IL RIFORMISMO
Teorie e valori sul metodo politico che ha cambiato il mondo

di Gianpiero Magnani

 

Una versione cartacea di questo testo, senza compenso per l’autore, è disponibile su ilmiolibro.it

 

- INDICE :


PREMESSA


1- UNA TEORIA DEL RIFORMISMO


2- LE PREMESSE ANTROPOLOGICHE DEL RIFORMISMO


3- IL RIFORMISMO COME TEORIA E PRATICA DELLA POLITICA


4- I LUOGHI COMUNI DEL RIFORMISMO


5- LE CATEGORIE DEL RIFORMISMO


6- MORFOLOGIA DEL RIFORMISMO


7- RIFORMISMO E POLITICHE PUBBLICHE


8- RIFORMISMO E SOCIALISMO


9- I NEMICI DEL RIFORMISMO


10- RIFORMISMO E CASI CRITICI


11- RIFORMISMO E PROGRESSO MORALE


12- RIFORMISMO E DEMOCRAZIA


13- RIFORMISMO E LIBERTÀ


14- RIFORMISMO E TEORIE DELLA GIUSTIZIA


15- RIFORMISMO, INDIVIDUALISMO, CONTRATTUALISMO


16- RIFORMISMO, DIRITTI, GUERRE GIUSTE E INGIUSTE


17- IL RIFORMISMO E L’ECONOMIA GLOBALE


18-ERICH FROMM E L’UNITÀDEI RIFORMISMI


PREMESSA

Questo testo sul riformismo vuole essere, prima di tutto, un invito alla lettura, con tutti i limiti impliciti in un’operazione del genere: l’invito alla lettura di libri che possano suggerire, direttamente o indirettamente, quegli approfondimenti che sono necessari per chiunque intenda impegnarsi attivamente – e soprattutto costruttivamente – in politica. Libri recenti e meno recenti: in alcuni casi analizzeremo testi che hanno maturato già alcuni decenni dalla loro prima edizione, ma nei quali potremo trovare inaspettati ed importanti riferimenti al nostro tempo, al mondo di oggi, così diverso da quello in cui quegli stessi libri erano stati scritti. Conoscere la teoria politica, infatti, è molto importante: la storia dimostra che quello che diciamo e che pensiamo produce conseguenze sulle nostre vite, su quelle dei nostri simili e su quelle delle generazioni future; a seconda di quello che pensiamo, diciamo e quindi facciamo, le conseguenze possono essere buone o cattive, positive o negative, costruttive o distruttive. Talvolta possono essere anche molto distruttive, come la storia del Novecento ci ha ampiamente mostrato: conseguenze terribili, da non ripetere.

1- UNA TEORIA DEL RIFORMISMO

1-1 LA RIVOLUZIONE RIFORMISTA

In questo saggio sosterrò la tesi secondo cui il riformismo è il più potente ed efficace strumento di cambiamento a disposizione della politica: è uno strumento potente, quindi di potere, ma che nello stesso tempo sa utilizzare il potere in modo efficace, cioè per produrre risultati costruttivi. Altri strumenti della politica sono parimenti e forse anche più potenti, come le rivoluzioni politiche, ma non sono altrettanto efficaci in quanto si risolvono in esiti che sono quasi sempre disastrosi; vi sono poi strumenti della politica che sono efficaci, come la buona amministrazione, che però non sono fonti potenti del cambiamento, mentre altre soluzioni non politiche possono essere strumenti efficaci ma non potenti di cambiamento, come la beneficenza e le attività di volontariato che determinano risultati singoli eccellenti ma scarsi esiti collettivi. Potremmo affermare che il riformismo è la soluzione per ottenere risultati “macro” laddove il terzo settore incide con soluzioni “micro”.


Il riformismo è una categoria del pubblico, non ha a che fare col privato, con la felicità, coi piani di vita individuali se non nel fatto che, nel realizzare riforme più o meno buone, più o meno eque, più o meno efficaci, il riformismo determina conseguenze che hanno riflessi sui piani di vita individuali: il pubblico incide sul privato; non solo con le attività di riforma, naturalmente: anche i nemici del riformismo incidono sul privato (negativamente), e spesso assai più di quanto (positivamente) possa fare il riformismo. Come abbiamo accennato in premessa, la storia del Novecento è ricca, purtroppo, di conseguenze terribili causate dall’azione politica di persone che riformiste non erano.
L'unica rivoluzione, peraltro non politica, che può competere per potenza ed efficacia col riformismo è la rivoluzione tecnologica, quando i suoi esiti sono collettivi: elettricità per tutti, automobili per tutti, internet per tutti e via dicendo. Viceversa le rivoluzioni politiche, che sul breve periodo sembrano in grado di produrre trasformazioni epocali, in realtà nel periodo lungo si risolvono in disastri; il riformismo, graduale nel breve periodo, dimostra invece tutta la sua capacità di trasformazione proprio nel lungo periodo: si potrebbe argomentare che, a lungo termine, il riformismo è l’unico processo politico autenticamente rivoluzionario.
Poiché è l'unico strumento politico insieme potente ed efficace per determinare cambiamenti (in economia, nella società, nelle istituzioni, ecc.), poiché è l’unico vero strumento pubblico del cambiamento, il riformismo è da sempre il nemico principale di coloro che intendono in modo diverso la politica e l'azione che ne consegue: conservatori, massimalisti, integralisti, populisti hanno i riformisti come loro principali nemici, da sempre e ovunque nel mondo.
I nemici del riformismo, solitamente, sono anche nemici della democrazia e della “società aperta”: esiste infatti un nesso inscindibile fra democrazia e riformismo, il riformismo ha bisogno della democrazia per esistere, la democrazia si rafforza con riforme ben riuscite. Gran parte dei nemici del riformismo, guarda caso, sono anche nemici della democrazia.
Il riformismo cambia il mondo, e lo cambia in meglio: in ciò sta la sua forza, perciò è contestato, attaccato, colpito.

1-2 IL RIFORMISMO COME CATEGORIA DEL PUBBLICO

Il rapporto fra governanti e governati, osserva Norberto Bobbio (L’età dei diritti, op.cit.), è il rapporto politico per eccellenza, e può essere considerato dal punto di vista dei governanti oppure da quello dei governati: gran parte della storia e del pensiero politico hanno visto prevalere il primo punto di vista, spesso con grandi metafore (pastore, nocchiero, tessitore, medico). La teoria e la pratica riformiste, al contrario, vedono prevalere il punto di vista dei governati.
Inoltre, ancora un secolo fa si riteneva che il sistema politico fosse autosufficiente e indipendente dal sistema sociale globale, ovvero che fosse il sistema dominante: ciò che oggi è divenuta oggetto di cambiamento, invece, è una determinata forma di società di cui lo Stato è soltanto un elemento.
Il riformismo, pertanto, pur rientrando nel rapporto fra governanti e governati, cerca di assumere il punto di vista dei governati per introdurre cambiamenti nel sistema sociale nel suo complesso, oltre che nella struttura dello Stato che ne è una parte.


In un altro libro, (Stato, governo, società, op. cit.) Norberto Bobbio analizza la dicotomia fra (diritto) pubblico e privato, che riflette l'avvenuta differenziazione sociale e sancisce la supremazia del primo termine sul secondo; la dicotomia può avere un uso descrittivo e uno valutativo. Nel suo uso descrittivo, la distinzione fra pubblico e privato comprende altre distinzioni:
- quella fra società di eguali e società di diseguali (in questa categoria rientrano anche le distinzioni fra governanti e governati, e fra società economica e società politica);
- quella fra legge e contratto (che distingue in particolare i vincoli derogabili e quelli inderogabili);
- quella fra giustizia commutativa (ugual valore degli scambi in società di uguali) e giustizia distributiva (a ciascuno secondo un preciso criterio che può essere il merito, il bisogno, il lavoro, in società di diseguali).
Casi limite, osserva Bobbio, sono la famiglia, che è una società di diseguali retta da principi di giustizia distributiva, e la società internazionale, che è una società formalmente di eguali retta dalla giustizia commutativa.
In un altro significato, infine, pubblico si contrappone a segreto.
Nel suo uso valutativo, invece, la dicotomia pubblico/privato si risolve nella concezione del primato del privato (diritto di proprietà, concezione liberale dello Stato) o del primato del pubblico (il tutto viene prima delle parti, Stato interventista, Stato totale, primato della politica sull'economia, primato dell'organizzazione verticale o diretta dall'alto sull'ordine sociale spontaneo).
È evidente che il riformismo, collocandosi nella categoria del pubblico, è uno strumento di intervento che, per agire, richiede comunque il primato della politica e dello Stato interventista: non è detto, tuttavia, che i suoi risultati finali possano consistere nel rafforzamento dello Stato e della politica. Il riformismo è, infatti, un metodo politico, pubblico, di azione per conseguire obiettivi che sono da determinare e che possono non coincidere necessariamente col rafforzamento del pubblico e col politico.
La privatizzazione del pubblico nelle società più avanzate, osserva ancora Bobbio, si manifesta nella contrattazione collettiva (sindacati) e nei rapporti fra i partiti: lo Stato è il luogo dove si compongono, si scompongono e si ricompongono i conflitti, attraverso accordi rinnovati, "rappresentazione moderna della tradizionale figura del contratto sociale" (cit., pag.17).

La sicurezza sociale, osserva Giuseppe Pennini (Lo stato sociale, cit.), comprende misure pubbliche nei campi della sanità, dell’assistenza e della previdenza, istituzionalizzando così interventi che in passato erano fondati solo su basi volontaristiche (associazioni caritatevoli e mutualistiche); il pioniere dello stato sociale fu Bismarck, che ne fece lo strumento per integrare nell'unità nazionale tedesca tutti coloro che avevano i redditi più bassi. Da allora, tutte le forme di stato sociale si sono sviluppate secondo due modelli principali, un modello universalistico che riconosce le sue prestazioni a tutti i cittadini, ed un modello particolaristico che discrimina invece i beneficiari in base al loro status e che maggiormente si presta a gestioni clientelari: lo stato sociale diventa così "autoreferenziale", fattore di stabilizzazione di interessi particolaristici piuttosto che elemento di equità e di modernizzazione; per funzionare richiede economie caratterizzate da lavoro dipendente fisso e a tempo pieno, il suo elevato costo è la causa di "crisi fiscali" che ne fa una variabile in grado di condizionare lo stesso sistema economico, determinando distorsioni talvolta anche maggiori di quelle che avrebbe dovuto risolvere. Da qui la reazione, volta non ad ottenere il suo riassetto, ma il suo ridimensionamento, dal reaganismo al tatcherismo.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Norberto Bobbio, L’ETÀ DEI DIRITTI (ed.Einaudi, Torino 1990)
- Norberto Bobbio, STATO, GOVERNO, SOCIETÀ (ed.Einaudi, Torino 1985)
- Giuseppe Pennisi, LO STATO SOCIALE (in MondOperaio, agosto-settembre 1992)

 

2- LE PREMESSE ANTROPOLOGICHE DEL RIFORMISMO

2-1 IL CAMBIAMENTO È NELLA NATURA DELL’UOMO

Le premesse su cui si fonda il riformismo sono antropologiche; dire che il riformismo è nella “natura dell’uomo” non è fare un’affermazione generica priva di fondamenti: l'uomo, osserva Antonio Polito (Non basta dire no op. cit.), è un animale abitudinario che si adatta solo progressivamente ai cambiamenti ed il compito principale del riformismo è proprio quello di aiutarlo a muoversi nel cambiamento con efficacia e con giustizia. Il riformismo è il più potente ed efficace strumento di cambiamento a disposizione dell’umanità: è uno strumento politico, pubblico, per cambiare in meglio le regole del gioco collettivo.

Secondo Erich Fromm (La rivoluzione della speranza, op.cit.), sia la vita che l'individuo che la società stessa sono processi dinamici che tendono a superare lo status quo, in meglio o in peggio; quello che conta è dove dirigere il nostro agire, verso un'alternativa o verso un'altra, e quando ci si ferma, inizia la decadenza (cit., pagg.23-24).
Le condizioni dell'esistenza umana, secondo Fromm, sono dovute al minore condizionamento degli istinti ed al maggiore volume del cervello; l'uomo perciò, diversamente da tutte le altre specie animali, ha la necessità di costruirsi uno schema di orientamento ed uno schema di devozione (pag.76).
Lo schema di orientamento aiuta l'uomo a decidere ed è necessario per superare l'insicurezza che consegue al venir meno dell'istinto: "l'uomo si trova di fronte a diverse alternative e rischia di sbagliare in ogni decisione che prende" (cit., pag.73); schemi di orientamento sbagliati, osserva Fromm, sono particolarmente pericolosi: la storia del Novecento è costellata di vittime, dovute al nazifascismo, al comunismo, al nazionalismo, all’integralismo religioso, a due guerre mondiali e a numerosi altri conflitti locali, tutti conseguenze di schemi di orientamento e di devozione a dir poco sbagliati, i cui risultati negativi sono stati ampiamente studiati dall’analisi storica e sono peraltro ben noti a tutti.
In Avere o Essere (op.cit.) Erich Fromm osserva che l’uomo è come un recipiente che mentre lo si riempie, ingrandisce, così che non sarà mai pieno (cit., pag.93); la determinazione istintuale minima che caratterizza la specie umana rende necessari i sistemi referenziali di orientamento, che sono come mappe, e gli oggetti di devozione, che sono simili a mete, mappe e mete che peraltro non sono mai del tutto esatte e mai del tutto sbagliate: ogni cultura, passata, presente, futura, comprende sia i mezzi di orientamento che gli oggetti di devozione, vale a dire una religione; l'atteggiamento religioso è pertanto un aspetto della struttura caratteriale dell’individuo, e come tale è necessario all’uomo (pagg.177-181).
La nostra coscienza, prosegue Fromm ne La rivoluzione della speranza, è determinata dal filtro sociale che comprende il linguaggio, la logica, i tabù, e quindi dalla struttura della società (pagg.84-85); le soluzioni vitali, egli osserva, contano di più della soluzione migliore, la verità è approssimazione crescente, la storia dell'uomo è caratterizzata da una presa di coscienza crescente, sia della sua natura interna che di quella esterna (pagg.74-78).

Nel libro Dalla parte dell’uomo (op.cit.), Erich Fromm osserva come la nostra specie sia un'anomalia dell'esistenza animale, ma la nostra debolezza biologica, la nostra carenza di istinti, è anche alla base della nostra forza, perché ci rende consapevoli di noi stessi, sviluppa l’immaginazione, la ragione, le concezioni del passato, del futuro ed anche della morte (cit, pag.39); l’esistenza umana è però dicotomica: è parte della natura eppure la trascende, è caratterizzata da una condizione di squilibrio, l’uomo è l'unico animale che può annoiarsi e la cui esistenza diventa un problema (pag.40).
Alle dicotomie esistenziali si aggiungono poi le contraddizioni storiche, che non vanno confuse con le dicotomie esistenziali e che, diversamente da quelle, possono essere risolte: il progresso è la reazione alle contraddizioni storiche mediante l’azione; anche se Fromm non parla mai di “riformismo”, è evidente il nesso, tanto più che egli stesso, a pag.42 del volume cit., osserva che le ideologie negano le contraddizioni storiche, e quindi non sono capaci di risolverle.
Tutte le conquiste umane, osserva ancora Fromm, nascono da condizioni di abbondanza (pag.142): ma mentre il problema della produzione nelle società moderne è virtualmente risolto, rimane il problema della "organizzazione della vita sociale" (pag.110); i mezzi sono divenuti indipendenti dai fini e li hanno sostituiti (pag.147).
Negli individui troviamo insieme biofilia e necrofilia, che sono orientamenti totali, modi di essere, ed è fondamentale vedere quale orientamento predomina, consapevoli però che l'istinto di vita è sempre la potenzialità primaria: l'orientamento biofilo più elementare è la tendenza a conservare la vita ed a combattere la morte, per l'etica biofila il bene è rispetto per la vita (Albert Schweitzer). La biofilia necessita però di abbondanza, sia economica che psicologica, mentre la penuria incoraggia la necrofilia: l'amore per la vita è contagioso e si sviluppa in società caratterizzate da sicurezza, giustizia e libertà (cit., pagg.59-69).
Nel libro Amore, sessualità e matriarcato (op.cit.) Fromm osserva invece come le differenze sessuali siano meno importanti delle differenze caratteriologiche che esistono fra persone dello stesso sesso, "le differenze radicate nella diversità sessuale non sembrano autorizzare l'attribuzione di ruoli diversi all'uomo e alla donna in una qualsiasi società " (cit., pag.151); la differenza sessuale è una fra le tante, come l'individuo introverso e quello estroverso, tutte differenze che possono aiutare o limitare lo svolgimento di certi lavori; i bambini, osserva ancora Fromm, hanno volontà e passioni e vanno presi seriamente (pag.121).


Nel libro L’amore per la vita (op.cit.) egli osserva che l'uomo è più crudele e distruttivo dell'animale, la cui aggressività è infatti condizionata biologicamente: l'iperaggressività è potenzialmente presente nel carattere dell'uomo, è una possibilità, una predisposizione ma non è una necessità (pagg.55-57).
Come l'animale, l'uomo può reagire agli attacchi in due modi, con l'aggressione o con la fuga; secondo Fromm, però, nell'uomo vi sono due tipi di aggressività, quella biologicamente condizionata, difensiva, e quella che si manifesta come crudeltà, necrofilia, sadismo (pagg.65-66). L'aggressività difensiva è però maggiore nell'uomo rispetto agli animali perché l'uomo può immaginare il futuro e sperimentare la minaccia come possibilità, mentre l'animale reagisce solo nel presente; inoltre l'uomo, diversamente dall'animale, è suggestionabile con parole e simboli, e quindi può persuadere i propri simili di essere minacciati, nella vita o nella libertà: un attacco contro ideali, istituzioni, persone particolari viene infatti inteso dall'uomo come un attacco alla propria vita.
Nel libro La disobbedienza e altri saggi (op.cit.) Fromm osserva come la storia umana sia iniziata e sia evoluta con atti di disobbedienza (i miti di Adamo ed Eva e di Prometeo); la disobbedienza può essere un atto contro, di ribellione, o per qualcosa, per affermare la ragione (cit., pag.49). Libertà e disobbedienza sono inseparabili: se si proclama la libertà non si può bandire la disobbedienza (pag.17).
Fromm distingue l'obbedienza eteronoma che è sottomissione verso un'autorità (la quale può essere razionale oppure irrazionale) dall'obbedienza autonoma, cioè alla propria coscienza, che però anch'essa può essere umanistica oppure autoritaria (cit., pag.14); ciò che fa la differenza, perciò, non è se si obbedisce a se stessi o ad altri, ma se la fonte di autorità è razionale oppure irrazionale, umanistica oppure autoritaria: il riformismo incoraggia l’autorità razionale, umanistica, e combatte quella irrazionale, autoritaria.
Il carattere sociale, osserva ancora Fromm, fa sì che la persona voglia fare ciò che deve fare, è energia psichica utile al funzionamento di una data società perché crea soddisfazione rispetto alle condizioni che impone, è l'intermediaria fra la base economica e gli ideali prevalenti in quella società; i genitori sono agenti della società (cit. pagg.26-28).
La minaccia dell'ostracismo, del totale isolamento, è più efficace della stessa minaccia di morte: l'uomo è infatti l'unico animale che è capace di amare la morte e ciò che è morto, è l'unico che può annoiarsi, è anche l'unico che si sente minacciato da pericoli futuri oltre che immediati, pericoli che possono colpire non solo interessi vitali ma anche simboli e valori (pagg. 38, 59, 85, 161).
L'essenza dell'uomo non è perciò una sostanza ma una contraddizione: è quella di essere nella natura eppure di trascenderla; la religione, secondo Fromm (Psicanalisi e religione, op.cit.), è "ogni sistema di pensiero e d'azione, condiviso da un gruppo, in cui l'individuo trovi orientamento e insieme un oggetto di devozione" (pag.25). Nessuna società umana, sottolinea Fromm, è concepibile senza religione, definita in senso ampio; ogni uomo ha infatti bisogni religiosi, che si manifestano in modi diversi: la domanda non è perciò se un uomo sia religioso oppure no, ma quale è la sua religione, se è umanistica oppure autoritaria, caratterizzata da valori o limitata ad inseguire idoli (pag.28).

Nell’ultimo capitolo di questo libro, dedicato alla visione unitaria dei riformismi, torneremo sulle teorie di Erich Fromm. Ma per capire concretamente cosa egli intenda per religione umanistica, è sufficiente leggere questo passaggio di Antonino Zichichi su Sandro Pertini nel libro Perché io credo in Colui che ha fatto il mondo (op.cit., pag.176):
”A un certo punto il Presidente Pertini mi disse: 'Vede, Professore, accade che qualche mio vecchio compagno, venendo qui, mi chieda come mai io ho lasciato quel Crocefisso lì, invece di rimuoverlo dallo studio del Presidente della Repubblica. Gli rispondo che non lo farei mai per due motivi. Primo, perché ho un grande rispetto e una profonda ammirazione per quell'uomo finito sulla croce per dire cose giuste. Secondo, perché quel Crocefisso è da molti - lei è tra questi, io no - amato e venerato’. 'E io gliene sono grato’ risposi 'per averlo lasciato lì.' 'Però ' aggiunse Pertini 'lei dovrebbe dire al Papa, da lei tanto amato, che lei ha un amico ateo.'
Cosa che puntualmente riferii al Santo Padre. E Giovanni Paolo II mi disse: 'Quando avrà occasione di incontrare il Presidente Pertini gli dica: 'il Papa mi ha detto che lei la Fede ce l'ha negli occhi '.”

 

2-2 PROSPETTIVA STORICA E RIFORMISMO

Il futuro, osserva Hans Heinz Holz nella sua Introduzione al libro Dialettica e speranza di Ernst Bloch (op.cit.), è la dimensione temporale costitutiva degli esseri umani, che diventa speranza nel singolo individuo, in cui anche la fantasia svolge una funzione importante, perché produce immagini di ciò che ancora non è, oggetti utopistici, incontri col non-ancora, coscienza anticipatrice, pensiero che si manifesta per immagini: miti, arte, simboli, archetipi.
La categoria di base è il concetto di possibilità, che permette di pensare il mondo come processo. La possibilità può essere passiva, nel senso di potenzialità, di conformità all'oggetto; ma nell’uomo può anche essere attiva, non nel senso di possibilità formale, che può venir pensata, ma in quello di possibilità reale, sia pure parzialmente condizionata dall’esistente.
Solo quest'ultima possibilità è satura di futuro, il soggetto (l'elemento umano) è parte della totalità materiale (natura e storia) e non gli si oppone; la vera dimensione della realtà ha il futuro all'orizzonte con il suo passato antecedente.
Anche Ernst Bloch, in Dialettica e speranza (op.cit.), evidenzia come Fromm che l'uomo è nato prematuro, tanto come bambino quanto come specie: la storia passata è in gran parte preistoria perché non è stata costruita in modo consapevole, è ancora "natura" (nel senso hegeliano di essere-esterno-a-se-stesso, pag.164); la speranza è allora libertà anticipata verso l'essere-per-sè.
La filosofia della storia scopre il futuro nel passato, e secondo Bloch è Marx che la trasforma in filosofia della trasformazione del mondo: il socialismo diventa perciò il movimento positivo per realizzare in modo consapevole un'esistenza umanizzata che finora era vicina come desiderio ma lontana come presenza (era solo un’utopia). In realtà Marx, se da un lato propone una filosofia della trasformazione, dall’altro la costringe in un sistema deterministico che molto poco ha a che fare col riformismo, tanto che il suo prodotto finale è stato non già il riformismo bensì uno dei suoi nemici storici, e cioè il comunismo.
In Differenziazioni nel concetto di progresso Bloch distingue diverse dimensioni del tempo:
- il tempo storico, molto denso e poco esteso, caratterizzato da finalità ed irreversibilità, è l’unico in cui il futuro conta molto di più del passato (il futuro primeggia sul passato, la speranza sul ricordo, l'essere come divenire sull'essere come ciò che è stato);
- il tempo-natura, meno denso ma più esteso, è applicato al passato ed è sostanzialmente chiuso perché la storia naturale, in quanto precede la storia dell'uomo, secondo Bloch non contiene nulla di nuovo;
- infine, il tempo della fisica, che come il tempo-natura è applicato al passato, vincolato al già-avvenuto (physis).
Il progresso implica i concetti di direzione, senso, scopo, meta, possibilità reale. La storia umana ha un senso, un tempo evolutivo ancora agli inizi che secondo Bloch alla fine porterà alla realizzazione del regno della libertà.

Le diverse dimensioni del tempo proposte da Bloch ci aiutano a collocare il riformismo, che non appartiene - è evidente - nè al tempo della fisica (misurabile in miliardi e milioni di anni), nè a quello della natura (misurabile in milioni e migliaia di anni); il tempo del riformismo è un tempo storico, un tempo mediamente storico, nel senso che per determinare i propri effetti positivi non ha bisogno nè di secoli, ma neppure di istanti (come invece vorrebbero i rivoluzionari): il tempo storico del riformismo si misura in anni, talvolta anche in decenni, è comunque un tempo commisurato alle generazioni umane, è un tempo per così dire generazionale nel senso che il suo arco temporale massimo si configura comunque sempre nell'ambito della singola generazione.

Norberto Bobbio (L'Umanesimo socialista da Marx a Mondolfo, cit.) contesta la concezione umanistica della storia come genericamente fatta dagli uomini perché, a suo avviso, ha un significato solo negativo e non tiene conto del continuo avvicendarsi delle classi dominanti: la storia umana si svolge in un ambiente dato, che la condiziona, ed è fatta di terrore, lacrime e sangue. Molte teorie che utilizziamo per capire la storia sono poi razionalizzazioni di apprezzamenti che riguardano più i nostri desideri che le nostre facoltà critiche; inoltre, secondo Bobbio la storia non è riconducibile all'immagine di Eraclito, non è un fiume in cui scorre sempre acqua diversa ma è piuttosto la tela di Penelope, in quanto "ogni generazione tende a fare tabula rasa del passato e a ricominciare tutto da capo" (pag.15).
La storia può essere occasione di rimpianti o di ripensamenti, ma non si fa con i se e l'unica domanda giusta da porsi è "perché è accaduto proprio quello che è accaduto e non altro" (pag.16). La concatenazione di cause nella storia è come un castello di carte, il metodo della storia fatta con i se, sbagliato se usato retroattivamente, è invece l'unico metodo giusto da utilizzare proiettivamente, per la storia da fare verso la quale abbiamo il dovere di essere pessimisti, per prudenza, in quanto il pessimismo di oggi è la premessa "per non essere domani, verso il passato, critici pentiti e impotenti" (pag.17).

La nostra risposta alla domanda "che cos'è la storia?", osserva Edward H. Carr (Sei lezioni sulla storia, op.cit.), riflette il nostro giudizio sulla società attuale in cui viviamo: i fatti non parlano da soli, è lo storico che decide quali fatti, in che ordine e in quale contesto vanno presi in considerazione (pag.15 e pag.113); la storia medievale ci è stata trasmessa da persone legate alla religione, nelle ricerche degli storici moderni troviamo diffusamente punti di vista economici, l’individualismo e l'idea di progresso derivante dalla comune visione teleologica ebraico-cristiana. Lo storico sceglie, semplifica, tralascia, ignora; la sociologia ha dimostrato invece la complessità delle società, le cui politiche non sono riducibili a singoli uomini; inoltre i numeri, le moltitudini, contano.
Ogni progresso nella storia è discontinuo, sia nel tempo che nello spazio; lo storico, osserva Carr, vede il passato alla luce del suo tempo presente, conta la data in cui un libro di storia è stato scritto, perché "il passato è comprensibile per noi soltanto alla luce del presente, e possiamo comprendere pienamente il presente unicamente alla luce del passato" (cit., pag.61).
La storia ha perciò una duplice funzione: da un lato farci capire le società del passato, dall’altro ci consente di aumentare il nostro dominio sulla società presente (pag.152). Tutti i fatti storici sono infatti unici ed irripetibili, ma lo storico crea generalizzazioni linguistiche, come per esempio il concetto di guerra, che ci permettono di imparare dalla storia.
La storia può quindi trasformare le sconfitte di oggi in successi posticipati, e la consapevolezza storica dell'uomo moderno, osserva Carr, non ha precedenti, viviamo nell’età dell'autocoscienza (pag.143 e seg.).
La sofferenza fa parte della storia, che è caratterizzata da perdite accanto a vittorie, e da concetti morali astratti riempiti di contenuto concreto (quanta libertà o quanta uguaglianza e a chi?); i valori, come gli individui, hanno un carattere storicamente condizionato, non sono astratti: i valori di un periodo sono influenzati dai fatti circostanti, la verità storica è a metà del continuum tra fatti privi di valore e valori non ancora trasformati in fatti (cit., pagg.139-141).
lo storico si pone due domande fondamentali: perché e verso dove (pag.116); cerca le cause, le moltiplica, le semplifica, le ordina, individua quelle prioritarie: "un miscuglio di cause economiche, politiche, ideologiche e individuali, di cause a lungo e a breve termine" (pag.96).
Niente nella storia è inevitabile, o necessario, o casuale; non esiste un'antitesi fra libero arbitrio e determinismo, tutte le azioni umane sono libere e determinate "a seconda del punto di vista da cui le guardiamo" (pag.102).

La visione catastrofista, osserva Paolo Sylos-Labini (Il riformismo e le “leggi di movimento”, cit.), fu all’origine delle posizioni rivoluzionarie ed antiriformistiche del marxismo. Il fallimento del catastrofismo è strettamente connesso alla rigidità che deriva dalle estrapolazioni lineari: la storia è infatti determinata da tendenze che possono modificarsi e talvolta anche cambiare direzione. Di più, molte disuguaglianze sociali e strutturali non derivano dalla proprietà privata dei mezzi di produzione, ma da barriere culturali e dal divario della conoscenza.
La flessibilità intellettuale, il rifiuto dei dogmi, porta naturalmente ad una visione gradualista, progettuale e quindi riformista: “una progettualità non da tavolino, ma strettamente collegata alle tendenze e ai movimenti in atto nella società “ (cit., pag.79).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Ernst Bloch, DIALETTICA E SPERANZA (da Subjekt-objekt, ed. Vallecchi, 1967)
- Norberto Bobbio, L’UMANESIMO SOCIALISTA DA MARX A MONDOLFO (in AA.VV. L'Umanesimo Socialista di Rodolfo Mondolfo, Milano 1977)
- Edward H.Carr, SEI LEZIONI SULLA STORIA (What is History? 1961/ed. Einaudi-CDE, 1982)
- Erich Fromm, LA RIVOLUZIONE DELLA SPERANZA
- Erich Fromm, DALLA PARTE DELL'UOMO. Indagine sulla psicologia della morale (1947/ed. Astrolabio, Roma 1971)
- Erich Fromm, LA DISOBBEDIENZA E ALTRI SAGGI (1981/ed. Mondadori, Milano 1982)
- Erich Fromm, AMORE, SESSUALITÀ E MATRIARCATO (1994/ed. Mondadori, Milano 1997)
- Erich Fromm, L'AMORE PER LA VITA. Letture radiofoniche (1983/ed. Mondadori, Milano 1984)
- Hans Heinz Holz, INTRODUZIONE a Dialettica e speranza di Ernst Bloch (ed. Vallecchi, 1967)
- Antonio Polito, NON BASTA DIRE NO, a cura di Franco Debenedetti (ed.Mondadori, Milano 2002)
- Paolo Sylos-Labini, IL RIFORMISMO E LE "LEGGI DI MOVIMENTO" (in MondOperaio, giugno-luglio 1984)
- Antonino Zichichi, PERCHÉ IO CREDO IN COLUI CHE HA FATTO IL MONDO (ed.Rizzoli, Milano 1999)

 

3- IL RIFORMISMO COME TEORIA E PRATICA DELLA POLITICA

3-1 CHE COSA È POLITICA ?

Che cosa è politica?
La domanda è tutt’altro che banale perché, a seconda di cosa riteniamo sia “politica” o “politico”, cambia la prospettiva con cui consideriamo storia, idee, ideologie, eccetera.
Norberto Bobbio (Destra e sinistra, op.cit.) distingue l'azione politica, il linguaggio politico, le strategie politiche, le visioni della politica:
- l'azione politica è finalizzata alla formazione di decisioni collettivamente vincolanti (pag.12), ed è l'aspetto della politica che più interessa i riformisti;
- il linguaggio politico, al contrario, è fatto in gran parte da parole tratte dal linguaggio comune ed è poco rigoroso dal punto di vista descrittivo (pag.61);
- per quanto riguarda le strategie politiche, il contrasto rispetto al metodo permette di distinguerne la radicalizzazione (estremismo contro moderatismo, pag.28): metodo antidemocratico e catastrofico nell'un caso (estremismo di destra e di sinistra), metodo democratico, gradualistico, evoluzionistico nell'altro caso (moderatismo di destra e di sinistra);
- le visioni della politica danno origine a concetti spaziali, ad una topologia politica (pag.66).
Il significato o uso dei termini politici può essere poi assiologico o storico (pag.3), quest'ultimo ulteriormente distinguibile in un uso descrittivo ed in uno valutativo.

Alcune teorie fra loro alternative della politica possono essere riepilogate sinteticamente come segue:
- La politica è buona amministrazione della cosa pubblica (concezione aristotelica della politica); secondo Aristotele (La Politica, op.cit.) l'uomo è un animale politico in quanto è un costruttore di poleis (pag. 50 e 92): la polis è una comunità di valori, è un tutto anteriore sia all'individuo che alla famiglia, che ne sono parti come fossero organi del corpo umano.
- La politica è contrapposizione fra gruppi, è divisione antagonistica fra amici e nemici (teoria della politica di Carl Schmitt); “sottoprodotti” di questa concezione antagonistica sono la teoria machiavellica del potere e la teoria marxista che interpreta la politica principalmente come attività di critica ed insieme come processo storico di crisi dell’ordine esistente.
- La politica è attribuzione imperativa di valori (David Easton), ma anche un processo di conversione di domande e sostegni in prestazioni (regolativa, estrattiva, distributiva, ricettiva: teoria funzionalista di Almond e Powell).
Delle tre concezioni generali che ho appena schematizzato, al riformismo interessa soprattutto la terza, anche se è costantemente obbligato a “fare i conti” con la seconda concezione, quella antagonistica nella quale sono riuniti tutti i nemici, storici ed attuali, del riformismo: dal conservatorismo al massimalismo, dall’autoritarismo al fondamentalismo (religioso, nazionalistico, ecc.) al totalitarismo.
Ma perché al riformismo interessa soprattutto la terza concezione della politica? Perché per il riformista la politica è innanzitutto attività di trasformazione, di mutamento, di cambiamento delle regole che ordinano l’agire collettivo. I contenuti del riformismo non sono antagonistici, anche se il riformismo è poi costretto dai suoi nemici all’antagonismo: i contenuti del riformismo sono in primo luogo costruttivi, progettuali, e rivolti al cambiamento.
Secondo Franco Debenedetti (Non basta dire no, op.cit., pag.35), due sono gli ostacoli principali che si presentano al riformista:
- ottenere il consenso per le proprie proposte;
- tener conto dei vincoli di compatibilità con le risorse esistenti, ed in ciò si distingue nettamente dal massimalista, che persegue il cambiamento “tout court” senza valutarne possibilità, compatibilità, conseguenze.
Il riformista propone nuovi progetti ma anche nuovi punti di vista, e pensa in termini di governo anche quando è all'opposizione; combatte le spinte alla radicalizzazione, ma nel far ciò deve saper anche proporre un progetto ampio di cambiamento che possa essere accettato dalla maggioranza degli elettori (cit., pagg.36-38). Quella riformista è un'impostazione culturale, offre speranze rivolte al futuro anziché coltivare utopie rivolte al passato (cit., pag.58).

Carl Schmitt (Le categorie del politico, op.cit.) osserva come dal XX secolo, ed in taluni casi anche prima, lo Stato abbia perso il monopolio del "politico": settori finora neutrali perché non-statali e non-politici si caricano via via di significato politico man mano che si verificano contrapposizioni; in democrazia, osserva, settori come quelli religioso-confessionale, culturale, economico, giuridico, scientifico, educativo non sono più contrapposti a quello politico, e viene meno la stessa contrapposizione stato-società, ovvero politico contro sociale (cit., pag.106).
La distinzione di fondo per individuare l’esistenza di fenomeni di tipo politico, secondo Schmitt, è quella fra amico e nemico, che non è una semplice distinzione metaforica o simbolica, ma indica il massimo grado di contrapposizione fra gruppi umani; il nemico è pubblico (hostis) e la contrapposizione è tanto più politica quanto più si avvicina al punto estremo, che è la guerra.
Per Giacomo Marramao (L’ordine disincantato, op.cit.) la concezione politica espansiva attribuisce, sia a destra che a sinistra, un ruolo-guida alla politica; viceversa, la concezione politica restrittiva la considera una funzione fra molte altre. Secondo la concezione restrittiva, osserva Marramao, "la politica apporta un contributo tanto più efficace alla soluzione dei problemi sociali quanto più essa conosce i limiti delle proprie possibilità di azione e di intervento" (cit., pag.69): la ragione debole, senza incantamenti, ha in realtà come sua forza proprio il sapersi debole, l'esserne consapevole (pag.99).

Andrew Gamble (Fine della politica?, op.cit.) osserva come il prevalere di argomenti pessimisti, di disillusione, disincanto, fatalismo, portano al dibattito sulla fine: fine della politica, della storia, dell'ideologia, dello stato, della sfera pubblica, dell'autorità; l'idea di fondo è che vi siano forze impersonali (quali la globalizzazione e la tecnologia) che rendono impossibile da parte dell'uomo il controllo del proprio destino (pagg.7, 21, 45 e seguenti). Compito della politica deve essere invece quello di permettere alle società umane di controllare il proprio destino, attraverso potere, risorse, ordine, regole, identità, fedeltà; a questa visione della politica si contrappongono la tesi conservatrice della politica afflitta da corruzione ed inefficienza, e la tesi della politica totalitaria (pag.9). Molte utopie sono infatti "luoghi apolitici" (pag.10).
La politica è invece necessaria, osserva Gamble, è un elemento costitutivo della nostra esperienza; il suo campo d'azione si può restringere, ma mai scomparire.
La sfera politica ha tre dimensioni (pagg.14-16 e 101-105):
- l’identità, che è la dimensione espressiva del politico (chi siamo?);
- il potere, che è la dimensione strumentale del politico (chi ottiene cosa, quando e come);
- l’ordine, che è la dimensione regolativa del politico.
Tutte le dimensioni implicano conflitto: chi decide, come decide e quali decisioni prende.
La politica è azione, desiderio, immaginazione, volontà interna all'uomo, e si contrappone al fato inteso come vincolo esterno, contingenza, destino inevitabile: ma poiché un mondo senza vincoli non è possibile, vi deve essere equilibrio fra i due termini (pagg.23-24).
Il fallimento del comunismo, osserva Gamble, è dovuto alla "sua spericolata fiducia nella capacità della volontà politica di rifare la società senza tener conto dei vincoli esistenti", fra cui vi sono gli stessi diritti individuali.
Il neoliberismo, invece, propone un mondo senza politica, fondato su principi economici, che però è realizzabile solo per mezzo della politica in quanto necessita di "monetarismo, deregolamentazione, privatizzazione e flessibilità dei mercati del lavoro" (pag.59); la politica ha inoltre una funzione essenziale nel formulare i principi che ordinano i mercati economici (pagg.109 e 111).
La storia moderna, osserva ancora Gamble, si caratterizza per i molteplici tentativi di sostituire fonti d'autorità con altre, piuttosto che di eliminare l'autorità in sé: conflitti "tra chiesa e stato, cristianesimo e islamismo, re e parlamento, capitale e lavoro, religione e scienza" (pag.64); il pluralismo dei valori rende impossibile stabilire una priorità fra essi.
La governance è l'insieme dei meccanismi per guidare e governare una società, fra cui vi sono il government (governo), i mercati, le reti (pag.84), la cooperazione internazionale, la governance a più livelli: ne è esempio l'Unione Europea, che segna il passaggio dallo stato-nazione interventista allo stato regolatore. La nozione di governance è perciò più ampia del government, ed un tema chiave della politica è proprio l'equilibrio fra le diverse modalità di governance.
La categoria della sfera pubblica comprende il settore pubblico, il governo, la partecipazione degli attori pubblici ma anche privati alla discussione dei problemi comuni; l'interesse pubblico non è dato bensì è oggetto di discussione o di negoziato, ed è centrale in esso il tema dell'equità: equo trattamento, equo processo.
I mass media, e soprattutto la televisione, consentono ai leader politici di rivolgersi direttamente all'elettorato, rendendosi indipendenti dai partiti e rendendo superflue le tesi politiche, che vengono così sostituite da semplici slogan (pag.88).

Per Almond e Powell (Politica comparata, op.cit.) il sistema politico consiste in funzioni o processi di conversione, che trasformano flussi in entrata, "inputs" che consistono in domande e sostegni, in flussi in uscita, gli "outputs" che sono le prestazioni del sistema politico, che gli Autori distinguono in regolative, estrattive, distributive, ricettive, simboliche (cit., pag.66); i sistemi politici sono entità multifunzionali, caratterizzati da interdipendenze ma non da armonie, e si distinguono per la relazione che hanno con la coercizione.
Per quanto riguarda gli inputs, ovvero i flussi in entrata del sistema politico, questi consistono da un lato in domande, che influenzano le decisioni e gli obiettivi politici, e che riguardano beni e servizi, regolazione del comportamento, partecipazione, comunicazione, informazione; dall’altro lato consistono in sostegni che aiutano il sistema politico a conseguire i propri obiettivi: sostegni materiali, ubbidienza, attenzione, partecipazione.
Gli inputs possono arrivare dalla società nazionale, dal sistema internazionale o dalle stesse elites politiche; la conversione degli inputs in outputs (che sono le prestazioni del sistema), avviene grazie ai tre poteri tradizionali (legislativo, esecutivo, giudiziario) e ad altre tre funzioni che sono l'articolazione e l’aggregazione degli interessi, e la funzione di comunicazione (cit., pagg.48-68). L’articolazione degli interessi segna il confine fra il sistema politico e quello sociale; l’aggregazione degli interessi converte invece le domande in scelte politiche, attraverso i partiti e la differenziazione e specializzazione delle strutture politiche: nelle democrazie moderne, infatti, le strutture politiche sono altamente differenziate, ma il cittadino è essenzialmente un politico intermittente od "occasionale" (cit., pag.85).
L'idea di una formazione quotidiana delle norme, osservano gli Autori, è un’idea moderna: il costituzionalismo è divenuto l'alternativa al metodo carismatico di cambiamento, che è tipico invece dei sistemi politici tradizionali.
L’applicazione delle norme, ovvero la funzione esecutiva, all'inizio era l’amministrazione domestica della corte (cit., pag.205); qui è fondamentale il ruolo della burocrazia, il cui grado di efficienza condiziona le prestazioni del sistema, ovvero gli outputs del processo politico di conversione.
La funzione di comunicazione è necessaria per tutte le altre funzioni, i sistemi autoritari soffrono infatti di allucinazioni che alla fine ne compromettono la stabilità (yesmen, cit. pag.246).
I principali fattori che influenzano gli outputs del sistema politico sono le risposte delle elites politiche, le risorse necessarie e l'apparato organizzativo. Gli inputs e gli outputs riguardano i confini di un sistema politico, che sono soggetti a fluttuazioni, a causa di guerre, elezioni, ecc. (all’epoca in cui fu scritto il libro,  non si parlava ancora di globalizzazione); all’interno di ogni sistema politico si svolgono poi importanti funzioni di mantenimento e di adattamento, quali la funzione di reclutamento politico e la funzione di socializzazione politica, che è attiva nell’individuo sin dall'infanzia.

Per David Easton (Il sistema politico, op.cit.) le teorie sono spesso suggerimenti di riforma, e a causa della loro interazione col sociale sono talvolta profezie autocontraddicentesi o profezie autoverificantesi. Una linea politica, osserva Easton, nega cose ad alcuni e le rende accessibili ad altri: è una rete di azioni e decisioni che distribuiscono i valori; una decisione isolata non è una linea politica, le decisioni peraltro sono solo la fase formale di una linea politica, occorre agire per attuarla e l’azione è appunto la seconda fase, effettiva, di una linea politica.
La politica, secondo Easton, si differenzia da altre forme di attività sociale perché assegna valori all’intera società a mezzo autorità cui è necessario obbedire: una situazione politica si verifica allorché si sviluppa un'attività di assegnazione autoritaria di valori per l'intera società, attività che è inevitabile, osserva Easton, dalle società più semplici fino alla comunità internazionale.

3-2 IL RIFORMISMO E IL CAMBIAMENTO DELLE REGOLE

L'attività dei riformisti è tale in quanto si occupa, in primo luogo, di cambiare le regole che governano una società: non tutte le regole, non subito ma gradualmente, l'attività riformista porta a cambiare il quadro delle regole sociali, e quindi cambia gli assetti delle società.
Ma quali sono le regole che governano una società? Dal libro Norma e azione di Georg H. von Wright (op.cit.), riepiloghiamo ora brevemente una serie di concetti di uso comune, che riguardano l'azione sociale in generale, e dei quali il riformista deve tener conto in quanto soggetto che agisce nell'intento di cambiare le regole sociali. Anzitutto, von Wright distingue le leggi dalle norme.
Per leggi intende (pag.38):
- leggi della natura, che sono descrittive e possono essere vere o false;
- leggi dello Stato, che sono prescrittive, prive di valore di verità, il cui scopo è influenzare i comportamenti (pag.39), il discorso prescrittivo è normativo, le prescrizioni sono emanate da un'autorità normativa (pag.44);
- leggi della logica, come le regole di un gioco o della grammatica, che "non descrivono nè prescrivono ma determinano qualcosa" (pag.42).
Per norme intende tre gruppi principali (pag.53):
- le regole dei giochi, del linguaggio, delle abitudini;
- le prescrizioni o regolamentazioni, che consistono a loro volta in proibizioni, comandi e permessi: implicano un'autorità normativa, sanzioni (la minaccia di una punizione, pag.178), sono prive di valore di verità e contingenti (pagg.154-157);
- le direttive o norme tecniche, che sono mezzi da usare per conseguire un fine.
Individua poi tre gruppi secondari di norme, e cioè i costumi, i principi morali, le regole ideali; queste ultime riguardano l'essere piuttosto che il fare, sono collegate al concetto di bontà, a stati del carattere; i costumi assomigliano invece alle regole del linguaggio e delle abitudini, ed alle prescrizioni.
È evidente che l'azione riformista, nell'analisi dettagliata di von Wright, riguarda in primo luogo le leggi dello Stato e le prescrizioni, ma in taluni casi anche i costumi, i principi morali e le regole ideali; talvolta riguarda anche le regole delle abitudini e le direttive, quando per esempio norme tecniche devono essere adeguate a nuove conoscenze.
Von Wright distingue otto modi di azione elementare riferiti a fatti (pag.75 e seg.):
a) gli atti umani, che producono risultati e conseguenze; sono atti umani fare, distruggere, preservare, sopprimere;
b) le astensioni elementari (dal fare/produrre, dal distruggere, dal preservare, dal sopprimere); anche le astensioni possono avere conseguenze (pag.89). Von Wright distingue l'agire dal fare: "quando un atto non raggiunge il risultato proposto, l'agente ha tentato di fare qualcosa"; tentare è un modo di agire logicamente incompleto (pag.83).
Il riformismo, a nostro avviso, riguarda essenzialmente atti umani (certo non le astensioni), gli agenti del riformismo sono sempre persone, singoli individui che prendono inziative politiche in un contesto che però è certamente collettivo (partito, assemblea legislativa, ecc).
La validità di una norma ha due significati (pagg.258-271): nel senso normativo è legittima, nel senso fattuale è in vigore, esiste; gli atti normativi invalidi sono atti di usurpazione, la logica della rivoluzione è ottenere potere normativo illegittimo e premere sui cittadini perché disobbediscano alle norme esistenti. I permessi legittimi sono diritti.
L'attività del riformista, osserviamo noi, è sempre legittima, in un quadro democratico; fuori dal contesto democratico, il comportamento del riformista si caratterizza per atti di disobbedienza e di resistenza all'ordine costituito.

Per Albert O. Hirschman (Come far passare le riforme, op.cit.) riforme e rivoluzioni sono soluzioni antagonistiche dei problemi, producono entrambe cambiamenti negli assetti (potere e ricchezza) dei gruppi sociali (pag.159).
La rivoluzione viene spesso concepita come un interludio, brevissimo e cataclismatico, fra società statiche, reso necessario dalla limitata capacità dell'uomo di "visualizzare il cambiamento" (pag.163); sequenze di decisioni politiche possono contenere sia elementi riformatori che rivoluzionari. La violenza è condizione necessaria ma non sufficiente per una rivoluzione, deve essere centralizzata, unilaterale, "temporaneamente non restituita" (pag.169); secondo Hirschman, vi è anche una violenza compatibile con la riforma: oltre che pressione e protesta (segnale), la violenza decentralizzata può essere essa stessa risolutrice o riduttrice di problemi (occupazione, sciopero), che diventano in tal modo più docili ad iniziative riformatrici.
Politiche riformatrici possono avere contenuti antagonistici, il loro impatto sui diversi gruppi interessati può essere volta per volta benefico, indifferente, dannoso. A differenza del rivoluzionario, il riformatore può imparare dai suoi errori e dalle resistenze che incontra (pag.187).

Salvatore Veca, in Ricerche politiche due (cit.), osserva come la società non sia una somma di individui ma un campo di relazioni fra individui e gruppi; l'approccio contrattualista implica un contesto comunicativo (accordo originario non coatto), "ragionare vuol dire presentare buone ragioni" (pag.168).
Veca distingue le regole costitutive, assimilabili agli impegni categorici di Kant (prescrizioni non condizionate da fini), dalle regole regolative che sono imperativi ipotetici, variabili al variare dei fini ("istruzioni per l'uso", pagg.170-171). Non seguire una regola regolativa vuol dire non giocare bene un gioco, non seguire una regola costitutiva vuol dire che non si sta giocando "quel" gioco.
Le regole costitutive non sono violabili, concernono il riconoscimento, il significato, "le condizioni di possibilità di qualcosa" (pag.172); la non conformità a regole regolative produce inefficienza, la non conformità a regole costitutive causa la defezione dal gioco morale.

3-3 RIFORMISMO E DECISIONISMO

Il riformismo è una forma di decisionismo, graduale, razionale, attento alle conseguenze: è attività di ricerca e di soluzione delle criticità, ma anche delle potenzialità che offre il tempo presente, una ricerca che svolge anche attraverso griglie di domande ben poste, analisi non banali, non superficiali, fondate su dati ed informazioni il più possibile complete. Il riformismo tramuta decisioni in azioni, e quindi il prendere decisioni è un aspetto essenziale di ogni politica riformista.
In questo paragrafo esamineremo alcuni concetti contenuti in particolare nel libro Scelte (op.cit.) di Michael D. Resnik, che si occupa appunto di teoria delle decisioni, teoria che può essere descrittiva o sperimentale (come le decisioni vengono prese), ovvero solo normativa o astratta (come le decisioni dovrebbero essere prese).
Resnik distingue anche le decisioni prese come individui (singoli esseri umani ma anche nazioni, corporazioni, ecc.), dalle decisioni di gruppo come sono, ad esempio, le elezioni; la teoria dei giochi si occupa del primo tipo di decisioni, che hanno come obiettivo solo quello di favorire gli interessi degli individui coinvolti nel gioco.
I filosofi morali hanno dimostrato che le azioni morali sono razionali, quelli politici che attori razionali costruiranno società giuste; l'uomo economico razionale, utilizzato per formulare le leggi della domanda e del'offerta, egli osserva, non è un modello descrittivo.
Le decisioni si compongono di atti, di stati e di risultati che dipendono dai primi due (pag.13); uno stato, poi, può essere indipendente o conseguente da un atto.
Utilizzare la teoria delle decisioni costa però tempo e denaro, si tratta di valutare il rischio comparato sulla base delle informazioni acquisite, talvolta può anche essere irrazionale usarla ed è meglio prendere decisioni immediate.
Non sempre peraltro le decisioni razionali, una volta prese, si rivelano essere anche decisioni giuste, nel senso che i risultati che ne derivano siano sempre positivi per i soggetti che le hanno prese.
Resnik distingue le decisioni in condizioni di certezza, le decisioni in condizioni di incertezza, dove l'ignoranza può essere parziale o totale, e le decisioni in condizioni di rischio nelle quali tutti i risultati che derivano da un atto hanno le stesse probabilità di verificarsi.
Talvolta può essere razionale scegliere una situazione di rischio piuttosto che una di certezza, se ha maggiore probabilità di dare un risultato maggiore (pag.226).
Un problema di decisione è spesso una sequenza di decisioni, che è rappresentabile con un diagramma ad "albero" e che comprende nodi di decisione e nodi di possibilità, ciascuno dei quali può essere a sua volta rappresentato da una tavola di decisione, in cui fare scelte di strategie (pag.30 e seg.)
In condizioni di ignoranza, un moderato pessimista può prendere decisioni razionali utilizzando le funzioni di utilità ed applicando la regola del maximin, che dice di massimizzare il minimo ovvero di scegliere il meno peggio (pag.43 e seg.); la regola di rammarico minimax propone invece di analizzare le opportunità perse, piuttosto che le possibilità peggiori (pagg.46-47).
L'ottimista estremo, al contrario, applicherebbe la regola del "maximax", che consiste nel massimizzare i massimi; l'indice di ottimismo, peraltro variabile da individuo a individuo e da circostanza a circostanza, può aiutarci a stabilire quale soluzione di compromesso scegliere; laddove gli esiti fossero contraddittori, la scelta può essere fatta applicando la regola di maggioranza, che però è anch'essa soggetta a malfunzionamenti, come nel caso del paradosso del voto, dove la regola di maggioranza semplice porta a scelte collettive che non costituiscono una funzione di benessere sociale: "Poichè una maggioranza preferisce a a b, una maggioranza preferisce b a c e una maggioranza preferisce anche c ad a, le preferenze sociali generate dalla regola di maggioranza semplice formerebbero un circolo, violando così la condizione che non valga aPc se vale cPa" (cit., pag.282).
In filosofia sociale, osserva ancora Resnik, il principio di differenza (Rawls) e l'utilitarismo (Harsanyi) possono portare ad ordinamenti differenti, sebbene sia difficile determinare se una data politica sociale promuove l'utilità media piuttosto che gli interessi di chi sta peggio.
Per decidere in condizioni di incertezza occorrerebbe allora individuare le circostanze specifiche che ci aiutino a scegliere anche le regole da applicare per decidere, favorendone alcune ed escludendone altre; in ogni caso, i principi di giustizia sociale devono passare un test di equità, che consiste nel verificare se soggetti razionali li sceglierebbero dietro un velo di ignoranza (pag.66 e seg.).
I giudizi di probabilità sono frequenti nella nostra vita quotidiana; le assicurazioni trasformano il calcolo delle probabilità di condizioni di rischio in valori monetari attesi; il calcolo delle probabilità può basarsi su interpretazioni oggettive, indipendenti dai giudizi umani, o su punti di vista soggettivi e quindi misurare credenze e propensioni piuttosto che frequenze: nuove informazioni possono modificare le credenze, e quindi le probabilità soggettive.
In una decisione in condizioni di rischio è importante sapere quanto abbastanza un risultato è preferito ad un altro, perché una "scala intervallare di preferenze" ci aiuta a capire se ci vogliamo far carico o meno dei rischi connessi a quel risultato; una scala monetaria può funzionare come scala intervallare: quanto siamo disposti a pagare per ottenere quel risultato? (pag.130 e seg.).
Resnik osserva in proposito come spesso scale e valori monetari misurino decisioni non d'affari e risultati non monetari; taluni costi sociali vengono misurati anche in termini di perdita di giornate lavorative, o di minor prodotto interno lordo.
In realtà, molte decisioni mirano ad ottenere risultati il cui valore è superiore al loro valore monetario: altre considerazioni, spesso del tutto razionali, entrano in gioco, di tipo umanitario, sentimentale, morale, estetico, ecc. (pag.138). Una scala di utilità rappresenta in termini numerici preferenze che sono tipicamente non numeriche, e che quindi non si possono sommare, sottrarre, moltiplicare o dividere: "l'utilità non è una quantità additiva" (cit., pag.159).
Secondo i teorici humiani, osserva Resnik, prendere decisioni significa scegliere tra blocchi di informazioni (pag.184); l'analisi dei vari paradossi porta poi alla conclusione che vi possono essere teorie alternative delle decisioni, a seconda del tipo di razionalità sottostante: la razionalità di gruppo, ad esempio, può entrare in conflitto con la razionalità individuale, come nel caso del dilemma del prigioniero dove strategie che sono razionali per i singoli individui producono tuttavia risultati non ottimali (pag.234 e seg.).
Il dilemma del prigioniero rientra nella teoria dei giochi, che studia le strategie, ovvero le sequenze di mosse compiute da due o più giocatori per ottenere un certo risultato; anche qui l'informazione può essere imperfetta, si introducono possibilità (es. di accordi parziali) ed imprevisti. I giochi non competitivi nei quali i giocatori possono comunicare fra loro sono detti giochi cooperativi, producono come risultati accordi che sono vincolanti e permettono la redistribuzione delle vincite (pag.200); i giochi di contrattazione sono giochi cooperativi in cui un risultato fra più possibili viene scelto da giocatori in posizioni simmetriche, contrattando fra di loro (pag.253 e seg.).
La comunicazione talvolta fa emergere conflitti di volontà che possono essere risolti introducendo delle regole di comportamento che si configurano come veri e propri principi morali che però sono soggetti a defezioni e, quindi, al noto problema dei free riders, cioè di coloro che traggono maggiori vantaggi dall'infedeltà, ovvero dall'infrangere gli accordi e dal disobbedire alle regole.
Ancora una volta, prendere buone decisioni ed agire di conseguenza è difficile, nessuna teoria specifica può assistere il riformista nel suo lavoro, nè fornirgli un metodo o una risposta che sia definitiva, ma ciascuna teoria può tuttavia fornire suggerimenti, non definitivi, non esaustivi, validi caso per caso per aiutare il riformista nel suo lavoro e di cui il riformista deve poterne tener conto.
Diversamente dal rivoluzionario, che abbonda di ideologie, il riformista lavora in un contesto di indeterminatezza e ne è consapevole: questa consapevolezza, alla fine, diventa il suo elemento di forza che gli consente di ottenere risultati che nessun ideologo potrebbe vantare, nonostante la propria assolutezza declaratoria.

Le decisioni, osserva Norberto Bobbio (Ricerche politiche due, op.cit.), sono sempre atti individuali. Sono "decisioni collettive" tanto quelle prese da più individui (decisioni collegiali) che quelle prese per più individui (decisioni collettive vere e proprie, pagg.10-11).
L'iter procede dalla preferenza alla scelta e da questa alla decisione: "l'atto di decidere è successivo a quello di scegliere" (pag.12). Una decisione che non è preceduta da una scelta è una decisione necessitata e quindi non libera; la scelta implica più alternative possibili, non scegliere però non equivale a non decidere.
Una decisione collettiva è valida se accettata e vincolante: le decisioni individuali sono sempre accettate, quelle collettive quasi mai (decisione unanime, pagg.14-15 e 21), occorrono pertanto delle norme che attribuiscano a qualcuno il potere di prendere decisioni per tutti, che sono peraltro le norme costitutive o primarie che disciplinano l'istituto giuridico della rappresentanza.
L'individuazione delle regole procedurali per decidere viene prima perciò rispetto al contenuto delle decisioni collettive: "chi vince la battaglia per la procedura, ha già vinto la battaglia per la decisione finale" (pag.28). L'accordo sulle regole di procedura decide infatti chi e come prenderà le decisioni sostanziali.
Alla base dell'individualismo metodologico vi è la concezione che i sistemi di preferenze individuali non possano essere cambiati con la manipolazione o la violenza, e che le istituzioni richiedono la legittimazione degli individui (Remo Bodei, op.cit. pag.61). Una società giusta è quella in cui i singoli scelgono il principio del maximum minimorum: maximin ovvero miglioramento della situazione peggiore.

