica della giustizia. Ma, ci chiediamo, i principi vengono scelti una volta per tutte, o possono invece essere oggetto di successive rinegoziazioni? Certamente, nell'ipotesi della "posizione originaria" prospettata da Rawls, che produce decisioni imparziali ed universalmente accettate (da individui razionali), la scelta iniziale è sufficiente: il processo politico si esaurisce in quella scelta, i principi di giustizia sui quali si è manifestato l'accordo unanime non sono più rinegoziabili, la società bene-ordinata è anche perfettamente regolata e, con ciò, in senso politico, immutabile.
La realtà è però ben diversa: è molto difficile raggiungere decisioni imparziali, ed è ancora più difficile che queste siano universalmente accettate ma, quand'anche fossero accettate, ancora più difficilmente verranno applicate da tutti (è il noto fenomeno del free rider, che è caratteristico della specie umana proprio in quanto specie capace di sviluppare processi politici).
Nella realtà storica dell'uomo, come nella cronaca quotidiana e contingente, assistiamo ad un processo di rinegoziazione incessante e continua delle regole del gioco collettivo: non tutte le regole sono continuamente poste in discussione, è ovvio (altrimenti non potremmo avere società e stati organizzati, ma solo caos); non tutte nello stesso Paese, non tutte nello stesso momento, ma in paesi diversi e in momenti diversi le rinegoziazioni delle regole si manifestano, si rendono evidenti: le possiamo descrivere, ex-post, in primo luogo per le conseguenze che esse hanno prodotto; conseguenze che sono misurabili, appunto, nei termini della trasformazione di quelle stesse regole: tanto maggiore sarà il cambiamento, tanto più intenso si rivelerà il processo politico che l'ha generato.
A certe condizioni, in certe situazioni (nessuna delle quali è prevedibile a priori) si rende necessaria la rinegoziazione di alcune regole del comportamento collettivo: il contratto sociale si rompe, va rotto, si deve rompere; il "programma artificiale" dei contrattualisti non è qualcosa che "accade" in un certo momento per poi cessare del tutto, non è un meccanismo paragonabile al "big bang" che potrebbe aver dato origine all'universo, e dopo il quale le regole sono date e possono essere descritte dalla scienza: non è un evento irripetibile ma, anzi, un fenomeno ripetibilissimo e che di fatto, nella realtà concreta, si ripete continuamente: continuamente, in qualche parte del mondo, vi sono gruppi umani che "rinegoziano" le regole del loro ordine collettivo (o che, spesso, rinegoziano le regole del gioco collettivo di altri gruppi, di altri sistemi sociali, di altri stati sovrani interferendo con essi).
La premessa necessaria dell'agire politico è la disobbedienza: la storia dell'uomo, scrive Erich Fromm, è cominciata con un atto di disobbedienza. La questione centrale dell'agire politico, infatti, è come individui e gruppi possano violare le condizioni dell'obbedienza e della coercizione, le quali neutralizzano di fatto l'agire politico, cioè lo rendono non sono inefficace (privo di conseguenze) ma impossibile (inesistente come fenomeno in qualche modo rilevabile).
Più in dettaglio, parliamo di negazione o limitazione della libertà politica, piuttosto che della libertà tout court, in alcune situazioni ben precise: quando, cioè, si è ostacolati (per le ragioni più diverse) nel raggiungimento di qualunque obiettivo che consista nella modifica di regole del comportamento collettivo; in questo senso, e solo in questo senso, parliamo di negazione o di limitazione della libertà propriamente politica. Essere ostacolati nel raggiungimento di obiettivi puramente personali non significa perciò essere privati della libertà politica; significa, semmai, essere privati di quella particolare libertà che è necessaria (in quel contesto) per raggiungere l'obiettivo personale desiderato ovvero, al limite, in caso di costrizione estrema, essere privati della libertà tout court, che è però cosa ancora diversa dalla libertà specificamente politica.
Essere privati della libertà personale è qualcosa di moralmente riprovevole; essere privati della libertà politica è, per la maggior parte degli esseri umani, una condizione normale di esistenza (presente, passata e, si presume, anche futura), e ciò indipendentemente dalla forma di governo dello stato.
La libertà politica non è, infatti, semplice libertà da, assenza di interferenze da parte di altre persone o istituzioni -come sembra definirla Isaiah Berlin-, bensì libertà di, libertà positiva volta a cambiare le regole che ordinano l'esistenza collettiva.
La libertà politica è un caso particolare di libertà positiva: è la libertà del soggetto di divenire agente politico, e cioè di poter mutare, in qualche aspetto, l'ordine collettivo esistente, con le sue norme e i suoi valori. Quanti meno vincoli di necessità egli troverà lungo il suo cammino di trasformazione, tanta più libertà politica egli potrà disporre.
Questa libertà positiva particolare, la libertà politica, può essere più o meno diffusa: se vi è uguaglianza nella libertà in generale, ed eguaglianza nella libertà politica in particolare, allora ne deriva che tutti gli individui (tutti i cittadini) possono divenire attori politici, hanno cioè il pieno potere di modificare le regole che ordinano i loro stessi comportamenti collettivi. Questa libertà politica diffusa è però un'utopia: nella migliore delle ipotesi, infatti, vi sono meccanismi di delega (per mezzo di elezioni democratiche) che permettono di individuare cittadini rappresentativi ai quali vengono conferiti poteri politici; solo a questi cittadini particolari è concesso di agire politicamente, cioè di poter modificare le regole che ordinano l'esistenza del gruppo sociale in questione. Tutti i cittadini, però, in un sistema democratico possono periodicamente, attraverso libere elezioni, delegare ad altre persone i poteri politici, persone diverse da quelle che li hanno (o non li hanno) esercitati finora: se questo accade, ed accade in modo massiccio (con forti spostamenti percentuali da un partito o da una coalizione all'altra, per esempio), gli effetti possono essere politicamente rilevanti, nel senso che i nuovi eletti possono essere non solo portatori di programmi di riforma, ma anche produrre reali cambiamenti nelle regole.
In questo senso, e sempre che gli eletti producano realmente processi politici e non si limitino solo a dichiarazioni d'intenti, l'esplicazione del fenomeno politico in competizioni elettorali dall'esito incerto passa attraverso il cosiddetto "voto di opinione": non sono in realtà i militanti di un partito a "fare politica" (essi, paradossalmente, hanno di fatto neutralizzato la loro capacità politica scegliendo quel dato partito), bensì coloro che, votando per opinione, creano quelle differenze che alla fine si rendono decisive nel determinare chi potrà raccogliere la delega collettiva del potere politico.

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