Le regole del comportamento collettivo non sono del tutto modificabili a piacere. L'atto politico è, dal punto di vista della norma che si propone di cambiare, un atto fondamentale di disobbedienza; non ogni atto di disobbedienza produce effetti politici, naturalmente, però il punto importante da sottolineare è che non ogni atto di disobbedienza politicamente significativo è possibile: può non essere possibile per vincoli di necessità (non possiamo sfidare più di tanto le leggi della fisica o dell'economia), o per ragioni di convenienza, di opportunità, o per le conseguenze negative che produce (distruttive, totalmente imprevedibili, eccetera).
Poichè non ogni disobbedienza è possibile, poichè non ogni cambiamento è possibile, l'azione politicamente efficace è quella che meglio di altre tiene conto delle conseguenze che ne derivano: è politica delle riforme, graduale, progressiva, conseguenziale, controllata e consensuale.
Ma vi è anche un altro senso in cui diciamo che l'attività politica degli uomini è soggetta a limiti. Oltre alle condizioni esterne di necessità, oltre alle sanzioni collegate alle norme esistenti, vi è la questione non secondaria della cosiddetta razionalità imperfetta. Diciamo che l'uomo è un soggetto politico imperfetto anche perchè è razionalmente limitato.
In particolare, è la debolezza della volontà (e la consapevolezza di questa debolezza) ad essere alla base della teoria della razionalità imperfetta, la quale pone limiti sostanziali alle azioni di tipo politico: "farsi legare" significa allora imporsi degli obblighi ai quali vincolare il proprio comportamento e le proprie azioni; ciò accade, ad esempio, nell'attività costituente, ultimo atto politico e neutralizzazione della capacità politica futura.
La razionalità imperfetta produce l'immagine dell'uomo "politico imperfetto": l'attività politica in senso forte (ad alta intensità) non è perciò una condizione normale dell'azione umana, bensì una condizione eccezionale, straordinaria, che si sviluppa in certe situazioni che sono già, esse stesse, straordinarie, nel senso che non sono riconducibili a quelle regole del gioco collettivo che, ordinariamente, governano la quotidianità.
Ed è proprio la rottura della quotidianità che rende necessaria l'attività politica come attività di ricostituzione dell'ordine normale su basi diverse, e cioè su regole parzialmente o totalmente nuove. Il dovere di produrre i migliori risultati, di agire comunque in conformità a regole anche morali, di non causare o di evitare danni spesso irreparabili, di agire secondo aspettative raggiungibili, introduce considerazioni conseguenzialiste che potremmo definire ex-ante.
La politica delle riforme, in particolare, produce risultati positivi (in termini di costruzione di nuove regole di comportamento collettivo) solo se i problemi che risolve sono, volta per volta, maggiori (quantitativamente e qualitativamente) di quelli che crea: è un approccio che potremmo chiamare anche di maximin, nel senso che riesce a produrre risultati massimi (massimo relativo) col minor danno possibile. L'approccio politico rivoluzionario, immediato e massimalista, produce di solito conseguenze opposte, che potremmo a ragione chiamare di maximax: il massimo del cambiamento col massimo danno, e quindi con conseguenze spesso disastrose, tragiche, impreviste e imprevedibili, che potrebbero essere evitate in una prospettiva che non rinunci al cambiamento (e quindi a generare azioni di tipo politico), ma lo governi con gradualità e responsabilità, cercando di ottenere il massimo risultato (voluto) col minimo possibile di conseguenze (dannose).
La prospettiva contro-riformatrice propone al contrario di neutralizzare l'azione politica giustificandosi con considerazioni di minimin: ridurre al minimo i danni derivanti dall'azione politica evitando di fare politica, evitando cioè di introdurre cambiamenti che in qualche modo modifichino l'ordine sociale, economico, istituzionale esistente.
Sia il maximax del rivoluzionario e dell'utopista, che il minimin del conservatore non producono esiti soddisfacenti dal punto di vista dello sviluppo e della evoluzione positiva (costruttiva) delle civiltà umane; diverso è il caso del maximin, cioè dell'azione politica orientata alle riforme, l'unica capace di produrre miglioramenti visibili riducendo al minimo le conseguenze non volute, efficace nel tener fede alle proprie promesse, limitata e limitante negli effetti negativi e distruttivi.
L'azione politica degli uomini, infatti, si qualifica non solo per la sua capacità peculiare di rispondere in modo creativo ed imprevedibile ai problemi esistenti, ma anche nella capacità di creare i problemi laddove non esistono, di produrre mutamenti anche dove parrebbe non ve ne fosse bisogno, laddove il "migliore dei mondi possibili" parrebbe aver realizzato condizioni utopistiche: l'attività politica dell'uomo, incessante ed imprevedibile, è infatti la negazione dell'utopia; come distrugge l'utopia, il modello della società felice ed immutabile, così essa distrugge anche la sua negazione (o il suo compimento, a seconda dei punti di vista), e cioè il sistema totalitario che tutto annulla e tutto congela.
Come negazione del totalitarismo e dell'utopia, l'attività politica produce i migliori risultati laddove il contesto è ad essa più favorevole: democrazia e riforme sono gli abiti mentali e procedurali che più di altri favoriscono il suo sviluppo. Se consideriamo che sviluppo dell'attività politica e sviluppo delle civiltà umane sono concetti intimamente connessi, giungiamo senza difficoltà a percepire come democrazia e riforme siano i contesti migliori per uno sviluppo umanamente accettabile di ciò che chiamiamo, in generale, "civiltà".