3-4 RIFORMISMO E RAZIONALITÀ

I cenni sulla teoria delle decisioni ci portano ora a compiere un breve ma necessario passaggio sul concetto di razionalità, un passaggio necessario perché ci aiuta ancor di più a capire come mai il riformismo, apparentemente così debole rispetto alle spinte ideologiche, fondamentaliste, rivoluzionarie, produce ex post risultati positivi tali che nessun'altra azione collettiva potrà mai riuscire ad eguagliare. Il riformismo è razionale, ma la ragione, osserva Herbert A. Simon (La ragione nelle vicende umane, op. cit.) è solo strumentale, è un metodo: ci dice come fare per conseguire un fine, quale esso sia (pag.38); i valori e non la ragione ci difendono da fini sbagliati (pag.42).
Simon distingue quattro modelli di razionalità umana: il modello olimpico, il modello comportamentale, il modello intuitivo, l'adattamento evolutivo.
La teoria dell'utilità soggettiva attesa richiama un modello olimpico di comportamento che non soddisfa tutta la complessità del mondo e non è applicabile alle singole decisioni degli individui, perché queste riguardano argomenti ristretti, non contemplano tutte le alternative e gli scenari possibili ma solo poche eventualità o valori, e si compiono in tempi solitamente ristretti (pagg.50-56).
Le decisioni individuali vengono prese allora in un modello comportamentale di razionalità limitata, in cui le molteplici variabili che teoricamente dovrebbero influenzarsi a vicenda, in pratica si ignorano (un "mondo quasi vuoto", pag.55).
Il modello intuitivo suppone invece facoltà intuitive e di giudizio determinate dall'esperienza che rende possibili criteri elaborati di distinzione e, quindi, decisioni intuitive; secondo Simon, sono necessari almeno dieci anni di studi intensivi per giungere a prendere decisioni in campi specifici con cognizione di causa (pagg.59-61). Nel modello olimpico tutti i problemi sono all'ordine del giorno; i modelli comportamentale ed intuitivo non sono fra loro alternativi, è l'emozione a scegliere i problemi: sono infatti i meccanismi emozionali (pathos) che stabiliscono le priorità della nostra attenzione rispetto ai problemi ("conoscenza passionale", pagg.54-67), e quindi l'ordine delle nostre scelte.
L'evoluzione è una forma di razionalità, è adattamento, massimizzazione economica, "competizione per la nicchia ambientale" (pag.80); suoi meccanismi sono la variazione (prove, elementi di novità) e la selezione (eliminazione degli errori): questo modello di scelta, osserva Simon, è però inadeguato laddove siano possibili solo una prova e nessun errore (pag.78); inoltre l'evoluzione biologica è razionalmente miope, in quanto ottiene solo massimi locali, ed è priva di scopo (aumenta la complessità, pagg.105-110).
Sia il modello comportamentale che la teoria evoluzionistica rinunciano al raggiungimento dell'ottimo ma si limitano a conseguire "miglioramenti" (pag.113); la specie umana, in particolare, è programmabile perché può modificare la propria cultura (pag.92).
Simon distingue l'altruismo debole, "interesse personale temperato" che determina vantaggi a lungo termine (es. l'altruismo parentale), dall'altruismo forte, che non riceve ricompense; l'altruismo debole richiede un ambiente favorevole all'altruismo, necessita riconoscimento (pagg.95-100). Alla base dell'altruismo vi è la docilità, il comportarsi in modi approvati socialmente, il temperare l'interesse personale (pagg.103 e 149).
Credenze e valori che derivano da fonti autorevoli piuttosto che da prove pratiche, sono contagiosi e spesso in conflitto; Arrow ha peraltro dimostrato l'impossibilità di una funzione del benessere sociale (pagg.116 e 125). La razionalità è resa possibile dalla stabilità dell'ambiente, e quindi dal ruolo che giocano in tal senso le istituzioni (pag.118); problemi collettivamente importanti e controversi, in cui anche gli esperti sono divisi, vanno risolti con procedure democratiche (pag.120 e 140).
Solo alcuni problemi sono strettamente connessi, quali energia/ambiente, o inflazione/disoccupazione; anche le istituzioni politiche concentrano l'attenzione su certi problemi rispetto ad altri in base ai criteri della novità e dell'imprevisto, e questo in quanto l'attenzione è una risorsa scarsa (pagg.123-136).
I problemi generati dall'incertezza richiedono soluzioni soddisfacenti piuttosto che ottime: il dilemma del prigioniero ci suggerisce in tal senso di utilizzare strategie di non aggressione (pagg.126-128). Scelte sociali razionali sono favorite dalla routine, quale può determinarsi grazie ad organizzazioni specializzate, meccanismi per la determinazione dei prezzi, strutture di mercato; anche i procedimenti per contraddittorio rafforzano la razionalità (dibattiti, legittimità procedurali, pagg.129-132).
Dati empirici, cognizioni, teorie, razionalizzazioni sono i fatti iniziali che determinano la successiva efficacia o inefficacia della ragione nelle decisioni (pag.135).

George Katona, nel libro L’analisi psicologica del comportamento economico (op.cit.), osserva come l'individuo tenda a ripetere il proprio comportamento in situazioni che ritiene simili alle precedenti; le decisioni autentiche sono poco frequenti e non derivano da comportamenti abituali: il comportamento infatti può essere rigido (atti ripetuti di routine) oppure flessibile se comporta una riorganizzazione del campo ed un nuovo livello di comprensione. Il comportamento flessibile nasce dalla consapevolezza dell'esistenza di nuove condizioni.
Il bilancio economico nazionale è globale ed ex post, andrebbe integrato da informazione ex ante quali le intenzioni, i progetti, gli atteggiamenti: le previsioni sulla situazione economica generale influenzano spese ed investimenti.
Una politica economica efficace ricorre sia a strumenti economici che psicologici: deve infatti considerare le reazioni (conformi e non conformi) alle misure che intende attuare e che devono essere precedute da una preparazione psicologica adeguata. L'informazione economica deve essere data in modo da essere compresa, i dati ed il loro significato devono essere resi noti assieme all'opinione pubblica, che deve essere messa a conoscenza dei vari aspetti di ciascun problema. Persone autorevoli che fanno previsioni superficiali non servono, le previsioni sono utili solo se formulate in modo da presentare i fatti su cui si basano e in modo che ciascuno possa giudicarne la fondatezza.
I responsabili della politica economica devono raccogliere e diffondere i dati economici, e la conoscenza delle reazioni della gente ad un provvedimento può essere determinata già ad uno stadio quasi iniziale ed è fondamentale per valutarne l'opportunità.

La spiegazione scientifica, osserva Jon Elster in Ulisse e le Sirene (op.cit.), può essere causale, funzionale, intenzionale; si presume che il comportamento umano sia tipicamente razionale o intenzionale, così come il comportamento animale sia funzionale (pag.32).
Il raggiungimento di massimi locali rende impraticabili le strategie indirette che comportano invece l’attesa e che sono spesso cruciali per le scelte fatte dall’uomo, che pertanto è una sorta di macchina capace di raggiungere massimi globali (pag.47). Esempi di massimizzazioni globali, secondo Elster, sono: in politica, il temporeggiamento (strategia di attesa) e il controriformismo (strategia indiretta); in economia, il sistema dei brevetti (ancora una strategia di attesa) e gli investimenti (strategia indiretta). Il riformismo è, per Elster, il “rifiuto delle strategie indirette” (pag.49): la meccanica sociale a spizzico di Popper può infatti raggiungere solo massimi locali, come la selezione naturale; mentre il comportamento rivoluzionario è un esempio di utilizzo di strategie indirette ed è caratteristico dell’agire umano.
Anche la ricerca casuale può talvolta essere scelta con un processo razionale: occorre distinguere, osserva infatti Elster, “tra la scelta di un’azione e la scelta di una procedura per scegliere” (pag.52); entrambe possono avvenire con decisione deliberata, oppure per prova ed errore. Pertanto, una procedura per prova ed errore può generare scelte deliberate ed intenzionali.
Diversamente dagli animali, che sono miopi, gli uomini sono imperfettamente razionali in quanto riescono a risolvere strategicamente la loro miopia.
Esaminando tutte le alternative, anche quelle non attuali e solo possibili, l’uomo può scegliere la migliore, ha “una capacità generalizzata di massimizzare globalmente” (pagg.56 e 153-155).
Elster distingue l’individuo razionale parametrico, che considera l’ambiente come una costante, da quello strategico, che sceglie in base alle proprie aspettative verso il futuro, ma anche in base alle aspettative sulle aspettative altrui; un esempio di interazione di tipo strategico è il già citato dilemma del prigioniero (pag.61 e seguenti).
La solidarietà è altruismo condizionato, in quanto vi sono i free rider e le strategie miste (pag.64 e seg.). La teoria della razionalità imperfetta si fonda sulla debolezza umana e sulla consapevolezza di essere deboli: farsi legare può essere utile, ad esempio con leggi costituzionali; quando la volontà è debole, la tecnica principale di comportamento razionale è proprio quella di farsi legare assumendo obblighi: una decisione presa al tempo t1 aumenta la probabilità di prendere un’altra decisione al tempo t2 (pagg.85-90). Il rapido sviluppo economico di società distrutte dalla guerra può essere un esempio di strategie alla “Ulisse”, come pure le decisioni di credere (l'argomento di Pascal, pagg.97 e seg.).
Un individuo è razionale se ha preferenze coerenti e complete nel tempo: priorità del presente e “graduale svanire nell’ombra del futuro” (pagg.127-134). Talvolta l’eccessiva razionalità diventa irrazionale dal punto di vista pratico o economico; il maggior ostacolo alla razionalità è spesso l’ignoranza e non la debolezza della volontà (pagg.115-121).
Le democrazie moderne hanno creato istituzioni per obbligarsi: la banca centrale, le elezioni periodiche, l’abdicazione dei politici da taluni valori o strumenti troppo importanti o pericolosi (politica estera, monetaria, radiotelevisiva pubblica, pag.158). Secondo Elster, elezioni con date fissate a caso eliminerebbero le conseguenze sub ottimali di misure impopolari ad inizio legislatura e popolari alla fine (pag.159).
L’assemblea costituente diventa in tal modo il vero soggetto politico (politique politisante), mentre “le generazioni successive sono vincolate alla politique politisée, ovvero l’adempimento, giorno per giorno, delle regole del gioco” (pag.163).
Ciascuna generazione vuole legare le successive ma non farsi legare dalle precedenti, così come ogni capitalista vuole salari bassi per i propri operai ma alti per tutti gli altri per avere un elevato livello della domanda: ciascuno può realizzare il proprio sogno, tutti non possono farlo. La strategia di Ulisse obbliga allora le generazioni future con un’assemblea costituente, che si realizza non per diritto ma per accidente storico (pag.164).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- G.A.Almond e G.B.Powell, POLITICA COMPARATA (ed. Il Mulino, Bologna 1970)
- Norberto Bobbio, DESTRA E SINISTRA (Donzelli editore, Roma 1994)
- Norberto Bobbio in Michelangelo Bovero (a cura di), RICERCHE POLITICHE DUE. Identità, interessi e scelte collettive (ed. il Saggiatore, Milano 1983)
- Franco Debenedetti (a cura di), NON BASTA DIRE NO (ed.Mondadori, Milano 2002)
- David Easton, IL SISTEMA POLITICO (The political system. An inquiry into the state of political science, 1953)
- Jon Elster, ULISSE E LE SIRENE.
Indagini sulla razionalità e l’irrazionalità (Edizioni il Mulino, Bologna 1979)
- Andrew Gamble, FINE DELLA POLITICA? (ed. Il Mulino, Bologna 2002)
- Albert O. Hirschman, COME FAR PASSARE LE RIFORME (ed. il Mulino, Bologna 1990)
- George Katona, L’ANALISI PSICOLOGICA DEL COMPORTAMENTO ECONOMICO
- Giacomo Marramao, L'ORDINE DISINCANTATO (Editori Riuniti, Roma 1985)
- Michael D. Resnik, SCELTE (ed. il Mulino, Bologna)
- Carl Schmitt, LE CATEGORIE DEL POLITICO (ed. il Mulino, Bologna 1972)
- Herbert A. Simon, LA RAGIONE NELLE VICENDE UMANE (ed.il Mulino, Bologna 1983)
- Salvatore Veca in Michelangelo Bovero (a cura di), RICERCHE POLITICHE DUE. Identità, interessi e scelte collettive (ed. il Saggiatore, Milano 1983)
- Georg H. von Wright NORMA E AZIONE (ed. il Mulino, Bologna 1989)

 

4- I LUOGHI COMUNI DEL RIFORMISMO

4-1 ILLUSIONISMO POLITICO

In questo capitolo esamineremo alcuni luoghi comuni del riformismo: si tratta di argomenti in gran parte utilizzati dai nemici del riformismo, per screditarne funzioni e potenzialità.
Un primo argomento, che ci è utile anche per distinguere il riformista autentico da chi parla soltanto di riforme, è quello che potremmo chiamare dell'illusionismo politico.
Marco Simini, nel libro La comprensione reciproca (op.cit.), sottolinea il ruolo dell'illusione nella storia, dagli stratagemmi militari e politici alla sorpresa per la violazione di regole; il buon comunicatore, osserva, è un illusionista (pagg.107-141): l'individuo è soggetto infatti ad illusioni percettive e cognitive, agisce seguendo un proprio modello della realtà che è sempre relativo rispetto a quest'ultima; la realtà viene elaborata individualmente da filtri di origine neurologica (il sistema nervoso umano coi cinque sensi ne percepisce infatti solo una parte), filtri sociali (linguaggio, cultura), filtri individuali (aspettative, modelli cognitivi che generalizzano, cancellano, deformano la realtà): "una persona con una determinata idea politica tenderà a notare solamente le informazioni che confermano le sue convinzioni" (cit., pag.29), chi ascolta un comizio è già in sintonia con le idee del relatore, le credenze tendono a rinforzarsi perché siamo verificatori piuttosto che falsificatori di ipotesi (pagg.36, 111), la sostituzione di modelli produce esperienze di illuminazione, ristrutturazioni di contesto e di significato (pagg.124 e 169).
Ogni gruppo sociale o movimento politico agisce infatti nell'ambito di modelli costituiti da "valori, credenze, regole e concetti-simbolo peculiari" (pag.34); l'individuo è influenzato in modo fondamentale dall'ambiente culturale, sociale, familiare in cui vive, ed alla base delle incomprensioni di solito vi sono conflitti di regole (personali, culturali, consce, inconsce, pag.40); vi sono regole di cui diventiamo consapevoli solo quando vengono violate, regole spaziali e concezioni temporali (pagg.21 e 41). Ogni regola è come un vestito, non è assoluta e può sempre essere modificata: "al di là delle diverse regole, condividiamo alcuni valori fondamentali" (pag.166).
Simini analizza l'effetto alone (esempio: bellezza=bontà), le ancore (ad esempio: luogo/odore/sapore = stati d'animo; le ancore sono utilizzate dalla propaganda), i concetti-simbolo, positivi e negativi, che in campagna elettorale valgono più dei programmi e delle parole, la comunicazione non verbale (postura, gesti, fisiologia, paralinguistica), le metafore (pagg.46-55, 98 e seg., 101 nota, 142, 158 e seg., 182).
La proprietà commutativa non vale per la comunicazione: l'ordine di trasmissione delle informazioni è importante (pag.60 e 155, nota), non è la quantità di informazioni che rende efficace il messaggio, ma come questo viene ricevuto dall'interlocutore (predicati linguistici, visivi, uditivi, cenestesici, pagg.87-91); Simini critica la didattica che si basa in prevalenza su aspetti visivi piuttosto che uditivi o cenestesici (le tre submodalità sono descritte a pagg.67-68). Inoltre, il nostro inconscio non legge i "no", le negazioni, sebbene il nuovo venga spesso descritto con più efficacia come ciò che non è: automobile come carrozza senza cavalli, benzina senza piombo, ecc. (pagg.57 e 161).
Problemi o idee possono essere considerati da vari punti di vista: fattuale, emotivo, pessimista, ottimista, creativo, organizzativo (pag.189 e seg.); le domande possono essere utilizzate per indurre l'interlocutore nella "trappola della falsa alternativa" (pag.164), le domande ingenue disorientano, le implicazioni parassite invece inducono in errore (pagg.181-184). Simini analizza le principali strutture verbali imprecise (termini vaghi, comparativi, nominalizzazioni, ecc.), l'albero decisionale, la plausibilità di una catena consequenziale di eventi ("supponiamo che", pagg.145-152-176).
Nel dibattito politico è fondamentale il principio di contrasto: "una tesi apparirà più moderata di quanto obiettivamente sia, se espressa dopo un intervento estremista e radicale" (pag.125); la consapevolezza collettiva del potere della comunicazione è una garanzia di libertà (pag.14).

John Kenneth Galbraith, nel libro Anatomia del potere (op.cit.), distingue gli strumenti di esercizio del potere, che individua nella punizione (sottomissione per coazione), nella remunerazione (sottomissione per ricompensa), e nel condizionamento (persuasione), dalle fonti del potere, che possono essere la personalità (leadership, potere condizionatorio), la proprietà (che è strettamente connessa al potere remunerativo), l'organizzazione. Per i teorici socialisti, egli osserva, la proprietà era l’unica forma di potere.
La squadra sportiva è un esempio concreto di fonti e di strumenti di potere in vista di un fine, che è la sottomissione della squadra avversaria (pagg.77-78, nota). Ma molto potere politico e della stampa, osserva Galbraith, è in realtà solo illusione del potere, pura persuasione; e talvolta l'organizzazione diventa il surrogato all'esercizio del potere stesso (pagg.84-85).
Il livello di civiltà di un paese è determinato da quanto si riesce a disciplinare il potere punitivo senza determinare vuoti di potere (pag.99). Il disprezzo per la politica può portare alla teoria della politica esercitata da "non-politici" e la politica stessa viene ridotta a tecnica di amministrazione; le qualità del politico, osserva invece D'Alema (La politica, perché? op.cit., pagg.4-12), sono passione, responsabilità e lungimiranza, e la partecipazione stessa alla vita politica è peraltro una importante forma di socialità.

4-2 L’EQUAZIONE : RIFORMISMO UGUALE MODERAZIONE

Albert O. Hirschman (Come far passare le riforme, cit.) invita a distinguere ciò che è facile o difficile da ciò che sembra facile o difficile: attacchi a forze sociali o interessi che sembravano tigri di carta e poi si dimostravano tigri vere (o viceversa, pag.319).
Le principali linee di attacco, gli argomenti contro le riforme sono (pagg.321-322):
a) l'anello di retroazione innescato dalla riforma aggrava i problemi;
b) i beneficiari finali di un provvedimento sono diversi da quelli individuati originariamente;
c) si producono esternalità (emergono nuovi problemi).

Scrive Marvin Harris "il mondo è pieno di moralisti che pretendono di aver scelto liberamente ciò che inconsapevolmente sono stati costretti a volere, mentre milioni di persone che vorrebbero essere libere finiscono col piegarsi a nuove forme di schiavitù perché non comprendono i fattori che condizionano la libertà di scelta. Per cambiare in meglio la vita sociale, bisogna cominciare a capire perché solitamente cambia in peggio" (cit., pag.13).
Le conseguenze delle mancate riforme, osserva Franco Debenedetti (Non basta dire no, op.cit.), diventano la ragione per non farle (pag.220); nelle campagne elettorali, osserva Michele Salvati (op.cit., pag.176), conta il messaggio costituito da poche idee-forza, e non il programma.
Antonio Polito osserva come i no di chi gode di rendite di posizione spesso blocchino le riforme (op.cit.pagg.4-6); talune discussioni sulle riforme hanno però più un fine simbolico che reale come è accaduto in Italia sulla questione dell'art.18 (Giancarlo Lombardi, cit. pag.94).
In talune circostanze, col cambio delle maggioranze di governo, la continuità del processo di riforme già avviato è più importante di una riforma ulteriore, fatta solo per dimostrare iperattività (Paolo Onofri, cit.pag.115); peraltro, i temi di discussione politica possono essere imposti tanto dalla maggioranza che governa quanto dalla minoranza che fa opposizione.

Albert O.Hirschman, in Felicità privata e felicità pubblica (op.cit.), prende in esame l'oscillazione fra periodi di attenzione a temi pubblici e periodi di attenzione ad obiettivi privati di benessere; la delusione di aspettative è un'esperienza comune degli esseri umani, in quanto le aspettative spesso eccedono la realtà e non viceversa (delusione come disinganno, pag.17); solo gli esseri umani possono compiere errori, e talvolta esercitano questo potere al massimo grado (pag.27).
La delusione per un genere di attività porta alla protesta oppure alla defezione dalla stessa per un'attività di altro genere; in questo caso la sfera pubblica può essere percepita come un'alternativa a quella privata (dicotomia consumatore-cittadino, pagg.70-71). Il passaggio dal pubblico al privato è invece sostenuto spesso da una ideologia, che si caratterizza come tale perché "proclama il comportamento nel proprio interesse come un dovere sociale" (pag.74).
Ogni mutamento fondamentale, individuale o sociale, dipende dalla combinazione di fattori strutturali (forze soggiacenti e metapreferenze) con fattori contingenti (eventi catalizzatori); la regola, nella vita individuale ed anche sociale, è infatti la riproduzione e non il mutamento.
L'esperienza della delusione può essere l'evento catalizzatore che si verifica nel momento opportuno, in cui la prendo sul serio perché ho il desiderio di un cambiamento radicale: è ragionevole pensare, secondo Hischmann, che coloro che sono delusi dalla sfera privata si proporranno pubblicamente in modo riformista (pag.83).

4-3 SIAMO TUTTI RIFORMISTI

Oggi tutti sono riformisti; anzi, sono "i veri riformisti": il riformismo, osserva Nicola Rossi, non è un metodo e non va confuso col gradualismo; sul terreno del metodo, tutti possono essere riformisti ma nel contempo "su quel terreno si stemperano le identità e si confondono i ruoli" (in Non basta dire no, a cura di Franco Debenedetti, cit. pag.142).
Il luogo comune citato assomiglia a quello analizzato da John Dunn a proposito della democrazia (La teoria politica di fronte al futuro, op.cit.): oggi siamo tutti democratici, siamo tutti riformisti, perciò non è più necessario un “partito riformista”.
Il luogo comune secondo cui “siamo tutti riformisti” assomiglia molto alla ricerca di ciò che fa tendenza (essere cool) descritta da Naomi Klein in No logo (op.cit.), ed è sinonimo di insicurezza, anche se economicamente e politicamente può essere molto vantaggioso: si arriva a rendere cool le aziende, all'interno ed all'esterno, e persino i paesi (Tony Blair come "stilista di una nazione", cit.pag.98); I marchi, e tutto ciò che fa tendenza, crea valore, ma i messaggi pubblicitari distorcono importanti ideali (ecologia, femminismo, recupero del degrado urbano, cit. pag.344).
L’essere tutti riformisti, o peggio ancora esserlo perché fa tendenza, è un luogo comune che appare quasi una dichiarazione di impotenza: siamo tutti riformisti, quindi nessuno è riformista!

4-4 I LIMITI DEL CRITICISMO

Karl Korsch, in Dialettica e scienza nel marxismo (op.cit.) paragonava Il Capitale di Marx all' Origine della Specie di Darwin: quest'ultimo scoprì la legge evolutiva della natura, l'altro svelò la legge di sviluppo della storia umana, vale a dire il materialismo storico, una legge che avrebbe dovuto avere validità scientifica, secondo i principi della scienza sperimentale. Ma proprio la storia ha mostrato la falsità di queste "argomentazioni scientifiche"; sta di fatto però che il cosiddetto "marxismo socialdemocratico" dell'epoca, per Korsch, era un movimento politico paragonabile alla trasformazione del cristianesimo originario, che era rivoluzionario ed antistatale, nel cristianesimo medievale divenuto religione ufficiale di Stato (cit., pag.139).
Anche la critica, tanto osannata dalla tradizione marxista, è soltanto la premessa del fare riformista, non ne è il contenuto; proprio perché il riformismo è soprattutto fare, piuttosto che contestare, mentre una vasta parte di coloro che contestano, si fermano in realtà al primo capitolo del loro personale libro sul cambiamento, individuano ciò che non va, a ragione o a torto lo proclamano spesso a voce alta e talvolta anche con atti tutt'altro che pacifici, ma non propongono soluzioni concrete, realistiche, sistematiche, propositive. Come dice quel proverbio, "can che abbaia non morde".
I riformisti, al contrario, sono cani che non abbaiano, oppure lo fanno sottovoce, però mordono! Si tratta quindi di due prospettive diverse di affrontare i problemi, che il più delle volte sono tra loro inconciliabili: da un lato la critica tout court, volta a prefigurare un nuovo ordine sociale spesso solo vagamente ed irrealisticamente fantasticato (massimalismo, populismo, radicalismo, movimentismo), dall'altro critica costruttiva per ottenere cambiamenti concreti, spesso significativi nell'ordine sociale esistente (riformismo).

4-5 RIFORMISMO RIVOLUZIONARIO ?

In Riforme e rivoluzione nella storia contemporanea (op.cit.), Riccardo Lombardi osserva come Giller Martinet avesse proposto l'approccio del riformismo rivoluzionario, caratterizzato da riforme politiche in stretto legame con l'azione di massa nelle fabbriche e nella società: il riformismo semplice, secondo Lombardi, diventava pertanto quella politica di riforme che il sistema riesce non solo a tollerare, ma anche ad integrare; mentre il riformismo rivoluzionario si differenziava perché puntava alla conquista non del potere ma dei poteri (in primo luogo quello governativo) che sono indispensabili come primo passo per avviare una società di transizione (pag.325).
Leon Blum, in Francia, spostò il problema politico del riformismo, da quello della transizione al socialismo a quello dell'amministrazione progressiva e riformatrice (pag.330); una politica di riforme, osserva ancora Lombardi, è più importante sotto il profilo educativo e per i consensi che riesce a strappare agli avversari politici, che per la sua efficacia nell'ottenere riforme concrete (pag.327).
Il riformismo rivoluzionario è pertanto una contraddizione in termini, inaccettabile sul breve periodo: o si è riformisti, o si è rivoluzionari; e se si è riformisti, si deve anche essere consapevoli di essere politicamente contrapposti ai rivoluzionari, coi quali non si può avere alcun dialogo costruttivo. Nel lungo periodo, invece, a nostro avviso la situazione è diversa e le posizioni sono rovesciate: sono i riformisti, nel lungo termine, ad ottenere i risultati rivoluzionari, mentre i rivoluzionari di oggi potranno essere soltanto, nella migliore delle ipotesi (per loro), i dittatori di domani, in ogni caso saranno comunque dei perdenti sotto il doppio profilo morale e storico-politico, sconfitti sul piano dei valori e sconfitti sul piano dei risultati. Il riformismo rivoluzionario dell’oggi, semplicemente, non esiste.

4-6 RIFORMISMO DI DESTRA E DI SINISTRA

Secondo Norberto Bobbio il termine “riformismo” è neutro; la parola “riformismo”, infatti, “non importa se forte o debole, non vuol dire assolutamente niente, se non si spiega chiaramente quali sono le riforme da fare, perché anche i conservatori fanno riforme (non ne hanno mai fatte tante come di questi tempi)” (Bobbio, Le mie critiche al Psi, cit.).
Le principali visioni della politica, per Bobbio, sono quella diadica o assiale o del terzo escluso, la visione triadica e la multiade (Destra e sinistra, cit.).
Nella visione diadica il valore descrittivo dei termini politici opposti può essere forte (ad esempio progressisti o conservatori), oppure debole (ad esempio bianchi o neri); il modo di pensare per diadi è peraltro molto diffuso: ne sono esempi i termini contrapposti di società-comunità, piano-mercato, pubblico-privato, destra-sinistra, trascendenza-immanenza.
La visione diadica della politica può essere descritta con metafore temporali (innovatori contro conservatori, progressisti contro tradizionalisti), o con metafore spaziali: la politica verticale è rappresentata dal rapporto governanti-governati, a sua volta descrivibile con le dimensioni “alto-basso” (Camera alta e Camera bassa, alto clero e basso clero) e “superficiale-profondo” (governo visibile, governo invisibile); la politica orizzontale consiste nel rapporto dei governanti o dei governati fra di loro, e può essere descritta con varie dimensioni spaziali: destre-sinistre (con ideologie e programmi contrapposti), avanti-dietro (il principe o partito-avanguardia e i suoi seguaci), vicino-lontano (il centro-sinistra è vicino al centro ma lontano dalla destra, ecc.), Nord-Sud che, osserva Bobbio, è la grande antitesi a livello planetario (pag.41).
La visione triadica della politica può a sua volta distinguersi come visione del Terzo incluso (nè nè, "aut aut", è il caso ad esempio del centro quando si definisce nè destra nè sinistra), o come visione del Terzo includente (“et et”, è il caso del socialismo liberale o liberal-socialismo), visione triadica complementare, che caratterizza i movimenti "trasversali", i cui temi possono essere di tutti i partiti.
Il sistema elettorale proporzionale dà origine nei fatti ad una multiade, mentre l'immagine della sfera è quella che meglio si addice ai regimi totalitari.
Destra e sinistra, osserva ancora Bobbio, sono termini antitetici, reciprocamente esclusivi, congiuntamente esaustivi (Destra e sinistra, cit., pag.3). La sinistra, anzi le sinistre, è un concetto caratterizzato da relatività storica; anche il liberalismo "è di destra e di sinistra secondo i contesti" (cit., pag.57).
Tratti caratteristici delle sinistre sono il concetto di emancipazione contrapposto alla tradizione, che è un tipico valore delle destre, il concetto di eguaglianza, quello di diversità (la più grande rivoluzione egualitaria del nostro tempo è quella femminile, che è stata fatta invocando la diversità, cit. pag.64), l’artificialismo: l'uomo è ritenuto capace di correggere tanto la natura matrigna che la società matrigna; scrive Bobbio in proposito: "l'artificialismo della sinistra non si arrende neppure di fronte alle palesi diseguaglianze naturali, a quelle che non possono essere attribuite alla società: si pensi alla liberazione dei matti dal manicomio" (cit., pag.75). Nel nostro tempo, i temi legati alla bioetica rientrano pienamente in questa concezione.

4-7 RIFORMISMO VECCHIO E NUOVO

Giuseppe Vacca (in La politica perché, cit.) distingue il vecchio riformismo, ancorato alla politica nazionale, dal nuovo riformismo, che è sopranazionale: il termine si è peraltro dilatato fino a comprendere ogni azione di governo che produce mutamenti, quindi il riformismo di Brandt ma anche quello della Tatcher, ed è rimasta l'identificazione col gradualismo derivata dall'antitesi ormai anacronistica fra riforme e rivoluzione (pag.73).
Costruzione del welfare state e regolazione politica del mercato interno (nazionalismo economico) erano gli obiettivi delle sinistre in Occidente fino agli anni Settanta del secolo scorso; il "compromesso fra Smith e Keynes" finì con la crisi del sistema di Bretton Woods (cit., pagg.80-81). Il Pci, osserva ancora Vacca, fu l'unico caso di "riformismo nazionale comunista" che si espresse nella fondazione della Repubblica Italiana ma mostrò poi una contraddizione irrisolvibile fra politica interna e internazionale, producendo il fenomeno solo italiano della democrazia bloccata.

L'identità riformista, secondo Michele Salvati (Il partito democratico, cit.), viene prima dei programmi e della propaganda elettorale, e la costruzione di un partito riformista, in Italia, rappresenta uno scenario di rottura, piuttosto che di gradualismo.
Destra e sinistra, in democrazia, "sono avversari politici ma non nemici mortali" (cit., pag.17); la storia è infatti "storia comune", talvolta caratterizzata da legami bipartisan sebbene non consociativi.
Il riformismo radicale nella sinistra italiana ha prodotto "separati in casa" (cit., pagg.23-24), pur essendovi in realtà un legame di continuità tra riformismo moderato e riformismo radicale, che si manifesta anche nella difficoltà a collocare varie personalità; tuttavia, le maggiori diversità si riscontrano in politica economica e in politica internazionale. Inoltre, chi aveva ragione storicamente è stato distrutto, e chi aveva torto è oggi l'erede di quei valori (cit., pagg.18 e 91).
Ambizioni personali, risentimenti, fiducia o sfiducia reciproca troppo spesso poi fanno giocare la politica "dal lato del cameriere" (cit., pag.51).
La politica, osserva ancora Salvati, è un intreccio di temi che riguardano sia il contenitore (architettura politica) che il contenuto (messaggi, programmi, politiche, pag.65).
Sono elementi tipici delle identità di centrodestra il liberalismo, il populismo ed il conservatorismo, quest'ultimo nella sua triplice componente (pag.66): religiosa (Dio, famiglia), nazionalistica (Patria), opportunistico-corporativa (difesa dello status quo e di interessi privilegiati).
Sono elementi tipici del centrosinistra ancora il liberalismo, elementi solidaristico-egualitari e corporativo-opportunistici e, nel nostro Paese, anche il riformismo cattolico; l'idea del "partito democratico" è la logica conseguenza nel presente dell'anormalità storica del nostro Paese, caratterizzato dal riformismo cattolico e dalla presenza della Chiesa di Roma (cit., pagg.15, 45 e 113), e comprende quattro tradizioni culturali: "socialdemocratica, cattolico-popolare, liberale di sinistra, ambientalista", unite da una doppia lealtà, della corrente verso il partito e del partito verso la coalizione, dando origine a "contaminazione ideologica" (pag.95).
Di queste quattro tradizioni culturali della sinistra italiana, osserva Salvati, tre non sono riconducibili al socialismo: in una fase storica in profonda mutazione, sono cambiate le basi sociali, le domande politiche, le stesse definizioni di amico e di nemico; il che implica una "sinistra plurale" (cit., pagg.96-97).
In una competizione bipolare, osserva ancora Salvati, occorre saper attrarre sia l'elettore mediano, moderato o centrista, che quello esterno al proprio schieramento (cit., pag.69). Il messaggio di libertà è ingannevole, una cosa è infatti il messaggio, altra cosa il programma e l'attività di governo (cit., pag.78); l'attenzione agli utenti ed ai consumatori, ad esempio, spesso confligge con quella ai dipendenti ed ai produttori. Il meglio "astratto" va quindi distinto dal meglio "possibile", l'entusiasmo per le occasioni può oscurare l'analisi delle difficoltà (cit., pag.117).
I riformisti si distinguono per la loro capacità di declinare i valori "in modo compatibile con la situazione e attraente per gli elettori" (cit., pag.118). Sono temi di natura economico-sociale la sicurezza, la criminalità, la giustizia, il federalismo, l'immigrazione (cit., pag.83).
Esistono, osserva Salvati, sia un rinnovamento che un conservatorismo opportunistici (cit., pag.116), ed un conservatorismo del sindacato (cit. pag.131). Le problematiche su come riformare il riformatore si traducono in riforme costituzionali da un lato ed auto-riforma della politica dall'altro, dove peraltro accordo e fiducia reciproca sono beni scarsi.
I comunisti italiani introdussero la distinzione fra riformisti (socialdemocratici, riformismo debole) e riformatori (riformismo forte o "buono", pag.101). Salvati osserva come vi sia stata una transizione della sinistra nel tempo, dal secolo liberal-democratico (rivoluzione francese, whig, pagg.95 e 104), caratterizzato dal dibattito sui diritti formali/legali ed i cui nemici erano l'aristocrazia, la chiesa e la proprietà fondiaria, a quello socialista caratterizzato per l'attenzione ai "diritti sociali" (pagg.106-107) ed alla contrapposizione socialdemocrazia versus comunismo. L'odierno dibattito sulla "terza via" (lib-lab) riguarda il compromesso fra principi liberali e principi socialisti (pag.110) ed è conseguenza:
a) della bancarotta del comunismo (dimensione ideologica);
b) dei cambiamenti intervenuti nel capitalismo, per il quale non è più applicabile la "strategia Keynes-Beveridge" (dimensione "mondo" e globalizzazione, cit. pag.115).
La sinistra era liberale e repubblicana nel suo primo secolo di vita, socialista nel secondo, una miscela liberal-socialista nel terzo (cit., pag.118); l'obiettivo è sempre lo stesso: creare una società giusta (Rawls) o decente (Margalit). In Italia questo progetto è stato all'origine dell'associazione "Libertà Eguale" (cit., pagg.127-128).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Autori vari, LA POLITICA, PERCHE? Riflessioni sull'agire politico (Donzelli editore, Roma 2001)
- Norberto Bobbio, DESTRA E SINISTRA (Donzelli editore, Roma 1994)
- Norberto Bobbio, LE MIE CRITICHE AL PSI (in MondOperaio, 12/1989)
- Franco Debenedetti (a cura di), NON BASTA DIRE NO (ed.Mondadori, Milano 2002)
- John Kenneth Galbraith, ANATOMIA DEL POTERE (ed.Mondadori/CDE, Milano 1984)
- Marvin Harris, CANNIBALI E RE (Feltrinelli editore, Milano 1979)
- Naomi Klein, NO LOGO (ed. Baldini e Castoldi, Milano 2000)
- Karl Korsch, DIALETTICA E SCIENZA NEL MARXISMO (ed. Laterza, 1974)
- Albert O. Hirschman, COME FAR PASSARE LE RIFORME (ed. il Mulino, Bologna 1990)
- Albert O. Hirschman, FELICITÀ PRIVATA E FELICITÀ PUBBLICA (ed. il Mulino, Bologna 1983)
- Guido Quazza (a cura di), RIFORME E RIVOLUZIONE NELLA STORIA CONTEMPORANEA (ed. Einaudi, Torino 1977)
- Michele Salvati, IL PARTITO DEMOCRATICO. Alle origini di un'idea politica (Edizioni il Mulino, Bologna 2003)
- Marco Simini, LA COMPRENSIONE RECIPROCA (ed.Franco Angeli, Milano 1997)

 

5- LE CATEGORIE DEL RIFORMISMO

5-1 CATEGORIE DEL RIFORMISMO

Luciano Pellicani (“Riformismo”, in Mondoperaio, gennaio-febbraio 2004) distingue il riformismo dei mezzi, in cui permane l'idea di fuoriuscire dal capitalismo e dal mercato, dal riformismo dei fini, che si caratterizza storicamente per le politiche di welfare (pag.168).
Secondo Antonella Besussi (La società migliore, op.cit.), il riformismo è un progetto a spizzico, come sosteneva Popper, e può anche ispirarsi al desiderio di ripristinare un ordine decaduto o di far progredire un ordine bloccato; in tal senso è continuista (riformare per preservare) e può anche essere peggiorista nel senso di "restituire il mal tolto" (pag.13).
La Besussi analizza quindi le caratteristiche del riformismo che chiama invece migliorista, e riferendosi all’opera di William James individua alcune ragioni filosofiche a favore del migliorismo, che sono (pag.14, nota):
- l'anti-determinismo, ovvero il possibile come categoria della realtà;
- il volontarismo morale, e cioè che la speranza di mutamento da sola non basta, servono anche le azioni;
- la medietà, secondo cui le rettifiche allo status quo non sono impossibili ma neppure inevitabili, il riformismo è a metà fra il pessimismo e l'ottimismo;
- la provvisorietà, che è una prospettiva anti-escatologica: i problemi non si possono risolvere una volta per tutte (pag.14);
- la visione empiristica della politica, secondo cui contano gli uomini e le donne come sono, qui ed ora (pag.21).
Il riformismo può essere una soluzione non antagonistica, se migliora la posizione di alcuni lasciando invariata quella di altri (ad esempio dando garanzie formali, pag.16); oppure può essere una soluzione antagonistica, quando il suo intento è di produrre simmetria fra esclusi ed inclusi distribuendo dotazioni, e la ridiscussione delle regole in questo caso è la questione centrale: "non si tratta soltanto di far vedere qualcuno, ma di farlo giocare" (pag.17).
Il rapporto fra il migliorismo e i suoi potenziali antagonisti può essere trattato con tre strategie:
- realistica, cercando il consenso degli antagonisti con la persuasione, e distinguendo fra loro la minoranza pregiudizialmente ostile da una maggioranza recuperabile (pag.52);
- utopistica, secondo cui gli antagonisti sono nemici da sconfiggere, colpevoli, ecc.;
- centrata sulla riforma, per cui decisioni non accettate trovano però ugualmente giustificazione se producono esiti accettabili per più persone (pag.50).
Il riformismo migliorista si caratterizza quindi per:
- una interpretazione degli eventi sociali in termini di suffering situations (pag.27);
- la sovrapposizione di posizioni antagonistiche, parzialmente trattabili (pag.34);
- una prospettiva liberal, il new deal non è socialismo ma un esperimento di riforma del capitalismo (pag.195);
- consequenzialismo: contano i risultati sociali in termini di riduzione della sofferenza e di inclusione (pag.26);
- pragmatismo: i mezzi sono più importanti dei fini, la politica è responsabile anche delle procedure (e dei relativi costi) per ottenere un risultato;
- minimalismo: occorre selezionare una classe di problemi (pag.34);
- sperimentalismo: il migliorismo è caratterizzato da un atteggiamento non astensionistico, "i principi sono ragioni per vedere fatti: quando diventano ragioni per evitarli perdono il loro valore" (pag.29); l'astensionismo tratta invece le regole sociali come leggi naturali e premia chi è "naturalmente" vincente, un'aristocrazia naturale (pagg.60 e 105);
- perfettibilità dello status quo: il migliorismo ha fiducia nell'attivismo e nel gradualismo, rifiuta il catastrofismo, è estraneo al monismo ed è indifferente alle ideologie; il rifiuto del comunismo accomuna e divide conservatori e miglioristi, con la differenza però che il conservatore vede la risposta ma non ciò che la produce (pag.191 e 301);
- possibilismo: il possibilismo si colloca oltre il realismo ed il probabilismo (cambiamenti innocui), ma prima dell'utopismo (che porta a cambiamenti impraticabili); il riformismo migliorista "si concentra sulla ricerca di soluzioni possibili (praticabili, anche se ancora intentate e/o controverse) quando le soluzioni probabili non garantiscono una efficace soluzione dei problemi" (pag.29);
- pluralismo, come criterio metodologico sottostante (pag.311).
L'orientamento al migliorismo di principi e politiche può essere più o meno efficace, più o meno esplicito; il migliorismo può essere quantitativo, la logica è incrementale e vi è un problema di soglia per fissare un minimo di risorse necessarie (pag.38).
Il riformismo migliorista è umanitario: contano gli effetti sulle persone, è un'etica della decenza sociale alla cui base è il principio di non esclusione ("la giustizia è il fine, la decenza il mezzo", pag.26): una società decente prevede solo inclusi e visibili, non prevede l'offerta disperata ("desperation bidding", pag.25) che è invece caratteristica delle situazioni di sopravvivenza.
L'utilitarismo negativo è implicito nel migliorismo: non si tratta di eliminare la sofferenza ma di minimizzarla; le sofferenze possono essere accidentali, inflitte deliberatamente, auto-imposte, conseguenza indiretta di eventi. Il criterio è sempre la sofferenza, che è una condizione facilmente universalizzabile, comprensibile da chiunque non si ritenga invulnerabile (pag.200): la domanda di aiuto che deriva dalla sofferenza è urgente, invece la felicità è un concetto manipolabile: "sofferenza e felicità non sono moralmente simmetriche" (pag.24, nota).

5-2 POSSIBILISMO

La politica, osserva Galbraith ne L’età dell’incertezza, (op.cit.), va intesa come arte del possibile: saper separare l'importante dal periferico e concentrarsi sull'importante. La difficoltà dei problemi, secondo Galbraith, non è conoscerne le soluzioni (perché sono note) ma affrontarli: affrontare i problemi richiede impegno spesso senza possibilità di compromessi, né di dilazioni, né di convenienze politiche; fare un uso pragmatico delle idee senza lasciarvisi imprigionare significa che niente in via di principio è buono o cattivo, il banco di prova è se funziona o aiuta la gente a funzionare.
Problemi estremamente grandi e complessi (ad esempio l'olocausto nucleare) si caratterizzano talvolta per l'indifferenza collettiva; l'educazione democratica impone di contrastare chi contrasta l'interesse generale, la democraticità del processo di governo riduce i pericoli e la debolezza dello stato moderno.
La politica può allora essere:
a) della gente, attraverso il rafforzamento del potere legislativo (e del potere di informare accompagnato dalla reazione pubblica conseguente) e la partecipazione diretta, attraverso referendum, elezioni, petizioni, ecc.;
b) dei leaders, ed implica un indebolimento del potere legislativo.
La democrazia come spettacolo porta alla demagogia ed è una patologia; la furfanteria non è che la riproduzione di frodi più antiche: i metodi, osserva Galbraith, sono tutti noti.

Martin Buber (Sentieri in utopia, op.cit.) distingue i progetti topici (che cercano di risolvere i problemi di una data situazione) da quelli che tendono a creare situazioni nuove (pag.88); il socialismo utopistico è topico (qui ed ora, pag.98): in Palestina, invece, i villaggi comunitari ebraici sono nati non da una dottrina ma da una situazione (pag.154).
La progettazione, scrive Tomas Maldonado (La speranza progettuale, op.cit.), "è il nesso più solido che unisce l'uomo alla realtà ed alla storia" (pag.31); la capacità di progettare, come la capacità di fare appartengono entrambe all'universo operativo dell'uomo.
Il tipico “fare senza progetto” è il gioco, il tipico “progettare senza fare” è l'utopia; entrambi, il gioco e l'utopia, sono attività libere e spontanee, caratterizzate dalla gratuità ed entrambi sono "esercitazioni preparatorie: il gioco per il fare, l'utopia per il progettare" (pag.32); l'utopia ha però una componente in più che al gioco manca, ed è la speranza (pag.33).
L'utopia diventa concreta solo nel contesto di un'azione efficace: "senza valutazione tecnica la concretezza del discorso utopico è una finzione" (pag.135), la debolezza strumentale è debolezza operativa.
La progettazione implica la proiezione concreta: un processo dialettico di reciproca formazione e reciproco condizionamento interessa la condizione umana e l'intorno umano, l'uomo non può vivere senza la proiezione concreta, perché comprometterebbe il suo stesso avvenire (pagg.27-30).
La progettazione permette atteggiamenti di pessimismo costruttivo, come sulla questione ambientale (pagg.80-80); la progettazione priva di una "lucida coscienza critica - ecologica o sociale - ci conduce sempre ad evadere dalla realtà contingente" (pag.100): la gestione è il comportamento che trasforma l'informazione in azione.
Le bipolarizzazioni ordine-disordine e semplicità-complicazione sono inseparabili (pag.125): la progettazione ambientale porta i sistemi che tendono alla complessità disordinata ad una complessità ordinata (non complicata, pag.126).
I sistemi possono essere (pag.103):
isolati (il sistema non scambia con l'ambiente nè materia nè energia);
chiusi (il sistema scambia con l'ambiente la sola energia);
aperti (il sistema scambia con l'ambiente sia l'energia che la materia).
I biosistemi ed i sistemi sociali dovrebbero essere sistemi aperti, la tendenza storica dimostra che i sistemi sociali più chiusi o isolati sono i più fragili, "la loro mancanza di elasticità e quindi di adattabilità li rende particolarmente vulnerabili all'influenza dei fattori endogeni ed esogeni di deviazione" (pag.104).

5-3 CONTRATTUALISMO

L'analisi rawlsiana (Una Teoria della Giustizia, op.cit.) costituisce un esempio di teoria prescrittiva, almeno nella sua capacità di delineare in modo adeguato un "ideale sociale" (pag.24) e nel far derivare da esso in modo coerente le istituzioni di una "società giusta". Nell'elaborare la sua teoria della giustizia, John Rawls riprende in effetti i temi classici delle filosofie contrattualiste del Settecento, in particolare quella kantiana (i principi di giustizia sono imperativi categorici, pag.217), e si pone in alternativa all'utilitarismo ed al perfezionismo (pagg.31 e 36).
Nelle teorie teleologiche, osserva Rawls, giusto è ciò che massimizza il bene, bene che viene definito indipendentemente (eccellenza: perfezionismo; piacere: edonismo; felicità: eudaimonismo; pag.38 e pag.455); nelle teorie deontologiche il bene non viene definito indipendentemente dal giusto: è bene ciò che è giusto, il giusto non massimizza il bene (pag.42). Buono, nella teoria di Rawls (teoria contrattualista della giustizia come equità), è ciò che è razionale che un individuo voglia secondo il suo piano di vita (pag.368), ed è un concetto più esteso del "moralmente buono" (pag.330 e seg.; la distinzione fra uomo ingiusto e uomo malvagio è a pag.361).
L'utilitarismo nega la priorità della giustizia ed estende a tutta la società il principio di scelta individuale, in taluni casi giustificando violazioni alla libertà in cambio di altri benefici (pag.140); per il contrattualismo, al contrario, i principi di scelta sociale sono oggetto di accordo come gli altri principi (di giustizia, ecc.), mentre inclinazioni e desideri umani non costituiscono un dato da soddisfare: gli interessi che violano i principi di giustizia sono infatti privi di valore (pagg.41-43). Il principio di giustizia affronta problemi di distribuzione (eguaglianza), il principio di utilità problemi di aggregazione (benessere totale, allocazione, pag.88): l'intuizionismo come metodo nega la priorità di un principio sull'altro e ritiene possibili soluzioni di compromesso, di equilibrio fra i due principi (pag.47, pag.469 e seguenti).
L'approccio contrattualista è noto anche come artificialismo (cfr. Veca, La Società Giusta, pag.9), perché considera le società umane come artefatti, cioè costruzioni artificiali che l'uomo può modificare con la propria volontà; esso si contrappone, in primo luogo, a quelle teorie che considerano le società umane come fenomeni naturali, che esistono al di là e al di sopra della volontà umana, e che perciò non sono modificabili con atti di volontà; esponenti illustri di questo secondo approccio sono Aristotele, Hegel e Marx.
La differenza fondamentale che esiste fra gli artificialisti (tra cui Rawls) ed i naturalisti può essere meglio compresa osservando, con Salvatore Veca, che per i primi la società è un problema, mentre per i secondi è un dato. Dire che la società è un problema, significa infatti sostenere che essa può essere modificata (risolta) mediante interventi razionali compiuti dall'uomo, mediante progetti, e che quindi tutto ciò che riguarda l'assetto sociale, economia, istituzioni, diritto, rapporti sociali, ecc., può essere migliorato, talvolta radicalmente, in virtù dei soli sforzi umani. Dire che la società è un dato, al contrario, significa sostenere che la sola azione umana non è sufficiente per cambiare l'ordine delle cose, poichè l'assetto sociale è indipendente dalla volontà degli uomini, è qualcosa che risponde a leggi proprie.
Il riformismo è, sempre, artificialista, contrattualista, e mai naturalista od olista come sono, invece, tutte le maggiori ideologie i cui contenuti portano, sempre ed inevitabilmente, ad esiti politici che sono totalitari e perciò anti-riformisti.

5-4 CONSEQUENZIALISMO

Giacomo Marramao, nel libro L’ordine disincantato (op. cit.), osserva come, fin dalle origini, il pensiero occidentale formuli il bisogno di individuare una responsabilità del divenire: il concetto di causa è connesso al concetto di responsabilità, secondo Marramao vi è un "vincolo analogico tra la causa gnoseologicamente intesa e la causa penale" (pag.15).
Le azioni umane, osserva John Dunn (Storia delle dottrine politiche, op.cit.) non sono mai al di sopra di ogni sospetto; molte azioni politiche hanno però conseguenze che sono non intenzionali: "nella comprensione della politica le conseguenze sono sempre almeno tanto importanti quanto le intenzioni" (pag.66).
La democrazia, centrale nella moderna legittimità politica, è in tensione violenta con la realtà pratica dello Stato moderno, che è stato costruito per negare le rivendicazioni del popolo di porsi a fondamento dell'autorità politica: i cittadini sono liberi di agire, in pratica nella sola dimensione privata, solo in forza dell'astensione o indulgenza dei propri capi politici (pag.72).
La democrazia costituzionale rappresentativa moderna e il Welfare State, che è il suo "precario complemento socioeconomico" (pag.77), non hanno ancora mantenuto la promessa di essere realizzazione concreta di quei valori che l'hanno legittimata ed ispirata: diritti umani, giustizia, sicurezza, prudenza nell'utilizzare la natura non umana.
Per migliorare i risultati, per agire in modo più efficace, secondo Dunn occorre allora uno sforzo educativo (pag.78).

Jay W. Forrester, in Dinamiche mondiali (op.cit.), esamina le problematiche connesse alla crescita esponenziale : una grandezza può raddoppiare più volte senza raggiungere valori significativi e ad un certo punto, pur seguendo la stessa legge di crescita, raggiungere improvvisamente valori elevatissimi.
Con la popolazione in crescita, la sufficienza alimentare richiede interventi di meccanizzazione, irrigazione, disinfestazione e razionalizzazione delle colture, interventi che non si possono continuare indefinitamente; è ugualmente possibile che altri problemi acuti si facciano sentire prima ancora dell'insufficienza alimentare: insufficienza di risorse naturali non rigenerabili, inquinamento, tensione sociale da sovraffollamento.
La disparità fra paesi sviluppati e sottosviluppati potrebbe essere annullata più per un declino delle nazioni sviluppate che per un miglioramento effettivo di quelle sottosviluppate; anzi, i paesi sottosviluppati potrebbero soffrire molto meno per la loro parte di declino, perché le economie meno organizzate, integrate e specializzate sono meno vulnerabili al collasso. Inoltre i paesi sottosviluppati si trovano in una posizione di equilibrio con l'ambiente circostante che è migliore e superiore rispetto ai paesi sviluppati. Il libro di Forrester è del 1970, la storia successiva ne ha in parte smentito le previsioni, come dimostra il passaggio dal “G7” al “G20”, con l’emergere di nuove potenze economiche mondiali: “Cindia” (Cina e India) o il “Bric” (Brasile, Russia, India, Cina).
I nostri sistemi sociali, osserva ancora Forrester, sono caratterizzati da anelli di azioni e reazioni, non da meccanismi di causa ed effetto unidirezionali; le azioni avvengono nell'ambito di anelli di retroazione, retroazione che può essere positiva, se genera crescita nel sistema, oppure negativa, che è invece alla base della tendenza verso l'equilibrio. Ogni anello di retroazione è un percorso chiuso che collega un'azione al suo stesso effetto sulle condizioni circostanti; queste ultime a loro volta diventano "informazioni" che influenzano l'azione successiva.
Forrester individua due diversi tipi di variabili, i livelli (accumulazioni) e i flussi (che provocano cambiamenti di livello). I moltiplicatori aumentano o diminuiscono i flussi del sistema a seconda di quanto sia favorevole o sfavorevole l'ambiente esterno.
I sistemi sociali sono caratterizzati da interdipendenze e sono quindi insensibili alla maggior parte dei mutamenti di politica, che sono adatti per sistemi semplici e pertanto non servono ad alterare il comportamento dei sistemi complessi.
La mente umana è eccellente nell'osservare le forze e le azioni elementari che compongono un sistema ed anche nell'identificare la struttura di una situazione complessa; l'esperienza educa invece la mente umana in maniera molto modesta nello stimare le conseguenze dinamiche derivanti dall'azione reciproca delle parti di un sistema complesso.
Forrester sostiene che una teoria espressa mediante un modello per calcolatore può essere ben più controllata e verificata rispetto ad una teoria verbale.
La raccolta di dati e l'analisi statistica sono allora più efficaci se dirette ad un modello del sistema: la simulazione per modelli non serve a formulare previsioni esatte, ma indica l'orientamento del sistema a fronte di mutamenti nella sua struttura e nelle politiche.
Presunte soluzioni possono generare difficoltà peggiori che inducono a formulare soluzioni più incisive che complicano ulteriormente le cose:
- eliminare uno dei sintomi del disagio può solo modificare il comportamento del sistema, con conseguenze spiacevoli;
- il tentativo di ottenere un miglioramento a breve scadenza pone spesso le basi per un peggioramento a lungo termine (però il breve termine è più immediato ed evidente);
- il raggiungimento di scopi limitati o su punti di scarsa importanza spesso contrasta con gli obiettivi generali del sistema stesso;
Generalmente vi è antagonismo fra gli scopi di un sottosistema ed il benessere del sistema generale; molti problemi di oggi sono il probabile risultato di misure a breve termine prese nei decenni passati.
Una riduzione significativa del tasso di natalità provoca un arresto della crescita demografica per qualche decennio, dopo di che la crescita riprende; elevare la qualità della vita, secondo Forrester, significa ridurre l'inquinamento, alleviare la fame, assicurare la salute, limitare popolazione e industrializzazione, arrestare lo sviluppo incontrollato.

Per Albert O. Hirschman (Le passioni e gli interessi, op.cit.) le azioni e decisioni umane producono conseguenze impreviste perché le aspettative che accompagnano quelle azioni e decisioni contribuiscono a nascondere il vero risultato futuro (pag.94): effetti non realizzati ma sperati, effetti realizzati ma inattesi. Inoltre, scrive, "il pensiero prescinde naturalmente dalle circostanze che esso ritiene non essenziali e che invece costituiscono l'unicità di ogni singola situazione storica" (pag.96).
Nel libro Felicità privata e felicità pubblica (op.cit.), Hirschman analizza il fenomeno del free rider, il battitore libero che viola le regole, ed il fenomeno degli "incentivi selettivi", benefici privati distribuiti da sindacati e partiti per fare proselitismo (servizi, abbonamenti, ed altro).
La debolezza della volontà, o acrisìa, si verifica quanto le persone agiscono, e sono consapevoli di agire, contro i loro metagiudizi (pag.78); l'effetto di rimbalzo consiste invece nel sottovalutare i costi ed esagerare i benefici di un'azione che viene intrapresa dopo un'altra in cui non vogliamo più essere coinvolti: lo sforzo dell'azione pubblica, che dovrebbe essere un costo, diventa talvolta un beneficio che va sommato al risultato che si vuole conseguire. Questa fusione fra sforzo e realizzazione fa sì che sia sufficiente l'azione "come se fosse possibile promuovere il cambiamento" (pag.98): io posso cambiare la società, l'azione pubblica cambia me anche senza reali mutamenti che io riesca effettivamente ad ottenere.
Chi si dedica per la prima volta ad un'azione pubblica può constatare che il tempo che essa richiede è molto di più del tempo che ci si attendeva, si verifica il fenomeno del traboccare del tempo (pagg.105 e 110), ed inoltre che le attività necessarie per raggiungere obiettivi anche di alta idealità e di interesse comune sono "di natura assai differente: stringere strane alleanze, dissimulare i propri obiettivi reali, tradire gli amici di ieri; tutto ciò naturalmente nell'interesse del ‘fine’ " (pag.110).
La vita politica crea delusione, e comporta la riallocazione successiva dell’impegno politico in termini di minor costo e minor tempo; la privatizzazione non è un processo storico ovvio, ma secondo Hirschmann lo sviluppo del mercato riduce la possibilità di corruzione (pag.134).
Il passaggio dal pubblico al privato può essere facilitato dall'esservi nella vita privata anche motivazioni pubbliche, dall'idea che la produzione di ricchezza è più importante dell'esercizio del potere e che essa è un gioco a somma positiva (pagg.130-140).
A diverse fasi della nostra vita corrispondono diversi nostri stili di vita: non può esservi un'unica nostra modalità dalla nascita alla morte come ritiene invece l'etica giudaico-cristiana (pag.144); gli individui sono in grado pertanto di modificare il loro sistema di preferenze, che non è perciò qualcosa di dato, come vorrebbe la teoria economica, e di concepire forme diverse di felicità; sono quindi meno perfetti del "soggetto razionale" della teoria economica ma nel contempo anche superiori ad esso (pagg.146-147).

L'azione pubblica, osserva ancora Hirschman, ha come obiettivo una "condizione futura del mondo", suscita attese che dipendono dall'immaginazione dei cittadini e non dal risultato reale dell'azione; la nostra immaginazione, peraltro, evoca mutamenti radicali e totali piuttosto che graduali, pertanto i risultati saranno sempre insoddisfacenti rispetto alle aspettative, creando con ciò non solo delusione ma anche incoraggiamento per il lavoro che ancora resta da fare (pagg.103-105). Hirschmann evidenzia come nelle società antiche i mutamenti fossero talmente lenti che la loro stessa idea era assente, ed osserva come fino all'Illuminismo le sole idee di cambiamento fossero quelle di un declino e di una corruzione interna (caduta dell'Impero Romano, pag.104) e non che un miglioramento della società fosse possibile; l'antica idea della conoscenza proibita viene invece oggi riproposta nella tesi secondo cui la ricerca scientifica incontrollata produce conseguenze terribili (pag.64; si veda in proposito il dibattito attuale sul Large Hadron Collider del CERN di Ginevra).
Il suffragio universale è un antidoto ai cambiamenti rivoluzionari, il voto toglie legittimità ad altre forme di azione politica (pag.123), diventa qui di fondamentale importanza l'azione riformista, il consenso che riesce ad aggregare, come viene spiegata alla gente.
Il voto dà a ciascuno però la possibilità di esprimere la propria opinione ma non la sua intensità, e questo per il postulato dell'uguaglianza (pag.128); il paradosso del votante (pag.118) consiste in una defezione dal voto nella impossibilità di esprimervi l'intensità dei propri sentimenti, che possono però essere manifestati in altri modi, con scioperi, manifestazioni, ecc.

Kant (Per la pace perpetua, op.cit.) individua a tale proposito alcune regole sofistiche della politica che vanno combattute:
- fac et excusa (pag.133), la giustificazione è più facile a fatto compiuto;
- si fecisti, nega (pag.133), negare ogni colpa per un atto illecito commesso;
- divide et impera (pag.133);
- reservatio mentalis, come redigere trattati internazionali con espressioni che possono essere interpretate ove occorra a proprio vantaggio, "per esempio, l'uso della distinzione fra lo status quo de fait e quello de droit" (pag.159);
- probabilismus, attribuire cattive intenzioni ad altri Stati o ad altri soggetti politici come pretesto per attaccarli;
- peccatum philosophicus, considerare ingiustizia veniale l'annessione di un piccolo Stato da parte di uno molto più grande con un presunto maggior benessere del mondo (pag.159).
Nel libro Lo stato di diritto (op.cit.) Kant osserva che il politico morale coniuga principi di prudenza politica con la morale (ovvero con la dottrina del diritto e del dovere). L'accordo della politica con la morale è possibile solo in un'unione federativa; il principio trascendentale della pubblicità stabilisce che sono ingiuste tutte le azioni relative al diritto degli uomini non compatibili con la pubblicità, non vi può essere infatti segreta riserva sottintesa per alcun diritto dello Stato.

Essere responsabili, per Bobbio (L’età dei diritti, op. cit.), vuole dire da un lato essere consapevoli delle conseguenze delle proprie azioni, dall'altro rispondere di esse di fronte agli altri (pag.143); le forme di controllo sociale sono essenzialmente due (pagg.34-35): l'influenza (dissuasione, scoraggiamento, condizionamento) che incide sulle scelte altrui e il potere (violenza fisica, impedimento legale, minaccia di gravi sanzioni) che impedisce all'altro di agire altrimenti; quest'ultimo, il potere, è alla base della protezione giuridica (pag.37).
Max Weber distingue l'etica della responsabilità, che quando prescrive una certa azione tiene conto delle conseguenze, dall'etica dell’ intenzione, che è indifferente alle conseguenze, prescrive un'azione indipendentemente dai mezzi, è prettamente apolitica e porta all’amoralità della vita politica e quindi all’antitesi fra etica e politica; categorie fondamentali per riflettere sull'agire umano sono quelle di scopo e di mezzo, la riduzione dei fenomeni culturali a cause economiche, egli osserva, non è esauriente neppure per i processi strettamente economici. Weber evidenzia che la funzione specifica della scienza è quella di trasformare in problema ciò che convenzionalmente appare come evidente, il dubbio è il padre della conoscenza, i problemi vanno individuati in maniera valutativa e risolti in maniera avalutativa (Il metodo delle scienze storico-sociali, op.cit.).

Secondo Hans Jonas (Il principio responsabilità, op.cit.) il nostro potere di fare eccede quello di prevedere e quello di valutare (pag.29); ciò che è bene spesso diviene certo solo con l'esperienza del suo contrario, male, malattia, frode, guerra: "sappiamo molto meglio ciò che non vogliamo che ciò che vogliamo" (pag.35). Pertanto, le previsioni di sventura devono avere priorità di ascolto rispetto a quelle di salvezza, perché siamo liberi solo nei primi passi, i successivi sono obbligati e le profezie di sventura possono talvolta servire a scongiurare quanto da esse temuto (pag.150).
La possibilità di guadagni finiti non giustifica perdite infinite, la posta in gioco (come in una scommessa o in un gioco d'azzardo) non può essere il futuro, la vita, la totalità degli interessi altrui: la cautela è il nucleo centrale dell'agire morale per un'etica della responsabilità (pagg.43-48).
La responsabilità legale porta al risarcimento (responsabilità civile), quella morale alla punizione (responsabilità penale); ma, osserva Jonas, esiste anche una responsabilità morale per il da farsi oltre che per ciò che è stato fatto (pagg.116-118).
Sapere, potere e responsabilità sono strettamente connessi, inscindibili, il potere di virus e batteri è maggiore di quello di tigri ed elefanti, il potere è in primo luogo potere di distruzione (pag.177); la responsabilità dell'uomo di Stato o responsabilità politica è totale e indipendente da come questi abbia ottenuto il suo mandato, per elezione democratica o per usurpazione (pag.129), ed è continua in quanto il suo esercizio non può cessare, a differenza ad esempio della responsabilità del medico, che è circoscritta al trattamento; la responsabilità politica procede storicamente, deriva dalla nostra temporalità ed ha nel futuro la sua dimensione più autentica (pagg.133-135).
Una teoria politica, quando è causa di azioni, rientra fra le profezie che si autoadempiono, anche se sui risultati finali incidono più le circostanze che non i programmi (vi è incertezza in ogni previsione, pagg.144-146).
Il sapere globale dell'umanità aumenta, osserva ancora Jonas, ma quello del singolo diventa sempre più frammentario; la tecnica non è un fine ma un mezzo, e si giustifica solo per i suoi effetti (pagg.210-212). Occorre abbandonare l'idea marxista di una preistoria: "ogni presente dell'umanità costituisce un fine in se stesso" (pag.281); al principio-speranza di Bloch, Jonas contrappone il principio-responsabilità: "sentirsi responsabili in anticipo per l'ignoto", principio quest'ultimo che porta a delineare un'etica del rispetto (pagg.285-286).

5-5 L’ATTENZIONE DEL RIFORMISMO ALLE CONSEGUENZE

Le regole del comportamento collettivo non sono del tutto modificabili a piacere. L'atto politico è, dal punto di vista della norma che si propone di cambiare, un atto fondamentale di disobbedienza; non ogni atto di disobbedienza produce effetti politici, naturalmente, però il punto importante da sottolineare è che non ogni atto di disobbedienza politicamente significativo è possibile: può non essere possibile per vincoli di necessità (non possiamo sfidare più di tanto le leggi della fisica o dell'economia), o per ragioni di convenienza, di opportunità, o per le conseguenze negative che produce (distruttive, totalmente imprevedibili, eccetera).
Scrive Tocqueville: "Il legislatore rassomiglia all'uomo che traccia la sua rotta in mezzo al mare; può bensì dirigere la nave che lo porta, ma non può cambiarne la struttura, nè creare i venti, nè impedire all'oceano di sollevarsi sotto i suoi piedi" (La democrazia in America, op.cit., pag.154).
Poichè non ogni disobbedienza è possibile, poichè non ogni cambiamento è possibile, l'azione politicamente efficace è quella che meglio di altre tiene conto delle conseguenze che ne derivano: è politica delle riforme, graduale, progressiva, consequenziale, controllata e consensuale.

Secondo Yves Meny e Jean-Claude Thoenig (Le politiche pubbliche, op. cit.), in una politica pubblica coesistono due funzioni di produzione: la funzione della gestione interna dell'organizzazione pubblica, che è responsabile della propria efficienza, e la funzione dell'organizzazione con l'esterno, che consiste nel trasformare prodotti e realizzazioni in effetti e in impatti.
Gli effetti talvolta sono molteplici e possono essere di:
- overload, ovvero effetti perversi quali la moltiplicazione di spese, organici, politiche, ecc.;
- spill over, ovvero effetti di ricaduta quali congestione, inquinamento a distanza, ecc.;
- implementation gap, cioè risultati minori a fronte di maggiori interventi.
Effetti perversi, effetti indotti, effetti connessi producono conseguenze non volute; inoltre, le politiche pubbliche possono fallire sul nascere, rimanere semplici dichiarazioni di intenti, oppure esaurirsi per erosione progressiva, oppure ancora diventare variabili indipendenti che sfuggono al controllo di chi è legittimato a decidere.
Una griglia di domande ben poste sugli obiettivi dell'autorità pubblica, annunciati e reali, sui soggetti interessati, sugli esecutori mobilitati allo scopo, sull'orizzonte di tempo coperto ci permette, secondo gli Autori, di capire anzitutto se di politica pubblica vera si tratta, se consiste in programmi d'azione piuttosto che in attività simboliche, dichiarazioni di intenti, declamazioni di principio e di effettuare valutazioni: valutazioni ex-ante, nella fase di formulazione della politica pubblica; valutazioni ex-post, nell'analizzarne effetti e conseguenze. Inseguire un obiettivo, infatti, può permettere di conseguirne altri (conseguenze come opportunità).

Secondo Ernst F. Schumacher (Piccolo è bello, op.cit.), il metodo delle prove e degli errori consiste nel realizzare e verificare mutamenti su piccola scala prima di applicarli su larga scala; ogni soluzione genera infatti un problema, e se quelli successivi sono maggiori vuol dire che la soluzione è errata.
Il principio dell'assioma di mezzo punta a far convergere ordine e libertà, vale a dire governare dando istruzioni (metodo duro) e governare esortando (metodo morbido). La vita reale, osserva Schumacher, può dar luogo a tutte le combinazioni possibili: libertà o totalitarismo con economia di mercato o pianificazione con proprietà privata o proprietà collettivizzata; in effetti, decenni dopo la pubblicazione del libro di Schumacher abbiamo potuto assistere a quella che a rigore appare una autentica contraddizione nei termini: la Cina contemporanea, ovvero una dittatura comunista ad economia di mercato, addirittura del liberismo più deregolamentato.
Le combinazioni possibili sono dunque molteplici, come nel caso di atti o eventi con passato o futuro certo o incerto: la pianificazione riguarda atti futuri certi, il calcolo esplorativo, utile per studi di fattibilità e tendenze, riguarda eventi futuri certi, la previsione riguarda eventi futuri incerti, la valutazione riguarda invece quattro combinazioni possibili di incertezza: atti passati incerti, atti futuri incerti, eventi passati incerti, eventi futuri incerti.
Gli eventi sono in qualche modo prevedibili, avendo una natura subumana; gli atti, invece, originano da una scelta, da libertà che è in varia misura creativa e sono quindi imprevedibili. La regolarità dei fenomeni sociali dipende dalla mancata utilizzazione della libertà creativa, cioè dalla routine; la prevedibilità dipende dalla comprensione della situazione corrente, più che dalla tecnica previsionale: tecniche elaborate possono produrre previsioni viziate (verosimiglianza spuria, dettagli non validi); la prevedibilità è completa per gli eventi, quasi completa per attività pianificate, relativa per attività di routine, nulla per le singole decisioni individuali. Le ipotesi della prevedibilità alla fine possono poi essere solo tre: crescita (uguale, maggiore, minore), stabilità, declino (uguale, maggiore, minore).

Ogni progetto nel suo sviluppo, osserva Albert O. Hirschman in Come complicare l’economia (op.cit.) comporta minacce, anche imprevedibili, e conseguenti azioni di rimedio; il principio della “mano che nasconde” implica che nuove iniziative vengano spesso intraprese con la convinzione che la loro realizzazione sia facile e che le sfide non esistano. Riformulando una nota frase di Marx: “l’umanità affronta sempre soltanto quei problemi che crede di poter risolvere” (cit., pag.209).
L’insufficiente percezione dei costi e delle difficoltà può essere un incentivo ad intraprendere un progetto, in particolare progetti industriali e di infrastrutture, mentre per quelli agricoli o di commercializzazione le difficoltà emergono quasi subito (pagg.211-214).
Hirschman distingue progetti a breve e a lunga gestazione: quelli a lungo termine possono richiedere grossi investimenti conseguenti alle perdite subite, all’opposto quelli a breve termine rischiano di essere abbandonati prematuramente (pag.215).
Spesso progetti interni vengono presentati come imitazioni di modelli stranieri riusciti (“pseudo-imitazione”, pag.216): il progetto “passo a passo” viene in questo modo sostituito da un “programma globale” che funge da alibi in caso di difficoltà; in tal caso basta dire che non sono state seguite le istruzioni (pag.218).
Il principio della mano che nasconde si alimenta così di due tecniche complementari: la pseudoimitazione che riduce la percezione delle difficoltà, ed il programma pseudo globale che fa ritenere più ampia la comprensione delle difficoltà di quanto non sia realmente; questo principio aiuta le persone avverse al rischio ad assumersi rischi. Il principio della mano che nasconde aiuta lo sviluppo perché rafforza lo spirito d’iniziativa in particolare in coloro che hanno dovuto superare difficoltà inattese e che ci sono riusciti; Hirschman ricorda la massima di Nietzsche: “ciò che non mi distrugge, mi rende più forte” (pag.221).
L’azione può essere incentivata tanto dalla sottovalutazione dei costi quanto dalla esagerazione dei benefici (pagg.223-224); entrambi i meccanismi di autoinganno possono essere utili nelle fasi di transizione, purchè siano brevi: appena è possibile, per evitare fallimenti, è importante saper distinguere tra rischi accettabili e rischi inaccettabili.
Vi sono errori che sono casuali e rimediabili (pag.301). La produzione di surplus permette alla società di passare oltre fenomeni di deterioramento solo con disagio ma senza risultati disastrosi (pag.306); il surplus sociale si contrappone peraltro alla situazione singola, dell’individuo o dell’azienda che può essere completamente diversa: in economia prevale l’uscita (dal mercato), in politica (ma anche in famiglia) prevale la voce; l’uscita in politica è defezione, un “crimine” (pag.315).
La partecipazione politica è un beneficio: far parte di un movimento che persegue un obiettivo desiderabile, osserva Hirschman, può essere gratificante quasi quanto ottenere quell’obiettivo (pag.324); gli sforzi per ottenere felicità pubblica non possono essere separati dal suo raggiungimento, e non rappresentano un costo: perseguimento e raggiungimento dell’obiettivo si confondono e conta la somma delle due grandezze (fenomeno del “pellegrinaggio”, pag.416).
Una serie di azioni possono essere intraprese come se si potesse promuovere il cambiamento, e tale esperienza comunque fa crescere: non posso cambiare la società, ma col mio impegno pubblico cresco io; la partecipazione agli affari pubblici non è solo uno strumento per conseguire un fine, ma è un bene in sé (pagg.417-418).

5-6 IL RIFORMISMO COME RISPOSTA A RISCHIO E INCERTEZZA

Nelle società medievali, osserva Deborah Lupton (Il rischio, op.cit.), minacce e pericoli di ogni genere incombevano, e la vita quotidiana era costruita su pratiche e credenze.
Il disordine, l'incertezza, creano ansia e insicurezza cui reagiamo con azioni individuali e collettive ("sistemi di prevenzione istituzionali", pag.9). La nozione di rischio compare inizialmente collegata alle assicurazioni marittime, e denota eventi naturali estranei alla volontà ed alle responsabilità umane; con la modernità e con lo svilupparsi dell'idea che sia possibile una conoscenza oggettiva del mondo, sia naturale che sociale, il rischio diventa un evento statisticamente prevedibile, in qualche modo calcolabile, e nel mondo sociale pian piano sostituisce i concetti di "fortuna" e di "fato".
Per tutti gli eventi non prevedibili, invece, il concetto utilizzato in epoca moderna non è quello di "rischio" ma quello di "incertezza"; oggi i due concetti tendono a fondersi, la parola rischio ha una connotazione solo negativa e significa pericolo, azzardo, minaccia, danno o, in un'accezione debole, qualcosa di non disastroso ma comunque inopportuno o seccante. Il concetto di rischio ha generato molti campi di ricerca, analisi, valutazioni, informazione e gestione "dalla medicina e la salute pubblica, alla finanza, il diritto, gli affari e l'industria" (cit., pag.15), e nei mezzi di comunicazione di massa la parola rischio è proliferata sostituendo via via altre parole come azzardo, pericolo e minaccia.
Anche i rischi, alla fine del Novecento, si sono globalizzati; la cosiddetta postmodernità ha inoltre preso atto dei limiti della scienza, ed "è caratterizzata dall'incertezza e dall'ambivalenza connesse al continuo mutamento, alla frammentazione culturale e al dissolvimento di norme e tradizioni", e fa sì che gli individui vivano "in uno stato di paura costante ma contenuta" (pagg.17-18).
Lupton individua sei tipi di rischi rilevanti per il nostro benessere: quelli prodotti dall'inquinamento ambientale, i rischi dello "stile di vita", i rischi sanitari, quelli derivanti dai rapporti interpersonali, i rischi economici, i rischi della criminalità (pagg.19-20).
La selezione dei rischi, attraverso la riflessione e i discorsi, e la loro gestione diventano pertanto attività politiche fondamentali: il concetto stesso di rischio implica scelta, calcolo, responsabilità, e le società occidentali lo affrontano in tre modi principali: con sistemi assicurativi, che trasformano il rischio in una perdita di denaro e provvedono col calcolo attuariale e probabilistico al suo indennizzo; con indagini epidemiologiche, riguardanti la salute ambientale e gli stili di vita; con logica clinica ovvero gestendo caso per caso con tecniche terapeutiche, servizi di sostegno, ecc. (pag.104 e seg.).
La percezione del rischio è stata affrontata nelle scienze sociali, da un lato dalla prospettiva cognitivista, psicologica, secondo cui il rischio è un prodotto della probabilità e delle conseguenze in termini di dimensioni e di gravità del verificarsi di un evento, dall'altro dalla prospettiva costruttivista, secondo cui nessuna percezione del rischio è oggettiva ma deriva da valori, credenze, conoscenze, rituali (pagg.23, 35 e seg.).
Dalla metà del XX secolo le minacce alla vita umana hanno assunto dimensioni senza precedenti, non possono più essere circoscritte (è il caso dell'inquinamento, delle radiazioni, degli alimenti tossici), e quindi non sono più facilmente calcolabili (pag.70); nel contempo, l'idea che ai rischi è connessa la responsabilità umana, che talvolta li genera, ma che li deve anche prevenire e controllare, produce contrapposizioni e conflitti sia tra esperti e profani, che fra gli stessi esperti tra di loro: "il fenomeno del rischio è un prodotto di interpretazioni del mondo in conflitto tra loro" (cit., pag.115). La società del rischio diviene riflessiva, si confronta con se stessa, diventa argomento di dibattito, ma promuove anche istituzioni internazionali ed alleanze a livello planetario; i rischi contribuiscono a costruire una cittadinanza globale, e nel contempo minacciano in egual modo classi e paesi, ricchi e poveri (pag.76).
Il "nuovo prudenzialismo" è una strategia neoconservatrice che limita l'attività dello Stato a consigliare ed assistere gli individui in iniziative di autogestione del rischio anzichè ricorrere alle più costose assicurazioni sociali, che implicano invece la socializzazione del rischio e che sono caratteristiche, aggiungiamo noi, dell'azione riformista (pag.108 e seg.).
Molte azioni abitudinarie, in realtà, sono forme di prevenzione dei rischi, ma non esiste un "modello ideale di cittadino autonomo" (pag.131), in quanto ciascun individuo reagisce in modo diverso ai rischi, a seconda del proprio gruppo di appartenenza, delle proprie risorse materiali, dell'età, dei rapporti di potere. L'Altro, gruppo o individuo percepito come diverso da noi (per razza, classe, cultura, religione, malattia, handicap, potenzialità criminale, sessualità, ecc.), è considerato esso stesso come una fonte di rischio, come un agente di contaminazione, appartenente al "mondo animale" piuttosto che al "mondo umano" (pag.133 e seg.).
La strategia principale di esclusione diventa in questo caso quella spaziale, individui e gruppi estranei vanno tenuti distanti e fuori dagli spazi pubblici (pag.151 e seg.); talvolta, però, assumersi rischi acquista per l'invidivuo un "valore positivo": negli sport estremi, nelle vacanze avventurose, nelle fughe dalla routine, nell'esaltazione collettiva ma anche assumendosi rischi economici e "flessibilità ": chi si espone maggiormente, anche trasgredendo le regole, nella realtà come nell'immaginario (nei film), sono i giovani maschi, spesso alla ricerca di atti eroici (pag.157 e seg.); nei modelli di femminilità prevale invece la percezione di una maggiore vulnerabilità, e quindi comportamenti mediamente improntati alla prudenza ed all'autocontrollo. L'Altro suscita emozioni ambivalenti, paura e ansia ma anche seduzione e trasgressione; Lupton osserva come tale effetto venisse prodotto, nel passato, dalle feste di carnevale, ma anche nel romanzo gotico e, oggi, nel genere horror; il culturalmente proibito genera un rischio simbolico, che consiste nel superare od oscurare un confine, e come tale è fonte di emozione e di piacere (pag.173 e seg.).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Antonella Besussi, LA SOCIETÀ MIGLIORE (ed. il Saggiatore, Milano 1992)
- Norberto Bobbio, L’ETÀ DEI DIRITTI (ed.Einaudi, Torino 1990)
- Martin Buber, SENTIERI IN UTOPIA (ed. Comunità, Milano 1981)
- Pierre Carniti, FUORI DAL TUNNEL, NEL DESERTO, in Mondoperaio 6/2009, pag.13 e seg.
- John Dunn STORIA DELLE DOTTRINE POLITICHE (ed. Jaka Book, Milano 1992)
- Jay W. Forrester, DINAMICHE MONDIALI (World Dynamics, 1970)
- John Kenneth Galbraith, L'ETÀ DELL'INCERTEZZA (Milano 1977)
- Albert O.Hirschman, LE PASSIONI E GLI INTERESSI. Argomenti politici in favore del capitalismo prima del suo trionfo (ed. Feltrinelli, Milano 1979)
- Albert O. Hirschman, FELICITÀ PRIVATA E FELICITÀ PUBBLICA (ed. il Mulino, Bologna 1983)
- Immanuel Kant, LO STATO DI DIRITTO
- Hans Jonas, IL PRINCIPIO RESPONSABILITÀ (1979/ed.Einaudi, Torino 1993)
- Albert O. Hirschman, COME COMPLICARE L’ECONOMIA (Ed. il Mulino, Bologna 1988)
- Deborah Lupton, IL RISCHIO. Percezione, simboli, culture (1999/ed. Il Mulino, Bologna 2003)
- Tomas Maldonado, LA SPERANZA PROGETTUALE (ed. Einaudi, Torino 1971)
- Giacomo Marramao, L'ORDINE DISINCANTATO (Editori Riuniti, Roma 1985)
- Yves Meny e Jean-Claude Thoenig, LE POLITICHE PUBBLICHE (ed. il Mulino, Bologna 1991)
- Luciano Pellicani, RIFORMISMO, in Mondoperaio, gennaio-febbraio 2004
- John Rawls, UNA TEORIA DELLA GIUSTIZIA (ed.Feltrinelli, Milano 1982)
- Ernst F. Schumacher, PICCOLO È BELLO (ed. Mondadori, Milano 1978)
- Alexis de Tocqueville, LA DEMOCRAZIA IN AMERICA (ed.Fabbri/Rizzoli, Milano 2001)
- Salvatore Veca, LA SOCIETÀ GIUSTA (ed. il Saggiatore, Milano 1982)
- Max Weber, IL METODO DELLE SCIENZE STORICO-SOCIALI

 

6- MORFOLOGIA DEL RIFORMISMO

6-1 PREMESSA

L’obiettivo di questo capitolo è quello di focalizzare le forme in cui esplica il riformismo: la sua caratteristica di essere un metodo sempre mutevole, adattabile alle circostanze, è infatti uno dei punti di maggior forza del riformismo; esamineremo perciò alcuni tipi o modelli storici di riformismo, e quindi la stretta connessione che vi è fra il riformismo e le attività che si pongono come obiettivo la soluzione di problemi.

Nel libro Quale socialismo? (op.cit.) Norberto Bobbio rileva come il contributo più importante dato alla teoria politica dal socialismo, quello riformista come quello rivoluzionario, sia stato una teoria del partito: partito come organizzazione di massa nel caso del socialismo riformista, partito-avanguardia nel caso del socialismo rivoluzionario e massimalista. Anche per Marx, osserva Bobbio, il problema non era come si governa, bensì chi governa (borghesia o proletariato): chi governa e come sono i due problemi fondamentali della teoria politica (cit., pag.38).
Chi governa per fare cosa? Il riformismo pretende di dare risposte concrete ad entrambe le domande.

6-2 I SOGGETTI DEL RIFORMISMO

Il problema dei soggetti del riformismo è duplice. Da un lato, vi è il problema che l’attività di riforma può essere valutata appieno solo ex-post, a riforme concluse, a risultati conseguiti; dall’altro lato, vi è il problema di individuare ex-ante i soggetti ed i loro alleati: non basta, infatti, qualificarsi come “riformisti” per esserlo. Secondo John Dunn (op.cit.) oggi siamo (quasi) tutti democratici: siamo, forse, anche tutti riformisti? Il problema dei soggetti del riformismo diventa ancor più problematico, scusate il gioco di parole, laddove come in Italia i riformisti non riescono ad ottenere la maggioranza dei consensi dell’elettorato e devono allearsi con forze politiche che riformiste non sono, ed in taluni casi sono anche anti-riformiste. Come si poteva conciliare, ad esempio, l’alleanza elettorale e programmatica tra riformisti e comunisti, quando in tutta la storia del Novecento riformisti e comunisti sono stati gli uni contro gli altri armati?
In un altro capitolo di questo libro abbiamo visto che i comunisti sono nemici tradizionali dei riformisti e che l’anticomunismo, lungi da essere un valore della destra, è invece un patrimonio storico proprio della sinistra riformista; come sarebbe possibile, dunque, un’alleanza di questo genere?
In generale, uno dei principali argomenti della tolleranza verso gli intolleranti è che gli intolleranti, una volta abituati ad un clima di tolleranza, diverranno essi stessi tolleranti; il rapporto dei riformisti con i comunisti  sembra proprio essere stato di questo tipo: una trasformazione culturale progressiva, un “addomesticamento” dei comunisti verso il riformismo. Riformisti infatti non si nasce, lo si diventa: il riformismo è un “abito mentale” che si acquisisce con l’educazione ai suoi valori, il primo dei quali è il valore della democrazia, e con la formazione alle sue tecniche di trasformazione sociale; il riformismo richiede, insieme, ideali e competenza, non è qualcosa che si acquisisce così, tanto per fare o tanto per dire, o perché sia di moda essere riformisti. È qualcosa che invece richiede dedizione e formazione, preparazione e competenza; non è una qualità innata dell’individuo e, perciò, col tempo e con l’impegno, può diventare patrimonio anche di persone il cui passato non è stato propriamente riformista.
Per quanto riguarda i rapporti politici fra riformisti e comunisti, rapporti storicamente conflittuali ed antitetici, col crollo stesso dei regimi comunisti si erano create le condizioni per un “addomesticamento” dei militanti comunisti agli ideali del riformismo, che si sono dimostrati storicamente vincenti; il fatto stesso che un comunista accettasse le regole della democrazia è stato, ad esempio, una contraddizione in termini: laddove i comunisti avevano in passato conquistato il potere, la democrazia è stata la prima istituzione ad essere soppressa.
L’idea che potesse esistere un “comunismo democratico” è stata un prodotto soprattutto della cultura politica del nostro Paese, e della tradizione culturale del Pci, fin dal dopoguerra; tale idea, peraltro, confondeva e fondeva gli ideali che sono propri della tradizione umanistica con le logiche del comunismo, che sono all'opposto autoritarie (il "comitato centrale"): la conseguenza logica del comunismo non è infatti la "terza via" di Berlinguer ma lo sterminio del nemico oggettivo, non è la Primavera di Praga ma lo stalinismo, non Dubcek ma Pol Pot. La transizione alla democrazia del Pci dell’epoca fu poi aiutata dal fatto che quel partito non raggiunse mai il governo dello Stato nazionale, e dove effettivamente governava, cioè in talune regioni italiane, governava con metodo socialdemocratico e non certo comunista; mancando l'obiettivo della conquista del governo centrale, venne meno anche la necessità immediata di una verifica delle sue attese di democraticità: tenuto conto che chi rappresenta di fronte all’elettorato un partito comunista non necessariamente, in caso di vittoria elettorale, può continuare a rappresentare quel partito anche nel governo dello Stato: il meccanismo della “purga”, della eliminazione del dissenso interno, eliminazione morale ma spesso anche fisica, è perfettamente compatibile con le logiche e l’ideologia che hanno caratterizzato i movimenti comunisti, anche quelli che apparentemente avevano scelto la strada della democrazia.
Potremmo perciò dire che l’alleanza fra riformisti e comunisti, necessaria per ottenere un risultato elettorale che consentisse ai riformisti di governare, è stata però anche un’alleanza condizionata, perché al suo interno le forze comuniste dovevano mantenersi minoritarie e subalterne ai riformisti, oppure dovevano riuscire ad abbandonare l’idea comunista, non solo nei fatti, ma anche nelle parole e nel “nome”: la questione nominalistica, apparentemente insignificante rispetto ai comportamenti politici concreti, è stata invece una questione importante, sebbene non l'unica, e forse neppure la prioritaria visto che i riformisti italiani si sono poi divisi in una pluralità di partiti e soprattutto di fazioni politiche tra loro contrapposte.

Ma vi è un altro problema della individuazione dei soggetti del riformismo: la democrazia moderna, osserva Max Weber ne La società burocratica (cit.), non può essere amministrata da non-professionisti; la democrazia moderna implica lo sviluppo del funzionario professionale e di una vasta burocrazia, è democrazia burocratica, caratterizzata dal funzionariato pagato, anche all'interno degli stessi partiti politici.
Nel saggio La politica come professione (cit.), Max Weber osserva come la politica si avvalga di un mezzo specifico che è il potere, le cui basi di legittimità possono essere la tradizione, il carisma personale, oppure la legalità. Lo Stato moderno ha espropriato l'uso della forza legittima e i beni materiali dai funzionari che in passato, come ceto, ne avevano la proprietà personale: da questa separazione nasce il politico di professione, che si mette al servizio dei capi politici per ideale ma anche per tornaconto personale (pag.23).
Weber distingue anche i politici occasionali, che si limitano ad esprimere il proprio voto o a partecipare passivamente ad attività politiche, ed i politici a tempo parziale, fiduciari che non vivono di politica (pag.24). Di solito, evidenzia Weber, chi vive per la politica vive anche di politica, come fanno i funzionari di partito, i rappresentanti di interessi in associazioni di categoria, i giornalisti, ecc. (cit., pag.66); le lotte di partito sono quindi soprattutto lotte per distribuire uffici, posti remunerati, prebende (pag.29).
La politica come "impresa" produce la separazione dei funzionari tecnici da quelli politici, che sono licenziabili in qualsiasi momento ma ai quali non vengono chiesti particolari studi accademici; Weber esclude invece dalla politica il grande imprenditore, perché legato alla sua impresa e quindi non libero (pag.27; curiosamente, il libro è del 1919).
Il funzionario professionista non fa politica, non lotta ma amministra al di sopra delle parti e su responsabilità superiore; l'uomo politico, invece, prende partito, lotta, si assume la responsabilità di ciò che fa; funzionari eticamente di buona qualità, in quanto politicamente irresponsabili possono diventare politici di cattiva qualità.
Finché non si creano reti di associazioni locali di partito, il ruolo dei notabili è fondamentale nelle elezioni; con lo sviluppo degli apparati di partito diventa capo solo chi li controlla, erogando posti e vantaggi. Quando l'elemento carismatico supera il programma astratto di partito, la democrazia diventa plebiscitaria e i parlamentari diventano meri percettori di rendite politiche al seguito del capo (cit., pagg.50-55).
I notabili, rappresentando la tradizione dentro il partito, rendono più difficile l'avvento del capo, dell’homo novus, salvo poi diventarne seguaci in caso di vittoria; negli Stati Uniti l'elezione diretta del presidente favorì lo sviluppo della macchina plebiscitaria di partito, col principio dello "spoil system" (tutti i posti a chi vince) e la lotta per le "nomination". La carriera politica, osserva Weber, si caratterizza per "gravi tentazioni" e "continue delusioni" (cit., pag.66), offre come soddisfazione un senso di potenza e di vanità che caratterizza però anche altre professioni, come quelle degli scienziati e degli accademici.
Le qualità del politico, osserva ancora Weber, sono la passione, la dedizione, il senso di responsabilità, la capacità di valutazione che si esplica come distanza da cose e uomini; sono invece peccati mortali del politico l'infedeltà alla causa e la mancanza di responsabilità, per esempio nel suo cercare colpe nel passato anziché preoccuparsi per il futuro (cit., pag.72). Lo Stato rivoluzionario, osserva infine Weber, assegna il potere ad "assoluti dilettanti", con tutte le conseguenze negative che ne derivano e che sono causa della sua stessa fine (cit., pagg.35, 72); questa osservazione di Weber è di particolare importanza, perché ci fa capire che le dittature non possono essere fattori di progresso umano, indipendentemente dall'ideologia che le sorregge.

6-3 L’ESPERIENZA DEL NEW DEAL AMERICANO

Giuliano Cazzola ha definito Franklin Delano Roosevelt come "il più grande riformatore del ventesimo secolo" (Riscoprire Roosevelt e il New Deal, cit. pag.113); il new deal, che letteralmente significa nuovo accordo, costituì un "patto interclassista" che trovò un vasto consenso negli operai, negli impiegati ma anche negli imprenditori, e fu capace di costruire sui valori della libertà economica e politica un progetto di riforma della vita pubblica americana che fu la causa, fra l'altro, del mancato sviluppo di un partito socialista come accadeva invece in tutti gli altri paesi, compreso il vicino Canada.
Il Wagner Act, osserva ancora Cazzola, divenne punto di riferimento per decenni delle legislazioni progressiste in materia di lavoro: il conflitto venne riconosciuto non più come un evento pericoloso per il sistema, ma come un fatto positivo e addirittura funzionale alla modernizzazione del paese; fu sancito il diritto alla contrattazione collettiva, fu riconosciuto il principio che il capitalismo doveva svilupparsi in un quadro di regole stabilite dal potere politico, furono introdotti i sussidi di assistenza sociale ed avviato un vasto programma di lavori pubblici per ridurre la disoccupazione.

Il new deal americano inaugura una variante di riformismo, che Antonella Besussi chiama migliorismo, che considera come principale male pubblico la sofferenza delle persone (La società migliore, cit. pag.12).
La storia migliorista del new deal si può distinguere in un primo new deal che ha come obiettivo la ripresa economica ed un secondo new deal che si propone di realizzare condizioni di giustizia sociale (pag.41).
Il primo new deal dà attenzione pubblica a questioni prima considerate come semplici relazioni private, quali i diritti dei lavoratori e l’etica degli affari, ed orienta le relazioni interne ed esterne al mercato nel senso della benevolenza sociale.
L’antinomia fondamentale da superare è fra interesse individuale ed interesse pubblico; non vi è più parità fra ambito politico ed affari, l'unico sovrano è il governo.

Il migliorismo è un selettore fra riformismi possibili, migliore non è ottimo, il riformismo migliorista è ridimensionato nelle ambizioni: migliore significa giustificabile per chiunque, anche per coloro che hanno motivi di dissenso, e quindi è capace di scoraggiare i comportamenti sleali dei cosiddetti battitori liberi.
Il programma migliorista enfatizza la distribuzione di benefici rispetto alla loro produzione, e rifiuta il commercialismo, cioè la pervasività sociale del successo nel mercato: "chi vince sul mercato non per questo deve vincere in tutti i giochi" (cit., pag.20); quando benefici privati coincidono con danni pubblici, la comunità ha quindi il diritto di interferire.
Il new deal è un programma politico diviso fra riforme centrate su principi (possibilismo) e riforme centrate su politiche (realismo), "valuta secondo principi e procede secondo politiche" (cit., pag.12) per governare una crisi economica straordinariamente intensa che è insieme vincolo (complicazione e condizionamento) ma anche opportunità perché offre la possibilità di decidere cosa conservare e cosa rimuovere.
Il new deal cerca di miscelare in modo ottimale diritti ed efficienza col programma delle tre R (cit., pag.23): Reform (riforma), Recovery (sviluppo), Relief (assistenza). Combina principi (ragioni, progetti) e politiche (pratiche, amministrazione) assumendo le caratteristiche di un "lavoro in corso"; il conflitto politico americano si caratterizza infatti più per lo scontro fra principi e fatti, che fra principi alternativi.

Labor e business sono interessi parziali, il new deal consiste in una mediazione interventista per realizzare un capitalismo accettabile che richieda la disponibilità dei più forti a vincolarsi, un potere economico socialmente responsabile, comportamenti di buon vicinato. In una società decente non vi sono cittadini al di sopra o al di sotto delle regole, la persona è separata dai suoi vantaggi e svantaggi: "sei qualcuno indipendentemente da quello che hai perché potrebbe accaderti di non avere nulla" (cit., pag.118); una nozione di sorte media morale esclude fortune e sfortune non comuni (pag.270).
Il programma new deal vuol sottoporre il capitalismo ad un'operazione di chirurgia etica, per determinare cosa vale la pena conservare e cosa rimuovere, perché ritiene che la forza del capitalismo, cioè la sua capacità di produrre benessere diffuso, sia separabile dalla sua debolezza, e cioè dalla concentrazione del benessere che rende più forti i forti e più deboli i già deboli.

Il new deal affronta anche alcune dicotomie: nazionale/locale; generale/parziale (il nuovo ordine è per tutti e non per pochi); inclusione/esclusione; politica tesa ad imporre (con elite di esperti, migliorismo perfezionista) e politica tesa ad accreditare (adattamento locale di scopi generali, migliorismo democratico, formula della "democrazia alle radici", cit. pag.179); vicino/distante (tende a nazionalizzare i problemi e quindi ad accentrare responsabilità ed insieme persegue un forte interventismo locale, distribuendo responsabilità e qualificandosi come governo vicino).
Vi è contrapposizione fra le figure del "doer", il funzionario del governo, professionista della riforma, ed il "wailer", professionista della protesta: quest'ultimo si astiene sempre in occasione delle riforme (ogni commento ulteriore sull'attualità di questa distinzione è qui del tutto superfluo).
La Besussi evidenzia anche le differenze che vi sono col progressismo: per i new dealers la riforma è un lavoro, per il progressismo è una missione; per i primi il riformatore è simile ad un investigatore alla Humphrey Bogart, che indaga i fatti "senza illudersi di poter rifare il mondo" (cit., pag.321). Entrambi, progressismo e migliorismo, sono però contrari alla filantropia, come alle idee di provvidenza, mano invisibile, cicli naturali, ecc.
I riformatori talvolta appaiono come una sorta di clero secolare, "preti laici", lo scontro politico diventa allora quasi una guerra di religione: "luce contro buio, verità contro menzogna, virtù contro vizio, principi contro interessi" (cit., pag.303); il libro biblico dell'Esodo riassume circostanze e sentimenti di ogni progetto di cambiamento, in una lettura non messianica ma "socialdemocratica" (cit., pag.164). Il secondo new deal è però interessato più ad attenuare gli svantaggi del viaggio che alla meta finale: la terra promessa, infatti, è qui ed ora.

Il riformismo, osserva la Besussi, è un genere, un nome comune e come tale è indeterminato (pag.10).
Il riformismo divide lo status quo in zone buone e cattive, è un intervento di chirurgia ricostruttiva (pag.13), parziale, ed assume che la cancellazione delle zone cattive possa lasciare intatte le zone buone: un albero che sta crescendo male può essere lasciato così com'è (conservatori), abbattuto (radicali), oppure potato (miglioristi).

6-4 LA NUOVA FRONTIERA DI KENNEDY

La Nuova Frontiera, osserva Arthur M.Schlesinger Jr. (I mille giorni di John F.Kennedy, op. cit.), era un programma politico che non faceva promesse ma proponeva al popolo americano una nuova stagione di impegno civile, era un programma fatto non per dare ma per chiedere qualcosa; si connotava come un’era di attività, di progressismo, di rinato interesse per la cosa pubblica, in contrapposizione al precedente periodo conservatore, connotato da passività e da acquiescenza.
Esplorata la vecchia frontiera americana, rimangono ora “le zone inesplorate della scienza e dello spazio, gli insoluti problemi della pace e della guerra, le inconquistate sacche dell’ignoranza e del pregiudizio, le irrisolte questioni della miseria e dell’abbondanza” (cit., pag.79). Problemi nuovi che richiedono soluzioni nuove, caratterizzate da immaginazione, inventiva, rinnovamento, decisione; la rinascita interna degli Stati Uniti diventa per Kennedy la premessa per la loro leadership mondiale.

Dopo le sue esperienze dirette, prima della guerra e poi della malattia, l’impegno in politica aveva per Kennedy anzitutto l’obiettivo di non far peggiorare lo stato di cose (“la politica è una giungla”, cit. pagg.122-123): egli “fu il portavoce dell’inquietudine della generazione del dopoguerra” (cit., pag.135). L’io pubblico doveva restare fedele all’io privato, gli amici ed i nemici in politica andavano considerati sempre come contingenti, tenendo sempre aperta l’opportunità della riconciliazione.
Il presidente americano, capo sia di stato che di governo, osserva Schlesinger, è al centro di cerchi concentrici di rapporti, che vanno dalla sua famiglia al mondo intero, ed è suo compito permeare questa rete di rapporti con i suoi scopi e i suoi valori: Kennedy leggeva moltissimo, soprattutto storia, diffidava sia delle posizioni estremiste che delle grandi teorizzazioni, ed era molto distaccato dalle astrazioni e dai formalismi religiosi, intellettuali, culturali e dalla retorica.

Impresse un proprio stile alla politica: era un pragmatista che valutava le diverse opzioni in base alle conseguenze, ed aveva una cultura storica che gli consentiva di comprendere che non tutto è riconducibile alla dicotomia bene-male e che spesso il coraggio di raggiungere un compromesso può produrre più cambiamenti del conflitto distruttivo (cit., pag.132 e 173).
Kennedy era anche un “ascoltatore superbo”, sapeva fare autocritica e riconosceva l’importanza delle circostanze, che in taluni casi avevano fatto grandi suoi predecessori; l’unico criterio per valutare un presidente, secondo lui, era però quello di valutare i suoi risultati concreti. Il fatalismo di Kennedy si rispecchiava nella sua epoca come l’ottimismo di Roosevelt nella propria; occorreva essere fedeli alla realtà piuttosto che ai propri piani d’azione (cit., pagg.654-662).
Roosevelt affrontò la crisi economica con enti di emergenza costituiti da persone di sua fiducia, al di fuori delle istituzioni, lasciando però ai suoi successori un apparato governativo più vasto ed invasivo; Kennedy tentò invece di esercitare un ruolo personale, scontrandosi con la burocrazia feudale del governo federale (vi fu una contrapposizione fra “governo presidenziale” e “governo permanente”, soprattutto dopo l’episodio della Baia dei Porci) ed istituì un solo ente esterno alla burocrazia, il "Peace Corps".
I discorsi presidenziali erano uno strumento per Kennedy per fare politica, in quanto costituivano essi stessi delle direttive per l’esecutivo; utilizzava spesso frasi a ritmo staccato ed un periodare “a specchio” (cit., pag.672). Poteva contare su di uno staff di esperti, molti dei quali ex professori universitari, e su diverse commissioni di studio sia in politica interna che estera, tutti aperti al dibattito (cit., pagg.87-88 e 179-184); Lyndon Johnson, in particolare, era un “pensatore indiretto”, che agiva solo quando i consigli che riceveva coincidevano con le sue aspettative. Le commissioni servivano sia a focalizzare meglio il programma di governo, sia a scegliere gli uomini, e talvolta vi furono anche votazioni esplorative, come durante la crisi di Cuba.

Mentre il liberalismo del New Deal era dominato da questioni “quantitative” (sicurezza e lavoro durante la depressione), il liberalismo dell’era Kennedy era “qualitativo”: in una fase di maggiore ricchezza economica, era rivolto al miglioramento della vita quotidiana, concentrando la propria attenzione ai problemi dell’istruzione, degli alloggi, dell’assistenza medica, dei diritti civili. Diversamente dall’epoca del New Deal, poi, rifiutava moralismo, retorica, idealismo, in favore di decisioni che venivano prese non perché erano giuste o sante ma perché erano razionali e necessarie.
Fu in questo contesto che l’Unione Sovietica non venne più chiamata “nemico” ma “avversario”; e non più considerata come la fonte di tutti i mali del mondo: concepì la contrapposizione con i sovietici più in termini nazionali che ideologici, perseguì anch’egli il potenziamento militare, ma più in termini convenzionali che nucleari, e soprattutto cercò di spostare la sfida dal settore militare a quello della ricerca spaziale. La competizione con i sovietici non era una guerra santa, si trattava di mostrare al mondo qual era la società migliore; interpretò la coesistenza pacifica come libera circolazione delle idee nel mondo e gli artisti, secondo lui, erano l’espressione più forte del libero individuo, “la storia stessa scorre contro il dogma marxista e non verso di esso” (cit., pag. 879).
Il rischio di un “errore di calcolo” nel prevedere le mosse dell’avversario costituiva per Kennedy il maggior pericolo per la pace, occorreva ridurre i margini di incertezza nelle stime sul comportamento delle due nazioni. Comprese appieno l’assurdità della corsa agli armamenti nucleari, e si adoperò per aprire negoziati; fu il primo presidente a considerare il mondo intero oggetto di “politica interna”.
Quando si insediò alla Casa Bianca, ereditò tuttavia dall’amministrazione Eisenhower la crisi del Laos e l’addestramento in corso in Guatemala di forze anticastriste che avrebbero poi condotto la disastrosa operazione della Baia dei Porci con conseguenti contestazioni negli stessi Stati Uniti, soprattutto da parte degli intellettuali. Fu proprio a seguito di quella vicenda che Kennedy decise di fidarsi meno degli esperti, e di allargare il numero dei propri consiglieri anche a “generalisti” di sua fiducia.
Nel gestire la crisi del Laos in Indocina gli americani fecero vari errori; Kennedy tentò la via della soluzione diplomatica, ma senza riuscirvi: aveva come obiettivo il mantenimento dello status quo, l’equilibrio presente fra le forze; Kruscev puntava invece ad uno status quo “dinamico” che coincideva con l’avanzata del processo rivoluzionario nel mondo (si veda anche il dibattito fra le superpotenze su Berlino, a pag.426 e seguenti, che finì con la costruzione del muro e con la ripresa degli esperimenti nucleari sovietici nell’atmosfera).
Con la gestione delle crisi di Berlino e del Laos, Kennedy imparò a dosare forza e diplomazia, imparò l’arte “del ricorso misurato alla forza ai fini del mantenimento della pace” (cit., pag.455); imparò anche ad utilizzare la presenza americana alle Nazioni Unite, nella persona di Adlai Stevenson, come la voce della sua politica estera, ed a considerare l’ONU, pur con tutti i suoi limiti, come una forza di stabilizzazione in un mondo instabile. Capì anche l’importanza del neutralismo che si stava diffondendo nel mondo (Nehru, Tito, Nasser, Sukarno), nei cui confronti non sempre l’America seppe mostrarsi equilibrata: la “teoria del domino” già imperante nell’amministrazione Eisenhower, condusse all’intervento in Vietnam ed all’assistenza al despota Diem (cit., pag.534 e seg., pag.986 e seg.).
Spesso gli Stati Uniti finivano con l’essere coinvolti nell’odio contro l’Occidente da parte dei nazionalisti e degli anticolonialisti, specie in America Latina, gruppi e movimenti che nulla avevano a che fare col comunismo ma che finivano per allearsi con Mosca; tuttavia, la condanna dell’apartheid e la garanzia anche militare data ai diritti dei negri, per i quali si impegnò attivamente e di cui incontrò i leader, aumentarono le simpatie per Kennedy sia nel continente americano che in Africa.

La prima decisione presidenziale di Kennedy fu il raddoppio delle razioni alimentari governative ai bisognosi, cui fece seguito una particolare attenzione ai problemi dell’America Latina, che non aveva trovato riscontro nei presidenti che l’avevano preceduto e che sfociò nell’Alleanza per il Progresso; Kennedy proclamò il “diritto alla giustizia sociale” per l’intero continente americano: “la rivoluzione di questo emisfero sarà incompleta finché vi sarà anche un solo bambino affamato, uno studente che non potrà studiare, un lavoratore senza lavoro, un solo individuo senza casa e un vecchio senza assistenza” (cit., pag.752).
Ma il problema cruciale dell’America Latina era l’individuazione ed il sostegno a leader democratici; la politica estera di Kennedy non era tanto interessata alla libertà economica, quanto a quella individuale e politica, ed all’indipendenza nazionale: voleva la pace ma nella libertà e non a sue spese, e nei momenti cruciali il suo pensiero andava ai bambini e ai giovani (soprattutto durante la crisi di Cuba, che fu per gli americani una sorpresa paragonabile a Pearl Harbour, cit., pagg.786, 806 e seguenti).
I maggiori alleati del comunismo, comprese Kennedy, erano la miseria, l’ingiustizia e l’oppressione, tutti imperanti nei paesi del Terzo mondo. Gli aiuti all’estero vennero finalizzati a programmi di sviluppo, comprese le riforme strutturali quali la creazione di istituzioni democratiche e la riforma agraria, e non più solo all’assistenza tecnica e militare; Galbraith, all’epoca ambasciatore in India, accentuò l’importanza dell’istruzione per la crescita economica, e nell’amministrazione Kennedy andò sempre più accentuandosi il convincimento che crescita economica e democrazia politica dovevano progredire di pari passo. Istituì allora i Peace Corps, volontari da mandare all’estero per dare assistenza tecnica; la politica estera fu rinnovata, furono abbandonate le tesi unitarie ed astratte sul mondo e riconosciuta l’importanza politica dei paesi neutrali: il mondo era pluralistico e non monistico, l’economia pubblica e quella privata non vennero più contrapposte, contava l’esperienza pratica piuttosto che l’ideologia.
L’Europa unita era parte della strategia kennediana; la “Grande Meta” era una libera comunità atlantica, e peraltro Kennedy valutava in positivo anche i tentativi, soprattutto in Italia, di costruire coalizioni di centro-sinistra, fra i democratici cristiani ed i socialisti democratici (cit., pag.832, 870 e seg.).

Sotto il profilo teorico, la politica di Kennedy era l’espressione dell’empirismo radicale di William James: l’universo è plurale, non esiste un’unica verità ma solo verità parziali che sono a disposizione degli uomini liberi. La diversità si manifestò peraltro anche in campo comunista, col contrasto fra Unione Sovietica e Cina: il nazionalismo si stava rivelando ovunque più forte del marxismo; in ogni caso, non poteva esistere una “soluzione americana” a tutti i problemi mondiali: le crisi descritte dai giornali contribuivano a creare una situazione di “illusione ottica”, la dottrina kennediana della diversità evidenziava invece come le lotte per l’indipendenza nazionale costituiscano tendenze storiche fondamentali, di cui è parte integrante la stessa rivoluzione americana; il mondo è caratterizzato dalla diversità, i problemi si risolvono con la collaborazione internazionale: non il monolitismo comunista ma il pluralismo caratterizzato da indipendenza nazionale e libertà personale determina il corso della storia. In questo contesto, gli Stati Uniti dovevano collocarsi coi movimenti per l’indipendenza e la democrazia.
La teoria kennediana della diversità precorse nel tempo l’idea della terza via e costrinse Mosca alla posizione opposta, quella della sterile contrapposizione dualistica fra socialismo e capitalismo.
Anche il fratello Robert diede voce all’idealismo della Nuova Frontiera: come ministro della Giustizia, si attivò nella lotta contro la criminalità, nella battaglia per far applicare i diritti civili, nel liquidare il maccartismo e nel promuovere l’equa applicazione della giustizia, anche verso gli imputati indigenti.

Ma la presidenza Kennedy non fu esente da critiche: anzi, dovette affrontare sia l’opposizione di una sinistra radicale che chiedeva il disarmo unilaterale e finiva col giustificare Kruscev (Stuart Hughes, Bertrand Russell), che di una destra catastrofista e reazionaria, il cui mondo ideale era all’epoca un mondo senza, “senza comunismo, senza impegni oltremare, senza Nazioni Unite, senza governo federale, senza sindacati, senza negri e senza stranieri” (cit., pag.734). Nella società americana l’immagine della virilità nazionale si accompagnava all’etica del “fumo di rivoltella”, un “paese di frontiera” (cit., pag.735); il risentimento della destra contro Kennedy era totale: ne contestava idee, religione, famiglia, aspetto, ricchezza, ogni cosa.
Eppure la presidenza Kennedy cambiò profondamente fini e valori dell’America, abbatté pregiudizi e gettò le basi di “una trasformazione di così vasta portata da fare dell’America degli anni sessanta una società assai diversa dall’America degli anni cinquanta” (cit., pag.697, pag.710 e seguenti). Kennedy influenzò e fu influenzato dal suo tempo; molti interventi furono efficaci perché erano le situazioni stesse, volte al peggio, a richiedere dei miglioramenti: “la nazione è disposta ad ascoltare soltanto se il momento è molto grave” (i diritti civili, la politica estera, pag.705). lo spirito della Nuova Frontiera si basò su idee, intellettuali, autocritica, ma anche umorismo; il presidente rappresentava “la politica della modernità “ (pag.722 e seg.), era un liberale pragmatico, appartenente più alla corrente riformista e pragmatista del movimento progressista piuttosto che a quella utopistica e millenaristica. Morì assassinato a Dallas, nel 1963.

6-5 LA TERZA VIA DI GIDDENS

Anthony Giddens (La Terza Via, op.cit.) distingue la socialdemocrazia classica, caratterizzata dal welfare state generalista (che protegge i cittadini "dalla culla alla tomba", cit.pag.24), dalla terza via la quale si caratterizza per alcune novità:
- Democrazia cosmopolita (cit., pagg.128-133): sia le identità nazionali che quelle etniche sono artificiali, nessuno è un purosangue, centrale è la questione dell'immigrazione che di solito si dimostra vantaggiosa per il paese ospite (nazionalismo cosmopolita).
- Governo mondiale: sia il rischio ecologico che la riduzione dell'ineguaglianza mondiale non possono essere risolti a livello locale; nell'età dell'informazione "il territorio non è più così importante per gli stati-nazione come in passato. Le conoscenze e le capacità competitive contano molto di più delle risorse naturali" (cit., pag.136).
- Comunità, da non intendere come recupero di forme perdute di solidarietà locale, ma come associazioni di volontariato, imprenditorialità sociale, banca del tempo, progetti di microcredito, organizzazioni non governative, movimenti sociali ed altri gruppi (cit., pagg.58 e 87). Forme importanti di cosmopolitismo provengono dal basso (Greenpeace, Amnesty International). Esiste uno spazio globale depoliticizzato che, secondo Giddens, "richiede regolamentazione, l'introduzione di diritti e obblighi: ubi societas, ibi ius, dovunque ci sia società, ci devono essere leggi" (pag.136).
- Welfare positivo: dove il welfare assume connotazioni negative (mirato ai poveri, come negli Stati Uniti), ne conseguono divisioni sociali; i programmi contro la povertà vanno sostituiti con approcci fondati sulla comunità: "Chiesa, famiglia e amici sono le fonti principali della solidarietà sociale, lo stato dovrebbe intervenire soltanto quando queste istituzioni non arrivano a soddisfare pienamente i propri obblighi" (cit., pag.112). Fondamentale è l'investimento nell'istruzione, che è la base per redistribuire possibilità.
Ne deriva il tema della sostituzione del welfare state da parte della welfare society (cit., pag.116): gli organismi del terzo settore devono svolgere un ruolo più importante come fornitori di servizi di welfare; vi sono tuttavia ambiti nei quali i movimenti sociali, le ONG ed anche i mercati non possono sostituirsi al governo (l'elenco delle ragioni per cui esiste un governo è a pagg.57-58, lo schema del programma della terza via è a pag.76, lo schema dei valori della terza via è a pag.73, op.cit.).
La denominazione "terza via" non va confusa con altre "terze vie" del passato: è "terza" in quanto "nuova" (cit., pag.13) rispetto alla socialdemocrazia classica e al neoliberismo o Tatcherismo (i cui schemi sono riepilogati a pagg.24-25, op.cit.).
Il welfare state della socialdemocrazia classica, secondo Giddens, "oggi crea quasi tanti problemi quanti ne risolve" (cit., pag.32). Inoltre, la separazione socialismo-capitalismo (asse economico) ha molto meno rilievo rispetto ai contrasti libertario-autoritario e moderno-tradizionalista.
Il termine chiave è globalizzazione, che riguarda i mercati finanziari, le comunicazioni elettroniche, la modernizzazione ecologica (la protezione ambientale come fonte di crescita economica, cit. pag.34). Un aspetto chiave è la speculazione sui cambi: "come meccanismo stabilizzante l'euro e il dollaro potrebbero venire formalmente ancorati fra loro" (cit., pag.144); inoltre, un Consiglio di sicurezza economica andrebbe istituito nelle Nazioni Unite.
La fine del mondo bipolare (pagg.134-135) si caratterizza oggi per l'esistenza di stati senza nemici (cit., pagg.134-135, vedere lo schema a pag.82), che devono occuparsi della "gestione del rischio" inteso sia come pericolo che come opportunità, in particolare per regolare il cambiamento scientifico e tecnologico (cit., pagg.66-70 e 81). Scienza e tecnologia non possono più essere considerate esterne alla politica.
Il concetto di sviluppo sostenibile non consente definizioni precise perché:
a) non possiamo conoscere i bisogni delle generazioni future;
b) non possiamo sapere come il cambiamento tecnologico influenzerà l'utilizzo delle risorse (cit., pag.64).
Alcuni ambiti di intervento del welfare positivo riguardano:
- la vecchiaia; bisogna abolire l'età fissa di pensionamento e considerare gli anziani non come un problema ma come risorse (cit., pag.118);
- istruzione a vita;
- fornire sicurezza quando falliscono iniziative imprenditoriali e dando la possibilità di essere tassati su una base biennale/triennale anzichè annuale;
- incoraggiare "politiche a favore della famiglia nei luoghi di lavoro (...) non solo la presenza di asili e doposcuola, ma anche diverse opportunità di lavoro, come per esempio il telelavoro o il lavoro nei giorni festivi, possono contribuire a riconciliare l'impiego con la vita domestica" (cit., pag.123);
- necessità di contratti di genitorialità a vita, nel passaggio dalla famiglia tradizionale (unità economica caratterizzata da ineguaglianza dei sessi, doppia morale sessuale, scarsi diritti legali per i bambini, ecc.) alla famiglia democratica (nell'epoca del "bambino pregiato" e dell'uguaglianza dei sessi, pagg.93-97, op.cit.);
- progetti dei dollari-tempo e dei salari ombra (cit., pag.124);
- riformare il sistema dei sussidi laddove induce all'azzardo morale.
Il welfare state, secondo l'Autore, "è una condivisione di rischi piuttosto che di risorse" (cit., pag.115); lo stato diviene in questa concezione un "investitore sociale, che opera nel contesto di una società di welfare positivo" (cit., pag.116). Questa società del welfare positivo si estende al di sopra e al di sotto della nazione, l'autonomia dell'individuo diventa l'obiettivo principale (pagg.124-125).

Il termine terza via, osserva ancora Anthony Giddens (The Third Way and its Critics, trad.it. Cogliere l’Occasione, op. cit.) è stato usato più volte sia a destra che a sinistra, da Franco a Tito, e la stessa socialdemocrazia durante la guerra fredda fu intesa come una terza via (cit., pag.13 e 28).
La globalizzazione, che non è solo economica ed informatica ma anche sociale, politica e culturale, non permette più alle "grandi istituzioni" (stato, sindacati, grandi imprese) di mantenere gli impegni sociali, e il problema non è più di redistribuzione ma di creazione della ricchezza, attraverso l'innovazione; allo Stato spetta il compito di incentivare piuttosto che contribuire col disavanzo pubblico: deve passare dai remi al timone (cit., pagg.14, 17 e 74).
La leva fiscale (aumento della spesa pubblica) è stata utilizzata per ragioni diverse sia dalla destra (difesa e big government) che dalla sinistra (programmi sociali, pag.20); il thatcherismo era una forma politica radicale, in quanto divideva all'interno in amici e nemici (cit., pag.22).
La politica della terza via, secondo Giddens, è il tentativo di rispondere alle trasformazioni (non solo economiche) in atto; i problemi sociali sono generati dai mercati, ma anche dallo Stato, dal governo e dal welfare state, che richiedono perciò l'attuazione di programmi di modernizzazione che consentano di perseguire gli ideali di solidarietà e di giustizia sociale: serve allora un ripensamento a sinistra simile a quello che mezzo secolo fa fece rompere col marxismo (cit., pagg.38-41).
Lo Stato può produrre diseguaglianze, il mercato può diventare lo strumento per superarle, la sinistra deve cambiare il proprio atteggiamento verso il mercato, le imprese, i capitali privati; i mercati, però, generano esternalità e non si autoregolano (cit., pagg.42-45).
La politica della redenzione va superata sia a destra che a sinistra, perché "non esiste una fonte unitaria dei mali del mondo" (cit., pag.46); inoltre molti temi politici (il radicalismo, gli anziani, la politica della vita) non sono più riconducibili alla dicotomia destra/sinistra, che invece era centrata sulle relazioni di classe.
Sono preoccupazioni prioritarie dei cittadini la famiglia, la criminalità, la coesione sociale; siamo di fronte a nuove questioni ma non disponiamo di soluzioni sistematiche su come coniugare prosperità sostenibile, solidarietà sociale, istituzioni che garantiscano la libertà (pag.28). Sono sempre di più quelli che chiedono maggiore emancipazione, maggiore libertà personale e sessuale, e meno interventi governativi; le combinazioni regolamentazione economica/anarchia morale ed anarchia economica/controlli morali non hanno più senso (cit., pagg.49-53).
Le politiche per la famiglia devono essere soprattutto di sostegno, ed in ogni caso i diritti vanno sempre legati alle responsabilità: "nessun diritto senza responsabilità " (pagg.17-54-58-139); la sinistra è stata finora troppo indifferente verso la criminalità e la frammentazione della famiglia: una volta che essa diventa credibile su questioni su cui per tradizione è lontana, diventa più facile per gli elettori ascoltarla sui suoi temi naturali, quali l'istruzione, la salute, l'ambiente, ecc. (pagg.56-57).
La terza via ricerca "una via mediana su tutto" (cit., pag.22): la politica della terza via ritiene che crescita economica e modernizzazione ecologica siano obiettivi coerenti e addirittura interrelati (produrre di più con meno, pag.133 e seguenti), che vada massimizzata l'eguaglianza delle opportunità ma anche limitata la disuguaglianza degli esiti finali (pag.94), e che vadano combattute tutte le forme di esclusione (ghetti, segregazione sociale), sia in fondo che in cima alla scala sociale (pag.59, pag.118 e seguenti). Per raggiungere questi obiettivi, la globalizzazione può offrire benefici: attraverso la moltiplicazione delle organizzazioni non governative, e con una nuova internazionalizzazione della sinistra che oggi è diventata isolazionista (pagg.60, 126, 131).
Scienza e tecnologia hanno slegato la produttività dai fattori tradizionali della produzione (nuovo capitale e nuovo lavoro, pag.72), e paradossalmente più informazione aumenta l'incertezza economica (economia della conoscenza, pagg.73, 75 e seguenti).
Servono da un lato un "modello dinamico di egualitarismo" (cit., pag.121), dall'altro un pluralismo strutturale (pag.63): quindi, Stato (che Giddens invita a distinguere fra Stato grosso e Stato forte, pag.65 e seguenti), governo, federalismo (sia verso l'alto che verso il basso), società civile (che è il fondamento della cittadinanza ma che non coincide con l'idea di comunità), gruppi del terzo settore (pagg.85-86).
L'istruzione, prolungata per l'intero corso della vita, è l'investimento pubblico più importante (pag.78), la sinistra deve altresì incoraggiare la cultura imprenditoriale, che è innovativa, in economia ma anche nella società civile (capitale sociale, cit. pagg.80-85). Gli interventi governativi non devono consistere in sovvenzioni dirette, ma concentrarsi sulle condizioni-quadro della competitività e dello sviluppo.
L'esclusione sociale non coincide con la povertà e spesso la povertà non è una condizione definitiva e a lungo termine, ma una fase della vita, e sembra determinata più dalle trasformazioni tecnologiche, da tendenze demografiche e da cause familiari che dal libero mercato (pag.97 e seguenti, pagg.108-115). Il welfare dovrebbe offrire aiuto e non elemosina, occorrono politiche diverse in relazione alla durata delle condizioni di povertà.
La tassazione, secondo Giddens, va spostata dalle imposte sui redditi (su cui incidono sia la progressività che il livello di tassazione), alle imposte sui consumi ed all'ecotassazione (energia, rifiuti, trasporti, pag.103 e seguenti).
Il sistema assistenziale dovrebbe occuparsi dei diversi ‘perché’ della povertà e non solo come ora del ‘chi’ è povero, individuando le vulnerabilità e correggendo le condizioni che possono generare povertà (pagg.112 e 114). Occorre restituire spazi commerciali ad un uso pubblico, promuovere la varietà dei media, incentivare fiscalmente la partecipazione e la democrazia economica (pagg.146-147-148).

6-6 RIFORMISMO E SOLUZIONE DI PROBLEMI

Fra i problemi umani, osserva Norberto Bobbio (Il problema della guerra e le vie della pace, op.cit.), non esiste "il problema dei problemi", risolto il quale si risolvono gli altri (pag.129); l’insieme di problemi cui il riformista si trova di fronte è quindi multiforme e mutevole nel tempo, e richiede necessariamente l’individuazione delle priorità.

Albert O. Hirschman, nel libro Come far passare le riforme (op.cit.) distingue processi e tecniche di policy-making (formazione delle decisioni) e di problem-solving (soluzione di problemi, pag.127). Vi sono problemi privilegiati ed altri trascurati (pag.133); le ideologie piuttosto che le manifestazioni di malcontento (violenza) attirano l'attenzione su certi problemi ma non su altri: ad esempio, gli aumenti tariffari attirano l’attenzione di più che la mortalità infantile, mentre agli eventi climatici rispondiamo con la disperazione piuttosto che col malcontento, quasi che i danni provocati dal clima fossero una sorta di destino ineluttabile.
Emergono molto prima gli errori nella soluzione di problemi pressanti piuttosto che di problemi scelti, anche perché la motivazione a risolvere i primi spesso eccede la loro stessa comprensione (cit., pagg.139 e 142).
La comprensione (fattori oggettivi di cambiamento) dovrebbe invece precedere la motivazione (fattori soggettivi di cambiamento), i fini dovrebbero essere scelti solo dopo avere mezzi disponibili per conseguirli; una risposta creativa non è però sempre possibile in quanto vi sono problemi pressanti, ed è inevitabile la ricerca di una risposta adattiva (che talvolta è difettosa, cit. pag.144).
Ci devono essere canali di comunicazione efficace fra chi sperimenta gli errori e chi li commette, Hirschman auspica anche fasi utopiche di policy-making, che tengano in anticipo agli atti provvedimenti che saranno utili solo in tempi successivi (i tentativi falliti dei predecessori hanno talvolta "costi sommersi" che possono fruttare benefici se recuperati, cit. pag.152).
Vi sono casi in cui i passi avanti nella soluzione di un problema vengono interpretati come se il problema non esistesse più (auto-immagine del policy-maker come demiurgo).
I processi di problem-solving consistono in "passi avanti convergenti o sequenziali nella comprensione e nella motivazione" (cit. pag.158) e richiedono capacità di delibera e di attuazione dei provvedimenti anche in condizioni di resistenza da parte di gruppi.
La segnalazione del malcontento alle autorità centrali può avvenire perché il problema si è intensificato, oppure perché è aumentata la protesta, perché è migliorato il meccanismo di segnalazione (cit. pag.168).
La crisi stimola l'azione, rende possibile la soluzione di problemi cui prima non era dedicata particolare attenzione; spesso i gruppi sono in disaccordo sulla gravità di una crisi, e quando un vecchio problema si aggrava, di solito nascono problemi nuovi (cit., pagg.172-177).
L'emozione e l'ansia producono stereotipi che riducono le capacità di risolvere i problemi; nel problem-solving sociale l'ansia di solito è accompagnata dall'aggravarsi del problema, mentre nel problem-solving individuale questo non avviene e quindi il parallelo fra i due è fuorviante (cit. pag.174).
Un problema estraneo e differente talvolta può aiutare i processi decisionali su altri problemi; un problema dominante invece riduce l'attenzione sui restanti problemi, rendendoli marginali (cit. pag.178 e nota).
L'emergenza derivante da situazioni di crisi aiuta l'attività di problem-solving, e può verificarsi sia per un aggravamento dei problemi sia, al contrario, per un loro riflusso accompagnato però da pressioni rivoluzionarie (cit. pag.229).
Hirschman distingue le politiche pressanti (far fronte ai problemi) dalle politiche scelte autonomamente da chi governa: "il più delle volte lo Stato non agisce, ma reagisce" (cit. pag.304).
Talvolta problemi privilegiati e problemi trascurati possono essere connessi, legati fra loro; il fatto che un problema sia di un tipo piuttosto che dell'altro dipende da quante persone coinvolge, da quanto importante sia per loro e da quanta influenza dispongono (cit., pagg.307-309).

Di particolare interesse, proprio in relazione alla individuazione dei problemi, è stata l’esperienza del Club di Roma: la trasformazione delle condizioni di vita, secondo Aurelio Peccei (Quale futuro?, cit.) dipende dallo sviluppo tecnologico, che è più rapido della nostra capacità di adattamento; l'uso incontrollato della tecnologia, priva di controllo esterno e di capacità autoregolanti, crea squilibri: inquinamento, popolazione, dipendenza da sistemi informatici, da automobili, ecc.
La tecnologia è applicazione della conoscenza, il fattore tecnologico ha oggi una forza ed un'autonomia senza precedenti nella storia, ed occorre metterlo sotto controllo, occorre "pianificazione normativa".
La biosfera è lo "spazio della vita", una pellicola di aria, acqua e terra che copre il nostro pianeta con uno spessore di appena una dozzina di chilometri: la crescita ha perciò dei limiti, limiti reali (capacità teorica del pianeta) e limiti pratici (impiego irrazionale delle risorse, politiche nazionali divergenti); la crescita ha poi altri limiti non quantificabili: la nostra appartenenza organica alla biosfera (costante confronto, conflitto e adattamento reciproco con altre forme di vita) e la capacità del nostro sistema nervoso di accettare ed assorbire impatti tecnologici ancora più grandi, con conseguente perdita di valori, "stress" delle velocità, delle tensioni e dei rumori, incertezze e complessità dell'esistenza, implosione delle informazioni, dipendenza da macchine, automazioni e simbolismi complicati, spersonalizzazione e senso di inutilità dell'individuo.
Vi sono problemi di dimensioni planetarie, che interessano tutti i popoli e che non sono risolvibili separatamente:
- sicurezza (armamenti);
- polluzione atmosferica (aumento del tasso di anidride carbonica);
- oceani (occorre organizzarne un uso razionale e pacifico);
- aumento delle fratture culturali, economiche e tecnologiche fra i popoli;
- aumento della popolazione;
- ribellione giovanile;
- possibilità di manipolare il materiale genetico umano.
L'esperienza del passato non può più guidarci ma anzi ci può trarre in inganno. Peccei individua, all’epoca in cui ha scritto il libro (siamo nel 1974), 32 problemi critici continui, che elenchiamo e che è possibile constatare oggi, a distanza di alcuni decenni, quanti di essi sono stati risolti e quanto (tanto) rimane invece da fare per le politiche riformiste, a livello planetario; ecco l’elenco:
1) fame e denutrizione;
2) sottosviluppo;
3) povertà di massa;
4) sviluppo demografico incontrollato;
5) distribuzione demografica squilibrata;
6) educazione inadeguata;
7) assistenza medica insufficiente;
8) sistema previdenziale arretrato;
9) inquinamento ambientale crescente;
10) distruzione della natura;
11) sperpero di risorse naturali;
12) sottoccupazione diffusa;
13) sistema mondiale di scambi arretrato;
14) proliferazione urbana;
15) decadenza del cuore delle città;
16) sistemi di trasporto e di comunicazione insufficienti;
17) carenze dell'edilizia popolare;
18) insufficiente tutela dell'ordine pubblico;
19) inadeguato controllo della criminalità;
20) sistema correzionale arretrato;
21) insufficiente attrezzatura ricreativa;
22) discriminazione verso le minoranze;
23) discriminazione verso gli anziani;
24) scontento sociale crescente;
25) alienazione dei giovani;
26) crescente crisi di partecipazione;
27) sottogoverno dilagante;
28) correzione arretrata dell'ordine morale;
29) insufficiente autorità degli enti internazionali;
30) polarizzazione della potenza militare;
31) corsa alle armi nucleari;
32) inadeguata comprensione dei problemi critici continui.
L'approccio ai problemi critici continui, osserva Peccei, deve essere di sistema, e ciò comporta l'analisi delle interdipendenze ed interazioni dei problemi; ne derivano principi di globalità, lungo termine e complessità:
a) il nostro destino è diventato per molti aspetti unico e indivisibile, unità e solidarietà globali sono premesse di sopravvivenza;
b) la pianificazione come visione e obiettivo a lungo respiro è necessaria;
c) l'approccio sistemico è inevitabile, problemi complessi non ammettono soluzioni semplici o approcci parziali.
I sistemi, osserva ancora Peccei, sono aggregati dinamici di elementi uniti da determinate leggi e finalità, sono in sovrapposizione dinamica e reciproca, e sono soggetti a complicate crisi evolutive interne o di adattamento ad agenti esterni: il sistema-base, all'epoca, era lo stato-nazione, altri sistemi sono gli organismi internazionali, le alleanze e i patti militari, le comunità economiche e le zone di libero scambio, aree e sistemi monetari, accordi commerciali e tariffari, le convenzioni internazionali, le imprese multinazionali, i movimenti che tendono a strutture di sistema (in campo sindacale, scientifico, intellettuale, dei governi, ecc.), i sistemi di carattere naturale (bacini idrografici, mari, oceani, venti, piogge, alcune specie animali, ecc.). Questa massa in movimento e in crisi - e l'impennata tecnologica che l'accompagna - determinano nuovi valori assoluti, quali velocità, dimensione, complessità.
La problematica mondiale produce:
- problemi demografici;
- problemi del reperimento delle risorse vitali (cibo, acqua, energia, materie prime);
- problemi connessi all'ambiente biofisico;
- problemi derivanti dall'evoluzione psicosociale della società organizzata (istituzioni, sicurezza, sviluppo, comunicazioni, pianificazione);
- problemi della personalità (istruzione, cultura, adattamento, partecipazione, espressione, tempo libero, qualità della vita);
- problemi della filosofia della vita (ricerca del significato dell'esistenza, ordine morale, etico, spirituale).
La qualità dell'habitat diminuisce quanto più aumentano il benessere ed il tasso di affollamento; la tecnologia non riesce a risolvere tutti i problemi ma spesso fornisce solo palliativi e rimanda l'inevitabile a più tardi: l'aumento della popolazione richiede infatti un aumento più che proporzionale della base animale e vegetale che la sostiene.
La rivoluzione biologica ha creato società disomogenee: i giovani maturano prima, la vita attiva si prolunga in età avanzata, la mobilità si è decuplicata, convivono e competono più generazioni che sono distanziate tra loro storicamente e culturalmente. La pressione demografica reale sull'ambiente non dipende solo dalla popolazione ma anche da abitudini, comportamenti, mobilità, capacità di sovvertire i cicli naturali, ecc.: stiamo vivendo la transizione da un'epoca in cui la tecnologia proteggeva l'uomo dall'ambiente ad una in cui la tecnologia deve servire per proteggere l'ambiente dall'uomo.
Il dramma della nostra epoca, continua Peccei, è la dicotomia fra il potere che abbiamo e la poca saggezza e razionalità con cui lo applichiamo, assistiamo ad un doppio accrescimento esponenziale dell'uomo, come numero e come potere.
Occorre allora acquisire le dimensioni concettuali di un pensiero realmente avanzato, dimensioni che devono essere:
1) dimensione sistemica (il sistema internazionale comprende singoli sistemi interconnessi con altri sistemi e sottosistemi di sistemi più ampi che li condizionano);
2) dimensione globale, o "ecumenica";
3) dimensione diacronica (la visione e la giustificazione delle nostre azioni e decisioni deve essere di lungo periodo anziché basarsi su contingenze a breve termine);
4) dimensione normativa, che è la più importante e che consiste nello stabilire obiettivi globali a lunga scadenza per l'umanità.
Raramente controlliamo la direzione della nostra corsa o ci chiediamo quanto costi o quale ne sia il significato ultimo; inoltre le nostre capacità di previsione e di programmazione sono ancora poco sviluppate. La problematica mondiale non può essere affrontata infatti con un approccio lineare, sequenziale e frammentario.
Il compito dell'uomo deve essere quello di leader del processo evolutivo sulla terra, finora prerogativa della natura; la saggezza ecologica consiste nella capacità di:
- comprendere le condizioni dinamiche del nostro ambiente naturale-artificiale;
- scegliere serie armoniche di obiettivi a breve e a lunga scadenza;
- realizzare ed organizzare meccanismi artificali di preallarme, pianificazione e feedback ad integrazione di quelli naturali.
Peccei riepiloga i principali problemi affrontati nella riunione di Salisburgo del febbraio 1974, che all'epoca erano:
Etica e priorità politiche
nuove strutture di pace basate sulla giustizia (distensione e disarmo), sacrifici locali per benefici a lungo termine, maggiore solidarietà, distinguere fra necessità e bisogni, limitare lo spreco, creare forze e meccanismi per assistere i politici ad assumere una visione di lungo periodo.
Localizzazione delle industrie
trasferimento in regioni meno sviluppate, localizzazione dove esiste surplus di offerta di lavoro.
Sviluppo
sviluppo economico selettivo diretto ai bisogni della popolazione, diminuzione delle ineguaglianze, che precede la riduzione dello sviluppo materiale (delle società e tra le società).
Popolazione
problemi di disoccupazione, di raddoppio della popolazione, di nuove e migliori tecnologie, di maggiore sviluppo economico per quei paesi con aumenti sostanziali delle popolazione.
Risorse
relazioni di prezzo più eque e trasparenti tra materie prime e prodotti, controllo e regolamentazione delle società multinazionali, spostamento delle risorse dagli armamenti allo sviluppo economico-sociale, implicazioni derivanti dal disavanzo alimentare, dall'inflazione, da più alti prezzi dell'energia.
Istituzioni nazionali e internazionali
inadeguatezza delle istituzioni politiche e sociali, eredità coloniali, necessità di una carta dei diritti e dei doveri economici degli stati, di rafforzare le istituzioni internazionali, di cooperazione economica, di nuovi modelli di sviluppo, di meccanismi più razionali per rendere operative le strategie globali.
Possiamo valutare, oggi, quanti dei problemi sollevati all'epoca da Peccei sono stati risolti, quanti devono ancora essere risolti, quanti altri se ne sono aggiunti; nel 2004, a trent’anni dalla pubblicazione de I limiti dello sviluppo, un’operazione del genere è stata fatta con la ricerca I nuovi limiti dello sviluppo (op.cit.):  anche dal punto di vista della problematica mondiale, potremmo dire, la storia continua...

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

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- Antonella Besussi, LA SOCIETÀ MIGLIORE (ed. il Saggiatore, Milano 1992)
- Norberto Bobbio, QUALE SOCIALISMO? (ed.Einaudi, Torino 1970)
- Norberto Bobbio, IL PROBLEMA DELLA GUERRA E LE VIE DELLA PACE (1979/ed. il Mulino, Bologna 1984)
- Giuliano Cazzola, RISCOPRIRE ROOSEVELT E IL NEW DEAL (in MondOperaio, 5/1990)
- John Dunn, LA TEORIA POLITICA DI FRONTE AL FUTURO (ed. Feltrinelli, Milano 1983)
- Anthony Giddens, LA TERZA VIA. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia (ed. il Saggiatore, Milano 1999)
- Anthony Giddens, COGLIERE L'OCCASIONE (The Third Way and its Critics, Carocci editore, Roma 2000)
- Albert O. Hirschman, COME FAR PASSARE LE RIFORME (ed. il Mulino, Bologna 1990)
- Donella e Dennis Meadows, Jorgen Randers, I NUOVI LIMITI DELLO SVILUPPO (ed. Mondadori, Milano 2006)
- Aurelio Peccei QUALE FUTURO? (ed. Est Mondadori, Milano 1974)
- Arthur M. Schlesinger Jr., I MILLE GIORNI DI JOHN F.KENNEDY (Ed. Rizzoli, Milano 1998)
- Max Weber, LA SOCIETÀ BUROCRATICA (conferenza tenuta a Vienna nel 1918)
- Max Weber, LA POLITICA COME PROFESSIONE (Politik als beruf, 1919/ed. Anabasi, Milano 1994)


7- RIFORMISMO E POLITICHE PUBBLICHE

7-1 UNA CLASSIFICAZIONE DELLE POLITICHE PUBBLICHE

Le politiche pubbliche, scrive Bruno Dente (Le politiche pubbliche in Italia, op.cit.), sono azioni di soggetti (attori) orientate alla soluzione di problemi collettivi; le decisioni riguardano il se (ad esempio se fare o meno una legge), che cosa (i principi), entro quando (la tempistica); i nessi sono temporali (sequenziali) e causali (che riguardano le conseguenze). La situazione reale è caratterizzata da un reticolo decisionale in cui ogni attore recita più ruoli, e dalla dicotomia decisione/attuazione (cit., pagg.15-16, 173, 265, 271).
Le politiche possono essere (pagg.18-21):
- regolative (di comportamenti);
- distributive (erogatorie);
- redistributive (di trasferimento da alcuni soggetti ad altri soggetti);
- costitutive (organizzative e procedurali);
- simboliche (credenze: la politica estera e molta legislazione penale hanno un carattere simbolico).
Gli attori delle politiche pubbliche possono essere istituzioni preposte (anche subnazionali e sovranazionali), partiti (soprattutto quando “piazzano” loro uomini), magistrature, burocrazie, esperti, gruppi di interesse istituzionali, economici, ecc. (pagg.26-34, 107, 358).
Gli attori possono agire con razionalità economica (dando attenzione alle risorse), burocratica (privilegiando ruoli e funzioni), scientifico-professionale, etica (solidarietà, volontariato), politica (interessata al consenso, pag.396).
L’accumularsi di problemi porta alle decisioni di emergenza, che sono decisioni reattive anziché anticipatorie (pagg.41-43); inoltre alcune politiche determinano gli esiti di altre, come le riforme istituzionali e la politica monetaria.
Una decisione efficace raggiunge gli obiettivi voluti, una decisione efficiente riduce al minimo le risorse necessarie (pag.379, nota).
Politiche regolative-redistributive con una pluralità di attori e su questioni segmentabili, rischiano di diventare distributive e gli interessi privati dei diversi attori, nessuno dei quali è in posizione dominante, rischiano di prendere il sopravvento sugli interessi diffusi della collettività (interazioni logrolling, pag.380).
La democrazia ha un significato procedurale (di partecipazione, di autogoverno) ed uno sostanziale, che consiste invece nel soddisfare i bisogni dei cittadini. Il costituzionalismo metodologico confonde la descrizione della realtà con la prescrizione, ma l’efficacia di una decisione è data dalla sua capacità attuativa e non solo da quella declaratoria (pagg.11-12 e 61).

Dente individua quattro gruppi di politiche pubbliche: istituzionali, economiche, territoriali, sociali.
Elenchiamole sinteticamente, evidenziando come ogni titolo potrebbe, da solo, essere approfondito in più libri (di analisi storica, descrittiva, prescrittiva, metodologica, deontologica, ecc.).

1) POLITICHE ISTITUZIONALI (pagg.51-66, 95-117, 141-142):
- POLITICA ESTERA: è “la più antica politica pubblica dello Stato” (pag.51) ed è interattiva comportando distinzioni di action/reaction ed esterno/interno; gli attori sono politico-istituzionali ma anche gruppi, mass media, figure individuali, associazioni, organizzazioni internazionali.
- POLITICA MILITARE, intesa come politica di difesa, come politica di sicurezza, come ordine pubblico.
- POLITICA DELLA GIUSTIZIA ed influenza dei magistrati sulla politica.
- POLITICA DELLA RIFORMA ISTITUZIONALE che è una superpolitica pubblica che spazia dalle riforme costituzionali alle autonomie locali all’autoriforma degli attori stessi del sistema politico.
- POLITICA DI RIFORMA AMMINISTRATIVA, che riguarda l’economicità, l’efficienza, lo sviluppo per ministeri, enti pubblici, enti locali.
- POLITICA DI RIFORMA DEL GOVERNO LOCALE.
Tutte le riforme possono essere sistemiche ma anche (e/o) partigiane, i contenuti possono essere regolativi e/o amministrativo-procedurali; i partiti godono spesso di un “potere negativo” (chi vieta?) e la tesi del “paradosso della riforma” induce a soluzioni che talvolta sono conservatrici.

2) POLITICHE ECONOMICHE (pagg.214-251)
- POLITICHE MONETARIE.
- POLITICHE FISCALI, che sono fortemente influenzate da esperti e da lobbisti.
- POLITICHE DELL’AGRICOLTURA.
- POLITICHE INDUSTRIALI, che possono essere di tipo strutturale, di reindustrializzazione, di riallocazione, di sviluppo di nuove industrie. La politica industriale può avere logiche strutturali, ovvero di competitività generale, o di problem-solving, ovvero di gestione di singole crisi; fra gli strumenti utilizzati vi sono il credito all’esportazione, il protezionismo, le politiche fiscali e la fiscalizzazione degli oneri sociali, con interventi che possono essere “di piano” o “a pioggia”.
- POLITICHE PER IL MEZZOGIORNO.
- POLITICHE DEL LAVORO, che comprendono: politiche per la tutela della salute e dei diritti civili; politiche del mercato del lavoro; politiche di garanzia del reddito in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vecchiaia; politiche delle relazioni industriali e sindacali; politica dei redditi; politiche della flessibilità relativamente all'occupazione giovanile, alle donne, ecc. Talvolta assistiamo a scambi di provvedimenti e di risorse in materia fiscale, investimenti nel Mezzogiorno, equo canone, ecc.; le politiche per l’occupazione possono essere erogatorie se danno incentivi, regolative se pongono vincoli o la loro abolizione, organizzative se volte all'orientamento ed alla riqualificazione.
Nelle politiche del lavoro giocano un ruolo sia i sindacati che gli esperti e la cultura giuridico-formalista spesso prevale su quella sociologica, con conseguente produzione di una legislazione torrentizia che talvolta crea problemi invece di risolverli.

3) POLITICHE TERRITORIALI (pagg.260-339).
- POLITICHE DELLE RETI, che riguardano energia, trasporti, telecomunicazioni.
- POLITICHE URBANISTICHE, che riguardano le trasformazioni fisiche del territorio, la pianificazione, le esternalità, ma anche POLITICA URBANA, che concerne invece più gli insediamenti ed il loro uso.
- POLITICHE AMBIENTALI, che riguardano principalmente le esternalità negative: inquinamento atmosferico, idrico, acustico, rifiuti; qui è rilevante il ruolo degli esperti, che peraltro sono spesso in conflitto fra loro, ma anche dei movimenti ecologisti e della magistratura. Le politiche ambientali si svolgono a più livelli (comunitario, nazionale, regionale, locale) e spesso soono vincolate alla soluzione pragmatica di problemi esistenti piuttosto che a determinare nuove possibilità.
- POLITICHE DELLA CASA.
- POLITICHE DEI BENI CULTURALI, quali sono i beni archeologici, artistici e storici, ambientali, archivistici, librari; i beni culturali come beni immateriali sono sia valori da proteggere (conservazione, e quindi politica regolativa) che risorse da sfruttare (problema del loro uso, della fruizione di massa, delle sponsorizzazioni).

4) POLITICHE SOCIALI (pagg.349-384).
- SCUOLA E CULTURA.
- POLITICHE PENSIONISTICHE E DEI SERVIZI per gli anziani, gli invalidi, ecc., che devono tenere conto di dinamiche demografiche, economiche e culturali.
- POLITICHE ASSISTENZIALI, che storicamente vanno dalla beneficienza delle opere pie al sistema pubblico di sicurezza sociale (welfare state).
- POLITICHE SANITARIE che comprendono molteplici temi: informazione, prevenzione, educazione, qualificazione, sanità veterinaria, igiene alimentare, emergenze, salute nel lavoro e nello sport, tutela materno-infantile, anziani, disabili, tossicodipendenti.

Per quanto riguarda le riforme elettorali, Maurice Duverger (I sistemi politici, op.cit.) osserva che il sistema elettorale può essere di tipo maggioritario (semplice o a due turni), di tipo proporzionale (uninominale o plurinominale, quest'ultimo con più candidati per ogni circoscrizione), o di tipo misto (semimaggioritario o semiproporzionale, pag.267 e seguenti); la rappresentanza proporzionale (che a differenza di quella maggioritaria è compatibile solo col suffragio plurinominale) può determinarsi col sistema del quoziente elettorale, cioè dividendo i voti espressi per il numero di candidati eleggibili, oppure con un numero uniforme determinato in anticipo (pag.107 e seguenti).
Il regime politico delle democrazie liberali può essere parlamentare o presidenziale; il pluralismo partitico che caratterizza le democrazie liberali (che sono definite da Duverger come regimi parlamentari, pagg.143, 149 e seg.) può essere il bipartitismo (come nei sistemi maggioritari, pag.118), oppure il pluripartitismo (che porta a "democrazie mediate", ossia a governi di coalizione, pag.114); Duverger analizza anche il caso del "partito dominante" (pag.153), e quello "direttoriale" (pag.299).
I poteri del parlamento sull'esecutivo possono essere di delimitazione, controllo, rivendicazione, opposizione (pag.131 e seguenti); le seconde Camere, storicamente, possono essere democratiche, federali, aristocratiche, economiche (pag.135 e seguenti). In ogni caso, il voto di sfiducia è l'elemento fondamentale dei regimi parlamentari (pag.144).
I regimi presidenziali possono essere puri (presidente eletto a suffragio universale, bonapartismo, pag.289) o semipresidenziali (pag.158 e seguenti).
L'obbedienza alle norme, che sono regole di condotta collettiva, si fonda principalmente sul valore che viene loro riconosciuto da un sistema di valori, piuttosto che sulle sanzioni; il diritto è parte della cultura, nasce prima come diritto privato e diritto penale, poi come diritto amministrativo e diritto costituzionale (pagg.5-7).
Il concetto di Costituzione, osserva Duverger, è legato a quello di "patto", nel preambolo di ogni costituzione vi sono sempre Dichiarazioni di Diritti (pag.183); la costituzione può essere rigida oppure flessibile, in quest’ultimo caso è modificabile con leggi ordinarie (pagg.8-9 e 184).

7-2 INTERVENTI SULLE POLITICHE PUBBLICHE

In questo paragrafo cercheremo di analizzare alcuni spunti che emergono sia da testi più tecnici che da "libri critici", e che possono tornare utili, in vario modo, a chi si occupa di attività di riforma.
Le riforme rispondono a sfide (diseguaglianze) e richiedono strategie (visioni d'insieme) di lungo periodo: le materie del welfare (assistenza, previdenza, fisco, lavoro, istruzione, sanità, sviluppo) sono strettamente connesse, esiste una forte continuità nelle istituzioni e nelle culture che impedisce cambiamenti bruschi, occorre un consenso vasto che spesso sfocia in compromessi (Michele Salvati, cit., pagg.155-156, pag.171 e seguenti); talvolta è necessario innovare il sistema delle tutele, ad esempio in tema di lavoro passando dal modello mediterraneo (tutela del posto) a quello europeo (tutela del mercato, pag.167 e seguenti; cfr. anche Ferdinando Targetti pag.181 e Tiziano Treu pag.206). Le maggiori novità degli ultimi anni, osserva Tiziano Treu (pagg.216-217), sono la moltiplicazione di nuovi lavori e la crescita della popolazione anziana.
I problemi della trappola della povertà, del fiscal drag e del welfare to work (tutele di reddito piuttosto che tutele d'azienda) sono discussi in particolare da Ferdinando Targetti a pagg.185-191 del volume citato; obiettivi di una riforma del mercato del lavoro sono maggiore occupazione, pari opportunità, minore precarizzazione (pag.180). Le riforme hanno un costo e non si può prescindere da considerazioni di finanza pubblica (pag.199), ma risolvere i problemi del conto economico delle finanze pubbliche attraverso interventi di stato patrimoniale, osserva Debenedetti, è illusorio e non lungimirante (pag.149).

Secondo Yves Meny e Jean-Claude Thoenig (Le politiche pubbliche, op. cit.) l'attività di governo consiste in atti simbolici, dichiarazioni di intenti, non-decisioni, gestione amministrativa degli apparati pubblici, politiche pubbliche: solo queste ultime sono programmi d'azione finalizzati a produrre cambiamenti nei comportamenti collettivi, e solo queste ultime, aggiungiamo noi, sono interessanti per la prospettiva riformista. Ma alla domanda "chi decide cosa?" è spesso difficile dare una risposta precisa, perché i soggetti delle politiche pubbliche sono mutevoli: alla storica relazione orizzontale (gruppi sociali ed economici in competizione-conflitto) è subentrata una relazione verticale in cui i decisori effettivi diventano gli stessi soggetti che formalmente dovrebbero essere soltanto esecutori delle politiche pubbliche; la visione tradizionale top-down che consiste nella sequenza gerarchica centro-periferia (decisione-esecuzione) è sostituita dalla prospettiva bottom up, in cui sono gli esecutori della politica pubblica ad avere un ruolo politico.
Gli esecutori delle politiche pubbliche sono infatti in grado di stravolgere sia gli obiettivi che le realizzazioni di una politica pubblica, attraverso comportamenti di rigore applicativo (attenersi scrupoloso alle norme), discrezionalità (adattamento alle circostanze), accomodamento negoziato (deroga a propri clienti esterni). L'autorità pubblica, che ufficialmente decide, si caratterizza per una limitata razionalità: ha poco tempo per decidere, dispone di poche e costose informazioni, pochi criteri di scelta ed ha necessità di porre fine all'incertezza; la sua limitata razionalità, sommata ai vincoli imposti dalle situazioni esterne, obbliga il decisore "ufficiale" a ricorrere a negoziati, compromessi, precedenti, criteri pseudo-scientifici per trovare una soluzione soddisfacente tralasciando quella ottima e delegando l'esecuzione della politica pubblica ad un apparato pubblico che se ne appropria. Capita così che a decisioni importanti prese non corrispondano date precise né responsabili chiaramente identificati, come nel caso della bomba atomica francese che, scrivono gli Autori, "non è stata oggetto di una scelta: essa ha preso corpo poco a poco, passo per passo, fino a che un giorno la Francia si è svegliata con un embrione di arsenale bellico nucleare a propria disposizione" (pag.161).
Il potere politico appropriato dagli esecutori fa sì che l'azione pubblica non sia di tipo lineare (causa-effetto) ma si evolva in un contesto sistemico: causa-sistema-effetti molteplici.

Di assoluta rilevanza per ogni politica economica riformista è l’insegnamento di John Maynard Keynes, in particolare per quanto riguarda il ruolo attivo dello Stato come attore economico e la sua importanza per favorire politiche di piena occupazione. Keynes nacque nel 1883, lo stesso anno in cui morì Karl Marx; una coincidenza che è piena di significati, anche politici oltre che economici, soprattutto per quanto riguardava le prospettive del capitalismo: Marx era infatti il maggior teorico del catastrofismo, conseguenza di una teoria economica che egli riteneva fondata su basi scientifiche; il futuro era prevedibile, ed il crollo definitivo del sistema capitalistico pure. Keynes era al contrario il maggior teorico del riformismo in campo economico: il sistema capitalistico è come un motore che, di tanto in tanto, si guasta ed ha bisogno di interventi correttivi da parte di un soggetto esterno al sistema economico stesso, che egli individuava nello Stato e nelle sue politiche economiche di spesa pubblica.
L’importanza di Keynes è evidente nei periodi di recessione economica, quando i suoi libri tornano in bella vista negli scaffali delle librerie; la lezione di Keynes, il suo riformismo interventista in campo economico, è attuale oggi come lo era ai tempi della Grande Depressione, quando i suoi insegnamenti servirono per uscire dalla crisi; scrive a tale proposito Hyman P. Minsky: “la Teoria generale fu il frutto dell’unione tra la fredda razionalità dell’economista di professione e l’impegno dell’uomo animato da una convinta fede di tipo riformista” (cit., pag.16).
Il nucleo analitico fondamentale della Teoria generale, secondo Minsky, è stato in gran parte trascurato se non ignorato dagli economisti, in particolare tutta la parte dell’analisi keynesiana che riguarda le condizioni d’incertezza in cui si formano le decisioni degli operatori economici, il carattere ciclico dell’economia capitalistica e, non ultimo, il ruolo fondamentale che  riveste l’economia finanziaria del capitalismo avanzato, “il ruolo che le interrelazioni finanziarie, con la loro instabilità e facile perturbabilità, svolgono nel determinare le varie fasi del ciclo economico” (cit., pag.7).
Caratteristica fondamentale del ciclo economico è che nessuno dei suoi stati è permanente, in quanto ciascuno contiene elementi e forze che tenderanno a rovesciarlo; la stabilità è dunque destabilizzante: “non appena ci si approssima a qualcosa di simile alla stabilità, subito entrano in azione dei processi destabilizzanti” (cit., pag.83).
Mentre l’instabilità degli investimenti è la causa immediata del ciclo economico, la causa di fondo per Minsky deve essere invece “individuata nell’instabilità della composizione dei portafogli e delle interrelazioni finanziarie” (cit., pag.77). Keynes, egli osserva, aveva due diverse idee di ciclo economico: una debole legata al “modello acceleratore-moltiplicatore”, l’altra ben più accentuata con oscillazioni repentine fra stati di boom e stati di crisi.
Ma il problema politico fondamentale, per Keynes, era quello di riuscire a coniugare efficienza economica, giustizia sociale e libertà individuale, nel contesto dell’economia capitalistica. E mentre il laissez-faire portava a politiche economiche inadeguate, il programma politico di Keynes, al contrario, si dimostrava efficace in quanto era “articolato in tre punti: socializzazione degli investimenti, modifica della distribuzione del reddito e adozione di un meccanismo di mercato decentralizzato” (Minsky, pag.194).
Keynes considerava giustificabile la disuguaglianza di reddito che deriva da abilità imprenditoriali, non giustificabile nvece quella dei rentier, la rendita che deriva dalla pura proprietà della ricchezza. Per eliminare definitivamente le rendite, secondo Keynes era necessario conseguire “uno stato di piena occupazione, senza guerre e senza crescita demografica” (Minsky, pag.197). I beni fondamentali erano quelli in grado di soddisfare bisogni assoluti (cibo, abitazione, salute) piuttosto che quelli relativi, e fra i beni fondamentali vi erano anche gli affetti, i rapporti personali e la cultura. Ma, osserva Minsky, “i ceti più abbienti, invece di consumare filosofia e cultura, hanno consumato beni ad alta intensità di capitale, dando poi il cattivo esempio ai ceti medi.  (…) Ai giorni nostri lo stato di opulenza non ha fatto aumentare la domanda di piacevoli attività intellettuali, ma anzi ha favorito l’incremento della domanda di beni la cui produzione necessita di beni capitali” (cit., pag.200). Il pieno impiego viene garantito dalle spese militari e da investimenti privati dai discutibili benefici futuri; la corsa agli armamenti con l’introduzione di nuove armi sempre più avanzate, in particolare, dal punto di vista delle conseguenze economiche è simile a quella di un conflitto vero e proprio. Mentre il sostegno indiscriminato agli investimenti privati produce consumo superfluo e senza limiti, decadimento della qualità della vita, danni ambientali e quant’altro.
Il messaggio keynesiano, secondo Minsky, può essere così riassunto: “un ampio settore pubblico, finanziato parzialmente ricorrendo a deficit di bilancio, è in grado di raggiungere e mantenere una condizione assai prossima al pieno impiego” (cit., pag.205). Di fondamentale importanza, per Minsky, è anche il supporto al consumo, attraverso politiche orientate ad una distribuzione più equa dei redditi: “secondo Keynes, per mantenere la piena occupazione era necessario socializzare gli investimenti e far slittare verso l’alto la funzione del consumo” (cit., pag.207). Piena occupazione ed equa distribuzione dei redditi erano, infatti, i due obiettivi prioritari delle politiche keynesiane.

Anche Lester C.Thurow sostiene la necessità dell'intervento dello Stato per garantire il pieno impiego, perché l'iniziativa privata da sola non è in grado di raggiungere questo obiettivo (La società a somma zero, pag.281); ma per lo Stato è più facile costruire programmi di assistenza piuttosto che programmi di occupazione.
Il ruolo attivo dello Stato nell'economia è fondamentale anche per il benessere della classe media: essa infatti beneficia della spesa pubblica, sia quella diretta che quella indiretta (pag.232).
Per quanto riguarda il dibattito sulle regolamentazioni, Thurow osserva che:
- spesso le regolamentazioni hanno per oggetto sovvenzioni per colmare perdite in certi settori utilizzando profitti da altri settori (pag.192): le spese di trasporto nei centri meno popolati vengono finanziate da quelli più popolati, le telefonate aziendali e interurbane finanziano quelle private e urbane, ecc;
- il dibattito sulla regolamentazione non discrimina la destra dalla sinistra, perché entrambe cambiano posizione a seconda della materia in discussione (pag.196);
- leggi e regolamenti possono essere utilizzati sia per favorire che per bloccare lo sviluppo economico (pag.198);
- ogni nuova regolamentazione produce altre regolamentazioni: una legislazione che protegge un gruppo può danneggiarne altri e richiedere nuova legislazione, "se si protegge l'acciaio, molto probabilmente si dovrà proteggere l'industria automobilistica" (pag.198).
I principali strumenti a disposizione di coloro che sono preposti alla regolamentazione sono due: norme che influenzano le produzioni e le quantità (norme q), oppure norme che cercano di influenzare i prezzi con tasse o sussidi (norme p); scrive Thurow: "in generale si è fatto troppo affidamento sulle norme di tipo q, e non abbastanza su quelle di tipo p. Con le norme di tipo p il legislatore cerca di trarre vantaggio dagli incentivi di mercato, invece di controbatterli come nel caso di norme di tipo q"

Fred Hirsch (I limiti sociali allo sviluppo, op. cit.) evidenzia come molti beni siano sociali: la soddisfazione che se ne può ricavare dipende anche dal consumo altrui (pag.11).
Maggiore è la ricchezza ottenibile da tutti (economia materiale o ricchezza democratica) maggiore è la lotta per la ricchezza ottenibile soltanto da alcuni (economia posizionale o ricchezza oligarchica, pag.35): si tratta di beni scarsi nella loro produzione o soggetti a congestione nel loro uso (pagg.37-38). Il prezzo dei beni posizionali è soggetto ad aumenti sia sul lato offerta che su quello domanda; la domanda in eccesso di beni posizionali provoca affollamento, che può essere risolto o mediante selezione (ostacoli) oppure a mezzo asta (es. tassazione). Se rimane irrisolta, tale domanda produce congestione, e quindi riduzione di attrattiva per il bene stesso: il processo di scavalcamento che ne consegue crea spreco sociale (pagg.40-49). Secondo Hirsch l'inflazione di titoli scolastici allunga il processo di selezione e produce spreco sociale sia perché richiede maggiori risorse sia perché produce frustrazione (vi è un deficit di prestazione, pag.61). La concorrenza materiale è un gioco a somma positiva, quella posizionale è invece un gioco a somma zero: "si allunga la gara per un premio che resta invariato" (pag.75). Allungare il percorso per risolvere la maggiore concorrenza sui beni posizionali è poi un gioco a somma negativa (pag.177).
Il reddito relativo è ciò che determina la possibilità di consumare beni posizionali (pag.110). Poste più piccole, secondo Hirsch, riducono gli ostacoli (che sono sprechi sociali) e la concorrenza posizionale (pag.188); soddisfazione nel lavoro ed alta remunerazione spesso si accompagnano, occorrerebbe collocare parte dei beni posizionali fuori dal mercato (pagg.190-191), "far retrocedere i limiti di quanto si può ottenere individualmente" (piani regolatori, ecc., pag.196).
Vi sono limiti non solo nella produzione ma anche nell'assorbimento (deterioramento della qualità per congestione sociale): i limiti allo sviluppo non sono solo materiali (come evidenzia, ad esempio, il Club di Roma) ma anche sociali (pag.12). Esiste un problema di addizione: nessuno vede meglio se tutti stanno in punta di piedi (pag.13); la crescita, l'opulenza genera congestione e quindi frustrazione (vi è un paradosso dell'opulenza, pag.16) e le soluzioni non possono essere individuali (interesse personale) ma solo collettive (principi sociali, pagg.19-22).
I limiti fisici (limiti di produzione) possono essere superati grazie al progresso tecnologico, quelli sociali no (limiti di consumo, pag.30).
La scarsità sociale può essere diretta, quando "la soddisfazione deriva dalla scarsità stessa" (cit., pag.31) o incidentale, che Hirsch distingue ulteriormente in congestione sociale (di occasioni, di leadership, di mode) e congestione fisica (di traffico). In un contesto di distribuzione disuguale, la scarsità causa aumento di prezzi, in un contesto di distribuzione uguale è causa di razionamento (pag.34).
La concorrenza per i beni posizionali in una società povera è minore (pag.74); in una società ricca deteriora l'ambiente sociale, ma non significa di per sé che vi sia cattiva allocazione, se ci sono modi alternativi per soddisfare la domanda; la deviazione dei segnali è tale in questo caso da rendere fuorviante la domanda individuale: se ciascuno potesse vedere i risultati delle scelte collettive agirebbe infatti in modo diverso (pag.62). La felicità, osserva Hirsch, non aumenta con l'incrementarsi dei redditi, mentre aumentano i bisogni (pag.120).
L'attività economica nazionale viene misurata "senza badare ai suoi scopi" (pag.66): il consumo difensivo è una risposta alla riduzione del benessere, è motivato dalla necessità di proteggere la propria posizione (pagg.71-72). Oltre alla pressione sullo spazio geografico e su quello sociale, vi è anche pressione sul tempo: il tempo tende individualmente a diventare più scarso rispetto a quantità maggiori di beni materiali a disposizione, che offrono modi alternativi di impiegarlo; i beni di consumo ad elevata intensità di tempo tendono perciò ad essere sostituiti con altri beni e servizi che risparmiano tempo, aumentano i consumi intermedi che permettono altri consumi (es. i servizi domestici). La concorrenza posizionale ha un costo anche in termini di tempo, i rapporti familiari e di amicizia richiedono tempo e tendono ad essere economizzati (pagg.81-86).
La produttività personale nei servizi, osserva Hirsch, non è misurabile oggettivamente, occorre effettuare una selezione del capitale umano (pagg.53-54).
Il calcolo individualistico e l'aumento della mobilità erodono la socievolezza e la rendono un bene più pubblico che privato (pag.88 e 91).
La fiducia si riduce col maggiore uso di contratti formali, norme convenzionali vengono così "privatizzate" (pag.96); il mercato è inefficiente nell'erogazione collettiva di norme sociali e riesce a soddisfare solo domande commercializzabili (deviazione della merce: "i bar sono fatti per la birra e non per la conversazione", pag.98), e lo fa mediante l'estensione di barriere e mezzi di esclusione: diritti di proprietà, leggi restrittive, cancelli; ciò avviene paradossalmente in nome di maggiore libertà (pag.100).
Riducendosi i vincoli tradizionali e religiosi che erano a fondamento dell'individualismo delle origini ("virtù borghese", pag.143), il dovere di sostenere una società giusta diventa il fondamento dell'obbligo politico (pag.139). La coesione sociale è necessaria per l'efficienza del mercato, e ciò che conta per la coesione sociale è il comportamento altruistico (come se), non le motivazioni o i valori sottostanti (religiosi, ecc., pag.145-149); l'alternativa è infatti la coazione. Altruismo e scambio per Hirsch "si sorreggono a vicenda" (pag.153); il comportamento solo individualistico ostacola la soddisfazione delle preferenze individuali (dilemma fra bisogni individuali e bisogni sociali, pagg.157 e 185): il comportamento razionale individuale può produrre irrazionalità sociale, vi è incongruenza fra motivazione individuale e risultato sociale, e indeterminatezza dei costi per l'individuo (pagg.101, 117, 128, 156).
I limiti sociali allo sviluppo sono determinati dalla scarsità e dall'esigenza di moralità sociale piuttosto che individuale (pag.125 e 132).
L'ugualitarismo dinamico fa sì che i beni di lusso di una generazione, che sono in condizione di disuguaglianza statica per quella generazione, siano resi disponibili o addirittura divengano bisogni per le generazioni successive (pag.171). L'uguaglianza economica, a differenza di quella politica, legale, sociale, è ambigua (chi, cosa, quando, pag.179).
Il processo di crescita delude le sue promesse, in quanto porta alla scarsità sociale: è il cosiddetto paradosso dell'opulenza; inoltre nel settore posizionale non livella verso l'alto (pagg.180-181).

Per Ivan Illich (Descolarizzare la società, op.cit.) sono istituzioni manipolatrici la scuola, le forze armate, le prigioni, i manicomi, gli ospizi, gli orfanotrofi (pagg.84-86); sono invece istituzioni conviviali i servizi postali, telefonici, dell'acqua (pag.87), le strade aperte a tutti (pag.91); il sistema autostradale secondo Illich è invece soltanto un accessorio delle auto private (pagg.91-92). L'assistenza sanitaria, il commercio, l'amministrazione del personale e la vita politica sono istituzioni che convergono "all'estremità manipolatrice del nostro spettro" (pag.96), la quale trascende le tradizionali distinzioni fra destra e sinistra (pag.85).
Illich propone di rilasciare ad ogni cittadino, fin dalla nascita, una carta di credito educativo (pag.30); la riforma dell'istruzione deve innanzitutto restituire l'iniziativa dell'apprendimento "al discente o al suo tutore più immediato" (pag.34) e togliere l'obbligo di frequenza.
Le leggi devono estendere a tutti la libertà accademica (pag.135); Illich individua quattro procedimenti per accedere alle risorse didattiche (pag.119):
a) servizi per la consultazione di oggetti didattici (con bibliotecari, guide di museo, ecc., pag.127);
b) centrali delle capacità (dimostratori, banca per gli scambi di capacità; pagg.132-136);
c) assortimento degli eguali (pagg.131, 138-139, 144);
d) servizi per la consultazione di educatori (pag.141).
Obiettivi sono:
- liberare l'accesso alle cose,
- liberare la trasmissione delle capacità,
- liberare le risorse critiche e creative,
- liberare l'individuo dalla necessità di adattarsi ai servizi offerti dai professionisti (pag.154).
Eliminando le restrizioni all'insegnamento, secondo Illich spariranno anche quelle all'apprendimento, attraverso "liberi centri di preparazione tecnica aperti a tutti" (pag.135).

Lewis Mumford (La città nella storia ,op.cit.) osservava già nel 1961 come ieri la città fosse un mondo, e che oggi il mondo è diventato una città. La vita umana è caratterizzata da movimento e da stanziamento; la città è "emergente" nella comunità paleo-neolitica: secondo Lloyd Morgan e William Morton Wheeler, osserva Mumford, l'evoluzione emergente si verifica quando l'introduzione di un fattore nuovo non aumenta solo la massa esistente, ma provoca un mutamento radicale; le potenzialità diventano ora visibili e non avrebbero potuto essere individuale nella fase preemergente.
Megalopoli sta diventando rapidamente una forma universale e l'economia dominante è un'economia metropolitana in cui nessuna iniziativa è efficace senza stretti legami con la grande città; i criteri del mercato e della fabbrica vengono estesi alle altre istituzioni della metropoli, diventa un'esigenza urbana fondamentale avere la più grande università, il più grande ospedale, la più grande banca, ecc. Benché in espansione dinamica, questo sistema diventa sempre più rigido e sempre meno capace di affrontare situazioni nuove, anche se Mumford affermava (all'epoca) che la cultura moderna è ormai cultura mondiale, con maggiori potenzialità rispetto a qualsiasi civiltà precedente.
I fenomeni di agglomerazione e congestione sono provocati; le reti ferroviarie, per esempio, furono progettate in modo da costringere passeggeri e merci a raggiungere la metropoli prima di ogni altra località. La metropoli, precisa l'Autore, è una città storica cresciuta eccessivamente, è una entità, mentre la conurbazione, al contrario, è una non-entità, è una "città-regione".
La forma della metropoli è l'informità, la sua meta è l'espansione senza meta; attività umane spontanee come le chiacchiere quotidiane vengono sostituite da qualche dozzina di professionisti che interpretano sui giornali o per tv tutto ciò che accade: nel mondo metropolitano le masse vivono per interposte persone come lettori, spettatori, ascoltatori, osservatori passivi. I problemi della metropoli sono riflessi di una civiltà in espansione con mezzi scientifici e fini vuoti, primitivi e irrazionali; l'assoggettamento alla macchina travolge le salvaguardie della vita e la stessa legge della conservazione, come accade negli incidenti automobilistici, o col potere nucleare.
Oggi non c'è più bisogno di vivere in un grosso centro per partecipare ad una particolare attività: la città invisibile fa sì che molte funzioni originarie della città siano state trasposte in modo da poter essere trasportate con rapidità, riprodotte con mezzi meccanici, diffuse elettronicamente e distribuite in tutto il mondo; ciò renderà possibile l'esistenza su vasta scala di associazioni interculturali e la nuova città-regione, visibile e invisibile, ne diverrà lo strumento principale.

Galbraith (L’età dell’incertezza, op.cit.) osserva in proposito che la città post-industriale, o metropoli, comprende varie città al suo interno:
- la città politica, estensione della dimora di un governante, caratterizzata da stile unitario, simmetria, monumenti eretti al dispotismo di tempi andati e che oggi richiamano turisti;
- la città mercantile, caratterizzata da unitarietà di gusto e sensibilità allo stile dominante nella propria epoca (il prestigio del mercante era proporzionale alla qualità ed allo stile della propria casa);
- la città industriale, di stile non unitario (eredità estetica del capitalismo liberale), brutta ma funzionale per economicità di costi, migliore in Europa che negli Stati Uniti; sua variante è la città aziendale, sgraziata ed economica, progettata, impiantata ed amministrata dall'industria stessa.
- Infine il campo o "bivacco", quartieri periferici dove abitare, oasi divise secondo varie categorie classiste.
Due, secondo Galbraith, sono le immagini di come si crede debba essere una città:
- la città politica, ritenendo che il governo abbia uno speciale diritto alla grandiosità architettonica ed urbana (la moderna capitale pianificata: Washington, Nuova Delhi, Camberra, Brasilia, Islamabad, ecc.);
- la città mercantile, il cui splendore deriva dall'eleganza dei principali negozi, vie di traffico e quartieri; i centri acquisti si distinguono non per la loro funzionalità ma per dimensioni, sfarzo, visibile costosità.
La crescita urbana crea un nuovo conflitto, fra la vecchia forza-lavoro (ora benestante) e i nuovi immigrati (poveri); la xenofobia razziale aumenta in proporzione inversa alla ricchezza degli appartenenti alla razza.
L'economia privata capitalistica, osserva ancora Galbraith, dà prestazioni che sono:
- eccellenti per i beni che causano problemi alla città (automobili, beni di consumo, rifiuti, ecc.);
- pessime per i beni che risolvono i problemi della città (edilizia, servizi sanitari, trasporti efficienti) e che richiedono invece imprese socializzate. Il reddito viene impiegato nella città politica più per opere pubbliche, mentre nella città industriale più per opere private: perciò in quest'ultima troviamo case pulite e strade sporche, maggiore ricchezza personale e meno polizia per proteggerla, più televisori e meno scuole, e così via. Dalla città industriale consegue un capitalismo efficiente, che però necessita di un aggravio di lavori pubblici necessari e produce rifiuti ed inquinamento.

7-3 RIFORME LOCALI

Nel lungo capitolo sulle politiche pubbliche vanno incluse anche le politiche di livello locale o territoriale: il riformismo nel territorio è un elemento fondamentale di progresso, anche a livello macro, e spesso produce risultati che sono di gran lunga superiori rispetto alle attività di riforma condotte a livello centrale del cosiddetto "Stato-nazione". I soggetti di quello che potremmo anche chiamare il riformismo delle comunità locali sono, principalmente, le amministrazioni pubbliche locali, che per conseguire i loro obiettivi devono operare sempre più di concerto con gli altri attori presenti sul territorio: imprese economiche, rappresentanze di cittadini, associazioni, ecc.
Nel libro Spazio Tempo Territorio (op.cit.) i ricercatori del CDS hanno evidenziato alcuni importanti elementi di questo riformismo delle (e nelle) comunità locali.
Le politiche pubbliche a livello locale devono infatti misurarsi con temi quali lo spazio, il tempo, il territorio, l'economia, l'innovazione; temi peraltro tutti sempre mutevoli ma le cui connessioni si rivelano decisive per conseguire gli obiettivi, anch'essi interrelati, della crescita, del benessere e della coesione sociale.
Gli Autori elencano, in proposito, alcuni comportamenti poco virtuosi delle amministrazioni locali, che in prima istanza ci fanno capire cosa il riformismo locale non deve essere (cit., pagg.44, 63):
- navigare a vista, lavorando solo sul brevissimo termine;
- permangono le sindromi di nanismo e di campanilismo, quando ormai le politiche di sviluppo attraversano i confini amministrativi degli enti locali;
- la fantasia al potere crea progetti spesso dissociati dalla realtà, che però bruciano risorse finanziarie importanti che avrebbero potuto essere impiegate diversamente;
- le città moderne sono i risultati di un "bricolage" di progetti diversi fra loro non coordinati e non pianificati, talvolta derivanti da politiche opportunistiche che colgono singole occasioni dall'esterno (fondi pubblici, iniziative importanti in campo sportivo, artistico, politico, ecc.).
Invece l'approccio metodologico più corretto per una migliore programmazione delle politiche pubbliche deve partire dalle domande piuttosto che dalle risposte, e le soluzioni vanno sempre cercate ponendosi orizzonti vasti temporalmente (di lungo periodo, nonostante le scadenze elettorali siano più ravvicinate), vasti  spazialmente e con approcci interdisciplinari che prevedano anche la partecipazione dei cittadini, individuando gli elementi di forza e quelli di debolezza di un territorio: "nessun progetto può svilupparsi senza l'apporto determinante della comunità locale e, quindi, ritorniamo infine al tema della democrazia (...) senza per questo rinunciare ad indicare sentieri di sviluppo (anche alternativi), 'menù ' su cui i cittadini possano esprimersi e proporre" (cit., pag.52).
Un piano strategico coinvolge un territorio e individua linee strategiche articolate in obiettivi ed azioni puntuali, raggruppate sulla base del tipo di governance: interna, esterna, istituzionale (pag.70).
Dove maggiormente si creano rapporti fra istituzioni, politica, forze sociali, è l'urbanistica, i piani urbani; la "questione infrastrutturale" genera ansia nelle comunità locali, per le attese e le incertezze (pag.88). La saturazione delle infrastrutture, cioè di quei sistemi che includono "strutture in grado di connettere altre strutture" (pag.62), è un tema centrale, ed è anche un fenomeno misurabile fisicamente: viviamo oggi esperienze di saturazione "insediativa, industriale, demografica, ambientale, logistica, ecc." (cit., pagg.91 e 60).
Altro argomento centrale, osservano gli Autori del CDS, è quello delle fonti di finanziamento e del project financing: ai cittadini interessa infatti l'accesso ai servizi pubblici, e l'accesso con standard di qualità, piuttosto che possedere la proprietà delle infrastrutture materiali; peraltro, osservano, "non sempre l'opera più conveniente è quella con il costo di costruzione minore, quanto piuttosto quella con il rapporto utilità/costo globale migliore" (cit., pag.80). Il costo di un'opera pubblica non è infatti costituito soltanto dalla sua costruzione, ma anche dai costi successivi di gestione e di manutenzione, che vanno rapportati al grado di apprezzamento da parte degli utenti.
Entriamo così nel campo del rapporto pubblico-privato, in cui ognuno deve specializzarsi in ciò che gli è proprio: programmazione e controllo per il pubblico, realizzazione e gestione per il privato. Vi sono opere calde in cui ciò è facilmente attuabile, perché individuano un mercato quantificabile in termini di numero di utenti, e vi sono opere fredde, come la sanità e le carceri, in cui è più difficile e dove occorre individuare nuovi meccanismi (pag.81).
Strumenti importanti ed innovativi sono il controllo di gestione, il bilancio sociale, piani d'azione locali, la finanza strategica, la "visione dell'opera pubblica come funzione e non come asset" (cit., pag.79). Ogni opera va valutata infatti per il suo valore funzionale, cioè per le risposte che da ai bisogni degli utenti, e per la sua efficienza o economicità: la spesa pubblica risponde quindi ad un criterio misto di efficienza e di efficacia, "che si traduce nell'ottenere il massimo dei benefici sociali con il minimo investimento compatibile" (cit., pag.83).
Le politiche pubbliche locali in Italia hanno passato le fasi delle politiche infrastrutturali dagli anni Sessanta, delle politiche di riequilibrio delle aree forti a quelle deboli negli anni Settanta, della ricerca successiva di soluzioni policentriche, in cui ogni territorio si qualificasse autonomamente per le proprie peculiarità, in un quadro comune "di sistema".
Anche l'informazione geologica diventa un elemento fondamentale per far conoscere alle amministrazioni pubbliche il loro territorio, al fine di evitare modifiche ambientali dannose e per ottenere uno "sviluppo sostenibile": sostenibilità tecnica-territoriale, economico-finanziaria, amministrativa-gestionale (pagg.128-130).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Autori vari, SPAZIO TEMPO TERRITORIO. Annuario di politiche urbane (ed. CDS, Ferrara 2005)
- Franco Debenedetti (a cura di), NON BASTA DIRE NO (ed.Mondadori, Milano 2002)
- Bruno Dente (a cura di), LE POLITICHE PUBBLICHE IN ITALIA (ed. il Mulino, Bologna 1990)
- Maurice Duverger, I SISTEMI POLITICI (1955/ed. Laterza, Bari 1978)
- John Maynard Keynes, ESORTAZIONI E PROFEZIE, il Saggiatore, Milano 2011
- John Maynard Keynes, TEORIA GENERALE DELL’OCCUPAZIONE, DELL’INTERESSE E DELLA MONETA, Utet, Torino 2005
- John Kenneth Galbraith, L'ETÀ DELL'INCERTEZZA (Milano 1977)
- Fred Hirsch, I LIMITI SOCIALI ALLO SVILUPPO (1976/Ed. Bompiani, Milano 1981)
- Ivan Illich, DESCOLARIZZARE LA SOCIETÀ (ed. Mondadori, Milano 1983)
- Yves Meny e Jean-Claude Thoenig, LE POLITICHE PUBBLICHE (ed. il Mulino, Bologna 1991)
- Hyman P. Minsky, KEYNES E L’INSTABILITA’ DEL CAPITALISMO (ed. Bollati Boringhieri, Torino 1981 e 2009)
- Lewis Mumford, LA CITTÀ NELLA STORIA (The City in History, 1961)
- Lester C. Thurow, LA SOCIETÀ A SOMMA ZERO (ed. Il Mulino, Bologna 1981)

 

8- RIFORMISMO E SOCIALISMO

8-1 SOCIALISMO RIFORMISTA, SOCIALISMO MASSIMALISTA

Abbiamo visto come per Bobbio il contributo più importante dato alla teoria politica dal socialismo (riformista e rivoluzionario) fosse una teoria del partito (Quale socialismo?, cit., pag.8), e come anche per Marx il problema non fosse come si governa, bensì chi governa (borghesia o proletariato).
Per Marx ed Engels, osserva ancora Bobbio, il problema del buon governo si risolveva con l'eliminazione dello Stato e la fine della politica (pag.38); Marx aveva una concezione strumentale dello Stato, originale perché realistica e nello stesso tempo rivoluzionaria (storicamente, infatti, i realisti erano di solito dei conservatori, pag.39).
Contrariamente ad autori come Hobbes ed Hegel, Marx considerava lo Stato non come il superamento dello stato di natura, bensì come la sua perpetuazione (pag.40).
Per quanto riguarda il problema dell'estinzione dello Stato, poi, è del tutto inattuabile in quanto connesso al problema dell'estinzione del sistema degli stati, ed è in netta contraddizione rispetto alla evoluzione storica del modello socialista, caratterizzato dalla involuzione democratica al suo interno e dallo statalismo (pag.16).
Un altro luogo comune del marxismo, osserva Bobbio, è che la quantità a lungo andare diventa qualità: ma la qualità può essere scadente! (pag.84); leggere solo Marx o alcuni scrittori autorizzati, secondo Bobbio, è stato un modo per liberarsi dalla fatica di pensare (pag.28), ma gli intellettuali sono responsabili delle teorie che propongono (pagg.90-91), ed obiettivo prioritario del riformismo e dei riformisti, al contrario, è proprio che la qualità non sia scadente, dentro e fuori lo stato, i suoi confini e le sue istituzioni che, pertanto, diventano per i riformisti oggetto di trasformazione ma non di soppressione.
Gran parte dell'analisi nel libro Quale socialismo? viene dedicata al concetto di democrazia, proprio perché il rapporto fra socialismo e democrazia è fondamentale, e viene inteso come rapporto mezzo-fine: il socialismo deve essere raggiunto solo attraverso la democrazia (pag.104); ma si potrebbe anche sostenere il contrario, "e cioè che il socialismo è il mezzo e la democrazia è il fine, come chi dicesse che la democrazia reale o integrale può essere realizzata soltanto attraverso una riforma socialista della società" (pag.104). Tuttavia, il significato prevalente di democrazia nel binomio democrazia-socialismo è quello di democrazia come metodo, come via (pag.104); sono quindi fondamentali, da questo punto di vista, gli aspetti formali della democrazia, l'importanza della democrazia formale rispetto alla democrazia sostanziale (pag.97).
Non c'è fine totalmente indifferente al mezzo, non c'è mezzo che non incida sul fine; scrive Bobbio: "quando si contrappone la via democratica verso il socialismo alla via non democratica, ciò che cambia è soltanto il giudizio sul mezzo o anche la visione del fine?" (pag.106).

La storia del riformismo è legata a quella del socialismo: il riformismo nasce come espressione democratica del socialismo, come revisione del massimalismo rivoluzionario: il periodo storico compreso tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, osserva Massimo L.Salvadori (Riforme e rivoluzione nella storia contemporanea, op. cit.), è caratterizzato in Germania dalla forte crescita elettorale del partito socialdemocratico e dallo sviluppo dei sindacati; furono questi ultimi le roccaforti del riformismo e del revisionismo. Al centro del progetto politico socialdemocratico vi era il modo di produzione capitalistico, le cui contraddizioni lo portavano verso una trasformazione che all'epoca appariva come inevitabile (cit., pagg. 65-74).
Il progetto riformista, osserva Alberto Benzoni (Riformisti e riformismi, cit.), è un progetto illuminista: intende regolare i cambiamenti "in una visione coerente e in una prospettiva razionale" (cit., pag.116); efficacia ed efficienza, gradualità e moderazione sono elementi caratteristici di ogni politica riformista, ma il riformismo della sinistra, osserva ancora Benzoni, si pone come prioritario l'obiettivo di creare una società più giusta.

Norberto Bobbio, sempre in Quale socialismo? (op. cit.), osserva come il significato di socialismo non sia univoco: "il socialismo è come la felicità: tutti lo vogliono perché ognuno lo può foggiare secondo i propri desideri" (cit., pag.105); e il massimo punto d'arrivo della socialdemocrazia, conclude Bobbio, è stato finora il welfare state (pag.18).
Secondo Martin Buber (Sentieri in utopia, op.cit.), il socialismo è sempre qualcosa di relativo in rapporto alle condizioni date, "è il divenire della comunità nel genere umano" (cit., pag.71), è la trasformazione della società in comunità (pag.81). Non possiamo sapere come sarà il socialismo nel futuro, ma dobbiamo sapere come vogliamo che si presenti: le politiche socialiste sono sempre orientate verso il decentramento, il federalismo e l'autonomia, con la consapevolezza che in taluni momenti è necessaria la direzione centralizzata, ma mai viceversa (pag.129); l'ideale cooperativo poi, secondo Buber è fondamentale per realizzare relazioni sociali di coesione, ma per realizzare cooperazione e mutualità, osserva, non serve cambiare il sistema di proprietà o introdurre dall'esterno leggi ed istituzioni (pag.97).

Francesco Saverio Merlino (cfr. Maria Rosaria Manieri, La fondazione etica del socialismo, op.cit.) anticipò di decenni la critica al marxismo, la cui teoria oscillava fra l'utopia (teoria critica) e la metafisica (teoria scientifica predittiva).
Le regole sociali sono relative e non assolute, non sono teoremi matematici e l'applicazione di una di esse viene modificata e limitata dall'azione di altre; la ragione politica è pertanto autonoma da qualsiasi legge predittiva, dalla cosiddetta previsione morfologica della storia, e le scelte di campo sono possibili solo in base a giudizi di valore fondati moralmente, in cui la responsabilità e il desiderio degli individui sono fondamentali.
Solo le motivazioni etiche possono indurre all'azione, la domanda da porsi non è se ma come attuare il socialismo: il metodo è quello positivista, che richiede esperienza e procede con intendimenti pratici, cautamente, caso per caso (cit., pagg.14-16). Guarda caso, proprio col metodo riformista.

Ma gli argomenti più importanti contro le tesi deterministiche della storia, e che quindi confutano anche le leggi dialettiche che secondo il marxismo regolano i modi di produzione materiale, sono stati analizzati da Karl Popper nel libro Miseria dello storicismo (op.cit.); il marxismo, osserva Popper, chiama leggi quelle che, in realtà, sono solo tendenze: mentre una legge presenta caratteri di generalità e di universalità, la tendenza si riferisce a situazioni particolari derivanti da un complesso di cause che non garantiscono il persistere regolare dei fenomeni in questione. Mentre una legge è stabile, una tendenza può durare a lungo e poi, all'improvviso, mutare (cit., pag.56): le tendenze sono infatti questioni statistiche, le leggi sono fatti scientifici e sono oggetto di scoperta.
Il fatto che la storia umana sia caratterizzata non da leggi ma da tendenze, osserva Popper, è strettamente legato al fatto che la storia stessa è fortemente influenzata da ciò che chiamiamo conoscenza: il corso degli eventi storici non è prevedibile perché non si può prevedere lo sviluppo futuro della conoscenza scientifica e tecnologica; scrive Popper: "nessun predittore scientifico - scienziato o macchina calcolatrice che sia - può predire, con metodo scientifico, i suoi risultati futuri" (cit., pag.14).
Queste semplici osservazioni tolgono qualsiasi valore alla teoria del materialismo dialettico, e con essa alla teoria del socialismo scientifico; in un'epoca ricca di mutamenti, tecnologici e politici, servono dunque approcci differenti, quali possono essere l’artificalismo ed il contrattualismo, che liberano l'agire umano dalle leggi eterne della storia, dal determinismo o da quant’altro.
La prospettiva artificialista consente di progettare l'assetto fondamentale di istituzioni giuste, mentre il contrattualismo le pone in un contesto democratico di scelta. L’opzione riformista, poi, è tipicamente costruttiva, caratterizzata dalla combinazione di elementi quali la progettualità, la partecipazione, la discussione critica.

Ludwig von Mises, in Socialismo (op.cit.) osserva come le idee socialiste abbiano dominato il XX secolo, e come il moderno liberalismo sia in realtà socialismo moderato (cit., pag.45); entrambi, liberalismo e socialismo, hanno lo scopo comune di perseguire l'interesse pubblico, ma solo il socialismo vuole abolire l'anarchia della produzione come mezzo per raggiungere questo scopo (pagg.77-78)
L'attività economica, prosegue Mises, necessita del calcolo economico: solo una società stazionaria, basata sulla semplice ripetizione degli eventi economici, può fare a meno del calcolo, che è invece fondamentale per la dinamica economica; ora, osserva Mises, l'economia socialista non può funzionare perché in essa è impossibile il calcolo economico, che necessita di prezzi determinati da scambi e quindi dal libero mercato: tutte le utopie socialiste descrivono infatti situazioni statiche (cit., pag.192). Ma nel mondo reale non esiste uno "stato stazionario": accadono mutamenti nella natura esterna, dipendenti o meno dalle azioni umane, mutamenti nella popolazione, nelle tecniche di produzione e dell'economia.
Il socialismo non può essere allora una teoria della produzione, ma solo della distribuzione (pag.180 e seg.): distribuzione eguale, distribuzione secondo i servizi resi, distribuzione secondo i bisogni, distribuzione secondo il merito, o con combinazioni diverse di ciascuno di questi principi.
Una società socialista, osserva ancora Mises, non risolve i problemi delle razze e delle nazionalità; inoltre il lavoro è penoso anche in un'economia socialista, e la divisione del lavoro non si può ridurre (cit., pagg.201, 341 e seg.); l'economia socialista può risparmiare le spese della pubblicità ma ha bisogno di un apparato burocratico più costoso e con più potere (pagg.215-221), e la funzione economica dell'imprenditore non si può eliminare (pag.248).
Mises esamina forme particolari di socialismo (pagg.273-305): statalista, municipale, militarista, teocratico, corporativo; sono sistemi "pseudosocialisti" il solidarismo, il sindacalismo, i movimenti di riforma del diritto di proprietà e di partecipazione agli utili delle imprese.
Il comunismo predicato dai Padri della Chiesa è sempre solo un comunismo di consumo, il Cristianesimo è stato utilizzato talvolta a favore, talvolta contro il socialismo, ma ha fini ultraterreni e non di riforma sociale (pagg.461-469).
Talune idee socialiste, osserva Mises riferendosi in particolare all’esperienza marxista, si fondano sul risentimento e comportano elementi di distruttivismo, di demagogia, di fatalismo (pagg.482-503); la dialettica marxista è "feticismo delle parole": parole-feticcio sono quelle di rivoluzione, classe, dittatura del proletariato, ecc. (cit. pag.104). Ma i concetti di lavoro, capitale, classe, sono concetti astratti, la distinzione fra ricchi e poveri è molto più utile di quella fra lavoratori ed imprenditori (cit., pag.392); la società è un mezzo per permettere agli individui di perseguire i propri fini, la stessa divisione del lavoro è nata con l'abolizione della schiavitù e non vi è omogeneità nel lavoro, nè interessi comuni.

Joseph A. Schumpeter, in Capitalismo, socialismo, democrazia, (op.cit.) osserva che si può essere socialisti senza essere marxisti, mentre non è sufficiente essere marxisti per essere socialisti (pag.55, nota). La desiderabilità del socialismo è separata e indipendente dalla teoria dell’autodistruzione del capitalismo (che peraltro non è avvenuta); il marxismo, secondo Schumpeter, va interpretato in termini di religione, predica nella forma dell’analisi.
Da un punto di vista logico, il modello socialista appare costruito su di un livello più alto di razionalità, derivante oltre che dalla eliminazione di incertezze e della classe oziosa, anche dalla maggiore coordinazione tra settori (con la conseguente eliminazione dei cicli economici), dalla eliminazione della lotta fra pubblico e privato (con l’eliminazione della tassazione e della disoccupazione), dalla evidenza dei valori economici dei processi, depurati dai profitti. Nella pratica, tuttavia, l’organizzazione socialista si configura come un gigantesco apparato burocratico che limita o addirittura soffoca l’iniziativa, generando umiliazione, impotenza, disciplina autoritaria (cit., pagg.198-207 e 287).
Inoltre, mentre la società mercantile si caratterizza per l’automatismo distributivo, la distribuzione in una società socialista è un atto politico che dal punto di vista economico è del tutto arbitrario.
Il processo economico però, osserva Schumpeter, tende a socializzarsi, attraverso la meccanizzazione, la pianificazione, la spersonalizzazione; al termine di questa “socializzazione preparatoria” basterebbe un semplice emendamento costituzionale: è la cosiddetta socializzazione in stato di maturità che Schumpeter distingue dall’adozione prematura dei principi socialisti o socializzazione in stato d’immaturità (pagg.212, 215 e seguenti). Una visione per certi versi analoga la troviamo anche in Galbraith (cfr. Il nuovo stato industriale, op.cit.).

8-2 IL REVISIONISMO SOCIALISTA

Il primo revisionismo socialista nacque nella Germania meridionale per volontà del socialdemocratico Georg von Vollmar, che sosteneva l'appoggio parlamentare al liberalismo (Riforme e rivoluzione nella storia contemporanea, op.cit., pag.81); nel 1898 comparve il libro di Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, in cui il fine era considerato "nulla" ed il movimento "tutto", ed in cui la democrazia era il contenuto di un socialismo da conseguire attraverso "un processo evolutivo coscientemente diretto" (cit., pag.83); per fare ciò, il partito riformistico democratico-socialista doveva in primo luogo emanciparsi dalla fraseologia superata del socialismo scientifico.
Kautsky e Rosa Luxemburg replicheranno a Bernstein polemizzando sull'efficacia del revisionismo: per la Luxemburg ciò che divide riformisti e rivoluzionari non è cosa fare ma come farlo (cit., pag.92), per Kautsky la democrazia, pur necessaria, non è sufficiente ed individua due strategie politiche alternative per la classe operaia, ovvero l'annientamento dell'avversario (scontro frontale) ed il suo logoramento (cit., pag.102). La dialettica tra riforme e rivoluzione nella sinistra anticapitalistica, osserva Riccardo Lombardi (cit., pag.311), riguarda il modo di passare al socialismo, per via pacifica oppure violenta, mentre nella sinistra riformista, socialdemocratica, le riforme sono concepite come riforme del capitalismo, quindi non riforme per sopprimere il sistema ma favorevoli ad esso; le riforme graduali inoltre richiedono tempi adeguati, e sono concepibili solo in un quadro democratico.
La Costituzione italiana, osserva ancora Lombardi, è di contenuto socialista nella parte indicativa, liberale in quella normativa (cit., pag.316).
Di fronte all'impossibilità di attuare un movimento rivoluzionario nei loro paesi, gli intellettuali di sinistra in Francia ed in Italia divennero rivoluzionari verso il Terzo Mondo, "con una specie di transfert della loro tensione rivoluzionaria" (Lombardi, cit., pag.318); l'attenzione era rivolta talvolta al momento istituzionale, altre volte a quello strutturale: in realtà, in Italia non vi furono nè riforme nè rivoluzioni (cit., pagg.321-324).

Un esempio di revisionismo socialista fu l’esperienza del socialismo fabiano; la Società Fabiana venne fondata nel 1884 (Sidney e Beatrice Webb, Bernard Shaw) come principale organizzazione del movimento socialista britannico per compiere ricerche e svolgere propaganda educativa: la Società Fabiana è costituita da socialisti. Perciò si propone l'istituzione di una società in cui siano garantite uguali possibilità per tutti, e la supremazia economica e i privilegi individuali e di classe siano aboliti per mezzo della proprietà collettiva e del controllo democratico delle risorse economiche della comunità. Essa cerca di raggiungere i suoi scopi servendosi dei metodi di democrazia politica (G.D.H. Cole, Il socialismo fabiano , op.cit.). Cole osserva come il socialismo sia strettamente connesso alla democrazia ed alla libertà: la vita pubblica dovrebbe essere organizzata in modo tale da facilitare la partecipazione attiva al maggior numero di persone, la società non deve limitarsi a tollerare la varietà ma anzi deve incoraggiarla; lo Stato è un mezzo per promuovere una vita buona.
Professare per convinzione il socialismo vuol dire avere una sensibilità più sottile dell'ordinario: vi è la consapevolezza che di qualsiasi paese ci si senta cittadini, la sorte di esso è legata al destino di tutto il mondo; e tuttavia è soprattutto attraverso quello che facciamo nel nostro paese che possiamo sperare di influire sul mondo.
La società dovrebbe offrire a tutti i suoi membri una decente base comune di vita, i figli non devono pagare gli errori dei genitori, tutti gli uomini e tutte le donne dovrebbero avere uguali possibilità di sviluppare ciò che di buono vi è in loro, di essere ragionevolmente felici e di rendere piacevole la vita in comune.
Nel regime capitalistico, gli individui restano disoccupati anche quando meriterebbero di essere impiegati da un punto di vista sociale; nella scuola, l'educazione andrebbe estesa anche oltre l'adolescenza e connessa alla vita generale della comunità.
I piccoli e grandi Stati non possono vivere uno accanto all'altro in rapporto di vera uguaglianza sia politica che economica, ed è impossibile restare disarmati per lungo tempo; l'unico modo per attuare un vero internazionalismo e garantirsi contro le guerre, secondo Cole, è la creazione di uno Stato internazionale cui vanno affidati gli strumenti essenziali del controllo economico.
Il "popolo" in una società differenziata non ha un unico indirizzo di pensiero ma molti modi di pensare contrastanti; gli atti di governo non possono soddisfare chiunque, non vi può essere una maggioranza coerente che sia soddisfatta di tutti gli atti del governo. La "voce del popolo" non è necessariamente la voce della democrazia, anche la voce della maggioranza non è necessariamente la voce democratica.
La democrazia non è un modo formale di votare ma lo spirito che pervade una società: nessuna comunità può essere assolutamente democratica, nessuna può essere totalmente priva di elementi democratici. La concessione di privilegi è uno dei mezzi per combattere lo spirito democratico, la società con maggiori differenze sociali è anche quella che offre un maggior numero di privilegi; è inoltre impossibile che possano convivere un sistema politico libero ed un sistema economico servile.
La nuova società deve essere fondata su piccole democrazie di vicini e su piccole democrazie di lavoratori; per Cole bisogna essere democratici nelle piccole cose, altrimenti nelle grandi cose la democrazia rischia di essere una parola vuota. I compromessi sono giustificabili solo su questioni di secondo piano.

Nel saggio L'uomo secondo Marx (cit.) Fromm compie un’analisi del pensiero di Marx, depurandolo degli elementi massimalisti e deterministici e riconducendolo alla tradizione umanistica: Fromm evidenzia come per Marx l'uomo realizzi se stesso nel processo produttivo, e riesca a sviluppare le proprie potenzialità (concetto questo che viene derivato da Hegel e Spinoza) solo se è indipendente e libero (libero di, precisa Fromm, cit. pag.115).
La società non ha come fine la produzione di cose utili, lo scopo del socialismo è l'emancipazione dell'uomo, lo sviluppo delle personalità individuali, l'autorealizzazione.
Autorealizzazione e lavoro, per Marx, sono concetti strettamente connessi, capitale e lavoro sono categorie antropologiche oltre che economiche: il capitale rappresenta il passato (in quanto è ciò che viene accumulato), il lavoro è il presente, è un'attività, non è una merce ma un fine in sè, è "espressione significativa dell'energia umana" (cit. pag.118).
Fromm osserva come Marx critichi il capitalismo non tanto per l'ingiustizia distributiva della ricchezza, quanto per aver trasformato il lavoro in attività alienata, forzata, priva di significato: il problema centrale non è perciò una migliore remunerazione, bensì la trasformazione del lavoro in libero e produttivo; la critica all'economia capitalistica non è al suo metodo di distribuzione ma al suo metodo di produzione (cit., pag.123).
L'alienazione è la negazione della produttività, il socialismo è emancipazione dall'alienazione; la storia dell'uomo, per Marx come per Hegel, è la storia della sua alienazione, "l'esistenza dell'uomo è alienata dalla sua essenza" (cit., pag.121), perché egli non è ciò che potrebbe e dovrebbe essere. A Fromm sfuggono però le implicazioni totalitarie di questa analisi, anzi ne trae la conclusione opposta, quella di un "contrasto fra la concezione di Marx e il totalitarismo comunista" (cit., pag.126); il fanatismo è per Fromm paragonabile a "ghiaccio che brucia" (cit., pag.131 nota).
Marx sbagliò però nel credere che fosse la classe operaia la più alienata: l'alienazione, osserva Fromm, colpisce la maggior parte della popolazione, gli impiegati e i dirigenti ancor più che gli operai; oggetti e circostanze da noi stessi creati sono diventati nostri padroni, primi fra tutti i sistemi burocratici e le armi nucleari (cit., pag.129).
Hegel, Marx, Goethe e il pensiero Zen hanno in comune l'idea che l'uomo possa superare la scissione soggetto-oggetto (cit., pag.130 nota): c'è da chiedersi oggi quale sia il valore concettuale di questa distinzione, o dell'altra ricorrente fra essenza ed esistenza che Fromm individua, oltre che in Marx ed Hegel, anche in Spinoza e Goethe (cit., pagg.109-110); concetti forse obsoleti, che comunque non riducono il valore di una analisi, quella di Fromm, che risulta nel suo complesso interessante ed attuale.

8-3 IL SOCIALISMO LIBERALE

Carlo Rosselli (Socialismo liberale, op. cit.) osserva come inizialmente i revisionisti non fossero in contrapposizione a Marx il quale peraltro, osserva Rosselli, "non si esaurisce nel marxismo e per molti lati anzi lo confuta" (cit., pag.23); ma il marxismo è un sistema dogmatico che non può ammettere la critica, e pertanto non può essere principio guida del movimento socialista ("si può essere marxisti senza essere socialisti", pag.55).
Per i marxisti il socialismo è la conclusione, per i revisionisti la premessa che conduce infine al liberalismo.
Il materialismo storico diventa solo una lezione di realismo storico e induce ad un rispetto eccessivo dell'esistente con la rassegnazione che ne consegue. Marx assume la natura, l'ambiente, i caratteri antropologici come costanti e si concentra sulla trasformazione dei modi di produzione, che sono in realtà solo "un anello della catena deterministica" (cit., pag.8); inoltre il fattore volontà umana toglie significato ad ogni teoria predittiva. Peraltro, osserva Rosselli anticipando Popper, nessuno è in grado di conoscere gli sviluppi futuri della tecnica e quindi del sistema produttivo (pag.64).
Rosselli distingue tre fasi nella storia del marxismo, quella religiosa, quella critica e quella del suo superamento (cit., pag.16); il movimento sindacale, ottimista, pratico e riformista, è in contrasto con un programma finalistico, pessimistico, rivoluzionario, catastrofico e messianico quale è il marxismo.
La propaganda marxista ha costruito due miti: la necessità del comunismo e la sua produttività (cit., pag.65); ma la critica è più facile della ricostruzione, e solo la non-cultura può essere borghese o proletaria (cit., pag.87 e pag.131). Inoltre, il marxismo non è in grado di comprendere i piccoli problemi dei singoli settori economici.
Il socialismo non si può decretare dall'alto: un partito socialista, osserva Rosselli, deve essere la "sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa della libertà e del lavoro" (cit., pag.144); le posizioni socialista e liberale, inizialmente antitetiche, sono andate via via avvicinandosi perché sono entrambe visioni unilaterali che possono completarsi a vicenda (pag.4).
Il socialismo è un programma di vita sempre in corso di attivazione, un limite ideale che si realizza solo in parte. Per i socialisti il fine ultimo è l'individuo, cellula della società, i fini della società sono i fini degli individui, rivoluzione sociale e rivoluzione morale devono accompagnarsi (cit., pagg.83, 86, 110).
Per il socialismo liberale sono sullo stesso piano la giustizia sociale e la libertà, la vita associata e quella individuale; il socialismo è una filosofia di libertà (cit., pagg.88-89).
Per la teoria liberale la libertà è il fine supremo ed anche il mezzo supremo (metodo democratico, pag.119), la libertà non è un dato di natura ma un divenire: liberali non si nasce ma lo si diventa (pag.89); mentre per i marxisti, osserva Rosselli (pag.115), la libertà ha un valore solo storico e relativo.
Il socialismo porta il principio di libertà alle sue conseguenze estreme, "è la libertà che si fa per la povera gente" (cit., pag.90), autonomia economica, libertà di fatto e non solo di diritto; il liberalismo è "forza morale ispiratrice", il socialismo "forza pratica realizzatrice" (cit., pag.92), e da questione di giustizia diventa sempre più questione di capacità, una virtù pedagogica (pagg.96-100).
Senza autonomia individuale non può esserci socialismo, che è prima rivoluzione morale e poi materiale; il socialismo senza democrazia è la negazione dei fini stessi del socialismo, che è infatti l'erede del liberalismo, e la libertà "è il più efficace mezzo e ultimo fine del socialismo" (cit., pag.144).

Il rapporto tra libertà ed eguaglianza è in effetti quanto di più complesso vi sia nella teoria politica: sembra davvero difficile poter coniugare libertà ed eguaglianza, innanzitutto perché è complesso il rapporto fra i due termini, e poi perché sono complesse e molteplici le definizioni che si possono dare sia della libertà che dell'eguaglianza.
Alcuni importanti teorici politici hanno tentato la "quadratura del cerchio": Carlo Rosselli, con la sua idea di Socialismo liberale, ha proposto un percorso possibile per coniugare libertà ed eguaglianza; John Rawls, uno dei più importanti filosofi politici del secolo appena passato, nel libro Una Teoria della Giustizia ha proposto una scala di principi in base ai quali poter costruire una società giusta: una società è giusta, secondo Rawls, quando le sue istituzioni fondamentali si reggono sui due principi di libertà ed eguaglianza, quest'ultimo riformulato da Rawls come "principio di differenza", e con la precisazione importante che una società è giusta quando, a parità di libertà (ad eguale libertà), riesce a favorire i meno avvantaggiati (ed è tanto più giusta quanto più riesce a favorire gli individui meno avvantaggiati).
Una cosa è certa: sistemi sociali fondati soltanto sulla libertà (libertà assoluta) producono tensioni sociali, instabilità, anarchia, oltre naturalmente ad ineguaglianze; per contro, sistemi sociali fondati sulla sola eguaglianza producono tirannie, totalitarismi, violazioni dei diritti dell'uomo. Coniugare libertà ed eguaglianza significa allora creare "condizioni di mezzo", quel giusto mix che permette l'esistenza e la crescita della democrazia (democrazia politica ma anche sociale ed economica) la quale, secondo Norberto Bobbio, è insieme la condizione e la conseguenza del giusto rapporto fra libertà ed eguaglianza.
Cosa potrebbe allora significare il termine "libertà eguale"? L'idea di fondo potrebbe essere quella di definire, o ridefinire, la libertà a partire dall'eguaglianza: ma cosa intendiamo precisamente per libertà? e cosa per eguaglianza?
Isahia Berlin ed Erich Fromm ci propongono l'idea di una libertà positiva, libertà di fare, come alternativa alla libertà negativa, che è libertà da vincoli, assenza di regole, anarchia. A mio avviso, una definizione esaustiva di libertà la propone Ralf Dahrendorf in un libro scritto alla fine degli anni Settanta, La libertà che cambia (cit.); un individuo è tanto più libero quanto più dispone di:
- chances (possibilità);
- diritti;
- legature (rapporti sociali).
I tre elementi o fattori (chances, diritti, legature) non sono alternativi; l'uomo è tanto più libero quanto più può disporre e di chances, e di diritti, e di legami sociali. Questa definizione di libertà ci fa riflettere: un individuo con molte chances, ad esempio molto ricco, ma privo di legature, di legami sociali autentici, può considerarsi più libero di chi ha meno ricchezze ma è ben inserito socialmente? E a cosa servono i diritti, se le chances, le possibilità di fare sono minime?
E l'eguaglianza? Il termine è ancora più complesso: eguaglianza di opportunità o eguaglianza nei risultati? e poi, eguaglianza rispetto a che cosa? Giovanni Sartori individua una progressione storica delle eguaglianze (al plurale), che parte dall'eguaglianza giuridico-politica (a ciascuno gli stessi diritti legali e politici), progredendo poi con l'eguaglianza sociale (a ciascuno lo stesso status), l'eguaglianza di opportunità di accesso (a ciascuno secondo i propri meriti), l'eguaglianza di opportunità di partenza (a ciascuno risorse materiali iniziali adeguate), infine l'eguaglianza economica (a ciascuno secondo i propri bisogni). Il paradosso che rileva Sartori è che, per ottenere uguali esiti, occorre che gli individui vengano trattati in modo ineguale; viceversa, essere trattati in modo eguale (con uguali opportunità) comporta esiti diseguali, cioè risultati differenti da individuo ad individuo. Ha ragione allora Rawls a riformulare il principio di uguaglianza in principio di differenza?
Personalmente ritengo che ogni idea politica, inclusa quella della libertà eguale, debba essere messa alla prova dei fatti: le idee senza conseguenze pratiche sono idee che non servono a nulla e a nessuno; dobbiamo allora sforzarci di compiere un passaggio successivo, che è ancora più complesso di quello che abbiamo tentato di fare in queste poche righe: occorre tradurre le parole in cose, le idee in fatti, le teorie politiche in linee di azione politica. Si tratta quindi di chiarire quali politiche conseguano dalle nostre teorie, quali azioni occorre intraprendere partendo dai nostri principi di "libertà eguale", ad esempio in ambiti quali:
- l'ambiente (con le sue dimensioni locale, nazionale, globale);
- le autonomie (anche queste variamente intese);
- il lavoro, le discriminazioni, l'etica degli affari, il welfare state, ecc.;
- i diritti (politici, economici, sociali), la bioetica, l'attenzione alle generazioni future;
- le politiche pubbliche variamente intese (sanità, scuola, ecc., in ambito locale, nazionale, globale).
Non possiamo ovviamente affrontare questi temi, o parte di essi, in poche righe; sono stati scritti molti libri, sia sulle teorie che sulle pratiche: non c'è (quasi) più nulla di nuovo da inventare, quello che spesso manca è invece lo spirito di applicazione da parte dei politici, a tutti i livelli, quello spirito di umiltà che li induca ad approfondire maggiormente idee e politiche, magari sfruttando strutture organizzate che in Europa, e soprattutto nei partiti di tradizione socialdemocratica, sono ben presenti da decenni ma che invece mancano sostanzialmente nel nostro Paese: associazioni e fondazioni che possano colmare queste lacune e far sì che in Italia le politiche riformiste siano costruite in modo organico e non siano volta per volta improvvisate da leaders politici che troppo spesso si trovano nella infelice condizione di dover inseguire i problemi, magari con la scadenza elettorale alle porte.

La Carta dell’associazione “Libertà Eguale” (cit.) evidenzia come la globalizzazione, l'economia globale e l'aspra competizione che ne deriva, da un lato costituiscano un rischio enorme di esclusione per gli individui, ma dall'altro offrano anche enormi potenzialità di inclusione e di eguaglianza, grazie in particolare all'innovazione tecnologica e telematica. Pertanto, gli strumenti e le risorse per affermare la crescente libertà degli individui possono essere trovati all'interno del processo stesso di globalizzazione e non contro di esso.
La nuova sinistra si pone allora come obiettivo (come fine) la progressiva estensione ed affermazione della libertà eguale attraverso (come mezzo) l'estensione della democrazia sia nelle sue istituzioni tradizionali che in quelle da costruire; pace, sviluppo, eguaglianza sono conseguenti a questo processo.
La nuova sinistra, che è liberalsocialista, si contrappone dunque alla vecchia sinistra per alcuni elementi qualificanti:
a) la definizione di strategie inclusive (la vecchia sinistra puntava invece alla sopravvivenza assistita degli esclusi);
b) la coordinazione delle politiche su scala planetaria (la vecchia sinistra ragionava in termini di nazione e di classe);
c) favorire l'associazionismo civile e le risorse culturali, economiche, relazionali dei singoli individui (la vecchia sinistra cercava invece di organizzare i diseguali costruendo gerarchie di partito e di sindacato);
d) il benessere, in regime di risorse scarse, è misurato in termini di beni individuali e in quote di beni collettivi;
e) la rappresentanza è dei cittadini produttori e consumatori (non solo quindi della classe dei produttori), ed in particolare "della multiformità dei lavori nella società post-fordista".
La ripresa riformista, pertanto, si caratterizza per far convergere riforme e politiche sociali e fiscali verso alcune priorità ben definite:
- liberalizzazione regolata;
- riforma radicale del welfare;
- riforma federale della pubblica amministrazione;
- promozione dello sviluppo (al contrario della vecchia sinistra che puntava invece alla sola redistribuzione delle risorse) da realizzare con "politiche per una ripresa della crescita, per combattere la disoccupazione e la perdita di competitività ";
- innovazione informatica e delle comunicazioni, formazione.
Una identità riformista, infine, deve fungere da collante per coalizioni di centro-sinistra.

La libertà eguale, osserva Franco Sbarberi (L’utopia della libertà eguale, op. cit.), è libertà condivisa, libertà media ed il suo più importante teorico italiano fu Carlo Rosselli, poi seguito dagli intellettuali del Partito d'Azione: Guido Calogero, Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Aldo Capitini (pagg.12-13 e 162). In questa prospettiva, la libertà è il fine, mentre la giustizia economico-sociale è un mezzo (pag.125); a livello internazionale, i suoi pensatori contemporanei di maggiore spessore sono Rawls, Dahrendorf, Walzer, Sen, Dworkin, Ackerman, Held (pag.14).
Il Partito d'Azione, osserva però Sbarberi, fu un movimento politico presbite, troppo proiettato al futuro e troppo poco al presente (cit., pag.140 e 160 nota); proponeva una repubblica presidenziale di tipo americano ed autogoverno locale: uno stato federale nazionale caratterizzato dall'idea della discontinuità dello stato, ma anche il federalismo europeo (cit., pagg.136, 141, 148). Proponeva altresì autogestione e democrazia economica, l'indipendenza della Corte Costituzionale dai poteri esecutivo e legislativo, un esercito europeo (pagg.17, 130, 132 nota).
Il socialismo liberale rimane ancora oggi la formula programmatica più efficace per correggere le distorsioni del mercato, e si contrappone a tutti coloro (la "destra") che vogliono invece l'esaltazione del mercato (pag.21). Liberi non si nasce, lo si diventa: è l'albero delle libertà (Rosselli, Dewey, Bobbio, pagg.59-60 e 165-180), e lo si diventa in primo luogo acquisendo autonomia economica (emancipazione dal bisogno, pagg.73-74) e difendendo i valori della democrazia, che è una lotta per e non contro qualcosa o qualcuno (pagg.77 e 164).
La sintesi tra liberalismo e socialismo produrrà l'idea di una "terza via" (il liberalsocialismo di Guido Calogero, pagg.100, 105 e seguenti); la versione giuridica del liberalsocialismo produrrà l'idea dei diritti sociali che devono integrare i diritti di libertà, la versione economica introdurrà l'idea dell'economia a due settori, pubblico e privato, col doppio ruolo esercitato dallo Stato democratico: ruolo protettivo e ruolo propositivo (pagg.151-152).
Le libertà individuali sono diritti sovraordinati e "supercostituzionali", e per Calamandrei occorre combattere la "tirannia della maggioranza" individuando un modello costituzionale garantista che faccia da cornice giuridica ad una concezione insieme conflittuale e partecipativa della democrazia (pagg.152-153 e 181); il progetto federalista degli azionisti naufragò però di fronte alla indisponibilità dei partiti di massa, e peraltro già nei decenni precedenti Togliatti criticò aspramente Rosselli (pagg.70 e 159). D'altro canto, per gli azionisti era incomprensibile la riduzione marxista della persona a solo lavoro, come pure l'idea che la libertà sia un obiettivo transitorio (pagg.72, 111, 174, 186): l'eguaglianza fra gli uomini è un nostro dovere e non una loro natura, la giustizia deve fare sintesi fra libertà ed eguaglianza laddove prima era giustizia come libertà (pensiero liberale) e giustizia come eguaglianza (pensiero socialista).
Individualismo ed olismo sono entrambi aberrazioni, lo Stato democratico è la forma di regime che consente la realizzazione del liberalsocialismo, una "rivoluzione democratica" (pagg.181 e 176-178).

8-4 IL SOCIALISMO RIFORMISTA ITALIANO

Il riformismo socialista italiano, osserva Ugo Intini (Il “Miracolo Riformista”, cit.), nasce con la creazione delle associazioni volontarie, di cui la più importante è il sindacato; obiettivo centrale del riformismo socialista è quello di trasformare i valori liberali in valori di massa: la battaglia di libertà coincide con la battaglia sociale, dall’estensione del diritto di voto alla lotta all’analfabetismo ai diritti delle donne. Nascono le figure del sindacalista socialista, del sindaco socialista, del maestro socialista (raffigurato nel libro Il cuore di De Amicis); agli inizi del Novecento vengono concepite fondamentali politiche sociali che oggi ci appaiono normali, ma che a quel tempo erano del tutto innovative, dalle mense popolari all’edilizia popolare, dalle aziende municipalizzate agli ospizi, dalla refezione scolastica alle campagne di vaccinazione e prevenzione sanitaria, dalla riforma agraria al sentimento europeista; i socialisti furono decisivi nel determinare la vittoria repubblicana sulla monarchia nel referendum del 1946, nell’imporre la scuola media obbligatoria nel 1963; la nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1962 fu una riforma fondamentale per lo sviluppo industriale italiano, come pure passaggi importanti furono la previdenza sociale nel 1969, lo Statuto dei lavoratori nel 1970, le prime elezioni regionali che si tennero sempre nel 1970, il servizio sanitario nazionale nel 1978. L’utilizzo del referendum popolare porterà gli italiani ad esprimersi a favore del divorzio, dell’aborto, della responsabilità civile dei magistrati, e contro il nucleare. Furono i socialisti ad abolire le case chiuse, il delitto d’onore, la censura, a presentare una legge contro la droga, ed invece a promuovere lo sviluppo della rete autostradale e della televisione a colori. Sandro Pertini, presidente della Repubblica, incarnerà nella Resistenza al fascismo i valori nazionali fondamentali, mentre Craxi recuperà i valori del Risorgimento e la figura di Garibaldi. La presidenza del Consiglio a guida socialista si caratterizzò per quel “decisionismo” che servì ad abbattere l’inflazione, a cancellare gli automatismi della scala mobile, ad autorizzare l’installazione degli euromissili e però anche a scontrarsi con gli americani nella vicenda di Sigonella, ad istituire un ministero per l’ecologia, a condurre una politica estera autonoma in particolare verso il Medio Oriente ed i diritti dei palestinesi.

Norberto Bobbio criticherà l’attenzione che il governo a guida socialista dava all’epoca al tema della modernizzazione del Paese, rispetto a quello classico del socialismo, che è la giustizia sociale (Le mie critiche al Psi, cit.); ma il socialismo riformista, osserva Intini, è insieme antico e moderno, i suoi valori hanno radici ottocentesche ma non sono obbligati in costruzioni teoriche, non producono scuole propagandistiche come il marx-leninismo, e sono perciò adattabili ad un mondo che cambia (cit., pag.73); non vi è perciò incoerenza fra i suoi valori e la spinta alla modernizzazione.
In Italia peraltro, osserva ancora Intini, vi è un eccesso di cultura letteraria e giuridica rispetto a quella tecnica e scientifica, specie nel Mezzogiorno, che priva il nostro Paese di dirigenti necessari al suo sviluppo e nel contempo non risolve i problemi della nostra giustizia piuttosto che del nostro cinema.
Luciano Pellicani evidenzia anche il paradosso in cui si trovano tutti i partiti socialisti moderni: “proprio perché la loro azione riformatrice ha avuto successo, la loro agenda politica si è svuotata” (Lettera aperta a Norberto Bobbio, cit., pag.3), rendendo così necessaria ogni volta la ridefinizione dei contesti su cui attivare un’azione riformatrice.

8-5 IL SOCIALISMO MASSIMALISTA ITALIANO

Il “miracolo riformista” italiano fu sempre osteggiato dai comunisti, potente forza massimalista della sinistra italiana, che arriveranno addirittura ad equiparare socialismo democratico e fascismo, riunendoli entrambi nella formula staliniana del “socialfascismo” (Intini, cit., pag.13). In realtà, osserva Intini, per decenni il Pci incarnò in Italia posizioni conservatrici, un conservatorismo di sinistra espresso in affermazioni massimaliste che lo porteranno ad essere antieuropeista, contrario alla riforma Brodolini che istituì la previdenza sociale, contrario allo stesso Statuto dei lavoratori, interessato sempre unicamente ai rapporti economici fra le classi, il resto essendo solo “sovrastruttura”.
In particolare, osserva ancora Intini, l’autoritarismo in Italia si è radicato grazie a tre tradizioni culturali: l’ideale hegeliano dello Stato etico che ha portato al fascismo, il marxismo leninismo, l’integralismo cattolico; la convergenza di queste tradizioni autoritarie ha spesso condizionato la storia italiana, ed in parte spiega, secondo Intini, “la fragilità del socialismo liberale e della liberaldemocrazia, il ritardo delle modernizzazioni nel costume del nostro Paese” (cit., pag.44).

La diversità comunista era caratterizzata anche politicamente da una “retorica del pessimismo”, catastrofista e fatalista, giustificata dalla stessa ideologia marxista che prevedeva il crollo del sistema e quindi l’inutilità delle riforme, che anzi erano considerate controproducenti perché ritardavano la catastrofe finale; tale diversità comunista è stata la premessa della anomalia italiana nel panorama democratico occidentale, una anomalia basata più sul diritto di veto (e sul voto segreto) che sul diritto di voto (e sul voto palese). La storia ha poi dimostrato che le teorie scientifiche del sociale, come il marxismo, sono in realtà transitorie mentre “i valori socialisti sono permanenti” (Intini, cit., pag.73).
La mobilitazione comunista contro Craxi, primo presidente del Consiglio socialista, non trova riscontro nei suoi predecessori non socialisti, e testimonia il clima del tempo, in un Paese fortemente condizionato da due potenti forze regolatrici o “fabbriche del consenso”: la Chiesa cattolica da una parte ed il Pci dall'altra (Intini, pagg.46, 50 e seguenti).
Luciano Pellicani (La vittoria del socialismo liberale, cit.) evidenzia in proposito come furono "le dure repliche della storia" e non gli argomenti dei riformisti a far cambiare idee ai comunisti italiani, nei quali continuò peraltro a mantenersi la distinzione fra comunismo storico e comunismo ideale, che continuarono a considerare cose diverse; in Italia la democrazia era bloccata, perché assediata sia da destra che da sinistra, e rendeva impossibile ai socialisti vincere senza i comunisti e, nel contempo, impossibile governare con i comunisti.
Un’analisi approfondita delle vicende italiane a partire dal dopoguerra la troviamo nel libro Menscevichi. I riformisti nella storia dell’Italia repubblicana di Luigi Covatta (op.cit.), che sottolinea il carattere paradossale della storia italiana, caratterizzata da una sequenza di cambiamenti senza riforme, fuori da ogni disegno razionale capace di governarne gli esiti.
Il primo cambiamento fondamentale, osserva Covatta, fu quello politico-istituzionale del dopoguerra, " 'la Repubblica dei partiti', che per cinquant'anni avrebbe governato, ma non guidato l'Italia" (cit.pag.16), cui seguì il rapido cambiamento economico, quello "sviluppo senza guida" che caratterizzò il periodo di maggiori cambiamenti del nostro Paese e che era basato su un sistema di "Welfare all'italiana", una sorta di "catto-keynesismo" dove l'industria di Stato cercò di colmare le lacune del debole capitalismo privato italiano; il dossettismo fu, in quel contesto ed in quel periodo storico, l'esperienza riformista maggiormente significativa ancorché priva di un soggetto politico che lo fosse esplicitamente (op. cit., pagg.45 e seguenti).
La mancanza di una regia politica, del soggetto riformista, comportò conseguenze negative che ancora oggi stiamo pagando: “perché, miracolo o no, gli anni cinquanta furono anni che non interruppero l’emigrazione, determinarono la devastazione del territorio, non migliorarono la qualità della vita civile” (cit., pag.56). 
Scelte riformiste fondamentali furono il piano Marshall (che era però una scelta esogena) e l'opzione liberoscambista cui fecero seguito la nazionalizzazione dell'industria elettrica e la realizzazione della scuola media unica (pag.55, pagg.63 e seguenti).
Il cambiamento successivo, a partire dagli anni sessanta, fu di natura etica e culminò nel 1970 con la legge sul divorzio ma anche, nello stesso anno, con lo Statuto dei lavoratori che più di altri dimostrò la debolezza dei meccanismi applicativi delle grandi riforme, proprio per l'assenza di un soggetto politico chiaramente riformista (pag.99). I riformisti italiani, osserva Covatta, erano dispersi, faticavano a riconoscersi, e spesso erano "fuori dalle trincee" dei partiti politici tradizionali (pag.81 e 99, nota); l’ambiente stesso, in Italia, era “irrespirabile” per il riformismo: “Corporations e corporazioni, infatti, si sono mostrate perfettamente in grado sia di impedire il microriformismo, sia di vanificare il macroriformismo” (cit., pag.260).
L'ultimo cambiamento del secolo scorso, negli anni ottanta, fu invece di natura estetica, riguardò i veicoli della produzione culturale ed i modi di esprimersi, con effetti che furono rilevanti sulla percezione stessa della realtà e sull'immaginario collettivo; ma fu anch'esso un "ennesimo cambiamento senza riforma" (cit., pag,.106) che tra l’altro dimostrò quanto fosse debole il sistema accademico-editoriale su cui aveva investito la sinistra fin dal dopoguerra: "la presunta egemonia culturale della sinistra è stata a lungo, in realtà, piuttosto una egemonia culturale sulla sinistra esercitata da ceti elitari e autoreferenziali" (cit., pag.107).

 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Autori vari, CARTA DELL'ASSOCIAZIONE "LIBERTÀ EGUALE" (Comitato promotore, 2000)
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- Norberto Bobbio, QUALE SOCIALISMO? (ed.Einaudi, Torino 1970)
- Norberto Bobbio, LE MIE CRITICHE AL PSI (in MondOperaio, 12/1989)
- Martin Buber, SENTIERI IN UTOPIA (ed. Comunità, Milano 1981)
- G.D.H. Cole, IL SOCIALISMO FABIANO (Fabian Socialism)
- Luigi Covatta, MENSCEVICHI. I riformisti nella storia dell’Italia repubblicana (ed.Marsilio, Venezia 2005)
- Ralf Dahrendorf, LA LIBERTÀ CHE CAMBIA, (ed. Laterza, Bari 1994)
- Erich Fromm, L'UOMO SECONDO MARX (Marx's concept of man, in Alienazione e sociologia, ed. Franco Angeli, Milano 1973)
- Erich Fromm, FUGA DALLA LIBERTÀ (Escape from Freedom, 1941/ed. Comunità) - Ugo Intini, IL “MIRACOLO RIFORMISTA”, in L’Albero Socialista. Un secolo di riformismo e di progressi (supplemento di Argomenti Socialisti, 1991)
- Maria Rosaria Manieri, LA FONDAZIONE ETICA DEL SOCIALISMO. F.S.Merlino (ed.Dedalo, Bari 1983)
- Luciano Pellicani, LA VITTORIA DEL SOCIALISMO LIBERALE (in MondOperaio, 5/1990)
- Luciano Pellicani, LETTERA APERTA A NORBERTO BOBBIO (in MondOperaio, 12/1989)
- Karl R. Popper, MISERIA DELLO STORICISMO (ed.Feltrinelli, Milano 1975)
- Guido Quazza (a cura di), RIFORME E RIVOLUZIONE NELLA STORIA CONTEMPORANEA (ed. Einaudi, Torino 1977)
- John Rawls, UNA TEORIA DELLA GIUSTIZIA (ed.Feltrinelli, Milano 1982)
- Carlo Rosselli, SOCIALISMO LIBERALE (ed. Einaudi, Torino 1979)
- Franco Sbarberi, L'UTOPIA DELLA LIBERTÀ EGUALE. Il liberalismo sociale da Rosselli a Bobbio (ed. Bollati Boringhieri, Torino 1999)
- Joseph A. Schumpeter, CAPITALISMO, SOCIALISMO, DEMOCRAZIA (1954/ ed.Etas libri, Milano 1977)
- Ludwig von Mises, SOCIALISMO (ed. Rusconi, Milano 1989)

 

9- I NEMICI DEL RIFORMISMO

9-1 IL RIFORMISMO E I SUOI NEMICI

Il riformismo, osserva Luciano Pellicani (Riformismo, in Mondoperaio, cit.), ha nemici sui due fronti: chi difende ad oltranza l'ordine esistente e chi vuol fare tabula rasa; per entrambi i gruppi di nemici il riformismo è sinonimo di opportunismo, errore, deviazione, tradimento.
Secondo Pellicani, il rivoluzionarismo, dal Terrore giacobino in poi, sostiene l'idea che il progresso dell'umanità passa solo "attraverso la politica della tabula rasa"; in una fase ulteriore, poi, il "proletariato interno" fu sostituito dal "proletariato esterno" (pagg.167-168).
Chi sono, dunque, i nemici del riformismo ?
Storicamente, il riformismo si è sempre definito in negativo come contrapposizione al massimalismo: il riformismo è una soluzione di cambiamento graduale della società, laddove il massimalismo vuole tutto e subito; il riformismo intende inoltre cambiare in meglio la società esistente, mentre il massimalismo la vuole abbattere con la violenza.
Ai nostri giorni, però, mantenere questa contrapposizione ristretta è semplificare eccessivamente il quadro dei nemici del riformismo, che è molto più variegato.
Distinguiamo due categorie di nemici; anzitutto, i nemici d’idee che, in estrema sintesi, possiamo individuare nel conservatorismo, nel populismo, nel qualunquismo, nel movimentismo, nel radicalismo.
Ma i veri nemici del riformismo sono i nemici pubblici, od hostis nel senso di Carl Schmitt, storicamente e nei fatti stiamo parlando di altri e ben più temibili fenomeni generati dall’umanità nel corso della sua storia; ci riferiamo, in particolare, al già citato massimalismo, ai fondamentalismi, agli autoritarismi ed al totalitarismo.
Contro questi nemici lo scontro è totale, nel senso schmittiano della piena contrapposizione politica; non ci sono mediazioni possibili, nessun compromesso, nessun dialogo.

Nel libro L’età dei diritti (op. cit.) Bobbio osserva come lo stato liberale abbia portato alla costituzionalizzazione del diritto di resistenza, attraverso la separazione dei poteri e la subordinazione di ogni potere statale al diritto (cit., pag.165).
Legittimità ed obbligo politico sono problemi intimamente connessi: "l'obbedienza è dovuta soltanto al comando del potere legittimo" (Stato, governo, società, cit., pag.81). Bobbio distingue i limiti del potere politico, che sono giuridici, dai limiti al potere politico, che derivano dalla presenza più o meno forte del non-Stato (cit., pag.113); il costituzionalismo è la teoria dei limiti del potere, che sono interni (rapporti fra governanti e governati) ed esterni (rapporti fra gli Stati). Lo Stato universale, se esistesse, avrebbe solo limiti interni (cit., pag.95).
Le forme di governo possono essere autocratiche o democratiche, a seconda che l'ordinamento giuridico venga creato e modificato dall'alto o dal basso; la rivoluzione copernicana, osserva Bobbio, è il riconoscimento dei diritti dell'uomo e del cittadino (cit., pag.108). Diritti che, evidentemente, sono a fondamento di qualsiasi azione che possa definirsi riformista.
Nello stato totale invece, osserva ancora Norberto Bobbio (Il futuro della democrazia, op. cit.), la politica è tutto ma non è di tutti, nello stato democratico e liberale la politica non è tutto ma è di tutti (pag.68); l'antitesi dello stato liberale è lo stato paternalistico, l'antitesi dello stato democratico è lo stato assoluto: tant'è che, ad esempio, Rousseau, scrittore democratico, non si può annoverare fra gli scrittori liberali (cit., pag.116). Sono nemici del riformismo tanto lo stato paternalistico quanto lo stato assoluto; ma anche il neo-liberalismo che auspica uno stato insieme minimo (nell’antitesi stato minimo/stato massimo) e forte (nell’antitesi stato debole/stato forte, cit. pag.122). Il socialismo liberale, osserva Bobbio, parte invece dalla stessa concezione individualistica ma costruisce un diverso progetto di contratto sociale che include principi di giustizia distributiva (cit., pag.124).
Le distanze incolmabili che separano il riformismo dai suoi nemici, sono riassunte da Bobbio in un passaggio del suo Profilo ideologico del Novecento italiano (op.cit.), in cui l'elemento centrale che emerge è il rapporto fra riformismo e democrazia (il riformismo come forza viva e vitale della democrazia) e, viceversa, l'elemento antidemocratico che è sempre presente nei nemici del riformismo e che ha trovato nel nazionalismo il suo momento di massima espressione ideologica. Scrive Bobbio:
"Tra l'antidemocrazia dei conservatori e quella degli eversori vi era una differenza non soltanto di accento ma anche di sostanza: gli uni credevano nel metodo della libertà, gli altri solo in quello della forza. Costoro erano insieme conservatori (nel loro odio furibondo per il socialismo e nella difesa ad oltranza della classe borghese) e sovversivi (nella esaltazione della guerra e nella predicazione della violenza). Come tali erano l'antitesi del socialismo riformista che era progressista e pacifista e credeva nel progresso sociale attraverso l'esercizio del metodo democratico. Naturalmente erano ferocemente antipositivisti, e guardavano con l'occhio del conservatore a Pareto, con quello del sovversivo a Sorel. Il luogo di confluenza di tutte le tendenze del conservatorimo eversivo fu il nazionalismo" (cit., pag.54).

9-2 POPULISMO

Il populismo è il "pifferaio dell'antipolitica" (Amato, cit., prefazione pag.VII); il termine, osservano Meny e Surel (Populismo e democrazia, op.cit.), è ambiguo, non è riconducibile ad alcun sistema di pensiero nè alla distinzione destra/sinistra, ed è strettamente correlato alle istituzioni democratiche, di cui accetta i valori ma ne critica le realizzazioni pratiche, i partiti ed i loro esponenti politici, "in una sorta di gioco al rialzo delle aspettative democratiche" (cit., pag.35).
La democrazia, osservano i due autori, si caratterizza per la tensione continua fra due componenti fondamentali, il costituzionalismo che deriva dalla tradizione liberale e che, aggiungiamo noi, ispira le politiche genuinamente riformiste, e l'elemento popolare/populista, che risale addirittura al pensiero greco: il demos greco era peraltro molto ristretto, escludeva donne, stranieri, schiavi (cit., pag.21).
Il termine "popolo" può avere un significato positivo (popolare) oppure negativo (populista), il populismo seduce, corrompe, manipola le opinioni, provoca; al contrario, la giurisdizione (corte costituzionale, regole elettorali, procedure) ed il moltiplicarsi di autorità autonome di regolazione (agenzie, banche centrali, "governance" multilivello come l'Unione Europea) limitano l'elemento popolare estendendo e rafforzando nel contempo le garanzie per i cittadini, l'espansione dei diritti ma anche del mercato e riducono i margini di azione dei politici, che sempre meno riescono ad essere i "signori degli orologi" (cit., pag.55); la democrazia contemporanea si caratterizza perciò per un paradosso, cresce da un lato la responsabilità politica mentre dall'altro si riduce il campo della politica: "piove, governo ladro!" (cit., pag.56).
I movimenti populisti, a cominciare dagli Stati Uniti (Jackson, il People’s Party, ecc., pag.177), riusciranno tuttavia ad influenzare i sistemi politici sin dalla fine dell'Ottocento, inserendo nelle costituzioni degli stati elementi di democrazia diretta, elezioni primarie, referendum, iniziative popolari, il sistema del city-manager, ecc. La democrazia populista rigetta i vincoli ed i poteri bilanciati del liberalismo e del riformismo, ma non riesce a produrre storicamente nulla di positivo (peronismo, terrore giacobino, ecc., pag.60).
Il movimento populista contesta il sistema monetario, rifiuta le divisioni (in particolare quella fra destra e sinistra), si caratterizza spesso per un linguaggio reazionario e xenofobo, è contro la globalizzazione, contro le elites al potere di cui sottolinea la distanza dal popolo, è contrario al sistema elettorale rappresentativo, alle cui elezioni però partecipa ugualmente. Il populismo si alimenta della debolezza dei partiti politici, della personalizzazione della politica (ha bisogno di capi carismatici), dello sviluppo dei media ed in particolare della "videopolitica", e raccoglie le frustrazioni derivanti soprattutto dai problemi della disoccupazione e dell'immigrazione (cit., pagg.85-97).
Il leader populista conta più del partito, anche a livello locale, i media si sostituiscono ai partiti come strumenti di selezione dei politici e di mobilitazione dell'opinione pubblica; frasi brevi, contenuti vaghi, slogan semplici e ripetuti, manicheismo, provocazioni caratterizzano ormai indifferentemente sia i discorsi dei politici che quelli dei populisti, sempre più vincolati al mezzo televisivo che richiede emozioni, colpi ad effetto, ragionamenti brevi. Il populismo, identificando il leader col popolo, rischia in realtà di cancellare quest'ultimo, e di farlo in nome del popolo stesso (cit., pag.119).
Contrariamente al principio del mandato imperativo, osservano ancora Meny e Surel, la rappresentanza politica in Occidente funziona nella misura in cui ispira fiducia: sono motivi di delusione l'incapacità dei governanti, le promesse non mantenute, le violazioni etiche (cit., pag.147 e seguenti); l'isolamento sociale e l'insicurezza, ancor più che la variabile solo economica, generano risentimento e consenso ai movimenti ed ai partiti populisti.
Il populismo divide i rappresentanti dai rappresentati: elites contro popolo, grandi contro piccoli, i politici diventano "classe politica" e "politicanti" (cit., pag.159). Il populismo non conosce moderazione, è intransigente, radicale, antisistema ma anche semplicistico, retorico e preconcetto, non ha un corpo dottrinale coerente, è anti-intellettuale e spesso anche antiscientifico, in quanto basato su pregiudizi; il "popolo" diventa una sorta di frontiera che esclude sia gli stranieri che gli organismi sovranazionali, è una comunità particolare il più delle volte neppure reale ma immaginata solo in astratto, lo stesso termine "popolo" è polisemico: popolo-sovrano, popolo-classe, popolo-nazione (cit., pagg.172-173 e 257).
È più facile allora definire il populismo in negativo, come negazione di qualcosa ed esclusione di qualcuno, piuttosto che in positivo, per quello che propone; il populismo si contrappone al contrattualismo, al costituzionalismo, al liberalismo, alla divisione dei poteri, e naturalmente anche al riformismo; ha rapporti stretti sia con la destra che con la sinistra: esistono partiti populisti antistatali, partiti di sola protesta che esaltano la "funzione tribunizia", partiti nazionalisti, tutti comunque caratterizzati dalla forte presenza di leaders carismatici che ne condizionano esistenza e futuro, e da pochi temi centrali fra cui spiccano, come si è detto, quelli dell'immigrazione, dell'insicurezza, della globalizzazione intesa come minaccia (pagg.246, 255 e seg.).

Strettamente collegata ai movimenti populisti e più in generale di protesta è la folla che, secondo Gustave Le Bon (Psicologia delle folle, op.cit.), è tale non solo per la vicinanza spaziale degli individui (bastano pochi individui per fare una folla), ma per una sorta di unità mentale, un'anima collettiva che annulla le personalità coscienti (folla psicologica, pag.46 e seguenti); essa è in primo luogo una forza distruttiva, un elemento di disordine. L'azione inconscia delle folle riesce a sostituirsi all'attività cosciente degli individui, scompaiono spirito critico e facoltà di osservazione (pagg.29, 36, 67).
Sono caratteri delle folle (cit.,pag.52 e seguenti): omogeneità, mediocrità, potenza (distruttiva), irresponsabilità, suggestionabilità, interesse collettivo, annullamento della personalità cosciente, impulsività, immaginazione deformante (allucinazioni collettive, pag.65 e 72-73), intolleranza, impunità, abnegazione, idee semplici e traducibili in immagini, generalizzazioni, giudizi imposti e mai discussi, predominio dell'irreale sul reale (immaginazione popolare, pagg.95-96; illusioni, pag.144), trasformazione delle simpatie/antipatie in adorazione/odio e quindi idolatria, fanatismo, culto (pag.100 e seg.). In nessun'altra epoca, osservava Le Bon alla fine dell'Ottocento, le folle "innalzarono tante statue ed altari, come nell'ultimo secolo" (pag.103).
Gli oratori che vogliono sedurre una folla devono "esagerare, affermare, ripetere e mai tentare di dimostrare alcunchè con il ragionamento" (pag.76): non contano i fatti ma come vengono presentati (pag.98); sono i cambiamenti nelle opinioni quelli più importanti, e per quanto riguarda queste ed i sentimenti, le differenze di intelligenza non contano: il potere delle parole dipende dalle immagini che evocano e non dal loro significato reale, che peraltro cambia da epoca ad epoca e da popolo a popolo (pagg.31-32, 51, 135, 147 e seg.).
Opinioni e credenze sono determinate da fattori remoti quali razza, tradizioni, tempo, istituzioni, educazione (pag.111 e seg.) e da fattori immediati (affermazione, ripetizione, contagio, prestigio, pagg.163-167 e seg.). La storia umana è caratterizzata dalla creazione di tradizioni (civiltà) e dalla loro distruzione (progresso); ogni popolo è "un organismo creato dal passato" (pag.113) e l'educazione è il solo mezzo di intervento disponibile. L'arte di governo, secondo Le Bon, "consiste soprattutto nel sapiente uso delle parole" (pag.140 e 238).
Giurie ed assemblee parlamentari possono prendere decisioni che i loro singoli membri disapproverebbero se fossero soli (pag.56 e pag.239); le folle hanno bisogno di capi, dotati di carisma, uomini d'azione e di prestigio più che di pensiero (pag.152 e seg., pagg.175-176). Le Bon individua folle omogenee (sette, caste, classi) ed eterogenee (anonime e non anonime), folle criminali, folle elettorali: il dominio delle folle porta al ritorno della barbarie (pag.196 e seg.).
Le opinioni sono momentanee e mutevoli, le credenze permanenti e durevoli: la stampa aiuta a far conoscere opinioni diverse, e quindi a combattere la tirannia delle folle (pagg.178-187 e seg.).

9-3 MASSIMALISMI

Lo scopo dei rivoluzionari professionisti, osserva Tomas Maldonado (La speranza progettuale, op.cit.), è solitamente quello di prendere il potere, non quello di fare le rivoluzioni: i loro discorsi sono espressivi, pro-gestuali, non operativi, non progettuali; i rivoltosi di tutti i tempi (anabattisti, millenaristi, mistici, anarchici, ecc.) amano le rivolte più che il mondo a cui esse potrebbero dare origine (pag.111). Essi estetizzano la politica: "per il piacere, senza dubbio disintossicante, di una 'tragischer Monat' (Munster 1532), di una 'semana tragica’ (Barcellona 1909), o di una 'semaine de Mai’ (Parigi 1968), essere disposti a compromettere la realizzabilità di un'azione sicuramente meno turbolenta, ma probabilmente molto più efficace" (cit., pag.112).
Ma il dissenso, quando rinuncia alla speranza, quando è sprovvisto di progetti, non solo non è pericoloso per le forze del consenso, ma può anzi divenirne una forma più sottile (pag.66).
L'incontro fra il nichilismo culturale ed il nichilismo politico dà origine al nichilismo progettuale; scrive Maldonado: "la storia della crudeltà (o della crudeltà nella storia) ci insegna che quando, per cause oggettive o soggettive, la condanna non è stata possibile, si è giunti prima o poi all'applauso, quasi sempre attraverso una fase transitoria di indifferenza" (pag.44). Ridere, in questo contesto, "può anche essere un rifiuto a pensare (...) Ad Auschwitz si è arrivati a poco a poco: la beffa sui suicidi degli ebrei era il passo che preparava la beffa sull'omicidio diretto contro gli ebrei" (pagg.44-45).
Luciano Pellicani, nel saggio Mondolfo e la rivoluzione russa (in L’umanesimo socialista di Rodolfo Mondolfo, cit., pagg.19-25), dimostra come il marxismo generi fisiologicamente il potere totale e come il comunismo, sopprimendo il mercato, cancelli ogni forma di pluralismo; scrive Pellicani: "il problema del passaggio dal pluralismo liberal-democratico al pluralismo socialista può essere risolto solo a condizione di socializzare i mezzi di produzione senza abolire il mercato", dando vita ad una forma di socialismo autogestionario come fu indicato da Proudhon, ma anche da Merlino, Bernstein, Rosselli.

9-4 TOTALITARISMO

Jean-Jacques Rousseau, scrittore democratico, è tuttavia considerato uno dei padri spirituali dei moderni totalitarismi: ne Il contratto sociale egli osserva infatti che il corpo sociale forzerà ad essere libero chi si rifiuta di obbedire alla volontà generale, la quale è inalienabile e indivisibile, e tende all'uguaglianza (cit., pagg.67-74); la volontà generale si distingue dalla volontà di tutti, che è una somma di volontà particolari, richiede l’eliminazione delle società particolari ed è quindi totalitaria (cit., pagg.159-160).
Secondo Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo, op. cit.), gli elementi fondanti del totalitarismo sono il terrore, l'ideologia, la superfluità , l'estraniazione; la legalità è ciò che caratterizza le monarchie e le repubbliche, l'illegalità è ciò che caratterizza invece le tirannidi, il terrore, il totalitarismo.
Il terrore si manifesta nel regime totalitario soltanto dopo l’eliminazione dei nemici reali, quando comincia la caccia ai cosiddetti nemici oggettivi: "qualsiasi delitto costruito dai governanti per via di ragionamento deve essere punito, a prescindere dal fatto che sia stato o no realmente commesso" (cit., pag.585). I nemici vengono individuati ideologicamente come portatori di tendenze: "a causa della loro capacità di pensare gli uomini sono sospetti per definizione" (cit., pag.589).
Amnesty International, nel libro Omicidi politici governativi (op.cit.) descrive il potere della morte dei Khmer Rossi in Cambogia in questi termini:

"Risulta da tali testimonianze che le uccisioni non erano semplicemente un atto di vendetta portato a termine nel momento caldo della vittoria, ma l'attuazione di direttive del governo centrale. (...) Le uccisioni nei confronti degli ex ufficiali e funzionari di Lon Nol riguardarono anche le loro famiglie. Venivano giustiziati mogli e figli allo scopo di evitare che potessero diventare oppositori del nuovo governo.
Alle uccisioni di ex membri della precedente amministrazione seguirono presto le esecuzioni dei membri della 'borghesia’ e dell' 'intellighenzia’. Le considerazioni che erano alla base di questa pratica sono riflesse in un documento emesso dall'Ufficio Esecutivo del Comitato di Partito per la Regione Orientale:
'Dobbiamo accrescere la vigilanza rivoluzionaria rispetto a quegli elementi che hanno servito la macchina amministrativa sotto il regime precedente, quali tecnici, professori, medici, ingegneri e altro personale tecnico. La linea del nostro Partito è quella di non impiegare queste persone in nessun ruolo. Se corriamo appresso a questa tecnologia, sentiremo che loro sono sottomessi e che noi li utilizziamo, ma ciò può creare la possibilità ai nemici di infiltrarsi nelle nostre fila più profondamente con ogni anno che passa e questo è un processo pericoloso.'
In linea con questo orientamento, gli intellettuali, spesso identificati rozzamente con tutti quelli che portavano occhiali, venivano individuati in vista di un trattamento particolarmente duro e in molte regioni del paese venivano giustiziati in maniera sommaria. Molti rifugiati hanno riferito che, dall'inizio del 1976, intellettuali, studenti, insegnanti, spesso descritti dai Khmer Rossi come 'i privi di valore’, scomparivano dal posto di lavoro e si presumeva che fossero uccisi. Un ex quadro dei Khmer Rossi ha richiamato come, nella provincia di Kompong Cham, si decise ‘di arrestare ”i privi di valore”, e cioè gli intellettuali, gli insegnanti e gli studenti che avessero superato la settima classe. il paese doveva eliminarli. Era questa la decisione del Comitato Centrale, così come era stata una sua decisione quella di eliminare i soldati nel 1975 e 1976'."

All'interno del sistema industriale sovietico, osserva Galbraith ne Il potere militare negli Stati Uniti (cit.), una burocrazia militare-industriale era intenta a perpetuarsi e ad accrescere il proprio potere; ma una burocrazia di questo tipo ha bisogno di persone istruite, con la conseguenza di generare al proprio interno individui che le faranno resistenza. Inoltre la burocrazia, osserva ancora Galbraith, si rivela incapace di reagire agli attacchi dopo i guai causati, come fu negli Stati Uniti dopo i disastri della Baia dei Porci e del Vietnam: l'esercizio del potere non può essere difeso e, al momento della resa dei conti, i burocrati come pure i dittatori, i monarchi, gli zar, i grandi capitalisti, i capi sindacali, sono tutti ugualmente incapaci di difendersi.

Hannah Arendt individua come nemici del totalitarismo la spontaneità, l'imprevedibilità delle azioni e dei comportamenti individuali, la libertà d'iniziativa (intellettuale, artistica, ecc.), le relazioni sociali quali la famiglia, gli amici, ecc.
Il dominio totale è possibile teoricamente solo su scala mondiale, ma contiene in sè sempre gli elementi della propria distruzione in quanto si basa sullo sradicamento, sulla superfluità, sull'isolamento e sull’estraniazione: il nuovo inizio, fuori dalle logiche totalitarie, è in realtà "garantito da ogni nuova nascita" (cit., pag.656).

9-5 UTOPIA CONTRO RIFORMISMO ?

Le utopie, scrive Bronislaw Baczko, sono immagini-guida, idee-forza, talvolta verità premature, utili a mobilitare energie collettive e ad orientarne le speranze (L'utopia, cit., Prefazione pag.XI e pagg.3-4).
Ci sono sei modi, osserva Baczko, di "parlare al futuro": utopia, profezia, divinazione, previsione, futurologia, fantascienza; le utopie sono dunque modalità in cui si esplica l’immaginazione sociale, ma esprimono anche ossessioni, attese e rivolte di una certa epoca, ciò che in essa viene considerato possibile o impossibile: eu-topos ovvero regione della felicità e della perfezione, ou-topos ovvero regione che non esiste in alcun luogo (pag.9).
Il vero politico è colui che sposta i limiti del possibile: l'immaginazione è fondamentale per l'uomo sociale, gli permette di uscire dalla propria limitata individualità ed ha reso possibili le istituzioni sociali stesse (pagg.85-94).
L'idea di storia-progresso diventa la promessa dell'utopia, l'età dell'oro è davanti a noi e non dietro di noi: esistono utopie della città, della sessualità, del sistema carcerario, della festa, che sconfinano in progetti di riforma, in politica, nella scienza: una realtà dell'immaginario (cit. pag.457).

Secondo Martin Buber, alla base delle utopie vi è il desiderio di giustizia contrapposto al dolore e alla critica per la situazione presente (Sentieri in utopia, cit., pag.16); l'utopia può essere sociale ma anche tecnica, può contenere proclami ed appelli e talvolta ha assunto il carattere della profezia apocalittica come il marxismo. Le rivoluzioni però, osserva Buber, ottengono risultati opposti a quelli desiderati e permettono la nascita non del nuovo ma solo di ciò che è già stato concepito nella società prerivoluzionaria, e che la storia recente ha mostrato in tutta la sua drammaticità. Peraltro, osserva ancora Buber, "non è lecito definire utopistico qualcosa in cui non abbiamo ancora messo alla prova la nostra forza" (pag.15).

Herman Kahn e Anthony J.Wiener, nel libro L'anno 2000 (op.cit.), hanno evidenziato come congetture sistematiche intorno al futuro possano essere costruite proiettando variabili-chiave quali la popolazione, il grado di istruzione, il pnl, la forza militare, le fonti di energia, ecc.
Le proiezioni permettono di descrivere un "mondo standard" e "variabili tipiche", le sequenze ipotetiche di eventi (processi causali e decisioni) possono determinare diversi scenari, futuri alternativi possono essere costruiti per discutere altri scenari o confrontare alternative politiche.
Un problema della speculazione di lungo periodo è però che nessun evento è più probabile di numerosi altri eventi possibili, e che in ogni momento possono manifestarsi spostamenti o anche punti di svolta, il ritmo delle innovazioni può non modificarsi ma anche subire accelerazioni o saturazioni; ogni studio sul futuro lontano è così destinato ad una veloce obsolescenza: il film 2001-Odissea nello spazio mostrava uno scenario di inizio secolo profondamente diverso da quanto è effettivamente successo proprio nell'anno 2001, caratterizzato non da esplorazioni spaziali ma, purtroppo, da un tragico 11 settembre all’insegna di un fondamentalismo religioso che si pensava fosse tramontato da secoli.
La storia, osservano gli Autori, non si può ripetere ma può parafrasarsi.
L'idea del futuro migliore del passato, l’idea di progresso, ma anche le eresie utopistiche e l’idea di paradiso in terra, è un’idea dominante in Occidente e si è diffusa nel mondo intero proprio per l'influenza della cultura occidentale; il punto finale è la conclusione di un processo teleologico basato sia su tendenze attuali che sulla convinzione della sua raggiungibilità attraverso la programmazione o l'ingegneria sociale. Il riformismo è pertanto, in massima parte, e sicuramente in quella parte che più ci interessa (il riformismo democratico), un prodotto della cultura politica occidentale.
Questo fatto va tenuto ben presente, perché spiega le difficoltà che incontra l’applicazione di questo metodo politico a paesi di cultura diversa da quella occidentale: la sua esportazione, come pure l’esportazione della democrazia, non è così semplice e, soprattutto, può riuscire solo in un arco temporale sufficientemente ampio; la democrazia, e il riformismo democratico, non si possono imporre per decreto.

James Meade propone una Agathotopia come "un buon posto dove vivere" (Agathotopia, op.cit., pag.7), in alternativa all'utopia che, al contrario, propone istituzioni perfette per cittadini perfetti.
L'economia di Agathotopia non è pianificata ma fondata sul metodo della partnership (cfr. anche l'Introduzione di Edwin Morley-Fletcher, pagg.IX-X), metodo che viene considerato come una possibile soluzione del problema distributivo che il socialismo della pianificazione ha posto, ma che non è riuscito a risolvere.
Meade immagina la cooperazione tra lavoro e capitale, immagina certificati azionari del capitale, capital share certificates equivalenti ad azioni liberamente negoziabili, e certificati azionari del lavoro, labour share certificate vincolati allo status di socio lavoratore, con un consiglio d'amministrazione paritario, un presidente con voto decisivo, la condivisione del rischio d'impresa diffuso ma moderato da una "rete di sicurezza", il superamento del principio della parità di salario a parità di lavoro o principio di differenziazione (pagg.62 e seg.).
In Agathotopia il cittadino potrebbe disporre di più fonti di reddito: salario fisso, partecipazione al profitto d'impresa, dividendo sociale derivante dall'attivo del bilancio pubblico, reddito derivante dalle proprietà equamente distribuite fra pubblico e privato (cit., pagg.66 e 91). Il sistema fiscale grava sul reddito speso, incentivando profitti ed investimenti, ma anche su eredità e donazioni; i diritti ereditari sono infatti per Meade un residuo feudale (introduzione, pag.XXI).
Le rivoluzioni moderne, osserva in proposito Salvatore Veca, "generano Stato": alla teoria della monarchia assoluta del XVII secolo è seguita la teoria del partito unico del XX secolo; alla nozione di società perfetta occorre invece sostituire quella di società migliore (Crisi della democrazia e neocontrattualismo, cit., pagg.40-51).

Interessante è poi il tema che potremmo chiamare impropriamente dell’utopia spaziale, che rientra a pieno titolo nella storia del riformismo del XX secolo grazie soprattutto alla Nuova Frontiera di Kennedy, che fu all’epoca il tentativo di spostare la competizione fra Stati Uniti ed Unione Sovietica dal campo dell’escalation militare a quello dell’esplorazione spaziale; dopo il crollo del comunismo, la “gara” per la conquista del cosmo è venuta meno, ma è iniziata una nuova collaborazione internazionale che, sia pure su scala più modesta e silenziosa, sta portando avanti alcuni progetti di esplorazione e di sperimentazione nello spazio.
Negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo le prospettive della colonizzazione extra terrestre apparivano invece assai più imponenti rispetto ad oggi e, per certi aspetti, anche decisive per le sorti stesse dell’umanità; in un libro del 1976, Colonie umane nello spazio (op.cit.), Gerard K.O’Neill evidenziava come le limitate dimensioni della Terra creano quattro problemi principali: la scarsità di energia (con conseguente riduzione della libertà di movimento, povertà, inquinamento), la scarsità di cibo, la scarsità di spazio vitale, la crescita della popolazione con tutti i mali connessi al numero (criminalità, corruzione, sporcizia, malattie, alienazione, cit. pag.49). Piccoli programmi di aiuto sono inutili, il non fare è un'azione che condanna alla fame milioni di individui, e secondo O’Neill occorre invece affrontare su larga scala povertà ed ignoranza, con un programma di sviluppo che si può realizzare pienamente solo fuori dalla Terra (pag.40).
Gli obiettivi della colonizzazione dello spazio sono strettamente connessi all'aumento della popolazione mondiale, che solo in questo modo non avrebbe bisogno di essere regolamentata aumentando la libertà e le opzioni per ogni essere umano "senza guerre, fame, dittature o costrizioni" (cit., pag.42); nel contempo, l'umanizzazione dello spazio consentirebbe l'accesso a energia illimitata e a basso costo, territori illimitati, risorse materiali "disponibili senza rubare o uccidere o inquinare" (cit., pag.43). L'emigrazione nello spazio non deve essere però un viaggio di sola andata: deve poter valere infatti l’ "opzione del ritorno a volontà " (cit., pag.54).
O’Neill esclude la colonizzazione di altre superfici planetarie, soprattutto a causa degli svantaggi gravitazionali (pag.47); la notte lunare e la sua gravità rappresentano ostacoli all'insediamento (pag.149), inoltre sulla Luna mancano alcuni materiali che sono invece presenti in quantità negli asteroidi (pag.197). Le radiazioni solari possono poi fornire tutta l'energia necessaria: "l'energia nucleare sulla Terra non può competere con l'energia solare nello spazio" (pag.65).
Un forte tasso di sviluppo industriale per lungo tempo che non danneggi l'ambiente richiede infatti energia solare illimitata, risorse quasi illimitate (dagli asteroidi), delle localizzazioni nello spazio che siano vicine alla Terra. I processi industriali sono avvantaggiati dalla gravità zero; la rotazione simula la gravità, O’Neill evidenzia (nel 1976) che sono già disponibili tecnologie per realizzare habitat grandi come metà Svizzera, con aree per l'industria, per l'agricoltura, per il soggiorno e la ricreazione (pagg.74-79).
Nello spazio è possibile un'agricoltura intensiva biologica, libera da parassiti (pagg.60 e 81), caratterizzata da doppia semina (sovrapposizione di due cicli di crescita), da raccolti multipli (piante a stelo alto con piante basse), da un clima stabile e temperature ideali che consentono di realizzare più raccolti l'anno.
Le guerre territoriali sulla Terra sono impensabili nelle comunità spaziali; in un habitat spaziale, inoltre, molti pericoli tipici della Terra non esistono: terremoti, vulcani, cicloni, uragani, tifoni, incidenti automobilistici, atti terroristici (pagg.121-122).
La colonizzazione dello spazio interplanetario rende "immortali" in senso fisico, perché rende indipendenti da possibili catastrofi terrestri (pag.204); inoltre, ognuno avrà la sensazione dell'importanza del proprio lavoro, non vi sarà disoccupazione, gli ambienti dovranno essere confortevoli (pag.233). In una certa fase della crescita, "gli scambi fra le isole nello spazio cominceranno a dominare sull'economia 'coloniale’ degli scambi con la Terra" (pag.242); il "commercio estero" garantirà nel lungo termine il successo economico delle comunità spaziali (pag.261).
A lungo termine, infatti, l'industria di base sulla Terra non potrà competere con quella nello spazio, O’Neill immagina "una Terra non industriale con una popolazione di circa un miliardo di abitanti" in cui l'industria principale sarebbe proprio il turismo dallo spazio (pag.276).
Con la crescente automazione della produzione, nello spazio l'uomo potrà intervenire solo in campi dove servono creatività ed immaginazione: "architettura del terreno, degli edifici e forse nuove specialità artistiche come progettazione del tempo ed ecologia creativa" (pag.267).
Le comunità spaziali avranno una densità di popolazione decrescente, l’abbondanza di energia e di materie prime, economie senza inflazione, una durata della vita più lunga per l'ottimizzazione di atmosfera, temperatura, radiazione solare e minore rischio di morti accidentali; gli anziani e coloro che sulla Terra sono costretti a letto avrebbero libertà di movimento in zone a gravità vicina allo zero (pagg.270-271).
Per innescare il processo produttivo nello spazio occorreranno comunità spaziali abbastanza grandi (nell’ordine delle migliaia di persone, pag.124): "costruire industrie nello spazio a partire da materiali terrestri sarebbe assurdo" (pag.141); sulla Terra siamo infatti "svantaggiati gravitazionalmente" (pag.158).
L'umanizzazione dello spazio, osserva ancora O’Neill, è opposta allo spirito delle utopie classiche, caratterizzate da costrizione interna e libertà da interferenze esterne; i viaggi saranno più frequenti di quanto lo siano oggi sulla stessa Terra perché il loro costo sarà molto più basso, non vi saranno restrizioni tecnologiche: "l'umanizzazione dello spazio non è un tema utopistico" (pagg.245-247), sebbene ciascuna comunità spaziale potrà diventare un laboratorio sociale indipendente.
La libertà di avere tanti figli, di comunicare, di viaggiare, di scegliere l'impiego: nello spazio sarebbero associate ad una crescita delle superfici anzichè ad un maggiore affollamento, le risorse che possono essere recuperate dagli asteroidi sono infatti enormi e permettono la costruzione di territori con superfici migliaia di volte superiori a quella della Terra (pagg.258-259). L'umanizzazione dello spazio, conclude O’Neill, è "un'avventura ancora più affascinante delle grandi esplorazioni del passato" (pag.307).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Amnesty International, OMICIDI POLITICI GOVERNATIVI, Roma 1983
- Autori vari, LA POLITICA, PERCHE? Riflessioni sull'agire politico (Donzelli editore, Roma 2001)
- Hannah Arendt, LE ORIGINI DEL TOTALITARISMO, Milano 1978
- Bronislaw Baczko, L’UTOPIA, Torino 1979
- Norberto Bobbio, PROFILO IDEOLOGICO DEL NOVECENTO ITALIANO (ed. Einaudi, Torino 1986)
- Norberto Bobbio, IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA (ed. Einaudi, Torino 1984)
- Norberto Bobbio, L’ETÀ DEI DIRITTI (ed.Einaudi, Torino 1990)
- Norberto Bobbio, STATO, GOVERNO, SOCIETÀ (ed.Einaudi, Torino 1985)
- Norberto Bobbio, QUALE SOCIALISMO? (ed.Einaudi, Torino 1970)
- Norberto Bobbio, Giuliano Pontara, Salvatore Veca, CRISI DELLA DEMOCRAZIA E NEOCONTRATTUALISMO (ed. Editori Riuniti, Roma 1984)
- Martin Buber, SENTIERI IN UTOPIA (ed. Comunità, Milano 1981)
- John Kenneth Galbraith, IL POTERE MILITARE NEGLI STATI UNITI (How to control the military, 1969)
- Herman Kahn, Anthony J.Wiener, L'ANNO 2000. La scienza di oggi presenta il mondo di domani (The Year 2000, 1967)
- Gustave Le Bon, PSICOLOGIA DELLE FOLLE (1895/ed. Longanesi-CDE, Milano 1981)
- Tomas Maldonado, LA SPERANZA PROGETTUALE (ed. Einaudi, Torino 1971)
- James Meade, AGATHOTOPIA (ed. Feltrinelli, Milano 1990)
- Yves Meny, Yves Surel, POPULISMO E DEMOCRAZIA (ed. Il Mulino, Bologna 2001)
- Gerard K.ÒNeill, COLONIE UMANE NELLO SPAZIO (ed. Mondadori, Milano 1979)
- Luciano Pellicani, RIFORMISMO (in Mondoperaio, gennaio-febbraio 2004)
- Luciano Pellicani, MONDOLFO E LA RIVOLUZIONE RUSSA (in AA.VV. L'Umanesimo Socialista di Rodolfo Mondolfo, Milano 1977)
- Jean-Jacques Rousseau, IL CONTRATTO SOCIALE (1762, Du contrat social ou principes du droit politique, ed. Bur Rizzoli, Milano 1991)

 

10- RIFORMISMO E CASI CRITICI

10-1 RIFORMISMO E “CASI CRITICI”

Sebastiano Maffettore, nel libro Il valore della vita (op.cit.) osserva che il progresso scientifico e tecnologico aumenta il controllo sociale sui momenti di inizio e di fine della vita e con ciò aumenta le responsabilità umane introducendo decisioni di merito che richiedono di giustificare scelte drammatiche che in epoche passate non costituivano materia di decisione alcuna. Una caratteristica comune dei dilemmi morali è infatti la difficoltà di costruire argomenti decisivi e conclusivi.
La bioetica confronta diritti morali contrapposti (del feto e della madre, della ricerca libera e della tutela del patrimonio genetico) e presuppone l'argomento politico perché le decisioni che ne derivano producono effetti socialmente rilevanti.
Maffettone distingue la micro-bioetica, che comprende l’etica medica, la discussione sui casi controversi, sulla ricerca, ecc., dalla macro-bioetica, che si occupa invece di questioni di giustizia distributiva applicata alla sanità (cit., pag.173).
In bioetica contano gli argomenti e non l'autorità da cui promanano (pag.278), e talvolta il metodo migliore per decidere è votare (pag.314).
Il pluralismo culturale è infatti inevitabile, è oggi implausibile una morale universalistica come voleva l'Illuminismo, giustificabile solo razionalmente; il problema è stabilire un minimo di etica comune fra stranieri morali, constatato che non esistono argomenti morali vincenti in modo definitivo.
Giustificare significa allora dare buone ragioni, difendibili con argomenti plausibili e capaci di influenzare la volontà (pag.156).
La soluzione dei casi critici dipende dalla nostra idea di valore della vita (pag.29), idea che è una creazione umana, non appartiene al mondo naturale e può essere intesa in due modi: come autorealizzazione, o come rispetto (pag.129).
Diamo un valore economico alla vita allorchè decidiamo di destinare risorse a certi settori della sanità piuttosto che ad altri; valutazioni analoghe vengono prese dagli assicuratori in sede di risarcimento danni, o quando si decide di viaggiare in modo più o meno sicuro (pag.94).
Secondo Maffettone, la qualità della vita è un elemento fondamentale rispetto al suo valore: salute, beni primari, relazione con gli altri, stato mentale dignitoso.
Per porsi il problema della difesa della vita non umana occorre prima chiedersi chi è soggetto morale e perché: le varie posizioni sulla vita possono essere antropocentriche o biocentriche, ed entrambe possono essere radicali o moderate (pag.83); si va dall’estremo dell’ottimismo tecnologico secondo cui scienza e tecnologia nel tempo trovano rimedi anche ai loro stessi guasti, all’estremo opposto del biocentrismo radicale caratterizzato da atteggiamenti fondamentalisti e che è incompatibile con l'etica pubblica.
Il costruttivismo, osserva ancora Maffettone, "fa dipendere una visione della realtà da una procedura di costruzione" (cit., pag.84) e si pone come intermedio fra realismo e idealismo; le teorie consequenzialiste, fra cui vi è l'utilitarismo, sono invece teleologiche: l'obbligo e il giusto dipendono da ciò che è buono, solitamente definito come valore non morale o extramorale (pag.140); il comunitarismo (Sandel, MacIntyre, Walzer, Taylor) sostiene invece che i giudizi morali sono concepibili solo da partecipanti e non da osservatori (pag.194).
L'etica individuale può prevedere linee di condotta ottimali, l'etica pubblica richiede invece soluzioni intermedie di decenza morale (pag.142); inoltre, i giudizi etici dipendono dal contesto sociale, vi è una sorta di relativismo etico in cui sono importanti l'accordo semantico (intendersi sul significato delle parole), la massima informazione fattuale, la ricerca di controesempi.
L'etica pubblica liberale considera fondamentali l'autonomia, cioè far valere le proprie scelte e visioni considerando quelle altrui, l'integrità, ovvero la coerenza nel tempo, e la beneficenza utilitarista, ovvero l’attenzione per il benessere altrui.
Il liberale è un non fondamentalista perché prende sul serio le opinioni altrui; lo stato liberale è neutrale perché permette la convivenza di differenti visioni del mondo e concezioni morali e, precisa Maffettone, è "una conseguenza del pluralismo delle concezioni del bene nell'ambito di una concezione liberale della giustizia" (pag.187). L'ipotesi empirica di base è che istituzioni giuste generino fiducia e stabilità.

10-2 PRINCIPI MORALI IN CAMPO BIOETICO PER IL RIFORMISMO

Anche Guy Durant osserva che la bioetica è un luogo politico (La bioetica, op.cit., pag.29).
Durant distingue i principi dalle regole: i primi (i principi) sono pochi e indeterminati, le seconde (le regole) sono invece molteplici, variabili e precise.
Sono principi di base della riflessione bioetica (pag.42 e seguenti):
a) il rispetto per la vita, che è l'unico principio che conta dal punto di vista vitalistico: tutti gli altri punti di vista parlano infatti di qualità della vita;
b) il principio di autodeterminazione, fondato sull'autonomia della persona: questo principio richiede che il consenso debba sempre essere libero e informato, tranne che in casi ben individuati (il consenso del malato non è sufficiente ad esempio per legalizzare l'eutanasia).
Sono regole classiche della riflessione bioetica:
a) il precetto non uccidere, che però può ammettere importanti eccezioni che sono oggetto di controversie morali: legittima difesa, pena di morte, guerra giusta;
b) la responsabilità etica di promuovere la salute: in positivo, con alimentazione corretta, riposo sufficiente, cure non onerose; ma anche in negativo escludendo il ricorso a mezzi straordinari, fisicamente umilianti, psicologicamente dolorosi, dal rischio o dal costo eccessivo: i mezzi devono essere infatti proporzionati in relazione al soggetto, ai progressi della medicina, alla situazione sociale;
c) l’integrità fisica: è però giustificato sacrificare un organo per salvarne la persona;
d) un atto a duplice effetto (uno positivo e l'altro negativo) è da considerarsi morale se l'atto in questione è buono o almeno indifferente, se l'intenzione di chi agisce è rivolta al solo effetto positivo, se l'effetto positivo discende dall'atto e non dall'effetto negativo (altrimenti il fine giustificherebbe i mezzi), e se la ragione per compiere l'atto è proporzionata al rischio (non esistono altri mezzi).
Durant elenca anche alcuni principi derivanti dalla tradizione ippocratica:
a) il principio del beneficio: primum non nuocere, il passo successivo è il dovere di fare del bene al malato;
b) il principio di benevolenza o empatia, che comporta confidenzialità (fiducia) e segreto medico.
Vi sono poi alcuni nuovi principi, anch’essi importanti per la riflessione bioetica:
a) l'universalizzazione: tale è la teoria kantiana nonchè regola aurea delle religioni, che stabilisce di non fare agli altri quel che non vorresti fosse fatto a te;
a) l'utilitarismo;
c) l'uguaglianza: l'età del paziente, i suoi mezzi economici, la sua origine razziale, la sua religione non devono essere ad esempio condizioni di discriminazione;
d) giustizia ed equità: favorire i più svantaggiati (l'uguaglianza delle opportunità di Rawls) con la garanzia di accesso ai servizi. Durant osserva in particolare come la teoria della giustizia di Rawls si proponga di "trovare un equilibrio armonico fra l'uguaglianza di fondo degli esseri umani e le differenze di fatto esistenti fra di loro" (cit., pag.90).
La definizione di vita umana è ambigua, si parla infatti di vita umana biologica ma anche di vita umana personale, come pure il momento della sua origine; il problema di decidere quando applicare il termine persona (ad embrioni, feti, neonati malformati, disabili psichici, pazienti in coma) ha un profilo filosofico ("sono effettivamente delle persone?") ma ha anche un profilo giuridico: "bisogna riconoscere loro dei diritti? diritti identici a quelli degli altri?" (cit., pag.82).
Inoltre, per la riflessione bioetica è importante sapere che:
a) anche esseri umani non riconosciuti come persone possono venir rispettati;
b) in circostanze determinate, trattamenti ritenuti inutili possono essere interrotti anche ad una persona umana pienamente riconosciuta.
Secondo Durant non è comunque lecito moralmente fare tutto quello che è possibile tecnicamente e la legislazione, per essere efficace, "dovrebbe avere respiro internazionale" (cit., pag.98).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Guy Durand, LA BIOETICA (ed. Mondadori, Milano 1996)
- Sebastiano Maffettone, IL VALORE DELLA VITA, (ed. Mondadori, Milano 1998)

 

11 RIFORMISMO E PROGRESSO MORALE

11-1 ESISTE UN “PROGRESSO MORALE”?

Esiste un progresso morale? La domanda non è futile, e neppure fuori luogo per l’argomento che stiamo trattando in questa sede: l’idea stessa di riformismo presuppone quella di un miglioramento graduale, non solo sul lato del benessere materiale, ma anche su quello dei principi morali.
Il corso degli eventi, osserva Bertrand Russell (Autorità e individuo, op.cit.) è imprevedibile a causa delle nuove conoscenze: nessuno avrebbe mai potuto prevedere prima la Chiesa Cattolica o l'Unione Sovietica: "ogni profezia relativa all'avvenire dell'umanità dev'essere trattata solo come un'ipotesi" (cit., pag.42). Eppure per Russell un progresso morale esiste, inizia con la universalizzazione della morale, che prima era solo tribale, e si manifesta nei confronti della schiavitù, dei prigionieri di guerra, dei padri e mariti, delle razze (pag.51). La tecnica moderna ha reso possibile lo stato totalitario, dove i "novatori morali" non possono esistere: i regimi totalitari sono infatti fatali al progresso morale, che è invece protesta e tentativo di accrescere la solidarietà, e che sono possibili solo in un contesto democratico.
La morale personale e quella civica, osserva ancora Russell, sono entrambe necessarie: "senza una morale civica le comunità periscono; senza una morale personale, la loro sopravvivenza non ha alcun valore" (pag.119). La sfera dell'azione individuale non è eticamente inferiore rispetto a quella pubblica; vi è una eccellenza privata, e le migliori attività umane sono personali, non sociali: profeti, poeti, scienziati sono uomini solitari (pag.122).
Per Russell, in cultura una condizione di progresso è la diversità, la concorrenza non deve essere economica e militare ma intellettuale e culturale (pag.116), va combattuto ogni regno scolastico dell'autorità (pag.104).

Robert J. Forbes (L'uomo fa il mondo, op.cit.) osserva come la storia dell'uomo e della sua conquista della natura sia una storia di invenzioni e di scoperte più che di azioni politiche (pag.15), ed è una storia ascendente: qualsiasi invenzione parte dalle conoscenze già acquisite, l'inventore è ricco di immaginazione, riesce a precedere i suoi contemporanei ma solo di poco perché legato al loro stesso passato ed al loro stesso presente (pag.17).
La storia delle invenzioni dimostra inoltre l'identità dell'umanità, nessun gruppo o nazione possiede infatti la chiave della conoscenza; lo sviluppo scientifico implica la fraternità internazionale del pensiero scientifico (pag.372): nessuna scoperta può rimanere a lungo segreta, i limiti geografici e politici sono stati superati, "l'aeroplano, il telefono, il telegrafo e la radio hanno istituito possibilità di comunicazioni molto più ampie di quelle consentite dalla parola scritta" (pag.373, e noi potremmo aggiungere oggi che Internet le ha ulteriormente amplificate). Il progresso della scienza è legato ad altri aspetti dell'attività umana: "ciascuna generazione si trova di fronte a una nuova serie di problemi, caratteristici del suo tempo, cui può trovare risposta solo elaborando una scienza e una tecnica sue proprie" (pag.374). Valori spirituali e progresso materiale devono perciò necessariamente svilupparsi insieme.
Per Forbes, tre fenomeni caratterizzano la storia dell’umanità dal XIX secolo: la progressiva concentrazione delle popolazioni nelle città, lo sviluppo di regioni industriali (e l'espansione della siderurgia), l'espansione del commercio mondiale (pag.304).
Lo sviluppo della tecnica e la produzione standardizzata hanno avuto conseguenze dirette sul nostro livello di vita; scrive Forbes: "l'americano del 1776 disponeva dell'aiuto di un servitore per due settimane all'anno, mentre oggi è padrone di sessanta schiavi" (pag.362); la maggiore energia prodotta viene utilizzata principalmente per riscaldamento, illuminazione, trasporto, alimentazione, elettrodomestici: i più poveri di oggi non muterebbero le loro condizioni materiali di vita coi più ricchi del XVIII secolo (pag.362).
I progressi in passato avvenivano per tentativi ed errori, la ricerca scientifica produce ora risultati che derivano invece da lavoro sistematico, specializzato, collettivo, nella sfera universitaria: "la chiave del progresso umano sta nella cooperazione invece che nella competizione" (pagg.363-374).
L'equivoco tecnocratico, osserva Lester R.Brown (I limiti alla popolazione mondiale, op.cit.), assimila invece il progresso materiale a quello morale.

Secondo Claude Lévi-Strauss (Razza e Storia, op.cit.), l'umanità non evolve a senso unico, anche quando la sua storia appare stazionaria o regressiva potrebbero esservi grandi trasformazioni in corso da un altro punto di vista: il progresso è infatti un concetto sempre predeterminato dal gusto e dal giudizio dell'osservatore.
La civiltà mondiale è oggi un fatto unico nella storia umana, ma l'adesione al genere di vita occidentale non è stata spontanea perché gli occidentali hanno imposto ovunque soldati, missionari, piantagioni, banche e il proprio modo di esistenza; la civiltà occidentale si caratterizza per fenomeni compensatori: cerca di accrescere la quantità di energia procapite, ma genera disuguaglianze; cerca di proteggere e prolungare la vita umana, ma contempla la guerra.
Le forme di storia più cumulative, osserva Lévi-Strauss, sono quelle prodotte non da culture isolate ma da relazioni fra culture, attuate con i mezzi più diversi: influenze, scambi commerciali, migrazioni, guerre.
L'Europa rinascimentale fu il luogo di incontro delle influenze più diverse: greca, romana, germanica, anglosassone, araba, cinese; le civiltà precolombiane erano caratterizzate da stupefacenti progressi ma avevano molte lacune, gli antichi messicani conoscevano la ruota ma non il carro: la più grande tara che possa affliggere un gruppo umano è quella di essere solo.
La nozione di civiltà mondiale, secondo Lévi-Strauss, è povera, schematica, di modesto contenuto intellettuale ed affettivo; essa non può essere che una coalizione di culture, ciascuna con la propria originalità. La diversificazione, in forme variabili e su piani diversi, permette quello stato di equilibrio da cui dipendono la sopravvivenza culturale e biologica dell'umanità; il progresso non è perciò "somiglianza migliorata" ma implica avventure, rotture, scandali.

Karl Lowith, in Significato e fine della storia, argomenta l'impossibilità di una filosofia della storia, o storicismo; l'idea che la storia universale possa essere interpretata alla luce di un principio, ed abbia un significato ultimo, è di derivazione teologica (cit., pag.21). Voltaire introduce l'idea di progresso moderato, condizionato dal prevalere o meno della ragione (pag.133); Hegel, invece, fu un "profeta alla rovescia" che vedeva il compimento della storia nel suo mondo di allora, ancora circoscritto alla vecchia Europa (pag.80).
Le filosofie della storia, osserva Bobbio nel libro Il problema della guerra e le vie della pace, (op.cit.) nascono con le catastrofi dell'umanità, fra le quali la guerra ha "un posto preminente" (pag.31); è lo spettro della guerra atomica a togliere significato alla storia ed alle filosofie della storia, ed inoltre smentisce tutte le teorie del progresso (pagg. 32-40 e 77).
L'immagine più appropriata della condizione umana è perciò per Bobbio quella del labirinto, la cui unica lezione è quella della strada bloccata: la storia non si fa con i se, le sue vie sono obbligate (pagg.31-34).
Storicamente, nei rapporti internazionali prevale la coppia guerra-disordine, in quelli nazionali pace-ordine (pag.123); tuttavia, nella visione globale della storia, la pace ha un valore superiore alla guerra: "nella sua necessità la guerra è pur sempre un male, nella sua insufficienza la pace è pur sempre un bene" (pag.135).
La politica viene definita da Kant (Per la pace perpetua, op.cit.) dottrina pratica del diritto e la morale dottrina teoretica del diritto (pag.123): ne deriva la figura del politico morale, mentre è invece da escludere quella del moralista politico, che costruisce una morale "a partire dagli interessi dell'uomo di Stato" (pag.127).
John C. Harsanyi osserva invece come per gli utilitaristi la moralità non sia il valore più alto della vita umana (come per Kant) ma solo un mezzo per realizzare altri fini (L’utilitarismo, op.cit., pag.103): la grande fedeltà a valori morali si sposa spesso col fanatismo morale, una società sana ha invece bisogno di motivazioni altruistiche ed egoistiche, opportunamente equilibrate (pag.131).
Il codice morale utilitarista dà uguale peso a priori agli interessi legittimi di ogni persona, giudicandone l'importanza con criteri simili a quelli del senso comune, evitando di applicare regole di priorità rigide, artificiali: regole meccaniche e semplicistiche infatti non possono tener conto della complessità dei dilemmi morali, e spesso portano a scegliere soluzioni sbagliate e discriminatorie (pagg.127-133).
Le regole morali possono essere interpretate allora come imperativi ipotetici (pag.68), e la scala (micro e macro situazioni), secondo Harsanyi, non è una variabile importante in etica (pag.134).

11-2 IL PROGRESSO MORALE COME PREMESSA DEL RIFORMISMO

Giuliano Pontara, in Crisi della democrazia e neocontrattualismo (op.cit.), individua alcune preferenze fondamentali: ad essere in vita, a non soffrire, a formarsi autonomamente le preferenze, da cui discendono per ciascuno i diritti alla vita, alla salute, all'autonomia (pagg.108-112). Nello stesso volume, Norberto Bobbio evidenzia come gli argomenti a difesa dei diritti fondamentali siano condizionati storicamente e pertanto non si può escludere una "evoluzione etica dell'umanità " (pag.117).
L'espressione diritti umani , osserva Sebastiano Maffettone, ha sostituito quelle precedenti dei diritti naturali sottolineando così la loro storicità e la loro non assolutezza (Il valore della vita, op.cit., pag.87).
La storia della tolleranza, in particolare, è la storia della lotta contro l'autoritarismo e il totalitarismo, è la storia della conquista della libertà e del diritto di autodeterminazione degli individui e dei popoli.
La democrazia e la pace presuppongono una tolleranza forte (positiva) ed una intolleranza debole (negativa); l'autoritarismo, il totalitarismo e la guerra impongono, al contrario, condizioni di intolleranza forte. La realtà delle democrazie capitalistiche, secondo Bobbio, sembra invece essere quella di un eccesso di tolleranza in senso negativo, un eccesso di lasciar fare, di indifferenza o neutralità nei confronti delle tesi e delle ragioni addotte dall'avversario.
Si pone allora il problema del rapporto tolleranza/intolleranza, che non è mai un "gioco a somma zero", verso l'intolleranza altrui: è giustificabile un atteggiamento di tolleranza nei confronti degli intolleranti ?
Non esiste un criterio definitivo, sostiene Bobbio, per stabilire a priori se l'atteggiamento nei confronti dell'intollerante debba essere di tolleranza oppure di intolleranza: soluzioni storiche favoriscono ora l'una ora l'altra soluzione.
Il problema della tolleranza o intolleranza verso l'errore (e l'errante) è un problema di giustificazione: si tratta di enumerare le buone ragioni della tolleranza e di contrapporle alle cattive ragioni dell'intolleranza; il problema della tolleranza o intolleranza verso il diverso è, al contrario, un problema di discriminazione. L'intolleranza verso l'errore è questione di scetticismo, l'intolleranza verso il diverso è questione di fanatismo.

Le nostre convinzioni di base, osserva Adam Seligman ne L’idea di società civile, derivano dalle rivoluzioni settecentesche; tra esse, vi è l'idea di società civile che armonizza bene sociale e interesse individuale, altrimenti conflittuali (cit., pagg.7-11).
Sono rapporti problematici, e non coincidenti (pag.42), quelli fra pubblico/privato, individuale/sociale, interesse del singolo/etica pubblica, "passioni individuali e questioni pubbliche" (pag.15).
Nella seconda metà dell'Ottocento l'attenzione si focalizza sull'idea di cittadinanza; in Europa il movimento socialista è il più importante tentativo "di allargare la base di appartenenza e di partecipazione alla società " (pag.118), l'esclusione più che la disuguaglianza economica è alla radice dello sviluppo dei movimenti socialisti europei.
La società civile veniva vista talora come un'illusione che mascherava l'esclusione, in altri casi come un modello non attuato. Negli Stati Uniti, poi, il cambiamento veniva elaborato dai movimenti sociali, non dai partiti politici (pag.127); i movimenti ecologisti e femministi hanno per oggetto richieste che prima erano considerate "di natura non politica" (pag.19).
I concetti di società civile e di cittadinanza sono complementari: la cittadinanza ha diverse dimensioni analitiche (aspetti politici, civili, sociali, pag.129), una interpretazione più ampia (estensione ed universalizzazione della cittadinanza, pag.141) riconosce i diritti sociali (la solidarietà comune) in aggiunta ai diritti individuali, civili e politici.
Dai diritti del cittadino si è poi passati ai diritti umani; alcuni diritti non sono diritti civili (come il diritto alla riproduzione, a indossare una pelliccia, a portare armi da guerra) ma "passioni e interessi privati proiettati in ambito pubblico sotto forma di diritti" (pag.152): il privato si sostituisce al pubblico e diviene oggetto di interesse pubblico, azione e pensiero politico fanno diventare di interesse pubblico le questioni private e personali, l'esagerazione del privato è concomitante alla svalutazione dell'ambito pubblico (pag.157).
Seligman evidenzia l'importanza della fiducia precontrattuale nella società, che si basa sull'idea di individuo morale della tradizione liberale e che precede e l'idea dei diritti, e l'idea di promessa ed i suoi derivati contemporanei (pagg.194-207); la società civile propone la nozione di personalità legale ed etica su cui si fonda una concezione moderna della fiducia nella società. L'idea classica di società civile comportava una società ridotta, la fiducia era assicurata dalla conoscenza personale (pagg.200-208).
Le persone sono cittadini di stati nazionali e non del mondo; le politiche di immigrazione ed i rapporti economici, legali e politici fra gli stati influenzano la vita dei cittadini di ciascun stato (pag.213). Il bene sociale si può far risalire alle tradizioni delle singole comunità umane (posizione comunitaria), oppure ad un'idea di diritti o di giustizia (posizione universalista): l'idea di solidarietà universale è una contraddizione nei termini, la solidarietà è sempre solidarietà con (qualcosa o qualcuno), diversa da altre; giustizia e solidarietà sono in conflitto: "fiducia e reciprocità comune, per avere un significato, in un certo senso devono sempre avere in sé una componente di esclusione (se non una componente particolaristica)" (pag.217). Il problema fondamentale della cittadinanza moderna, e della società civile, è la sintesi fra interesse privato e bene pubblico, fra giustizia e solidarietà.
L'espressione società civile ha un diverso significato nell'Europa dell'Est e dell'Ovest, e l'esistenza moderna in generale si caratterizza per contraddizioni e tensione fra interessi particolari e interessi universali, fra individualismo e comunità (pag.228).

11-3 UN SISTEMA DI VALORI PER IL RIFORMISMO

Secondo Bertrand Russell (Autorità e individuo, op.cit.) politica, economia, organizzazione sociale sono solo mezzi per rendere buona la vita degli individui: "una società buona è un mezzo per una vita buona di coloro che la compongono, e non è qualcosa che abbia, per proprio conto, una sua specie separata di eccellenza" (pag.126).
Per Russell gli scopi primari del governo sono tre (pag.94):
- sicurezza (sicurezza medica, protezione contro lo Stato stesso e contro Stati ostili), per raggiungere la quale è necessario un unico governo mondiale il cui solo scopo è quello di impedire la guerra (pagg.95-106);
- giustizia (democrazia politica, eguaglianza economica);
- conservazione (delle risorse naturali).
La sicurezza è un fine negativo, dovuto alla paura, il fine positivo è ispirato invece dalla speranza; a sicurezza e giustizia vanno posti dei limiti: "c'è giustizia dove tutti sono egualmente poveri, così come là dove tutti sono egualmente ricchi, ma sarebbe vano rendere più poveri i ricchi, ove questo non servisse a rendere più ricchi i poveri" (pag.98).
I problemi vanno frazionati e vanno affrontati quelli non troppo grandi per noi (il decentramento è necessario, pag.130); Russell propone una devoluzione dei poteri dello Stato ad organismi geografici, industriali, culturali con propria autonomia finanziaria: devoluzione dal governo mondiale ai governi nazionali e da questi ad organismi inferiori (pagg.105 e 116).
Il conflitto fra l'interesse generale e l'interesse del singolo settore di una società è inevitabile; l'opinione della maggioranza o del governo non sono infallibili (pagg.71 e 82).
La concrorrenza va regolata: perché nella concorrenza non regolata il perdente subisce un disastro (fallimento, fame, guerra, morte), mentre in quella regolata (come nelle competizioni sportive) subisce soltanto una "perdita di gloria" (pag.75).
La felicità, osserva ancora Russell, non comporta la eliminazione di ogni pericolo, una vita tranquilla è infatti una vita noiosa; il riformatore sociale deve cercare mezzi di sicurezza e combinarli con forme di avventura compatibili col vivere civile: ogni individuo ha bisogno di gloria, i sogni ad occhi aperti vi sopperiscono ma, se mai si scollegano dalla realtà, possono produrre squilibri mentali (pagg.19-22).
L'iniziativa individuale può produrre innovatori ma anche criminali; vi è, secondo Russell, un problema di equilibrio: "troppa poca libertà porta al ristagno e troppa libertà porta al caos" (pag.46). Per individui eccezionali vi sono oggi quattro carriere: politica, industria, scienza, crimine; nell'antichità vi erano anche l'arte e le riforme religiose e morali, l'artista oggi è onorato ma anche isolato, l'arte non è parte integrante della nostra vita comunitaria (pagg.48-52).
I grandi profeti, i grandi poeti, i grandi pittori, i grandi compositori sono emersi da folle di profeti, poeti, pittori, compositori minori che esistevano nel loro tempo in comunità più piccole rispetto alla nostra epoca, in cui l'uomo impiega il proprio lavoro per produrre cose utili piuttosto che opere d'arte: "tutto è organizzato, nulla è spontaneo" (pag.62); oggi siamo attivi in cose irrilevanti, osserva Russell, e passivi in quelle importanti: "alcune delle società ingiuste del passato davano a una minoranza delle opportunità che, se non stiamo attenti, la nuova società che cerchiamo di costruire potrà non dare a nessuno" (pag.82).
Il lavoro non deve essere infatti solo un mezzo per ottenere un salario (pag.84), le cose utili sono mezzi per altre cose che hanno valore intrinseco e non perché sono utili (pag.122).
Artisti e scrittori possono ancora sviluppare iniziative individuali, gli scienziati invece hanno bisogno oggi di organizzazioni, l'elemento fondamentale sono perciò le condizioni che determinano chi ha accesso ai mezzi per fare ricerca (pag.103).
Se il fine è molto desiderato, possono esserlo anche i mezzi per raggiungerlo, qualora non siano molto distanti dal fine (pag.65); la previdenza (fare oggi per il domani) caratterizza lo sviluppo mentale, ma i fini contano più dei mezzi per raggiungerli (pagg.123-124).

La comunità secondo Tonnies (Comunità e società, op.cit.) è un rapporto reciproco sentito dai partecipanti, fondato su di una convivenza durevole, intima ed esclusiva.
La vita comunitaria è sentita (implica comprensione, consensus), durevole, intima (confidenziale), esclusiva; al contrario, la vita societaria è razionale, passeggera, apparente (come tipo di legame), pubblica.
Sono forme primitive di comunità:
- il rapporto madre-bambino;
- il rapporto uomo-donna;
- il rapporto tra fratelli.
Delle tre forme primitive di comunità, le prime due sono più istintive, la terza più umana.
I rapporti di affermazione reciproca, se positivi, danno origine ad associazioni: la comunità è un'associazione organica (sentita dai partecipanti), la società è un'associazione meccanica, artificiale e recente. Tonnies distingue comunità di lingua, di costume, di fede; società di profitto, di viaggi, di scienze.
La società è il pubblico, il mondo: "in una comunità con i suoi una persona si trova dalla nascita, legata ad essi nel bene e nel male, mentre si va in società come in terra straniera" (pag.45). La società implica delimitazione dei campi di attività e prestazioni reciproche di pari entità (concetti di scambio e valore).
La comunità è caratterizzata dal diritto familiare, la società dal diritto delle obbligazioni (pag.229). In società gli individui rimangono "separati nonostante tutti i legami" (pag.83).
Il potere nella società è a vantaggio di chi lo detiene, nella comunità è finalizzato all'educazione ed all'insegnamento (pag.62).
La volontà comunitaria implica comprensione (consensus, che ha natura singola) e concordia (unità di cuore, che ha natura complessiva). La comprensione deriva dalla conoscenza reciproca che a sua volta richiede partecipazione e quindi vita comune, e richiede anche somiglianza (linguaggio).
Sono leggi fondamentali della comunità:
- l'assuefazione (parenti, coniugi, vicini, amici);
- la comprensione;
- la vita comune (concordia).
La comprensione è tacita, "la concordia non può venire costruita" (pag.65).
La comunità è unità nel differente (pag.61), in essa le diseguaglianze reali non possono però essere troppo accentuate.
L'amicizia si fonda su un modo di pensare concorde e dalla comunanza di arti e professioni; i compagni d'arte sono compagni di fede e cooperano ad una stessa opera (pag.58). I rapporti di amicizia sono i meno istintivi e i meno condizionati dall'abitudine.
L'uomo si lega con le proprie opere, con il territorio, con la casa (pag.67): possesso e godimento reciproco di beni comuni caratterizzano la vita comunitaria (pag.66).

Le trasformazioni, osserva Salvatore Veca, toccano sia gli interessi che le identità degli individui, e la politica come discorso è cosa diversa dalla politica come provvedimento (La politica, perché? op.cit., pagg.157-159).
Le "cerchie di cittadinanza" sono a geometria variabile: italiani, europei, lombardi; l'inclusione richiede la condivisione di valori comuni, il comunitarismo di destra è escludente, quello di sinistra includente e si basa sul principio dell'eguaglianza delle opportunità che richiede interventi laddove vi siano persone che siano svantaggiate od escluse senza che ne siano individualmente responsabili.
Il pluralismo (stili ed opzioni di vita) è un valore che arricchisce le società (pagg.161-164).
La filosofia politica, osserva ancora Veca, è un prolungamento del senso comune: il problema saliente è quello della giustificazione (La filosofia politica, op.cit., pag.24); gli argomenti e le teorie filosofiche sono risposte costruttive alle sfide dell'incertezza, il cui migliore esito consiste spesso nel suggerire modi alternativi di guardare le cose (pagg.22-23).
Nelle democrazie costituzionali, in particolare, il problema filosofico ricorrente consiste nella definizione e ridefinizione dei limiti della politica e dei confini di ciò che volta per volta è pubblico (pag.14).
Le principali soluzioni al problema dell'incertezza sono:
- l'orientamento nella controversia (la domanda-chiave è: perché le istituzioni?);
- la riconciliazione (la storia ragionata);
- la costruzione di utopie ragionevoli (riforma sociale).
Pochi sono in grado di dar vita ad una politica, tutti sono in grado di giudicarla; è la lezione che ci deriva dalla orazione di Pericle: la discussione non è un ostacolo per l'azione politica, ma è la premessa indispensabile per agire con saggezza (pag.32). La condivisione, infatti, è fondamentale per ridurre l'incertezza (pag.107).
La teoria politica, osserva Veca, può essere (pag.26):
- filosofia, ovvero teoria politica normativa o prescrittiva di valori o teoria del dover essere: tali sono il contrattualismo, il liberalismo, il comunitarismo, in generale tutte le teorie della giustizia (pag.36 e 67);
- scienza, ovvero teoria politica positiva o esplicativa o descrittiva di fatti;
- teoria morale, comprensiva, che valuta ogni tipo di azione o scelta ed include tutto ciò che per noi ha valore (pag.41): tale è ad esempio l'utilitarismo.
Dal punto di vista metodologico, le principali teorie politiche sono l'utilitarismo, il contrattualismo, il pluralismo, il libertarismo, il comunitarismo, e possono essere:
a) teleologiche (utilitarismo): è giusto ciò che massimizza il bene, il bene ha la priorità sul giusto (pag.41); ovvero deontologiche (contrattualismo, liberalismo): queste sono basate sulla definizione preventiva del giusto, indipendentemente dal bene (pag.52).
b) consequenzialiste (utilitarismo, contrattualismo) in cui la valutazione è su stati del mondo che sono conseguenze attese di scelte o di azioni; ovvero anticonsequenzialiste (libertarismo): i diritti in questo caso vengono intesi come vincoli collaterali alle azioni, queste ultime vengono valutate in base alla loro coerenza ex ante rispetto al principio di libertà negativa e senza badare alle loro conseguenze sugli stati del mondo (pag.42 e 73).
c) monistiche (utilitarismo, libertarismo), quando vi è un solo criterio di giustificazione; ovvero non monistiche: tale è il contrattualismo, che riconosce il pluralismo dei valori, libertà ed equità distributiva i cui principi vengono ordinati in base ad una regola di priorità (pag.41 e 55).
d) ad approccio aggregativo (utilitarismo): conta l'ammontare di utilità totale piuttosto che la sua distribuzione (pag.42); ovvero ad approccio distributivo (contrattualismo).
e) basate sulla procedura maggioritaria di scelta collettiva (utilitarismo): l'esito sarà quello che soddisfa interessi, preferenze, desideri più intensi (pag.42); ovvero basate sulla procedura di scelta unanime (contrattualismo, libertarismo): "giusto è ciò che deve poter essere ragionevolmente accettato o ragionevolmente non rifiutato da chiunque" (pag.56, tale procedura assume che vi sia potere di veto da parte di ciascuno).
f) welfaristiche o benesseriste (utilitarimo): ciò che conta sono le conseguenze valutate in base all'utilità generata; ovvero non welfaristiche: tale è per Veca il contrattualismo rawlsiano, che riguarda una classe particolare di risorse, i beni sociali primari (pag.42 e 56).
g) le teorie politiche possono essere basate su criteri esterni di valutazione, che assumono un punto di vista appunto esterno (o archimedeo) rispetto al sistema sociale in questione (tali sono l’utilitarismo ed il  contrattualismo); ovvero possono essere basate su criteri interni di valutazione (il pluralismo di Walzer), soggette però a critiche perché i criteri di giustificazione che dipendono dalle pratiche sociali finiscono per essere criteri di legittimazione di queste ultime (pag.83 e 91). La valutazione, poi, può essere ex ante: ad esempio, il mercato viene giustificato perché garantisce eguali libertà negative; oppure ex post: sempre nell'esempio del mercato, questo viene valutato in base alle conseguenze che produce (benessere, efficienza, pag.79).
h) infine, possono essere impersonali (utilitarismo, libertarismo, contrattualismo ideale di Rawls): il velo di ignoranza impone di valutare in modo impersonale i principi di giustizia (pag.63); oppure della contrattazione (contrattualismo reale); oppure storiche.
I conflitti possono essere distributivi (utilitarismo, contrattualismo, libertarismo) laddove vi è incertezza non degli attori e delle loro identità ma degli interessi (vantaggi e svantaggi); oppure possono essere per il riconoscimento (comunitarismo) se vi è incertezza dell'identità collettiva, la quale è un presupposto per avere certi interessi e preferenze (pagg.107-109).
Da Aristotele (Etica Nicomachea) distinguiamo fra giustizia come rispetto della legge e giustizia come equità (pag.115); la giustizia come equità, a partire da Aristotele, può essere distributiva (o retributiva o rettificatrice), ovvero commutativa (tutela delle eguali libertà individuali). Ne derivano due concezioni fra loro antagonistiche dei compiti dello Stato: Stato sociale in un caso, Stato protettivo (soltanto) nell'altro. Anche le interferenze ammesse possono essere graduate per intensità: i sistemi democratici si caratterizzano per eguali diritti ma diseguaglianza di redditi e ricchezze (pag.16).
Le principali domande o questioni filosofiche sull'eguaglianza sono: eguaglianza di che cosa? (risultati, opportunità, risorse, benessere, capacità, pag.19); ma, ancor prima, perché l'eguaglianza?
Utilitarismo, contrattualismo e libertarismo, osserva Veca, "rispondono in modi diversi alla stessa domanda: eguaglianza di che cosa?" (pag.81); nel rispondere a questa domanda, per l'utilitarismo sono prioritarie le preferenze (benessere), per il libertarismo è prioritaria la libertà negativa (società), per il contrattualismo sono prioritari i diritti (equità). In particolare, l'egualitarismo democratico, dopo Rawls, è stato riformulato in un caso come egualitarismo delle risorse (Dworkin), in un altro caso come egualitarismo delle capacità (Sen, pag.80).
Occorre inoltre distinguere fra un concetto di giustizia e più concezioni della stessa quali, ad esempio, l'utilitarismo o la teoria della giustizia come equità; l'oggetto di una teoria della giustizia, precisa Veca, "coincide con l'assetto delle istituzioni fondamentali di una società" (pag.50).
Domande o questioni filosofiche cruciali sono: perché le istituzioni? perché dobbiamo obbedire? Questa, osserva Veca, era la domanda centrale per Hobbes; il quesito filosofico diventa invece oggi quali istituzioni e non più, come per Hobbes, istituzioni si oppure no (pagg.23-25); la filosofia politica ci fornisce criteri di giudizio politico, e cioè criteri per valutare sia le istituzioni che i provvedimenti politici, "tanto la politica quanto le politiche" (pag.35).
Se la pratica riformista è complessa, il quadro teorico che le sta alle spalle lo è ancora di più: dall'analisi di Veca, qui riportata in forma molto schematica, emerge quindi un quadro teorico variegato che impedisce di ricondurre il riformismo nell’ambito di un'unica categoria concettuale; le teorie politiche che stanno a monte degli interventi di riforma possono essere tanto il contrattualismo, quanto il pluralismo, il comunitarismo ed il liberalismo; non possiamo escludere a priori neppure il libertarismo e l'utilitarismo, mentre dal punto di vista metodologico il riformismo è in massima parte (sebbene non esclusivamente) fondato su teorie deontologiche, consequenzialiste, non monistiche, ad approccio distributivo, welfaristiche, basate su procedure di scelta collettiva e sulla contrattazione. Queste categorie non sono però esclusive nell'approccio riformista, che è vario; e la varietà concettuale, occorre sottolinearlo nuovamente, non è affatto un limite dell'azione riformista: in realtà, è la sua forza.

11-4 UNA PROPOSTA DI “DEONTOLOGIA POLITICA”

Quello che propongo in questa sede è un doppio decalogo di principi cui, a mio avviso, dovrebbe attenersi ogni "attore politico" che riveste cariche elettive ed incarichi decisionali pubblici.
L'ordine in cui vengono proposti i principi identifica l'importanza dei primi rispetto agli ultimi ed una sorta di priorità nella loro applicazione, pur ritenendo che tutti i principi in questione siano altrettanto necessari ad un corretto, positivo e proficuo svolgimento dell'attività politica.
Si tratta inoltre di principi che interessano il modo di svolgere l'attività politica da parte di "attori politici" ben identificati, non perciò il metodo di scelta degli attori stessi, ovvero la legge elettorale: oggetto di questo doppio decalogo è perciò la "fase due" dell'attività politica in una democrazia, quella appunto che si svolge dopo il voto degli elettori, dopo la "fase uno" che si può identificare con la campagna elettorale e con le regole del voto. La "fase due" interessa perciò solo i comportamenti ed il modo di operare degli eletti, non quello degli elettori.
L'inosservanza dei principi del "non fare" (il primo decalogo proposto) produce come conseguenza più probabile l'allontanamento dei cittadini dalla politica (e quindi l'astensionismo elettorale nella "fase uno") ovvero, nei casi più gravi, rivolte e rivoluzioni. L'osservanza dei principi del "fare" produce al contrario l'avvicinamento dei cittadini alla politica, la loro partecipazione, il loro maggiore coinvolgimento nelle scelte collettive.
Il presente doppio decalogo è naturalmente parziale e suscettibile di correzioni ed integrazioni perché, abbiamo visto, il riformismo non è un sistema concettuale chiuso, e proprio in ciò sta la sua forza; per un approfondimento ulteriore di alcuni principi qui esposti si rinvia, tra gli altri, al libro Il Futuro Della Democrazia di Norberto Bobbio (op.cit.).

I) DIECI PRINCIPI DEL "NON FARE"

1) Non usare e promuovere l'uso della violenza, quale che sia: rientra pertanto in questo principio anche il dibattito sulla pena di morte e sulla guerra giusta.

2) Non violare i diritti umani; questo principio va considerato insieme al primo principio del "fare" indicato più avanti.

3) Non discriminare per sesso, lingua, religione, costumi, colore della pelle, età e quant’altro; considerare ogni individuo come fine in sé e non come mezzo per realizzare altri fini (principio kantiano).

4) Non utilizzare il potere politico per favorire interessi personali, familiari, amicali. Verrebbe da dire: non raccomandare.

5) Divieto del mandato imperativo; questo principio del "non fare" va visto unitamente al principio del "fare" proposto più avanti, sempre al punto 5.

6) Non avere bisogno della politica per vivere; strettamente connesso a questo principio è anche il successivo:

7) Non rubare: il principio è ovvio, la sua realizzazione meno, soprattutto perché la politica ha dei costi, al di là dell'onestà/disonestà dei suoi attori, e sono perciò necessarie regole chiare e soprattutto efficaci sulle modalità di finanziamento della stessa (finanziamento pubblico e/o finanziamenti privati).

8) Non rinnovare la propria carica pubblica, quale che sia, per più di due, tre mandati elettorali. La figura del parlamentare "da una vita", del sindaco o dell'assessore o del consigliere "sempre lui" contribuisce all'idea collettiva della politica governata da una "classe" di politicanti, in qualche modo privilegiati, fomenta spinte populiste e frena le potenzialità innovative che possono derivare dal ricambio personale oltre che generazionale. Moltiplicare le esperienze politiche è inoltre utile a ciascun attore politico. Corollario necessario di questo principio è il divieto di cumulo delle cariche: la stessa persona non dovrebbe ricoprire contemporaneamente i ruoli di sindaco (magari di una grande città) e di parlamentare, chi è seduto nel Parlamento nazionale non dovrebbe sedere anche nel Parlamento europeo, ecc.

9) Non formulare false promesse: non c'è nulla di più deleterio per l'immagine politica delle "false promesse"; eppure basta leggere gli ultimi dieci, venti, trenta, quarant'anni di cronaca politica (sia quelle locali che quella nazionale) per rendersi conto di quante e quali siano e siano state le "promesse non mantenute".

10) Non intendere la politica solo come reazione o contrapposizione alle idee, opinioni, decisioni, azioni altrui: questo principio negativo (non fare) implica pertanto la necessità di formulare principi positivi di proposta politica, ovvero di "fare" in propositivo e non solo di "protestare".

II) DIECI PRINCIPI DEL "FARE"

1) Agire per realizzare gli ideali sanciti nella "Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo" (Onu, 10 dicembre 1948).

2) Intendere la politica come attività di riforma e non altro: tra il fare ed il non fare è meglio fare; il "non fare" è per definizione la linea politica dei conservatori, sia di destra che di sinistra, ed è incompatibile con la visione riformista della politica.

3) Privilegiare il soddisfacimento dei bisogni dei meno avvantaggiati (principio di differenza di Rawls).

4) Promuovere la libertà individuale e pari opportunità di accesso a diritti e risorse (principio della "libertà eguale").

5) Informare periodicamente i cittadini (ed i propri elettori) sul proprio lavoro svolto e sui risultati raggiunti e da raggiungere: non è bello il comportamento di quegli eletti che, non solo non si curano mai del loro collegio elettorale, ma neppure si fanno vivi nello stesso durante lo svolgimento della legislatura; non vi è nulla di più deleterio per l'immagine politica che essere fisicamente presenti soltanto durante le campagne elettorali.

6) Agire con prospettiva universalistica (Kant) avendo riguardo non solo alla situazione presente ma anche alle generazioni future.

7) Valutare le conseguenze delle proprie azioni e decisioni.

8) Dare ascolto agli specialisti (la democrazia moderna è più efficace se stemperata con un pò di meritocrazia), tenendo però presente che la decisione finale è sempre politica (Kennedy insegna).

9) Rendere pubbliche tutte le proprie decisioni, scelte ed azioni politiche: la segretezza è nemica della democrazia.

10) Agire per ridurre l'incertezza.
Le più significative fonti di incertezza, oggi, sono costituite da:
a) emergenze ambientali (rischi ecologici);
b) malasanità (rischio salute);
c) sicurezza personale (rischio criminalità);
d) sicurezza del posto di lavoro (rischio disoccupazione);
e) sicurezza previdenziale (rischio pensioni);
f) variabilità dei prezzi (rischio inflazione);
g) variabilità dei tassi d'interesse (rischio usura);
h) oscillazioni e perdite nei mercati (rischi patrimoniali);
i) variabilità dei cambi valutari (rischio svalutazione).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Autori vari, LA POLITICA, PERCHE? Riflessioni sull'agire politico (Donzelli editore, Roma 2001)
- Amnesty International, L'INTOLLERANZA. Uguali e diversi nella storia, a cura di Pier Cesare Bori (ed.Il Mulino, Bologna 1986)
- Antonella Besussi, LA SOCIETÀ MIGLIORE (ed. il Saggiatore, Milano 1992)
- Norberto Bobbio, Giuliano Pontara, Salvatore Veca, CRISI DELLA DEMOCRAZIA E NEOCONTRATTUALISMO (ed. Editori Riuniti, Roma 1984)
- Norberto Bobbio, IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA (ed Einaudi, Torino 1984)
- Norberto Bobbio, IL PROBLEMA DELLA GUERRA E LE VIE DELLA PACE (1979/ed. il Mulino, Bologna 1984)
- Robert J. Forbes, L'UOMO FA IL MONDO (ed. Einaudi, Torino 1960)
- John C. Harsanyi, L'UTILITARISMO, (ed. il Saggiatore, Milano 1988)
- Claude Lévi-Strauss, RAZZA E STORIA (1952)
- Karl Lowith, SIGNIFICATO E FINE DELLA STORIA (1949/edizioni di Comunità, Milano 1979)
- Sebastiano Maffettone, IL VALORE DELLA VITA, (ed. Mondadori, Milano 1998)
- Bertrand Russell, AUTORITÀ E INDIVIDUO (1949/ed. Longanesi, Milano 1980)
- Adam Seligman, L'IDEA DI SOCIETÀ CIVILE (ed. Garzanti, Milano 1993)
- Ferdinand Tonnies, COMUNITÀ E SOCIETÀ (ed. Comunità, Milano 1979)
- Salvatore Veca, LA FILOSOFIA POLITICA (Editori Laterza, Bari 1998)

12- RIFORMISMO E DEMOCRAZIA

12-1 RIFORMISMO E DEMOCRAZIA

Il riformismo è il sale della democrazia: la democrazia ha bisogno del riformismo per essere vitale, il riformismo ha bisogno della democrazia per esistere.
Può esistere la democrazia senza riformismo? La risposta a questa domanda è affermativa: la democrazia non ha bisogno del riformismo, ma il riformismo serve alla democrazia, le è utile perché le consente di crescere in termini di consenso; una democrazia senza riformismo è un sistema in qualche modo monco, inefficace: perde interesse, e quindi perde elettori e partecipazione, cresce l’area del non-voto e insieme anche quella del disinteresse, del disimpegno se non del rifiuto con tutti i rischi connessi (populismo, ecc.).
Può esistere riformismo senza democrazia? La risposta è negativa : no, non può esistere riformismo senza democrazia; esperimenti di riformismo senza democrazia si sono risolti o in fallimenti, oppure nel crollo del sistema politico autoritario nel cui contesto sono stati tentati: il più grande esempio di riformismo senza democrazia del Novecento è stato la Perestroika di Gorbaciov, che ha portato al crollo del comunismo in Europa e al dissolvimento dell’Unione Sovietica.
Norberto Bobbio, in Crisi della democrazia e neocontrattualismo (cit., pagg.11-18), osserva come secondo i pensatori classici, da Machiavelli ad Hobbes a Marx, il potere politico si fondi in ultima istanza sull'uso della forza fisica; lo stato di diritto prevede norme generali e astratte che stabiliscono chi, quando, come (con quali procedure) ed in quale misura (con che proporzione fra delitto e castigo) utilizzare la forza, che è quindi sia legittima che legale. Col metodo democratico, perciò, non conta più la forza fisica ma la forza di persuasione, che si manifesta col dibattito e col voto.

12-2 RIFORMISMO NELLA DEMOCRAZIA

La definizione minima di democrazia, sempre secondo Bobbio (Il futuro della democrazia, cit.), è quella di un insieme di regole primarie, che stabiliscano chi può prendere decisioni collettive e attraverso quali procedure (pag.4); la regola della maggioranza è la regola fondamentale della democrazia, l'unanimità è consentita solo nei due casi estremi della decisione molto grave (diritto di veto) oppure di scarsa importanza (consenso tacito). Le norme costituzionali, osserva, non sono le regole del gioco, bensì quelle preliminari che consentono il gioco, mentre stato e mercato sono in primo luogo forme di regolazione sociale (pagg.6 e 121).
Molte regole del gioco politico sono costitutive: si vota perché esiste una legge elettorale, così come per i giochi; al contrario, altri comportamenti come il nutrirsi, l'accoppiarsi, il passeggiare, ecc., sono 'regolantì nel senso che non richiedono regole che li precedono.
Condizioni preliminari per il buon funzionamento di un sistema democratico sono i principi della libertà di associazione e della libertà di opinione, la cui maggiore o minore limitazione determina il grado di democraticità di un sistema politico (pag.63).
Veto e disobbedienza civile non sono diritti garantiti ma rapporti di forza (pag.73).

Per governo della legge, sempre secondo Bobbio, si intendono (pag.154):
- il governo secondo leggi (sub lege);
- il governo mediante leggi (per leges).
Questo per quanto concerne la forma; il contenuto delle leggi può poi essere egualitario o inegualitario.
Nel governo non delle leggi ma degli uomini prevale la giustizia caso per caso, che è tipica delle società di diseguali (moglie-marito, figli-padre, schiavi-padrone), e gli uomini vengono prima delle leggi (il grande legislatore, il fondatore di stati, il capo carismatico di Weber, pagg.163-165); il governo degli uomini surroga il governo delle leggi in epoche di crisi, è strettamente connesso allo stato d'eccezione che in genere è determinato da una crisi esterna (pag.167). Il potere tirannico, che è extra legem (illegale), non sempre è eccezionale mentre il potere eccezionale non sempre è corrotto (pagg.158 e 168). La democrazia è invece "il governo delle leggi per eccellenza" (pag.170).
Henry Summer Maine, osserva Bobbio, identifica le società arcaiche come società di status e le società evolute come società di contractus; gran parte delle decisioni collettive nelle società poliarchiche vengono prese per mezzo di negoziati che si concludono con accordi, il contratto sociale è uno strumento di governo e non più solo un'ipotesi razionale: "la vita politica si svolge attraverso conflitti non mai definitivamente risolti, la cui risoluzione avviene attraverso accordi momentanei, tregue, e quei trattati di pace più duraturi che sono le costituzioni" (pag.128).
In democrazia i partiti sono necessari, e la logica privatistica dell'accordo è alla base dei loro rapporti; abbiamo pertanto (pagg.132-134):
- un diritto privato pattizio;
- un diritto costituzionale pattizio;
- un diritto internazionale pattizio.
Gli accordi che derivano da rapporti di tipo contrattuale sono però labili e generano instabilità (pag.145). Il divieto di mandato imperativo diviene nei fatti impraticabile, e Bobbio distingue il grande mercato (accordi fra partiti) dal piccolo mercato (cittadini elettori clientes dei partiti): nel voto di scambio si stabilisce un rapporto di do ut des fra elettore ed eletto (pagg.126-136).

La democrazia, scrive Bobbio in Quale socialismo? (op.cit.), è una pratica: "un insieme di regole (le cosiddette regole del gioco) che consentono la più ampia e più sicura partecipazione della maggior parte dei cittadini, sia in forma diretta sia in forma indiretta, alle decisioni politiche, cioè alle decisioni che interessano tutta la collettività " (cit., pag.42).
In quanto metodo, la democrazia così definita ha un valore strumentale o estrinseco (pag.81).
Ma la democrazia moderna presenta alcuni paradossi:
- si richiede sempre più democrazia in condizioni sempre più sfavorevoli (pag.46): la democrazia assembleare è ingannevole in quanto ratifica decisioni prese da esecutivi la cui investitura è carismatica; non bisogna confondere infatti il governo del popolo con il governo per il popolo (pag.71);
- più democrazia finora ha sempre voluto dire più burocrazia (pagg.46-47);
- tecnocrazia (governo dei competenti) e democrazia (governo di tutti) sono incompatibili; scrive Bobbio: "il protagonista della società industriale è lo scienziato, lo specialista, l'esperto; il protagonista della società democratica è il cittadino qualunque, l'uomo della strada (...) la democrazia si regge sull'idea-limite che tutti possano decidere di tutto" (pag.49);
- la politica è azione e non strumento od opinione, il processo democratico contrasta con la società di massa, caratterizzata invece da conformismo generalizzato e da manifestazioni di massa (pagg.50-52).
Il potere autocratico è molto più diffuso del potere democratico, anche nelle società democratiche: è significativo, sottolinea Bobbio, "che le richieste di maggiore democrazia che oggi vengono fatte dai più diversi movimenti vadano tutte nel senso di promuovere l'occupazione di spazi riservati sinora all'esercizio di un potere autocratico" (pag.100).
I giudizi assiologicamente positivi sul metodo democratico possono essere ricondotti, secondo Bobbio, a tre prospettive fondamentali (pag.77):
- la prospettiva etica presuppone la libertà positiva o libertà come autonomia, che è insieme un valore ultimo (indeducibile) ed un valore-limite in quanto la sua realizzazione concreta è sempre inadeguata (pag.78); secondo l' argomento etico la democrazia è l'attuazione politica del valore supremo della libertà.
- La prospettiva politica argomenta invece che la democrazia è il più importante rimedio all'abuso di potere, ed il potere politico, chiarisce Bobbio, "è il massimo potere (...) di cui un uomo, o un gruppo, possa disporre in una determinata società" (pag.78); secondo l' argomento politico la democrazia è quindi una difesa da abusi e prevaricazioni, perché in essa legislatore e destinatario coincidono (pag.137).
- La prospettiva utilitaristica, infine, si basa sulla considerazione che i diretti interessati siano i migliori interpreti dell'interesse collettivo, ed è la prospettiva più contestata: "è sin troppo facile obiettare infatti che il singolo non vede al di là del proprio naso, e che l'interesse collettivo non è mai la somma degli interessi individuali (posto che questa somma si possa fare)" (cit., pag.79).
Il problema della partecipazione è essenzialmente un problema di forme (pag.19); i "vizi congeniti" ad ogni forma di partecipazione democratica sono la partecipazione manchevole o apatia politica, e la partecipazione distorta o manipolazione del consenso (pag.102).
La democrazia è sovversiva (pag.53): "se l'emancipazione politica non è sufficiente, è pur sempre necessaria (...) non vi può essere emancipazione umana che non passi attraverso l'emancipazione politica. La quale richiede lo sviluppo, l'estensione, il rafforzamento di tutte le istituzioni da cui è nata la democrazia moderna" (pag.65).
Secondo Bobbio, i momenti di statu nascenti rientrano nella categoria dello stato di necessità o di emergenza, per la quale il metodo democratico non vale (pag.74).
Nel libro Stato, governo, società (cit.) Bobbio propone varie distinzioni nel concetto di democrazia (pag.127):
- democrazia degli antichi e democrazia dei moderni; quest'ultima implica l'associazionismo, ovvero la funzione pubblica riconosciuta dei partiti politici (pag.143);
- democrazia rappresentativa e democrazia diretta;
- democrazia politica e democrazia sociale;
- democrazia formale e democrazia sostanziale.
Inoltre: forme buone e cattive di governo; forme di governo determinate dal numero dei governanti; deliberazioni prese a maggioranza (che sono a somma zero), deliberazioni prese attraverso accordi (che sono a somma positiva, pag.109).
Lo sviluppo della democrazia oggi è la sua estensione alla sfera sociale ed alle sue forme di potere ascendente, dalla scuola alla fabbrica (padre/figlio, coniuge, imprenditore/dipendente, insegnante/studente, genitore/studente, medico/malato, ufficiale/soldato, amministratore/amministrato): "può benissimo darsi uno Stato democratico in una società in cui la maggior parte delle sue istituzioni, dalla famiglia alla scuola, dall'impresa ai servizi pubblici, non sono governate democraticamente" (pag.148). Indice di sviluppo democratico è il numero di sedi in cui si esercita il diritto di voto, oltre a quelle politiche: dove si vota piuttosto che chi vota.

John Dunn, nel libro La teoria politica di fronte al futuro (op.cit.), rileva come da un lato la democrazia abbia radici esili, dall'altro come tutti oggi, in teoria, siamo democratici: "la teoria democratica è il gergo ufficiale del mondo moderno" (pag.27); la virtù (e l'ipocrisia che l'accompagna) di uno stato moderno è quella di essere democratico.
Mentre in passato la democrazia era una forma molto particolare di regime (nel XVIII secolo il termine democrazia era utilizzato come antitesi ad aristocrazia), oggi costituisce le buone intenzioni dei governanti ed è un riconoscimento simbolico all'ideale dell'eguaglianza politica (pagg.19-29); la democrazia diretta è oggi impossibile, la collina di Atene è stata sostituita dai dibattiti nei mass media (pagg.31-32).
La democrazia in senso forte è un modello astratto, un nome di ciò che vorremmo ma che non possiamo avere: i cittadini ateniesi (una minoranza) avevano l'eguale diritto ad essere ascoltati dall'assemblea sovrana prima di prendere decisioni pubbliche, le democrazie capitalistiche sono invece "strumenti imperfetti per scongiurare sorti peggiori" (pag.45).
Siamo tutti democratici, oggi che non possiamo più organizzare democraticamente la vita sociale per la sua complessità (pag.53); qualsiasi distribuzione politica (decentramento, ecc.) è oggi a somma zero (pag.107). Inoltre, il facile eudemonismo delle società capitalistiche avanzate non si può estendere alla totalità del mondo senza una radicale riorganizzazione e senza modificare il concetto di felicità che esse incoraggiano (pag.187).
Il potere, secondo Dunn, non è altro che "la facoltà di scegliere cosa fare" (pag.178), che è anche una definizione possibile di libertà umana: gli esseri umani sono soggetti liberi, soggetti fallibili e perciò anche moralmente fallibili; pertanto non vi sono certezze sul futuro, anche morale, della nostra specie (pag.179). La ragione deve esercitare l'egemonia sulle passioni, ma non ci sono meccanismi automatici che possano liberare la storia umana dal rischio morale, "il potere non può essere messo al riparo, isolato dalla facoltà di nuocere" (pag.183).
Il presente, osserva ancora Dunn, è il tempo politico meno significativo eppure è di grande motivazione politica (pag.107).
L'antitesi al liberalismo non è il socialismo ma sono il conservatorismo e l'autocrazia; il metodo di analisi del liberalismo è l'individualismo (individualismo metodologico) in cui l'individuo ha una connotazione positiva (identità), mentre per l'individualista è negativa perché disconosce gli interessi altrui (pagg.55-62).
Dunn giudica positivamente la teoria economica marxista, anche se non può essere ragionevolmente separata dalla sua teoria teleologica, che è sbagliata e che oltretutto tenta di mettere insieme, nella rivoluzione, giustizia e violenza (l'assassinio di massa è necessario quando l'utopia non si realizza, pag.145). Inoltre, la teoria marxista gioca sull'equivoco, non spiega come possano essere compatibili nello stato post-rivoluzionario la democrazia solidarista e la repressione centralizzata (pag.162).
Siamo collettivamente incapaci di realizzare un modo di produzione alternativo a quello capitalistico (pag.146); inoltre oggi viviamo in una comunità mondiale e non serve costruire un'isola morale in un oceano immorale: "il problema centrale per la specie è una versione grandiosa e sconcertante del dilemma del prigioniero" (pag.155).
Non abbiamo ancora concepito un modo, come specie, di trascendere gli stati-nazione; il nazionalismo oggi è solo un costume ed è uno scandalo morale perché la cultura etica ufficiale del mondo è universalistica (pagg.97-108).
In parte il sentimento nazionalista è assimilabile alla preferenza di sè (solo noi possiamo tifare per noi stessi), il processo di liberazione nazionale è servito per la stessa nascita socio-culturale delle nazioni (pagg.111-117); noi oggi pensiamo la politica in termini di allocazione (produzione e distribuzione) e non di violenza, il nostro è un nazionalismo economico: siamo tutti nazionalisti, il nazionalismo è un adattamento alla praticabilità (pagg.118-133). Dunn distingue il nazionalismo culturale all'interno ed all'esterno: il nazionalismo è morale quando protegge gli interessi e la cultura locale, è immorale quando li impone ad altri fuori dai confini (pagg.124-130).

C.B.Machperson, in La vita e i tempi della democrazia liberale (cit.), individua un doppio significato della parola liberale:
1) libertà del più forte secondo le reogle del mercato ("liberale" come "capitalista");
2) eguale libertà di ciascuno per sviluppare le proprie capacità (liberali etici).
La democrazia liberale tenta di conciliare i due significati, che però sono in contrasto fra di loro; la democrazia stessa viene intesa talvolta come procedura (per scegliere governi, fare leggi e prendere decisioni politiche), talvolta come una qualità, come un tipo di società e di relazioni sociali (democrazia partecipativa). Machperson distingue anche la democrazia utopistica, adattata ad una società senza classi (in Rousseau, Thomas More, Winstanley, pag.12 e seg.) dalla democrazia liberale, sorta a partire dal XIX secolo; e diversamente dalle teorie democratiche anteriori al XIX secolo, le teorie liberal-democratiche sottintendono il rapporto di tipo capitalistico, e quindi la divisione in classi della società. Fino al XIX secolo, peraltro, le donne erano escluse dalla società civile e dall'idea stessa di classe sociale.
Machperson individua tre modelli consecutivi di democrazia liberale, cui aggiunge un quarto modello "di prospettiva" (pag.23 e seg.).
- Il modello di democrazia protettiva (Jeremy Bentham, James Mill) fu caratterizzato dall'estensione del diritto di voto come garanzia contro l'oppressione dei governanti e dalla subordinazione delle rivendicazioni di eguaglianza a quelle di sicurezza (della proprietà); l'altalena di Mill sulla discrepanza fra il principio del suffragio universale e quello dell'esclusione dal voto (di donne, poveri, ecc.) è discusso a pag.43 del libro di Machperson: le sole giustificazioni della democrazia furono in questo modello la protezione degli individui e la promozione della produzione capitalistica.
- Il modello di democrazia di sviluppo fu introdotto da John Stuart Mill a seguito dell'attivismo crescente della classe lavoratrice e prevedeva come obiettivo della democrazia il miglioramento dell'umanità, un modello morale secondo cui la società democratica è insieme mezzo e risultato di un progresso verso una società più libera e più giusta (pagg.47-49). L'uomo non è solo un consumatore ed un appropriatore, ma ha proprie capacità che solo la democrazia gli consente di sviluppare (confronto democrazia-totalitarismo, pag.50). Perciò la società esistente non andava accettata come tale, e Mill auspicò lo sviluppo di cooperative di produttori ma propose anche un sistema di voto plurimo che dava pesi politici diversi a cittadini diversi, per impedire una legislazione classista (pagg.59-61).
La funzione pratica di un sistema partitico, osserva Machperson, è anche quella di ridurre il conflitto fra classi sociali, sia nel bipartitismo come nel pluripartitismo, attraverso la ricerca di compromessi da parte del governo sui conflitti d'interesse nel paese (pag.67; partito come mediatore fra interessi opposti, pag.70). Il modello di democrazia di sviluppo fu ulteriormente sviluppato da Dewey, con una visione umanistica (democrazia come modo di vita) e pragmatica (pag.77).
- Il modello di democrazia d'equilibrio o di "equilibrio elitario pluralistico" (pag.79) descrive il processo democratico come un equilibrio fra domanda ed offerta di beni politici; formulata nel 1942 da Joseph Schumpeter, considera la democrazia come un meccanismo di mercato di competizione fra elites, senza contenuti morali (votanti=consumatori, politici=imprenditori), un mercato politico (uomo politico=uomo economico) il cui successo deriva dalla sua natura "mercantile" (mano invisibile, pag.84).
Il sistema mercantile politico, osserva Machperson, produce un equilibrio di disuguaglianza ed una sovranità del consumatore che è illusoria; inoltre, poichè il potere d'acquisto politico è dato dal denaro, la disuguaglianza economica e sociale crea sovranità non democratiche ed apatia politica. Tale sistema è inoltre oligopolistico, essendo costituito da due o pochi partiti che possono in tal modo creare la propria domanda (pagg.88-91).
- Il modello di democrazia partecipativa nasce negli anni Sessanta dalla constatazione che vi è uno stretto collegamento fra ingiustizia sociale e bassa partecipazione. Una maggiore partecipazione comporta un problema di dimensioni, la formulazione di domande non incongruenti, il ruolo dell'iniziativa popolare; un sistema fondato sui referendum non è una vera democrazia, che ha bisogno invece di politici eletti e responsabili (pagg.96-99).
I movimenti svolgono un ruolo importante nel favorire la partecipazione attiva (pag.105); la democrazia partecipativa si configurerebbe come un sistema piramidale alla cui base vi sarebbe la democrazia diretta ed ai livelli superiori quella delegata. Tale sistema però, osserva Machperson, non eliminerebbe differenze di potere e sarebbe incompatibile con l'apatia politica (pag.114).
Occorre allora combinare il sistema piramidale con quello partitico competitivo, individuando forme di partecipazione piramidale all'interno dei partiti (pagg.115-116).
Il capitalismo ai tempi di Marx e di Mill, osserva infine Machperson, godeva i vantaggi dell'espansione interna e del colonialismo, inflazione e disoccupazione non potevano coesistere (pag.108).
Machperson individua alcuni modelli di democrazia liberale, che sono sia esplicativi che giustificativi (propugnativi) ed in successione storica, ciascuno dei quali è in parte in sovrapposizione rispetto ai precedenti (modelli consecutivi rilevanti, pag.4 e seguenti); a pag.85 e seguenti del libro ne esamina le caratteristiche in relazione alla adeguatezza descrittiva, cioè al realismo di ciascun modello, esplicativa (capacità di dimostrare perché il sistema funziona e perché funziona bene), giustificativa del modello come migliore rispetto ai precedenti.

12-3 DEMOCRAZIA, MERCATO, ORGANIZZAZIONI

Nel libro Il nuovo stato industriale (cit.) Galbraith evidenzia come gli sforzi di un singolo per conservare il controllo sui meccanismi decisionali possono facilmente compromettere la qualità delle decisioni, perché un'autorità esterna (lo Stato, ma anche gli azionisti) è arbitraria in quanto imperfettamente informata; si assiste perciò al processo di logoramento del potere degli azionisti, che passa attraverso la sempre maggiore concessione di deleghe.
Le decisioni che riguardano tecnologia e pianificazione sono complesse: vengono così sottratte agli individui e localizzate all'interno della tecnostruttura; in questo modo, viene esclusa ogni influenza da parte di estranei.
Il potere passa dall'imprenditore (società imprenditoriali) alla tecnostruttura (società mature); l'individualismo dichiarato dal dirigente di una società è rituale, perché incompatibile con la tecnostruttura: spesso risultati che appartengono alle organizzazioni vengono accreditati a singoli individui, unicamente perché gli individui nella nostra cultura hanno una importanza maggiore delle organizzazioni; un test infallibile: osserviamo cosa succede al singolo quando lascia l'organizzazione o si ritira.
Il rapporto fra la società genericamente intesa ed una organizzazione deve essere conforme al rapporto di quell'organizzazione con l'individuo; è il cosiddetto principio di conformità: gli obiettivi della società, dell'organizzazione e dell'individuo devono essere conformi tra loro, e pure conformi tra loro devono essere i motivi che spingono a perseguire tali obiettivi; gli obiettivi della società tenderanno ad essere quelli della s.p.a., e quelli della s.p.a. tenderanno a coincidere con quelli dei membri della tecnostruttura.
Entrando in un gruppo, l'individuo è attratto e condizionato dagli obiettivi di questo, rinuncia al perseguimento di gran parte dei propri scopi in cambio di un'influenza anche limitata sul potere dell'organizzazione.
Al di sotto di un minimo livello di reddito, la motivazione pecuniaria sarà intensa, al di sopra l'incremento nel reddito non modificherà l'impegno: altri obiettivi divengono più importanti.
La s.p.a. matura può essere rappresentata con una serie di cerchi concentrici: ciascuna fascia rappresenta un gruppo all'interno dell'organizzazione con un proprio sistema motivazionale e chi fa parte dei cerchi più interni coltiva l'illusione che il proprio sia l'unico mondo che conta; l'universo coincide con i propri orizzonti.
Gli uomini hanno la capacità di attribuire nobili finalità sociali a ciò che favorisce i loro interessi personali. La convinzione che l'incremento della produzione sia un utile fine sociale è quasi unanime, e deriva dal fatto che la tecnostruttura è impegnata soprattutto:
- nella produzione di beni;
- nel controllo della domanda specifica (sia per quanto riguarda il suo volume globale, sia per quanto concerne la sua distribuzione tra i singoli beni finali);
- nel "virtuosismo tecnologico" (innovazioni tecniche, reali o simulate).
La regolazione della domanda aggregata dipende dalla dimensione adeguata della spesa pubblica: la politica fiscale keynesiana è un appoggio al sistema industriale. Inoltre, la grande impresa dipende dallo Stato per il fattore istruzione.
La tecnologia implica la necessità di un controllo sulle vendite e sulle forniture, e quindi la sostituzione del mercato con la pianificazione.
La pianificazione consiste nel prevedere le operazioni da compiere dall'inizio della produzione al suo termine, e nel predisporre lo svolgimento di tali operazioni prevedendo ed avendo una strategia per fronteggiare qualsiasi evento fuori programma. Il nemico del mercato è l'ingegnere, non l'ideologia.
L'apparato della pianificazione socialista e la grande s.p.a. sono due adattamenti alle stesse necessità della società contemporanea. La pianificazione efficace richiede grandi dimensioni, la scala di attività delle maggiori s.p.a. si avvicina a quella di un governo.
Pianificare significa porre i meccanismi del processo produttivo al di sopra della libera espressione dell'individuo.
Con la guerra fredda la pianificazione ha acquistato connotazioni ideologiche: si è così negato di fare qualsiasi pianificazione, contribuendo a nascondere a coloro che sono controllati il fatto stesso del controllo.
Nella nostra cultura, l'individuo ha un posto più importante del gruppo; in realtà, osserva Galbraith, l'organizzazione è divenuta un nuovo fattore della produzione; attraverso l'organizzazione, la società economica è riuscita ad esprimere personalità di gruppo che, per i propri fini, sono di gran lunga superiori ad un essere umano, ed in più godono del vantaggio della "immortalità ".
Per pianificare è necessaria una grande varietà di informazioni, e la reale conquista della scienza e della tecnologia moderne è riuscire a coordinare, grazie ad un'adeguata organizzazione, persone normali istruite a fondo in un settore particolare: il mercato è in notevole misura una istituzione che non richiede un grande uso dell'intelligenza.
La pianificazione non contiene meccanismi equilibratori fra domanda ed offerta, perché dipende da decisioni deliberate del pianificatore; ciò crea problemi:
- di surplus o di deficit;
- di immagazzinaggio e di eliminazione delle eccedenze;
- di contesa per l'offerta insufficiente.
La pianificazione industriale è necessaria ma difficile; una soluzione può essere quella di riversare sullo Stato i rischi più gravi: lo Stato può accollarsi i costi dello sviluppo e della ricerca, ed anche garantire un mercato al prodotto.
Per alcuni aspetti rilevanti, la grande impresa contemporanea è un braccio dello Stato e lo Stato, in importanti settori, è uno strumento del sistema industriale; la linea di demarcazione fra pubblico e privato è indistinta e in buona misura immaginaria.
La grande impresa dipende dallo Stato per alcuni elementi essenziali per la pianificazione industriale:
- formazione di personale specializzato;
- regolazione della domanda aggregata;
- stabilità dei prezzi e dei salari.
Attraverso commesse tecniche o militari, lo Stato finanzia la maggior parte degli impieghi di capitali della grande impresa nei settori tecnologicamente più avanzati; l'impresa concorre al processo collegiale di formazione delle decisioni per la difesa, la politica estera, ecc.: ciascuna organizzazione costituisce una estensione dell'altra.
Il sistema industriale richiede un tipo di individuo che spende il proprio reddito in modo predeterminabile e che lavora in modo predeterminabile perché ha bisogno di comprare sempre di più: se, dopo essersi procurati quanto basta, si dovesse smettere di lavorare, il sistema non potrebbe più contare tra i suoi obiettivi lo sviluppo.
Ma obiettivo primario dell'impresa è proprio la realizzazione del massimo saggio di sviluppo, che viene misurato dal fatturato. L'obiettivo sociale diviene perciò lo sviluppo economico, ed il successo della nazione viene misurato dall'incremento annuo del prodotto nazionale lordo: l'obiettivo della tecnostruttura riceve quindi una forte giustificazione sociale ed i suoi membri possono ritenere di essere al servizio di un fine che li trascende.
Il singolo è al servizio del sistema industriale perché consuma i suoi prodotti; la produzione ed il consumo di beni sono la misura fondamentale della realizzazione sociale, ed i bisogni del lavoratore sono mantenuti leggermente in eccesso rispetto al suo reddito.
Se si riconoscerà che la grande impresa è un prolungamento dello Stato, essa sarà più decisamente al servizio di obiettivi sociali. La libertà in questo contesto consiste nell'accordare al lavoratore un ampio insieme di opzioni:
- tra lavoro e merci da una parte e tempo libero dall'altra;
- maggiore flessibilità nella settimana lavorativa e riconoscimento che si tratta di una unità di tempo inadeguata per organizzare un uso efficiente del tempo libero che richiederebbe invece:
a) alcuni mesi di ferie retribuite;
b) prolungati periodi di assenza dal lavoro (astensione dal lavoro come alternativa al guadagno).

12-4 RIFORMISMO PER LA DEMOCRAZIA

Secondo Norberto Bobbio sono promesse non mantenute della democrazia, ovvero non la degenerazione ma un divario fra democrazia reale e democrazia ideale (Il futuro della democrazia, cit., Premessa VIII e pagg.10-18):
- il permanere di oligarchie;
- la rivincita degli interessi;
- la partecipazione interrotta (spazio limitato);
- i cittadini non educati e l'apatia politica;
- la soppressione dei corpi intermedi (società centrifuga);
Le promesse non mantenute trovano a monte ostacoli non previsti dal progetto politico democratico (pagg.22-24):
a) tecnocrazia, che è antitetica alla democrazia;
b) processo di burocratizzazione;
c) scarso rendimento: domande facili, risposte difficili.
La sopravvivenza di poteri invisibili, invece, corrompe la democrazia, la pubblicità è una forma di controllo (pag.17): la democrazia è "governo del potere pubblico in pubblico" (pag.76) dove pubblico è contrapposto sia a privato che a segreto; ed il potere vicino (locale) è il più visibile (pag.80).
L'essere in trasformazione è lo stato naturale di ogni sistema democratico: "la democrazia è dinamica, il dispotismo è statico" (Premessa VII); la democrazia implica il dissenso, il consenso essendo richiesto soltanto sulle regole della competizione (pag.51).
Fra gli insuccessi della democrazia rientrano temi quali (pag.75):
- la teoria delle élites;
- il divario fra democrazia formale e sostanziale;
- il malgoverno, vale a dire non la forma di governo ma il modo di governare: governo degli uomini o governo delle leggi, governo per il bene comune distinto dal governo per il bene proprio, governo secondo leggi distinto dal governo arbitrario (pagg.148-151);
- il potere invisibile, che occulta e che si occulta (pag.86).
Le storie dei regimi autocratici e delle congiure (contropotere invisibile) sono parallele; nella ragion di stato il tema del ‘mendacio’, simulare ciò che non è e dissimulare ciò che è, è un tema obbligato. Inoltre, il segreto può essere tecnico (la decisione non è da tutti) o politico (la decisione non è per tutti, pagg.88-94).
La coppia comando-obbedienza è caratteristica del rapporto asimmetrico di potere, la cui raffigurazione perfetta è il Panopticon di Bentham (pag.90). Ogni problema relativo alla sfera politica può essere esaminato dal punto di vista di chi governa (ex parte principis) o dal punto di vista di chi è governato (ex parte populi, pag.95). Il potere può essere diviso (pag.96):
- verticalmente od orizzontalmente (distinzioni classiche);
- in profondità (emergente, semisommerso, sommerso).
Il governo dell'economia è in gran parte potere invisibile (pag.97). Infatti le nostre società sono policratiche e non monocratiche, oltre allo Stato ci sono altri centri di potere (pag.47). All'argomento del male minore (meglio una cattiva democrazia di una buona dittatura) si contrappongono i fenomeni di reflusso dalla politica (pagg.65-70):
- il distacco (non tutto è politica);
- la rinuncia, ovvero la politica non è di tutti: teoria conservatrice delle élites, teoria rivoluzionaria del partito-avanguardia;
- il rifiuto, che può essere particolaristico (gli uomini hanno solo interessi), o etico-religioso (il volto demoniaco del potere).
L'apatia politica non minaccia i regimi democratici, l'astensionismo preoccupa infatti solo se va a vantaggio del partito avverso (pag.61 e 139).
L'ingovernabilità, osserva ancora Bobbio in Crisi della democrazia e neocontrattualismo (op.cit.), è difetto di potere, ed è il problema opposto a quello dell'abuso (pag.22). Vi sono rapporti privati che si sono estesi a quello pubblico: dal contratto, che richiede una transazione fra interessi diversi, al rapporto di clientela (pag.24 e seg.).
Il potere occulto è tipico delle ideologie, e va sconfitto dalla critica pubblica o demistificazione (pag.31). La crisi della democrazia comporta ingovernabilità, privatizzazione del pubblico, potere invisibile; la crisi dello stato di diritto comporta scandali e sottogoverno (pag.32).

Le difficoltà che incontra un partito riformista a fare le riforme in un contesto politico di coalizione fra forze di tradizione culturale diversa sono state altresì discusse da Luciano Cavalli in un interessante intervento su MondOperaio (La grande riforma e i suoi nemici, cit.), in cui sosteneva che solo una repubblica presidenziale o semipresidenziale, il modello della “democrazia con un leader”, può conferire al presidente i poteri per governare effettivamente; laddove il governo è di coalizione fra più partiti, le difficoltà a raggiungere un compromesso sono tali da far sì che vinca l’alternativa, cioè l’arte del “non governo”, l’inazione, che è esattamente l’opposto del riformismo.
Addirittura, sottolinea Cavalli, la storia del primo Novecento ha dimostrato che le democrazie parlamentari sono state deboli, al punto da essere soccombenti al nazifascismo la cui sconfitta fu possibile grazie a Stati Uniti e Gran Bretagna, entrambe democrazie presidenziali, sia pure di tipo differente.
La democrazia presidenziale non va confusa con la cosiddetta democrazia plebiscitaria; il presidente moderno, osserva Cavalli in proposto, “è un presidente plebiscitario ma solo nel senso originario, che ricopre la sua carica per deliberazione popolare, o, se preferite, ex voluntate populi” (cit., pag.10). I plebisciti fatti per legittimare molti dittatori (Hitler, Mussolini, Napoleone), in realtà, furono fatti dopo che le dittature erano già nate, ed erano nate dalla crisi di democrazie parlamentari. Le grandi riforme, inoltre, richiedono la ratifica popolare, plebiscitaria nel senso originario del termine, sotto forma di approvazione da parte di un referendum popolare.

12-5 RIFORMISMO SENZA DEMOCRAZIA?

Dopo avere ripetutamente affermato nel corso di questo libro che il riformismo è strettamente connesso alla democrazia, che non vi può essere riformismo senza democrazia, perché parlare ora del riformismo senza democrazia?
Per due motivi: innanzitutto perché vi sono stati casi storici di tentativi di riforma slegati dalla democrazia, che ovviamente hanno dato risultati diversi da quelli attesi, e sui quali occorre meditare; ed inoltre perché vi è ancora chi pensa, nonostante tutto, che il legame fra democrazia e riformismo non sia poi così stretto, che si possano ancora oggi concepire riforme senza democrazia. Questa posizione è diffusa, nonostante le dure repliche della storia, e consiste nel pensare che regimi autoritari possano riformarsi senza per questo rinunciare all’autoritarismo che li contraddistingue.

Albert O. Hirschman, in Come far passare le riforme, osserva che la rivoluzione dall'alto consiste nel dare qualcosa per non perdere tutto (cit., pag.194); eppure, la più importante riforma che ha interessato un regime autoritario nel Novecento, vale a dire la perestrojka di Gorbaciov, ha prodotto come risultato finale il crollo del regime stesso, non la riforma del comunismo bensì la sua fine, non una trasformazione ma un epilogo.
Intini, ne Il “Miracolo Riformista” (cit., pag.52) rileva una connessione fra la vittoria della perestrojka in Unione Sovietica e la fermezza occidentale contro la politica intimidatoria del brezhnevismo, fermezza culminata con l’installazione degli euromissili; in ogni caso, la fine del comunismo ha aperto nuovi scenari a livello planetario che, a dispetto della indiscutibile incertezza che hanno creato, hanno comunque dato origine ad un mondo che, nonostante sia ancora pieno di problemi, diseguaglianze, povertà e conflitti, tuttavia globalmente è più sicuro rispetto ai decenni di guerra fredda che hanno caratterizzato quasi tutta la seconda metà del secolo scorso (e la prima metà sappiamo bene come si è svolta).
Resta da vedere come evolverà nel futuro la situazione politica in Cina, dove la dittatura comunista sembra riuscire a convivere con forme di liberismo economico apparentemente incompatibili con quel sistema politico. Potremmo comunque dire che oggi, grazie anche alla perestrojka di Gorbaciov, la specie umana è più sicura di quanto non lo fosse trent'anni fa, sebbene la percezione che il singolo individuo abbia è quella di maggiore incertezza ed insicurezza, per sè e per chi gli sta accanto: ma sono proprio questi gli argomenti centrali per il riformismo e per le sue politiche.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Norberto Bobbio, Giuliano Pontara, Salvatore Veca, CRISI DELLA DEMOCRAZIA E NEOCONTRATTUALISMO (ed. Editori Riuniti, Roma 1984)
- Norberto Bobbio, IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA (ed. Einaudi, Torino 1984)
- Norberto Bobbio, QUALE SOCIALISMO? (ed.Einaudi, Torino 1970)
- Norberto Bobbio, STATO, GOVERNO, SOCIETÀ (ed.Einaudi, Torino 1985)
- Luciano Cavalli, LA GRANDE RIFORMA E I SUOI NEMICI (in MondOperaio, giugno-luglio 1991)
- John Dunn, LA TEORIA POLITICA DI FRONTE AL FUTURO (ed. Feltrinelli, Milano 1983)
- John Kenneth Galbraith, IL NUOVO STATO INDUSTRIALE
- Albert O. Hirschman, COME FAR PASSARE LE RIFORME (ed. il Mulino, Bologna 1990)
- Ugo Intini, IL “MIRACOLO RIFORMISTA”, in L’Albero Socialista. Un secolo di riformismo e di progressi (supplemento di Argomenti Socialisti, 1991)
- C.B.Machperson, LA VITA E I TEMPI DELLA DEMOCRAZIA LIBERALE (ed. il Saggiatore, Milano 1980)

 

13- RIFORMISMO E LIBERTÀ

13-1 RIFORMISMO, SOCIALISMO, LIBERALISMO

Le posizioni socialista e liberale, osserva Carlo Rosselli in Socialismo liberale, erano inizialmente antitetiche ma sono andate via via avvicinandosi perché sono entrambe visioni unilaterali che possono completarsi a vicenda (cit., pag.4).
Il socialismo è un programma di vita sempre in corso di attivazione, un limite ideale che si realizza solo in parte (pagg.86 e 110). Per i socialisti il fine ultimo è l'individuo, cellula della società, i fini della società sono i fini degli individui, rivoluzione sociale e rivoluzione morale devono accompagnarsi (pag.83).
Per il socialismo liberale sono sullo stesso piano la giustizia sociale e la libertà, la vita associata e quella individuale; il socialismo è una filosofia di libertà (pagg.88-89).
Per la teoria liberale la libertà è il fine supremo ed anche il mezzo supremo, attraverso il metodo democratico; non è un dato di natura ma un divenire: liberali non si nasce ma lo si diventa (pag.89). Mentre per i marxisti, osserva Rosselli, la libertà ha un valore solo storico e relativo (pag.115).
Il socialismo porta il principio di libertà alle sue conseguenze estreme, "è la libertà che si fa per la povera gente" (pag.90), autonomia economica, libertà di fatto e non solo di diritto. Il liberalismo è "forza morale ispiratrice", il socialismo "forza pratica realizzatrice" (pag.92), e da questione di giustizia diventa sempre più questione di capacità, una virtù pedagogica (pagg.96-100).
Senza autonomia individuale non può esserci socialismo (pag.116); il socialismo è prima rivoluzione morale e poi materiale, ed il socialismo senza democrazia è la negazione dei fini stessi del socialismo (pagg.143-144, nota).
Il socialismo, conclude Rosselli, è l'erede del liberalismo e la libertà "è il più efficace mezzo e ultimo fine del socialismo" (pag.144).

13-2 RIFORMISMO E CONCEZIONI DELLA LIBERTÀ

Le questioni centrali della politica, osserva Isaiah Berlin (Due concetti di libertà, cit.), sono l'obbedienza e la coercizione, "costringere un uomo vuol dire privarlo della libertà " (pag.188); la libertà di alcuni dipende dalle limitazioni di altri, e se gli altri sono molti esseri umani, il sistema è ingiusto e immorale. Il potere delle idee è tale che i concetti filosofici possono arrivare a distruggere civiltà, idee politiche e forze sociali hanno bisogno le une delle altre (pagg.186-187).
Non vi è connessione logica necessaria fra la libertà (grado di interferenza del governo sull'individuo) e la democrazia (chi governa). Soltanto se non si raggiunge un obiettivo perché ostacolati da altri, si può parlare di mancanza di libertà politica, la libertà è tanto più grande quanto maggiore è l'area di non-interferenza (pagg.189-196).
Berlin introduce il concetto di uguaglianza della libertà: non fare agli altri ciò che non vorrei fosse fatto a me (pag.192); la libertà, inoltre, non è il solo fine dell'uomo, in certe situazioni "le scarpe valgono di più delle opere di Shakespeare" (pag.191).
La libertà da ha per obiettivo (negativo) l'eliminazione delle interferenze; ma l'evidenza storica dimostra che l'argomento di John Stuart Mill secondo cui la libertà è condizione necessaria per lo sviluppo non è sempre vero (pagg.194-195). La libertà negativa implica un'idea di individuo oggetto, per cui si decide: è l'idea che spesso caratterizza il riformatore sociale, che individua traguardi per gli individui che questi ultimi non riescono a vedere, trattati come oggetti privi di volontà propria (pag.203).
La libertà positiva implica invece un'idea di individuo soggetto, agente, che decide: autonomia (agire) contro eteronomia (subire). Un modo per eliminare gli ostacoli dal cammino è quello di abbandonare il cammino; è la teoria dell'uva acerba secondo cui non si può volere ciò che non si è sicuri di ottenere: la libertà negativa (libertà tout court secondo Jonh Stuart Mill) non è capacità di fare ciò che si desidera, perché basta limitare i desideri (voglio ciò che posso fare) per sentirsi liberi (pagg.197-205). Rousseau e la Rivoluzione Francese, secondo Berlin, forniscono esempi di libertà positiva.
Il problema della libertà negativa non è chi esercita l'autorità ma quanta autorità esercita, la causa più importante dell'oppressione è l'accumulazione del potere. Il dittatore, ma anche il prepotente e l'inquisitore, partono dal presupposto che gli uomini non sono in grado di sapere cosa è meglio per loro; per Constant, Mill, Tocqueville, in una società libera non ci sono poteri assoluti ma solo diritti assoluti (pagg.216-230).
Secondo Berlin, se vi è accordo sui fini, le questioni relative ai mezzi non sono politiche e possono essere risolte da esperti (pag.185). La morale non può essere oggetto di conoscenza specialistica e perciò non vi possono essere esperti in materia: gli uomini diventano liberi non quando gli si impone di agire in certi modi, ma quando acquisiscono la consapevolezza del perché devono agire in quei modi; nella società ideale, che è "costituita da esseri pienamente responsabili" (pag.214), non c'è bisogno di regole e la libertà (l'autonomia) coincide con la legge (l'autorità).
I desideri di libertà e di giustizia sono entrambi fondamentali, bisogna vivere secondo i propri desideri ma anche rifiutare per gli altri trattamenti indecentemente disuguali, perché, osserva Berlin, "che non si possa avere tutto è una verità necessaria e non contingente" (pag.234).

Per Ralf Dahrendorf il concetto di felicità è astorico, è uno stato dello spirito (La libertà che cambia, op.cit., pag.30). La funzione del benessere è descrittiva e comparativa, non valuta la desiderabilità di determinate condizioni di vita; più adeguato è allora il concetto di libertà, la quale, data l'incertezza della condizione umana, "non è uno stato di cose ma una massima dell'agire" (pag.50); il suo compito è lo stesso in tutti i tempi, ampliare le opportunità di vita, cercare nuove possibilità. Il concetto attivo di libertà intende il liberalismo come filosofia della trasformazione (pagg.27-51).
La libertà riguarda le chances di vita, che sono opportunità, possibilità; le chances di vita sono un concetto sociale, storico, strutturale (riguarda modelli di organizzazione sociale), teorico (trascende sia le società esistenti che il loro potenziale noto). La libertà è un concetto normativo, le chances di vita sono una categoria analitica (pag.38 e 209) e sono funzione di due elementi, opzioni e legature (pag.41); inoltre, secondo Dahrendorf, se libertà "significa certamente ampliamento delle possibilità di vita, non è però vero l'inverso" (pag.209). Le chances di vita di epoche differenti sono confrontabili (pag.202).
Le opzioni sono costituite da diritti positivi e da disponibilità di beni (Prefazione, pag.V), e sono possibilità di scelta, "alternative di azione nelle strutture sociali" (pag.41). Divisione del lavoro, diritti civili e crescita economica hanno esteso e moltiplicato le opzioni (pag.46).
Le sole opzioni, la semplice possibilità di scelta è al di là del bene e del male, denota assenza di morale se è priva di coordinate, di una posizione determinata (pag.151).
Le opzioni possono essere classificate nelle dimensioni di spazio e di tempo: "l'indipendenza dal tempo e la libertà di movimento nello spazio, quindi le chances di mobilità, sono due immagini fondamentali delle opzioni sociali; non a caso entrambe vengono frequentemente identificate con il concetto di ' libertà ' " (pag.193).
Il suffragio universale, il diritto di muoversi anche oltre confine sono chances di vita, anche per chi rimane tutta la vita nello stesso luogo (pag.40).
Sono strumenti di opzioni sociali il denaro, il potere e il diritto; il potere è controllo sulle chances di vita altrui, che però spesso limita le opzioni di chi lo esercita (pag.193).
Le legature sono invece appartenenze, relazioni, legami sociali intensi e spesso emozionali (antenati, patria, comunità, chiesa), mentre per le opzioni sono rilevanti scopo ed orizzonte dell'agire. Le società premoderne erano caratterizzate da relazioni senza scelte, le società moderne hanno allargato le possibilità di scelta ma lacerando le legature esistenti: "mobilità significa che la famiglia e il villaggio non sono più comunità per destino, ma diventano sempre di più comunità d'elezione" (pagg.42-43). I concetti di legature e società civile sono associati: "una società civile offre ai propri cittadini una home, oltre ai diritti che loro spettano" (prefazione, VIII). L'anomia è mancanza di legami, rapporti, legature (pagg.207-208).
Anche le legature sono classificabili a partire dalle dimensioni dello spazio e del tempo (pag.191): spazio in generale (natura), spazio via via più circoscritto (nazione, regione, provincia, comune), spazio sociale (comunità, famiglia), tempo in generale (vita), tempo via via più limitato (storia, generazione, durata di una vita), tempo sociale: "l'importanza dell'età della vita umana si trasforma nel corso della storia" (p.192).
Decisive sono l'intensità e la qualità delle legature, piuttosto che il loro numero: la qualità differenzia, ad esempio, il credente dal fanatico (pag.192).
L'ampliamento delle chances di vita richiede la crescita delle opzioni (che sono volute) e delle legature (che sono date), ed un equilibrio ottimale fra esse: il rapporto fra opzioni e legature non deve essere un gioco a somma zero (pagg.45-46 e 193). Sarebbe inoltre interessante, osserva Dahrendorf, compiere una analisi dei diversi rapporti fra opzioni grandi o piccole da una parte e legature forti o deboli dall'altra (pag.200).
Il termine welfare, ed ancor più well-being indica benessere, che include anche aspetti non materiali, che sono appunto le legature; l'azione governativa non può creare le legature, ma può distruggerle (Prefazione, VIII). A proposito della flessibilità del lavoro e del conseguente sradicamento, e dell'esistenza di imprese altamente competitive circondate da povertà e disoccupazione, Dahrendorf si chiede se sia davvero questo l'obiettivo supremo della nostra economia politica (Prefazione, VII).
Le chances di vita hanno tre categorie evolutive, tutte quantificabili: la loro formazione, il loro sviluppo, la loro diffusione vale a dire l'estensione a più individui, e quindi la domanda di uguaglianza (pag.216); molto è evoluzione, il nuovo (la nascita) è raro (pag.197). L'emergere delle chances di vita è perciò un processo chiave: la storia è aperta (pag.196).
Nuove chances di vita si manifestano inizialmente in ambiti ristretti, per pochi, la loro espansione per tutti è un processo importante della storia: il suo senso consisterebbe allora proprio nel creare più chances di vita per più uomini, ovvero le più grandi chances di vita del più grande numero di individui (pagg.17 e 165).
Progresso significa, per le chances di vita:
- crescita delle esigenze umane, con nuove forme che emergono inaspettatamente (pag.115);
- crescita delle capacità umane di soddisfarle.
Il conflitto è un elemento dinamico del progresso: "sembra che ci sia un perenne antagonismo tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, tra istituzioni sociali e forze sociali" (pag.143); le leggi non hanno perciò valore incondizionato (pag.178).
Le rivoluzioni, osserva ancora Dahrendorf, sono molto meno frequenti delle situazioni rivoluzionarie (pag.144); perché queste ultime divengano rivoluzioni è indispensabile la speranza, che è prefigurazione, immagine del futuro ma è anche generalmente utopistica: "chi rinuncia alla speranza ha accettato le condizioni in cui vive" (pag.107). La speranza a sua volta è stimolata dalla disuguaglianza; scrive Dahrendorf: "oggi la speranza scaturisce dalla diversificazione degli uomini e non dalla loro uniformità, e la libertà scaturisce dalla disuguaglianza e non dall'uguaglianza" (pag.114).
Le idee sono efficaci per il cambiamento soltanto in circostanze determinate, sono condizione necessaria mentre condizione sufficiente sono i rapporti sociali; devono esserci le idee e le condizioni mature: "l'agire senza idee è privo di significato e le idee senza azione sono irrilevanti" (pag.116).
Dahrendorf definisce le società come insiemi di strutture (regole) e processi (pag.158); le regole di associazioni, club, organizzazioni sono arbitrarie, ma sono norme e leggi in quanto sono "riproduzioni del patto sociale applicate a quantità limitate di posizioni sociali" (pag.133). L'attività politica non è rappresentativa ma legittimativa, il buon politico è sempre attento sia agli obiettivi che al consenso (pagg.129-130).
Gruppi, organizzazioni, istituzioni, per il liberalismo non sono fini in sè ma mezzi per lo sviluppo dell'individuo, che è l'unico che conta: l'ipotesi gnoseologica di fondo è l'incertezza (pag.56); se l'uguaglianza minaccia la libertà, quest'ultima diviene prioritaria.
La partecipazione di tutti a tutto produce immobilità totale, "una mescolanza di permanente discussione teorica e altrettanto permanente inattività pratica" (pag.103): innovazione e partecipazione sono termini tra loro contraddittori.
Per definire l'identità sono necessari sia lo spazio sociale (società) che il tempo sociale (storia); la storia, per Dahrendorf, è il processo originato "da un numero teoricamente incalcolabile di invenzioni dell'umanità " (pag.11); una società perde infatti la libertà non solo eliminando oppositori ed innovatori, "ma anche cessando di stimolare arte e scienza" (pag.215). Invenzioni e conoscenza scientifica rispondono a regole che sono arbitrarie; oggi viviamo un eccesso di informazione: "è come se dinanzi a robusti alberi fossimo praticamente impossibilitati a vedere la foresta" (pag.135).
La qualità caratteristica dell'esistenza umana è data dalle sue potenzialità creative, dalla capacità di introdurre il non esistente; il concetto è quello di emergence, ossia l'innovazione, l'emergere ed il formarsi del nuovo: si tratta di un concetto vuoto, in quanto rimanda al contenuto di quanto viene creato o scoperto (pag.16), e non è nè la combinazione degli stessi elementi nè il dispiegarsi di premesse già esistenti, entrambe versioni del ‘niente di nuovo sotto il sole’. I viaggi spaziali non sono lo sviluppo conseguente del carro e dei cavalli, la storia umana è un processo aperto, domani possono avvenire cose che oggi neppure pensiamo (emergent innovations, pagg.10-15).
Il progresso è possibile, anzi è probabile ma è precario, non necessario (pag.26). Il potenziale degli uomini è la loro musicalità, vale a dire "la loro capacità di vivere in maniera complessa" (pag.23).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Isaiah Berlin, DUE CONCETTI DI LIBERTÀ (in Quattro saggi sulla libertà, Milano 1989)
- Ralf Dahrendorf, LA LIBERTÀ CHE CAMBIA, (ed. Laterza, Bari 1994)
- Carlo Rosselli, SOCIALISMO LIBERALE (ed. Einaudi, Torino 1979)

 

14- RIFORMISMO E TEORIE DELLA GIUSTIZIA

14-1 LA GIUSTIZIA SOCIALE COME PRINCIPIO FONDAMENTALE DEL RIFORMISMO

Nel 1971 John Rawls pubblica A Theory of Justice (Una teoria della giustizia, cit.), un libro giudicato da più parti come uno dei più importanti lavori filosofici del XX secolo. L'intento dell'Autore è delineare i principi fondamentali di una società giusta, ovvero di una società bene-ordinata nella quale i benefici e gli oneri siano distribuiti equamente fra gli individui e nella quale ciascuno vorrebbe vivere, nell'ipotesi che gli fosse accordata una simile possibilità di scelta.
La giustizia è infatti, secondo Rawls, il primo requisito delle istituzioni sociali e delle leggi (pag.21); la concezione della giustizia è però solo una parte di un più complesso sistema etico, che comprende anche altre relazioni morali, con le persone e con la natura (pag.32 e pag.418).
Una società bene-ordinata implica una concezione pubblica di giustizia: i principi di giustizia devono essere pubblici (ciascuno ne è a conoscenza, pag.31), generali, universali, definitivi e devono imporre un ordinamento transitivo alle pretese in conflitto (pagg.121-124); ciò che è giusto o ingiusto non è posto in discussione dopo la scelta iniziale (pag.22). Altri problemi sociali fondamentali, evidenzia Rawls, sono la coordinazione, l'efficienza (pag.71), la stabilità relativa (pag.23 e 406) e sono tutti influenzati dalla concezione della giustizia; una società e le sue strutture possono essere infatti giuste/ingiuste ma anche efficienti/inefficienti, liberali/illiberali, ecc.: è l'ideale sociale che li riunisce tutti sullo sfondo di una visione del mondo (pagg.24-26).
Lo stratagemma che Rawls impiega per individuare i principi fondamentali che regolano una società giusta è astratto, ma convincente: supponete, egli argomenta, di non conoscere la vostra posizione nella società, di non sapere, cioè, se siete operai o imprenditori, ricchi o poveri, intelligenti o stupidi, sani o malati; non sapete neppure se siete uomini o donne, padri o figli oppure nonni. Non sapete nulla, cioè, della vostra situazione particolare ma siete a conoscenza solo di fatti generali, e cioè dei vari principi che possono regolare una qualsiasi società: principi di utilità, efficienza, egoismo, libertà, eguaglianza, ecc. Quali principi scegliereste per regolare la società nella quale vorreste vivere?
La decisione, intesa come scelta razionale, dovrebbe essere presa in quella che Rawls chiama la posizione originaria, una sequenza di accordi ipotetici (pagg.29-32 e 132-133) nella quale ciascun individuo deve compiere la scelta dei principi fondamentali sulla base di una restrizione dell'informazione, cioè di una limitazione in ciò che egli può o non può conoscere; egli decide perciò sotto un velo di ignoranza o di equiprobabilità (pagg.28, 125, 140, 150-152) perché ignora il proprio status sociale e i ruoli che occupa nella società (non sa chi è, che mestiere fa, che titoli di studio possiede, quanto denaro ha: non sa nulla di sè), in condizioni di obiettività ovvero di condivisione dei punti di vista (pag.422) e di contemporaneità, cioè considera i suoi genitori, nonni, bisnonni, figli, nipoti e pronipoti come se fossero suoi contemporanei, e quindi rinuncia a principi che potrebbero in qualche modo favorire la sua particolare generazione, anche perché non sa quale questa sia, nel senso che potrebbe egli stesso essere un "nonno" o un "pronipote"; ed, infine, è indifferente alle situazioni particolari degli altri, non soffre di invidia (pag.131 e 434).
Quali principi scegliereste voi, con un simile vuoto di memoria? Potreste essere la persona più ricca del mondo, e allora scegliereste quei principi che possono tutelarvi al meglio con le vostre ricchezze, ma se foste la più povera? Potreste essere un genio, ma se foste uno stupido? Potreste essere sano, ma se foste malato? Potreste vivere oggi in Occidente e così approfittare della grande ricchezza a vostra disposizione, ma se doveste ancora nascere e scoprire, una volta giunto al mondo, che il vostro bisnonno vi ha già consumato tutto, esaurendo le risorse energetiche, inquinando l'ambiente, ecc.?
Per scegliere correttamente i principi di una società giusta, secondo Rawls, è allora necessario porsi dal punto di vista della persona meno avvantaggiata, dal punto di vista di chi ha meno, piuttosto che da quello di chi, per fortuna (provenendo da una famiglia e da una società già ricche), o per natura (talento, efficienza, salute, ecc.), o per altre cause ancora (disonestà), ha avuto di più (pag.30).
Esiste un criterio di scelta che ci permette di raggiungere l'obiettivo: è la regola del maximin , o del maximum minimorum (pag.138); essa consiste nell'ottenere il maggior risultato utile dalla peggiore situazione possibile. Ora, secondo Rawls, esistono due soli principi che possono condurre ad un simile risultato, e cioè il principio di libertà e quello di uguaglianza, opportunamente riformulato.
Il primo principio di una società giusta, sostiene allora Rawls, è quello che prescrive la più ampia libertà per tutti: "Ogni persona ha un eguale diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti" (cit., pag.255). Limitazioni al principio di libertà sono consentite, date le particolari situazioni storico-sociali che possono verificarsi in ogni società reale, a patto che non colpiscano particolari gruppi o settori della società: ammettere che alcune persone possano avere maggiori libertà di altre significherebbe, infatti, giustificare una società divisa in liberi e meno liberi, cioè una società schiavista, razzista o etnocentrica, che non sarebbe certamente una società giusta. Nella posizione originaria, osserva infatti Rawls, le dottrine razziste non solo sono ingiuste, ma sono anche irrazionali (pag.135).
Le varie forme di libertà (politica, religiosa, ecc.) hanno, nella teoria di Rawls, la priorità assoluta rispetto ad ogni altro principio morale: non sono perciò ammesse riduzioni di libertà in cambio di una maggiore uguaglianza, o di maggiore efficienza economica, neppure in cambio di maggiore benessere. L'equa libertà è , secondo Rawls, il bene più prezioso di una società giusta, e non è perciò mercanteggiabile, quale che sia il corrispettivo offerto; il valore della libertà, però, non è uguale per tutti (pag.178).
Dopo il principio di libertà, Rawls pone quello di uguaglianza, che riformula come principio di differenza: esso stabilisce che sono ammesse solo quelle disuguaglianze che si risolvono a favore dei meno avvantaggiati. Supponiamo, ad esempio, di trovarci in una società nella quale vige un'eguaglianza sociale perfetta: tutti hanno le stesse mansioni lavorative e tutti sono retribuiti in modo eguale; alcuni, però, sono più dotati di altri e, in una società diversa, potrebbero guadagnare di più facendo un lavoro diverso. In quest'ultima società, nella quale esiste disuguaglianza di mansioni e di retribuzioni (vi sono ingegneri ed operai, stipendi e salari), la quantità totale di beni prodotti è maggiore e la fatica di produrli minore, grazie a nuove tecniche (divisione del lavoro, automazione, economie di scala, ecc.). Risultato: nella società disuguale gli ingegneri guadagnano di più degli operai, ma gli operai guadagnano anch'essi di più, e lavorano di meno, degli operai nella società perfettamente egualitaria; si tratta, perciò, di una disuguaglianza che torna a loro vantaggio e che quindi è giustificabile, può dunque esistere in una società giusta.
Rawls prescrive poi che l'equa opportunità di accedere alle varie cariche sociali sia prioritaria rispetto alle ineguaglianze consentite dalla società, e che violazioni nell'eguaglianza di opportunità sono ammesse soltanto se accrescono le opportunità di coloro che ne hanno di meno. Concezione generale della società giusta è dunque che "tutti i beni sociali principali - libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi per il rispetto di sè - devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale di uno o più di questi beni non vada a vantaggio dei meno avvantaggiati" (pagg.255-256).
I beni sociali principali sono una premessa alla scelta dei principi di giustizia (pag.357), e consistono nel rispetto di sè (pag.362), in "diritti e libertà, opportunità e poteri, reddito e ricchezza" (pag.91); gli individui sono cittadini collocati a diversi livelli di benessere (pag.94), i gruppi meno favoriti si collocano sotto la media nella disponibilità dei beni sociali primari.
Chi ha diritto ad una giustizia eguale sono le persone morali, definite a pag.412 come dotate di senso di giustizia e di una propria concezione del bene che viene espressa da ciascuno con un proprio piano razionale di vita (pag.456); gli esseri umani sono disuguali (pag.414), l'educazione morale "è educazione all'autonomia" (pag.421), libertà/autonomia e obiettività/ragione sono compatibili fra loro, il "fine" è lo sviluppo delle potenzialità di ciascun individuo (p.427).
La distribuzione di reddito e ricchezza determinata da abilità e talenti, come avviene nella concezione liberale, è moralmente arbitraria; l'eguaglianza democratica combina invece il principio dell'equa eguaglianza di opportunità col principio di differenza, facendo preferire le soluzioni che migliorano chi sta peggio (pagg.76-77). I principi di differenza e di efficienza sono compatibili fra loro: far stare meglio chi sta peggio senza far stare peggio gli altri; la giustizia ha comunque la priorità rispetto all'efficienza (pagg.80-81). Il principio di differenza lessicale è analizzato a pag.83 del libro e rende superflui i confronti interpersonali, in quanto bastano i giudizi ordinali (pag.90); il principio di perfezione è discusso a pag.272 e seguenti.
Le ineguaglianze immeritate (per doti naturali o posizioni sociali, sesso, razza, cultura) devono essere compensate (principio di riparazione, pagg.96-97), l'arbitrarietà delle distribuzioni naturali non è giusta nè ingiusta, ma lo diviene quando viene incorporata nella struttura fondamentale della società; le maggiori capacità sono doti sociali utilizzabili per il vantaggio comune, il principio di differenza incorpora la diversità e il merito (pagg.99-103).
Riepilogando (pagg.101-102):

libertà = primo principio di giustizia
eguaglianza = equa opportunità
fraternità = principio di differenza

Le dottrine filosofiche e religiose, le arti e le scienze sono al di fuori delle competenze di uno Stato, definite da una costituzione giusta (pagg.184-185); la libertà di coscienza è imprescrittibile e, se la costituzione è sicura e non vi sono rischi considerevoli, secondo Rawls non si può negare la libertà agli intolleranti in quanto, per un principio psicologico, chi beneficia di una costituzione giusta tenderà col tempo ad esservi fedele (pagg.189-190 e 404-410). Il principio di libertà "conduce a quello di responsabilità " (pag.208; il problema del free-rider e delle esternalità è analizzato a pagg.228-229 del libro, gli intolleranti come free-riders a pag.322, il sistema di mercato a pagg.231-232, le convinzioni della maggioranza a pag.370).
I principi di giustizia sono incondizionati e si distinguono dagli atti leciti, che siamo liberi di compiere oppure no (anche qui, lo schema è a pag.104 del libro); fra questi ultimi vi sono le azioni supererogatorie che possono comportare un costo personale considerevole: atti di eroismo, sacrificio, benevolenza, pietà, amore per l'umanità (pagg.110, 168, 390 e seg.).
Le circostanze di giustizia sono le "condizioni di sfondo" (pag.118) che rendono necessari principi di giustizia e che Rawls distingue in:
- oggettive: vicinanza spaziale e temporale, scarsità moderata di risorse;
- soggettive: piani di vita individuali che originano scopi diversi e pretese conflittuali (pag.166), disinteresse reciproco, circostanze di paura reciproca (pag.282); il disinteresse reciproco evita che nella posizione originaria i principi di giustizia dipendano da condizioni forti come legami estesi, sentimenti, desideri e convinzioni (pag.120 e 301).
La società giusta non necessita di notevoli ricchezze (pag.246), il diritto penale in essa è superfluo (pag.265); le società reali sono quasi-giuste (pag.320).
I principi di giustizia scelti nella posizione originaria corrispondono al nostro senso di giustizia, ai nostri giudizi ponderati (equilibrio riflessivo, pag.56); concezioni alternative fra loro sono basate su equità, utilità, perfezione: la giustizia come equità, secondo Rawls, "ci avvicina a un ideale filosofico" (pag.57).

La poca giustizia sociale esistente, osserva Giuliano Pontara in Crisi della democrazia e neocontrattualismo (cit., pag.84), si fonda sulla forza e non sul rispetto volontario e collettivo dei principi di giustizia di Rawls: le parti, secondo Pontara, si accorderebbero per una federazione mondiale, la socializzazione dei grandi mezzi di produzione, la pianificazione dello sfruttamento delle risorse naturali ("un assetto socialista", pag.85) ed una tassazione internazionale progressiva.
Una teoria della giustizia nazionale ed il solo principio di libertà a livello internazionale costituiscono un dualismo non giustificabile: i due principi di giustizia di Rawls (libertà e differenza) andrebbero applicati prima al livello internazionale e poi a quello nazionale, prevedendo la non giustificabilità della guerra giusta, come peraltro già accade per la violenza a livello nazionale (pagg.94-98 e 101).

Salvatore Veca, nel libro La filosofia politica, evidenzia come le ineguaglianze possano essere locali, della polis, entro una società particolare; ovvero globali, della cosmopolis, fra società differenti ma interdipendenti: in queste ultime, osserva Veca, "i poteri della politica domestica sono poteri di fare meno cose, decrescono; si può manovrare solo entro vincoli internazionali crescenti" (pag.21); la scena delle relazioni internazionali è infatti caratterizzata dalla oscillazione ciclica del pendolo Hobbes-Kant fra guerra e pace.
Le ineguaglianze possono derivare dalla sorte, da differenti dotazioni naturali iniziali (differenti talenti naturali), ovvero da differenti dotazioni sociali (nessuno può scegliere dove nascere, pag.4); ma possono derivare anche da azioni deliberate, le quali a loro volta vanno distinte fra azioni che non sembrano sbagliate (ineguaglianze come risultati), e quelle che invece percepiamo come sbagliate, come nei casi di discriminazione razziale o sessuale o religiosa.
La prima causa di agiatezza o povertà, osserva Herbert A. Simon (La ragione nelle vicende umane, op.cit.), è essere nati nel tempo e luogo giusti (o sbagliati), e dalla famiglia giusta (o sbagliata, pag.117).
Le interferenze da parte dello Stato, in questi casi di ineguaglianze, secondo Veca potranno essere:
- per ineguaglianze derivanti da diverse dotazioni naturali, o l'eguaglianza di opportunità, che però genera risultati ineguali, o la discriminazione alla rovescia;
- per ineguaglianze derivanti da diverse dotazioni sociali, o interferenze sugli effetti (con la diversa fornitura di beni pubblici), o interferenze sulle cause (ne è un esempio la tassazione); queste ultime, seguendo Nozick (pag.76), possono essere ulteriormente distinguibili fra forme di giustizia nell'acquisizione dei beni, e forme di giustizia nel trasferimento dei beni e delle proprietà.

Per Anthony Giddens (La terza via, op.cit.), la società inclusiva (il cui schema è a pag.106 del libro) richiede uguaglianza, opportunità di accesso al lavoro e all'istruzione (pag.104), coinvolgimento nello spazio pubblico: "la nuova politica definisce l'uguaglianza come inclusione e la disuguaglianza come esclusione" (pag.104); l'esclusione è sia quella dei meno privilegiati, sia l'autoesclusione dei più privilegiati, e fra le due vi è un nesso di causalità (pag.105). Un esempio di società non inclusiva è quella che emargina gli anziani (pag.119); altri esempi sono connessi al concetto di declino civico (pagg.83-89-99).
L'idea di uguaglianza o giustizia sociale, scrive Giddens, "è alla base della concezione della sinistra (...) schierarsi a sinistra significa credere in una politica di emancipazione" (pag.52); anche se tale idea può poi essere interpretata in modi diversi: "uguaglianza è un concetto relativo. Dobbiamo chiederci: uguaglianza tra chi, di cosa e in qual misura?" (pag.52).

14-2 CONIUGARE EQUITÀ CON EFFICIENZA

Arthur M. Okun (Eguaglianza ed efficienza, op.cit.) evidenzia come le ragioni etiche a favore del mercato siano poco convincenti, mentre quelle fondate sull'efficienza sono del tutto persuasive: l'efficienza di un sistema di mercato è superiore a quella di un sistema pianificato, nel quale valgono i comandamenti dei funzionari pubblici (non sperimentare, non rischiare, non essere flessibile, ciò che viene dato non sarà più tolto, ecc.).
Nel contesto di un'economia di mercato, però, Okun ritiene fondamentale la definizione di linee di compromesso fra eguaglianza ed efficienza: la redistribuzione dei redditi, egli osserva, può avvenire efficacemente soltanto con una politica fiscale fortemente progressiva accompagnata da un corretto indirizzo delle spese statali (privilegiare le spese sociali su quelle militari, ecc.); la pianificazione economica, la confisca delle ricchezze sono invece inapplicabili perché del tutto inefficienti.
I redditi prelevati con la tassazione progressiva devono andare a vantaggio dei meno avvantaggiati: anziani, poveri, madri con figli a carico, ecc; strumenti differenziati di redistribuzione possono essere gli aiuti diretti in denaro, l'assistenza medica gratuita, i buoni pasto, le detrazioni per la casa, i finanziamenti all'istruzione, la previdenza sociale, le opportunità di occupazione.
Nel trasferire risorse dai più avvantaggiati ai meno avvantaggiati una parte di queste va perduta: è la metafora del secchio bucato, che illustra le inefficienze del percorso di redistribuzione dei redditi, inefficienze dovute a costi amministrativi, minor impegno dei più ricchi, perdite socioeconomiche, distorsioni nel risparmio e nell'investimento.
Chi dà priorità all'efficienza sull'eguaglianza, osserva Okun, è disposto ad affrontare solo perdite lievi; chi dà priorità all'eguaglianza sull'efficienza è disposto a sostenere anche forti perdite. Per Okun è fondamentale la ricerca di un compromesso: il secchio è bucato, cioè parzialmente inefficiente nell'equalizzare i redditi, ma alla fine riesce ad ottenere risultati insieme più equi e più efficienti, perché maggiore eguaglianza alla fine produce maggiore efficienza, anche se inizialmente il perseguimento di politiche egualitarie avviene a spese dell'efficienza. La strategia che propone è dunque indiretta (nel senso di Simon ed Elster, cfr.): un passo indietro oggi nell'efficienza a favore di maggiore eguaglianza consentirà domani di fare due passi in avanti in termini sia di efficienza che di eguaglianza.

Allen Buchanan, in Etica, efficienza, mercato (op. cit.), evidenzia come l'analisi economica valuti il mercato solo in base alla sua efficienza, mentre gli studiosi di etica lo giudicano per il suo successo o fallimento nel soddisfare esigenze di giustizia. Giudizi morali e giudizi di efficienza possono procedere su binari diversi, situazioni efficienti o Pareto superiori possono essere moralmente inferiori, e viceversa; dati empirici controversi e non del tutto disponibili possono essere all'origine di controversie pro o contro il mercato ed impedire la definizione di giudizi condivisi: le categorie distinte degli "economisti" e dei "filosofi", non tenendo conto delle analisi altrui, producono infatti soluzioni imparziali e verità incomplete, perché gli economisti trascurano le questioni etiche, mentre gli studiosi di etica trascurano le considerazioni di efficienza.
Argomenti di efficienza a favore del mercato sono la tesi del mercato ideale (ottimo paretiano), l'assunzione che il mercato reale si avvicina sufficientemente all'efficienza del mercato ideale, le tesi dell'efficienza diacronica del mercato e della sua efficienza produttiva.
Argomenti di efficienza contro il mercato criticano le varie forme di inefficienza (allontanamento del sistema reale dal modello ideale), i problemi del free-rider e dell'assicurazione (in particolare in connessione alla fornitura di beni pubblici), il problema dell'incongruenza fra preferenze rilevate nel mercato e benessere individuale.
Argomenti morali a favore del mercato sono basati sul merito, sul vantaggio reciproco, sull'utilitarismo dell'atto e della regola, sui diritti morali libertari e sulla libertà.
Argomenti morali contro il mercato si basano anch'essi su considerazioni di libertà, sull'ineguaglianza, sullo sfruttamento, sul parassitismo, sulle varie forme di alienazione, sulla tendenza espansionistica del mercato.
L'onere della prova della dimostrazione dell'efficienza di economie alternative a quella di mercato spetta a chi le sostiene ma, evidenzia Buchanan, tale prova non può essere ottenuta in assenza di teorie sufficientemente elaborate di sistemi non di mercato, e pertanto il sistema di mercato, dal punto di vista dell'efficienza, è superiore agli altri sistemi.
Dal punto di vista morale, invece, l'argomento più importante contro il mercato è, secondo Buchanan, quello della sua tendenza espansionistica (pagg.140-141): istituzioni giuridiche, rapporti di amicizia, relazioni sessuali, comportamenti che vengono sempre più assimilati a transazioni di mercato; se tutti i rapporti interpersonali divengono rapporti di mercato la vita umana ne esce impoverita: la critica decisiva al mercato è pertanto quella della sua invadenza, e quindi dei suoi limiti, che non vanno confusi però con i limiti del benessere.

Secondo Lester C.Thurow (La società a somma zero, op.cit.) le questioni distributive sono ineludibili dove ci sono da distribuire non solo guadagni, ma anche perdite, come avviene in tutti i giochi a somma zero, dove le perdite sono esattamente uguali alle vincite: "tutti gli eventi sportivi sono giochi a somma zero. Per ogni vincitore c'è un perdente e può esistere un vincitore solo se esiste uno sconfitto. Ciò che il giocatore vincente guadagna deve essere perso dal giocatore sconfitto" (pag.29).
La distribuzione delle perdite può essere assoluta o relativa: anche redditi che aumentano meno rapidamente di altri, od anche in misura inferiore alle aspettative, possono determinare la percezione di una maggiore povertà, pur in presenza di redditi che, in termini assoluti, sono in crescita.
Il paradigma del gioco a somma zero si determina quando la società affronta il problema delle differenze di reddito fra gruppi diversi: ricchi/poveri, bianchi/neri, uomini/donne, agricoltori/popolazioni urbane. In tutti questi casi, l'aumento del reddito per un gruppo significa diminuzione di reddito per qualche altro gruppo, e "la crescita economica per tutti non può risolvere il problema poichè la richiesta non è per avere di più, bensì per raggiungere l'eguaglianza" (pag.262). Anche se, ribadisce Thurow, la nostra società non crede nell'eguaglianza assoluta e, inoltre, nelle discussioni il concetto di ineguaglianza viene spesso ridotto, in quanto si tende a considerare più il reddito che la ricchezza, e quindi i ricchi sembrano meno ricchi di quanto sono nella realtà (pag.234).
La competitività è crescente nei giochi a somma zero, ed una società caratterizzata da una struttura complessiva a pura somma zero, secondo Thurow, accrescerebbe la competitività fra gli individui: se la torta economica non si può ingrossare, le nostre energie devono essere utilizzate per dividerla, perciò i giochi a somma zero sono sempre caratterizzati da attività fra le più competitive (giochi sportivi, gioco d'azzardo).
Lo sviluppo economico è stato usato storicamente per evitare di affrontare questioni distributive, e cioè per evitare l'adozione di criteri di equità nelle decisioni pubbliche. Queste ultime, però, sono altamente controverse proprio a causa della relatività della distribuzione delle perdite, e sono pertanto di difficile soluzione: "Il caso non si pone in termini di noi contro loro, ma noi contro di noi in un gioco a somma zero" (pag.38).
Solo ad una condizione possiamo immaginare una società a crescita zero pacifica, caratterizzata cioè da assenza di competizione: "una pacifica società a crescita zero potrebbe essere raggiunta solo se si potessero saziare i bisogni" (pag.169); Thurow osserva che tale condizione, pur essendo conseguibile da un punto di vista logico (possiamo immaginare una cultura in cui i bisogni sono saziati), nella realtà non è raggiungibile: "la richiesta di un livello di vita crescente è virtualmente universale" (pag.169).
Le conseguenze politiche dei giochi a somma zero consistono nella sostanziale paralisi dei processi decisionali nelle democrazie: i ritardi e le incertezze rappresentano costi, e ritardare un programma vuol dire spesso affossarlo (pag.31).
Il processo politico non è infatti in grado di produrre decisioni quando queste provocano perdite per qualcuno; se si cerca una soluzione senza costi, il problema diventa insolubile (pag.113 e 291).
La paralisi dei processi decisionali è acuita, nei sistemi democratici, dal fatto che i rappresentanti politici vengono eletti con un mandato limitato nel tempo (quattro-sei anni) mentre la soluzione dei problemi richiede spesso "lunghi periodi durante i quali i costi crescono mentre i benefici seguono molto più tardi" (pag.34).
L'incoerenza nel comportamento degli individui, quando questi si trovano coinvolti in giochi a somma zero, è evidente in alcuni casi paradigmatici: energia, poteri coercitivi dello Stato, inflazione, processi di disinvestimento, esaurimento delle risorse naturali, lavoro, norme e regolamenti, richieste di redistribuzione.
Thurow osserva come la percezione che ciascun individuo ha del proprio status economico, di ciò che può chiedere e di ciò che può dare, dipenda dalla posizione relativa che egli occupa nel sistema economico stesso: "non esiste un livello minimo del tenore di vita in senso assoluto che renda soddisfatta la gente" (pag.38).
La posizione relativa è tale sia in senso storico che geografico: "Il povero negli Stati Uniti potrebbe essere ricco in India, ma egli vive in realtà negli Stati Uniti e si sente povero. La classe media può avere frutta fresca e verdure che il più ricco dei re non poteva avere nel Medio Evo, ma essa si sente oggetto di privazioni rispetto alla classe medio-superiore che può godere di quelle cose che ad essa non sono permesse" (pag.38).
È proprio a causa della posizione relativa di ciascuno che l'adozione di criteri di equità diventa necessaria ogni volta che vengono prese decisioni pubbliche, e cioè decisioni in materia di abolizione o introduzione di imposte, espansione o contrazione della spesa pubblica, estensione o riduzione di normativa.
Le richieste di redistribuzione, secondo Thurow, determinano incoerenze di comportamento: poichè la nostra è una società di gruppi piuttosto che di individui, ne consegue che le richieste di redistribuzione non hanno tanto per oggetto il divario fra ricchi e poveri, quanto la distinzione etnica o il sesso; per sapere se una società offre uguali opportunità, occorre infatti analizzare i dati economici relativi ai gruppi: "L'economia tratterà i diversi individui in maniera diseguale a prescindere da ciò che facciamo. Solo i gruppi sociali possono essere trattati con equità" (pag.250); e nella lotteria economica, per ottenere una rapida ricchezza il talento imprenditoriale è condizione necessaria ma non sufficiente (pagg.221, 245, 249).
Tutti i programmi di aiuto economico alle minoranze, osserva Thurow, finiscono per danneggiare la maggioranza: "Se le donne e le minoranze avessero un maggior numero dei posti di lavoro migliori, i bianchi maschi ne subirebbero le conseguenze" (pag.262). Le differenze di retribuzione fra i coniugi determinano conseguenze paradossali ed una argomentazione quanto meno singolare, peraltro confutata dal principio di differenza di Rawls: secondo Thurow, le donne che lavorano "contribuiscono all'eguaglianza poichè i loro guadagni sono molto più equamente distribuiti di quelli dei loro mariti" (pag.225).
In questo ragionamento troviamo un principio fortemente contestato dai riformisti, per i quali non è da ricercare l'eguaglianza ad ogni costo, bensì condizioni di maggiore equità al più alto livello di benessere possibile: l'eguaglianza fra poveri tutti egualmente in miseria, non interessa ai riformisti, per i quali è fondamentale non il livellamento economico degli individui, ma lo sviluppo delle loro potenzialità in condizioni di benessere diffuso.
Il governo, si chiede ancora Thurow, dovrebbe astenersi dal formulare programmi per aumentare il reddito a certi gruppi, per esempio gli agricoltori. Thurow evidenzia come il medesimo argomento si applichi non solo ai gruppi economici, ma anche a gruppi che si distinguono fra loro per collocazione geografica o addirittura per la religione; la mobilità diviene allora una sorta di test per determinare la legittimità di un gruppo mentre, osserva Thurow, "quasi nessuno sarebbe disposto ad obbligare gli individui a cambiare la loro religione per assicurarsi un eguale trattamento economico" (pag.254).
I concetti di efficienza e giustizia sono antagonistici, ciò che è efficiente per l'economia in generale è di solito ingiusto per singoli individui; l'efficienza implica ingiustizia verso gli individui, e poichè vorremmo sia l'efficienza che la giustizia, ci troviamo di fronte ad un dilemma, che possiamo trovare nelle diverse politiche pubbliche: "la stessa gente che si oppone ai programmi speciali per i neri, sostiene i programmi speciali per il settore tessile" (pag.254).
Porre fine ad una discriminazione non significa automaticamente creare eguali possibilità; infatti, secondo Thurow, sono diverse le cose che si possono fare se si vuole avere una gara equilibrata:
1) bisogna fermare la corsa e ripartire di nuovo;
2) bisogna obbligare gli avvantaggiati a portare un handicap finchè non vengono raggiunti, ovvero
3) bisogna dare un aiuto extra agli svantaggiati fino al ricongiungimento (pag.261).
Per applicare il primo punto, occorre una rivoluzione; rimangono le altre due possibilità, ma bisogna tener conto che se discriminiamo a favore di qualcuno, in realtà discriminiamo anche a sfavore di qualcun altro, con conseguente pericolo di paralisi delle decisioni politiche.
Le decisioni di equità possono essere esplicite o implicite: in quest'ultimo caso, si tratta di decisioni non discusse ma comunque incluse in politiche di prelievo o di spesa, e nei regolamenti; il problema di determinare un gioco economico giusto è reso più complesso dal fatto che, osserva Thurow, le economie di mercato possono esistere "con o senza la schiavitù, con o senza la proprietà pubblica, con o senza discriminazioni economiche. Com'è costituito un ‘giusto’ gioco economico? Lasciamo alle scelte dei consumatori la determinazione del valore economico di una compagnia operistica o creiamo noi stessi, per mezzo delle istituzioni educative, una domanda pubblica di rappresentazioni liriche?" (pag.270). Ed ancora, si chiede Thurow riferendosi alle norme sull'eredità, che differenza c'è fra chi eredita una forte somma e chi, col proprio talento (sportivo o altro) riesce a guadagnare facilmente un reddito analogo ?
Si possono costruire molti giochi equi, a seconda del tipo di distribuzione che adottiamo; scrive Thurow: "combinando semi di soja, lardo, succo d'arancio e fegato di manzo (commestibili, poco costosi, nutrienti, ma poco gustosi) si riesce a comporre (...) una dieta migliore, dal punto di vista medico, di quelle che adottiamo noi attualmente. Ma siamo disposti a costringere la gente ad adottarla? E, ancora, quanto spazio abitativo per persona è necessario per vivere fino alla vecchiaia? La risposta: molto poco. Siamo disposti allora ad ignorare le esigenze abitative dei poveri?" (pag.273).
Il problema è che quando le esigenze vengono ridefinite come necessità, il concetto di necessità perde di concretezza: "le esigenze diventano necessità ogni qualvolta la maggioranza della popolazione in una società le ritiene davvero necessità. Tutte le cose a cui ci siamo abituati e che sono disponibili a tutti, diventano necessità. Le necessità così definite crescono parallelamente al reddito medio" (pag.274).
Altro problema di difficile soluzione, sottolinea Thurow, è quello di definire gli eguali, in presenza di costi diversi in situazioni diverse e di gratificazioni diverse (reddito, stima, condizione sociale, potere): come deve essere intesa la proporzionalità ? Thurow osserva che sta meglio chi realizza risultati positivi all'interno del proprio gruppo piuttosto che in rapporto all'intera popolazione: torniamo all'analisi sui gruppi appena discussa.
Thurow analizza poi alcune incoerenze di comportamento:
- nel settore dell'energia e in settori analoghi dell'industria: "tutti vogliono l'energia, ma nessuno vuole un impianto di produzione vicino alla propria casa" (pag.34);
- nel rapporto coi poteri coercitivi dello Stato: siamo favorevoli quando vengono usati per aumentare il nostro tenore di vita, non quando limitano le nostre azioni per aumentare il reddito di altri (pag.45);
- nei nostri atteggiamenti verso l'inflazione: "ognuno vuole un governo che blocchi l'inflazione, inflazionando però il proprio reddito e deflazionando quello altrui" (pag.70); ne deriva che non può esistere una politica dei redditi volontaria, perché sono troppo grandi gli incentivi a non cooperare: il problema, scrive Thurow, "assomiglia ad una partita di football (...) per vedere meglio alcuni si alzano in piedi, ma se ognuno si alza nessuno vede meglio ed in più, ora, tutti sono scomodi perché nessuno può rimettersi a sedere. Solo l'azione collettiva può tenere tutti seduti; le decisioni individuali portano ognuno a stare in piedi" (pag.102). Inoltre, l'inflazione trasforma problemi individuali in apparenti problemi sociali, perché fa aumentare la maggior parte dei redditi monetari e così crea l'illusione che, senza inflazione, il proprio standard di vita sarebbe cresciuto (pag.80).
Vi sono incoerenze di comportamento anche nei processi di disinvestimento: vengono adottati sistemi di protezione (norme, sussidi, artifici vari) che hanno lo scopo di evitare ai soggetti coinvolti di sostenere il peso economico del disinvestimento. Ma un maggiore potere d'acquisto reale, sottolinea Thurow, non è possibile se la produttività non aumenta, e per far aumentare la produttività occorrono interventi che pongono tutti questioni distributive a somma zero: serve che nuove conoscenze (ricerca scientifica e studi ingegneristici) assumano rilevanza per l'economia, che si realizzino investimenti, ma anche disinvestimenti che sono condizione necessaria per spostare lavoro e capitale in settori nuovi (pagg.115-118 e 149). Però siamo riluttanti a disinvestire per ragioni morali che riguardano gli individui piuttosto che le aziende, anche se nei fatti concreti vi sono più programmi di protezione per le istituzioni che per le persone (giustificati, osserva Thurow, in nome della protezione degli individui, pag.121).
Vi sono poi incoerenze di comportamento nell'atteggiamento verso il lavoro: questo produce, oltre al reddito monetario, anche altri benefici (amicizie, prestigio, realizzazione, fama, potere, pagg.168-169); una società a crescita economica zero non riesce a creare nuove occasioni di prestigio, fama, fortuna, essendo necessario lo sviluppo economico: per ciascuno che raggiunge uno degli obiettivi, qualcun altro deve essere rimosso. Questo argomento non è però sempre vero nelle grandi organizzazioni: possiamo immaginare che anche in una società a somma zero sia comunque plausibile la moltiplicazione delle cariche in assenza di sviluppo economico; enti ed aziende, se si frantumano, moltiplicano i consigli di amministrazione e più soggetti vi possono accedere, sebbene i risultati complessivi per il sistema economico saranno alla fine negativi: si vedano, a tale proposito, i paradossi analizzati da Laurence J. Peter nel suo libro La Ricetta di Peter (cit.).
Infine, Thurow analizza le incoerenze nel diffondersi di norme e regolamenti: la sicurezza per un individuo, grazie all'applicazione di norme protettive, comporta la mancanza di occasioni per un altro, in termini di mancata competizione, "e così normalmente si finisce col prescrivere la concorrenza agli altri e la sicurezza per noi stessi. Quando ci si comporta così, tuttavia, si va a finire in un'economia piena di norme che impediscono lo sviluppo veloce di cui abbiamo bisogno" (pag.180); la deregolamentazione, infatti, implica sempre delle perdite economiche per qualcuno.
Una economia non regolata però, secondo Thurow, non esiste: "tutti i sistemi economici sono identificabili da un insieme di leggi e di regolamenti. La civiltà è infatti un accordo fondato su una serie di regole di comportamento. Una economia senza regole sarebbe una economia anarchica dove il libero scambio sarebbe impossibile. La superiorità fisica sarebbe l'esclusivo mezzo per condurre le transazioni economiche. Tutti vorrebbero prevalere su tutti gli altri" (pag.184).
I diritti di proprietà, ad esempio, non sono così intuitivamente ovvi come appaiono, scrive Thurow: "se il vicino getta i suoi rifiuti nel mio giardino ho il diritto di chiamare la polizia e chiedere il rimborso dei danni. Se il vicino getta i suoi rifiuti nell'aria (bruciandoli), curiosamente non ho il diritto di chiamare la polizia, nè di richiedere i danni. Ho diritti di proprietà sulla terra, ma non sull'aria e ciò sebbene l'aria pulita sia più vitale alla mia esistenza della terra" (pag.185). Solo con l'aumento della popolazione e dell'industrializzazione, l'aria pulita acquista valore; allo stesso modo, non ha senso occuparsi dei diritti di proprietà sul fondo marino o su altri pianeti, se non si dispone di una tecnologia che li renda appropriabili. Dobbiamo inoltre tenere conto che vi sono due mercati di capitali: quello reale, che riguarda investimenti in impianti e macchinari, e quello finanziario che si occupa della compravendita di diritti di proprietà.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Norberto Bobbio, Giuliano Pontara, Salvatore Veca, CRISI DELLA DEMOCRAZIA E NEOCONTRATTUALISMO (ed. Editori Riuniti, Roma 1984)
- Allen Buchanan, ETICA, EFFICIENZA, MERCATO (ed.Liguori, Napoli 1992)
- Anthony Giddens, LA TERZA VIA. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia (ed. il Saggiatore, Milano 1999)
- Arthur M. Okun, EGUAGLIANZA ED EFFICIENZA. Il grande tradeoff (ed.Liguori, Napoli 1990)
- Laurence J. Peter, LA RICETTA DI PETER (ed. Bompiani, Milano 1973)
- John Rawls, UNA TEORIA DELLA GIUSTIZIA (ed.Feltrinelli, Milano 1982)
- Lester C. Thurow, LA SOCIETÀ A SOMMA ZERO (ed. Il Mulino, Bologna 1981)
- Salvatore Veca, LA FILOSOFIA POLITICA (Editori Laterza, Bari 1998)

 

15- RIFORMISMO, INDIVIDUALISMO, CONTRATTUALISMO

15-1 RIFORMISMO E LIBERALISMO

Per Norberto Bobbio (Il futuro della democrazia, op.cit.), lo stato liberale si caratterizza come stato laico, per via del processo di emancipazione del potere politico dal potere religioso; e come stato del libero mercato, per via del processo di emancipazione del potere economico dal potere politico.
Diritti civili, libertà economica, concezione negativa dello stato, concezione individualistica della società e della storia: il punto di partenza è "l'individuo singolo con le sue passioni (da indirizzare o da domare), coi suoi interessi (da regolare e coordinare), coi suoi bisogni (da soddisfare o reprimere)" (pag.123).
Dalla limitatezza delle risorse nasce il problema della coesistenza delle libertà, cioè della applicazione del postulato della libertà individuale ai casi concreti: in questa applicazione, lo stato-benessere è "una soluzione di compromesso" (pag.114).

Anthony Giddens (La Terza via, op.cit.) osserva come il neoliberismo (la nuova destra) si caratterizzi per una teoria globalizzante dei mercati ed una concezione realista delle relazioni internazionali. Ma, secondo Giddens, "la devozione al libero mercato, da una parte, e alla famiglia tradizionale e alla nazione, dall'altra, è contraddittoria. (...) non c'è niente di più distruttivo per la tradizione della 'rivoluzione permanentè operata dalle forze di mercato" (pagg.30-31).
Il neoliberismo ha due filoni (pag.23), uno conservatore, che è libertario sulle sole questioni economiche, ed uno propriamente libertario, che lo è cioè sia sulle questioni economiche che sulle questioni morali, quali la libertà sessuale, la depenalizzazione delle droghe, ecc.

15-2 RIFORMISMO, INDIVIDUALISMO, UTILITARISMO

Norberto Bobbio, ne L’età dei diritti (op.cit.), osserva come il punto di vista tradizionale attribuiva agli individui non diritti ma obblighi (i Dieci comandamenti, le Dodici tavole, pag.115); la funzione primaria della legge, osserva Bobbio, è quella di "comprimere non di liberare, di restringere non di allargare gli spazi di libertà, di raddrizzare l'albero storto, non di lasciarlo crescere selvaggiamente" (pag.55). Eppure diritti e doveri sono termini strettamente connessi; la grande svolta inizia dapprima con la concezione cristiana della vita, che implica la fratellanza di tutti gli uomini in quanto figli di Dio; poi il giusnaturalismo secolarizza l'etica cristiana e propone la concezione individualistica (pag.57): il punto di partenza comune è che l'uomo ha diritti naturali che precedono le istituzioni; lo stato liberale e di diritto abbandona l'idea che sia suo compito provvedere alla felicità degli individui, idea che fu invece dello stato paternalistico, assoluto, eudemonologico (pag.97 e 123).
La concezione individualistica della società è alla base del concetto di democrazia: la società democratica è una somma di individui per i quali vale il principio di maggioranza come regola fondamentale di decisione; la sovranità non è del popolo ma dei cittadini, la base filosofica della democrazia è l'individualismo: una testa un voto (pagg.60, 116, 129).

Il comportamento quotidiano degli individui, osserva John C.Harsanyi (L’utilitarismo, op.cit.) è regolato dalle preferenze (Prefazione, VII), che distinge in:
- preferenze personali, soggettive, che sono particolaristiche: gli interessi propri, della propria famiglia e degli amici intimi hanno un peso molto maggiore di quelli degli estranei;
- preferenze morali, etiche, che sono universalistiche: gli interessi propri e quelli altrui hanno lo stesso peso.
Gli individui sono guidati nelle loro decisioni e nei loro giudizi di valore sia da preferenze personali, più o meno egoistiche, che da preferenze morali; le preferenze personali sono le preferenze di un individuo in condizioni normali, le preferenze morali si manifestano, magari di rado, quando l'individuo si impone atteggiamenti imparziali e impersonali, cioè morali (pag.35). Accade così che una distribuzione non egualitaria può essere disapprovata da un individuo (preferenze etiche) ed insieme preferita soggettivamente ad una più egualitaria (pag.147, nota).
La funzione di benessere sociale esprime le preferenze morali di un dato individuo, la funzione di utilità quelle personali; una funzione di utilità è ordinale se consente di confrontare livelli di utilità, è cardinale se consente il confronto anche delle differenze di utilità (una funzione di utilità cardinale, osserva Harsanyi, è anche ordinale, pag.40): noi tutti tentiamo di fare confronti interpersonali di utilità per "empatia immaginativa", confronti che si basano sul postulato di similarità della natura umana per cui, pur tenendo conto di tutte le differenze biologiche, sociali, educative e culturali, le reazioni psicologiche e il comportamento delle persone saranno simili in situazioni simili (pagg.43-44).
Le decisioni sociali e quelle morali individuali coincidono solo in un caso speciale, precisa Harsanyi, e cioè quando vengono affidate ad un funzionario; vi è qui però il pericolo di abusi politici (pag.52). L'utilitarismo offre allora un criterio pratico per risolvere i nostri dilemmi morali, utilizzando un solo postulato morale che è la massimizzazione dell'utilità sociale (pag.70).
L'utilità sociale viene definita in termini di preferenze dei singoli, è la media aritmetica di tutte le utilità individuali e segue il principio biblico e kantiano secondo cui dobbiamo trattare gli altri secondo i loro bisogni e le loro preferenze, aiutarli in ciò che essi vogliono, non in ciò che noi possiamo volere per loro o che pensiamo possa essere ‘bene’ per loro, sempre che le loro preferenze siano informate e non siano spurie o esterne (pagg.69-70). Le preferenze male informate sono basate infatti su false credenze, ed un caso speciale di preferenze male informate sono le preferenze spurie, che sono basate sull'autoinganno; una preferenza spuria può divenire genuina: "una persona può da principio seguire i concerti per far colpo e finire per apprezzarli veramente" (pag.60). La tendenza all'autoinganno è l'ostacolo principale ai confronti interpersonali di utilità nell'arte, nella letteratura, nella politica.
Harsanyi distingue le preferenze personali di un individuo (come vuole che lo si tratti) dalle preferenze esterne (come vuole che gli altri vengano trattati): la moralità utilitarista chiede a ciascuno di rispettare le preferenze esterne relativamente a se stessi. Per costruire la funzione di utilità sociale, vanno trascurate sia le preferenze esterne malevole che quelle benevole, altrimenti verrebbe violato il principio del pari peso degli interessi degli individui, principio che è fondamentale nella moralità utilitarista (pag.64).
Le preferenze possono essere accettate oppure si può cercare di cambiarle: secondo Harsanyi, le preferenze implicite o esplicite che cerchiamo di cambiare hanno la precedenza sulle altre; le preferenze antisociali, in particolare, sono basate su invidia, risentimento, sadismo, malvagità: e poichè la base dell'utilitarismo è la benevolenza, la richiesta altrui di soddisfare preferenze antisociali può far rivendicare lo status di obiettore di coscienza (pagg.62-63).
Le azioni altruistiche e le preferenze trascendenti, cioè quelle preferenze che non sappiamo se si realizzeranno e comunque non saremo presenti in quel momento, sono esempi di comportamenti che vanno oltre l'utilitarismo edonistico, cioè oltre la ricerca del piacere e l'eliminazione del dolore (pag.57).
I doveri morali in una società ideale indicati dalla filosofia morale sono diversi da quelli indicati in una società lungi dall'essere ideale (ad esempio una società di imbroglioni, pag.87); la società può comprendere agenti utilitaristi ma anche agenti che seguono altri codici morali, ideologie politiche, religiose, tradizioni, o che non seguono alcun codice morale.
L'utilitarismo delle regole sostiene che il criterio utilitarista non va applicato ai singoli atti, alle singole azioni individuali ma alla regola morale che li governa; la regola moralmente corretta darà "la massima utilità sociale a lungo andare se tutti vi si conformano nel tipo di situazione considerato" (pag.72): l'utilitarismo delle regole vincola gli agenti a seguire la stessa strategia (pag.82).
Kant negava eccezioni alle regole morali fondamentali, l'utilitarismo delle regole impone di identificarle sempre per massimizzare l'utilità sociale; viceversa, in una società modellata sull'utilitarismo degli atti ciascuno si sottrarrebbe ai propri obblighi se tale comportamento facesse aumentare anche di poco l'utilità sociale (pag.101).
L'esproprio è giustificato dall'utilitarismo degli atti se i sacrifici di alcuni sono inferiori anche di poco ai benefici tratti dagli altri, mentre per la moralità di senso comune la differenza deve essere molto significativa ed in certi casi giustificata da situazioni di emergenza; l'utilitarismo delle regole si schiera dalla parte della moralità tradizionale, come nel caso in cui nel destinare risorse si debba scegliere fra l'educazione dei propri figli e bisogni urgenti di bambini meno abbienti (pagg.96-97).
L'approccio contrattualista, secondo Harsanyi è invece circolare: il contratto sociale (che tra l'altro è ipotetico) si basa sulla regola morale secondo la quale i contratti vanno rispettati, che però non si può giustificare a partire dal contratto sociale ipotetico (pag.102).
Uguaglianza, giustizia, equità "non sempre possono essere il criterio decisivo per prendere decisoni politiche" (pag.108); il principio di maximin porta a decisioni pratiche spesso inaccettabili, mentre il principio di massimizzazione dell'utilità prevista viene proposto dalla scuola bayesiana come "regola di decisione appropriata in condizioni di incertezza" (pag.111).
Anche le conseguenze morali del principio di differenza di Rawls sono spesso inaccettabili, in quanto impone sempre la priorità degli interessi dell'individuo più svantaggiato, anche in circostanze estreme; Harsanyi, seguendo la tradizione utilitarista, propone invece una teoria basata sul principio dell'utilità media (pagg.114-118).
Il principio morale che assegna lo stesso peso ‘a priori’ agli interessi di ciascun individuo, giustifica infatti l'assunzione di equiprobabilità; al contrario, "l'uso del maximin nella posizione originaria equivale ad assegnare probabilità unitaria (o quasi) all'eventualità di occupare il posto dell'individuo che sta peggio nella società " (pag.121): il rovesciamento dell'argomento di Rawls, secondo Harsanyi, lo renderebbe quindi più convincente.

Amartya Sen, nel libro Il tenore di vita (op.cit.), distingue tre concetti diversi fra di loro, anche se interrelati:
- agency achievement, cioè i risultati di un'azione, ad esempio la lotta per una causa, l'azione per solidarietà o, all'opposto, per senso del dovere, (pag.74);
- personal well-being, cioè il benessere personale;
- standard of living, cioè il tenore di vita.
La valutazione del successo dell'azione è più ampia della valutazione del benessere, che a sua volta è più ampia della valutazione del tenore di vita; il concetto di benessere è perciò più ampio di quello di tenore di vita: ad esempio, la sofferenza per il dolore altrui riduce il mio benessere ma non il mio tenore di vita (pagg.70-72).
Sen distingue due approcci di valutazione: l'autovalutazione del proprio tenore di vita rispetto a quello altrui (pag.79), e la valutazione standard, che richiede uniformità di giudizi circa il valore di una cosa che, precisa Sen, a volte può essere debole (l'apprezzamento si verifica solo in alcuni casi) o negativo (il valore si migliora con la sua riduzione, pag.33 nota).
L'utilità può essere essa stessa un oggetto di valore, oltre che un metodo di valutazione, ma nessuna sua interpretazione serve per definire il tenore di vita: nè provare piacere, nè realizzare desideri, nè l'atto di scelta (pagg.38 e 49).
Il desiderio di una cosa è una conseguenza della sua valutazione; la mancanza di desiderio verso ciò che va oltre i nostri mezzi implica mancanza non di apprezzamento ma di speranza, e quindi la paura della delusione: "il perdente viene a patti con le disuguaglianze sociali adeguando i desideri alle possibilità di realizzazione" (pag.44). I confronti interpersonali di desideri sono pertanto fuorvianti, ma anche le scelte evidenziano una complessità motivazionale: alla loro origine vi può essere il perseguimento del proprio benessere ma anche quello di qualcun altro, l'orgoglio nazionale, ecc. (pag.48).
Agiatezza, stare bene, vivere la vita desiderata, avere molto: sono tutte visioni differenti del concetto di tenore di vita, la cui pluralità costitutiva lo rende un paniere di più attributi, talvolta alternativi fra loro (pagg.30-31); essere agiati e stare bene, osserva Sen, non sono infatti la stessa cosa (pag.52).
Il tenore di vita non riguarda i mezzi posseduti ma la vita che si conduce, è un problema non di opulenza, di merci, di utilità, ma di funzionamenti (functionings) e di capacità (capabilities, pag.53). Il nutrimento è influenzato da molti fattori, sociali, individuali, climatici (pag.52 e 114, nota); il prezzo dei beni è influenzato dai tassi di cambio delle valute e può essere più alto nei paesi ricchi, l'analisi della "soglia di povertà " basata sul reddito può essere molto fuorviante (pagg.57 e 115). Gli indicatori sociali utilizzano indici costruiti sul possesso di merci piuttosto che sui funzionamenti e le capacità degli individui, mentre sono questi che determinano la qualità della vita che si conduce (pagg.68-69).
I funzionamenti sono conseguimenti, aspetti delle condizioni di vita quali, ad esempio, la durata della vita, l'alfabetizzazione, la nutrizione, la morbilità, le discriminazioni sessuali, la mobilità, la partecipazione alla vita comunitaria, il rispetto di sè, ed altri meno rilevanti (pagg.85, 97, 106). I funzionamenti perfezionati includono la disponibilità di opzioni alternative; ad esempio, scegliere di digiunare (pag.88 e 113).
Le capacità sono "abilità di conseguire", libertà positive, opzioni, opportunità di scelta: conta il numero ma anche la qualità delle alternative, osserva Sen, che possono essere aumentate in modo banale o in una gamma al cui interno vi è una libertà di scelta molto particolare: come scegliere fra opzioni quali brutto, terribile, raccapricciante (pagg.87 nota e 102). Inoltre, più libertà di conseguire risultati non garantisce di per sè risultati maggiori; la libertà di benessere (disponibilità per tutti di beni primari, ad esempio per intervento dello Stato) può non produrre il conseguimento del benessere, se qualcuno non accetta: ad uguali livelli di benessere possono corrispondere capacità diverse (pagg.103-105 e 122).

15-3 IL CONTRATTUALISMO COME METAMETODO DEL RIFORMISMO

Se il riformismo è il metodo politico per eccellenza per cambiare il mondo, il suo "metametodo", ciò che sta sopra, a monte del riformismo, ritengo possa essere individuato nel contrattualismo. Per Kant (Lo stato di diritto, op.cit.) il patto di fondazione di una costituzione civile è il patto sociale, che prevede il rapporto fra uomini liberi che vivono sotto leggi coattive; i principi dello stato civile o stato giuridico, riferiti al singolo individuo, sono: libertà (da accordare con la libertà altrui secondo una legge universale), uguaglianza (ognuno ha diritti coattivi verso gli altri membri del corpo comune), indipendenza; il contratto originario richiede libertà esterna, uguaglianza fra i contraenti, unità del volere di tutti (indipendenza). La ricerca della felicità è il fine comune a tutti gli uomini, ma nessuno può costringermi ad essere felice a modo suo, e quindi il governo paternalistico è incompatibile con la libertà; non esiste infatti alcun principio valido universalmente per legiferare sulla felicità, ognuno pertanto deve essere messo in condizioni di libertà per cercare la propria felicità senza violare la libertà generale, in conformità alle leggi. Perciò il riformismo ha come primo obiettivo non la ricerca della felicità ma la lotta contro la sofferenza in tutte le sue forme.

Secondo James Buchanan (I limiti della libertà, op.cit.) l'anarchia ordinata è preferibile ad un sistema costituzionale formale, ed una società è tanto più coesa quante più attività sono soggette a controlli informali anzichè formali (pag.229).
L'anarchia funziona però solo se gli individui accettano la regola minima della reciproca tolleranza (pagg.37-38): la comunicazione, ad esempio, presuppone l'accettazione comune della regola secondo cui si parla uno per volta; gli individui di solito camminano sui marciapiedi delle città e rispettano le file ai supermercati, nelle banche, negli aeroporti. Formalizzazione, implementazione e coercizione diventano necessarie quando gli individui non si conformano alle regole in modo implicito; in effetti, gli equilibri in regime di anarchia sono fragili e presuppongono sistemi strettamente non-conflittuali (pag.39 e pag.227).
Eppure buona parte della vita sociale quotidiana si svolge come anarchia regolata e presuppone il concetto di autogoverno che è fondamentale se si vuole analizzare il governo di un sistema collettivo di individui; l'equilibrio naturale anarchico si basa sull'adattamento spontaneo e non richiede la negoziazione di contratti fra individui (pagg.63, 129, 188).
Crusoe razionale costruisce ed usa una sveglia, che diventa per lui il governante; l'uomo fa le leggi, decide liberamente di imporre vincoli al proprio comportamento, e in ciò si differenza dagli altri animali: è il paradosso dell'essere governato (pag.189 e pag.210).
Si esamini anche il caso delle abitudini alimentari: il risultato (indesiderabile) dell'obesità consegue ad una sequenza temporale di decisioni sull'alimentazione ciascuna delle quali appare come razionale; la dieta diventa allora la costituzione alimentare, un insieme di norme che l'individuo sceglie per raggiungere lo scopo che si propone (pagg.280-282). La selezione delle regole e l'azione entro le regole selezionate costituiscono due fasi di interazione sociale (pag.29).
Possiamo interpretare lo Stato, definito da Buchanan come l'agenzia collettiva della comunità (pag.146) in due ruoli separati:
- nella fase costituzionale, lo Stato è l'agenzia esterna alle parti contraenti che garantisce la conformità; è lo Stato legale o protettivo caratterizzato da principi di neutralità e con compiti coercitivi puramente scientifici (pagg.147 e 192). Si tratta di un mix costituzionale, caratterizzato dall'interdipendenza di vari elementi; il contratto costituzione deve infatti (pag.152-153):
a) prevedere limiti al comportamento di ciascun individuo in riferimento alla posizione degli altri individui, o contratto di disarmo;
b) definire i diritti positivi relativi alle dotazioni di risorse;
c) rendere espliciti termini e condizioni dell'obbligo di osservanza.
- Nel contratto post-costituzionale, lo Stato è l'agenzia attraverso cui gli individui si assicurano beni pubblici; nello stato produttivo i risultati non sono ‘scientifici’ come nello stato protettivo, in quanto non consistono in scelte fra alternative come ‘vero o falso’, ma comportano l'applicazione di criteri misti di efficienza e di equità (pagg.147, 195, 222).
Lo status quo costituzionale definisce ciò che esiste, è l'insieme di tutte le norme e di tutte le istituzioni vigenti in quel momento (pagg.162 e 174); ciò che conta in esso non è la stabilità ma la prevedibilità, che è indispensabile affinchè gli individui possano avere aspettative su cui basarsi per i loro progetti. Ogni proposta di cambiamento coinvolge lo status quo come punto di partenza necessario; la domanda che ci si deve porre quando si valuta una proposta di cambiamento socio-politico è: "come possiamo arrivare lì partendo da qui?" (cit., pag.164).
L'effettivo status quo costituzionale è dinamico, il contratto costituzionale è in formazione continua, nuove leggi spostano attività umane dal dominio dell'anarchia al loro dominio (pag.211).
I diritti di ciascun individuo consistono in aspettative sul comportamento di altri individui (pag.179), la definizione di diritti individuali è la conseguenza di conflitti interpersonali, attuali o potenziali; non è la scarsità che genera conflitti sociali ma la vicinanza fra gli individui: l'assenza di conflitto sarebbe possibile solo isolando gli individui fra loro (pag.69).
Concettualmente, la persona si può collocare lungo uno spettro: ad un estremo non ha alcun diritto, è in condizione di totale schiavitù, all'estremo opposto è in condizione di dominio assoluto, può fare tutto nei limiti della natura fisica (pagg.46-47).
Le leggi, le regole di comportamento, i diritti di proprietà emergono dagli interessi e non dagli ideali degli uomini, e non è necessaria alcuna presunzione di uguaglianza in una qualche posizione originaria: "si può prevedere la nascita di una struttura di diritti sanciti dalla legge anche tra uomini che non sono uguali" (cit., pag.124); il dilemma del prigioniero dimostra che tutti i soggetti accresceranno la propria utilità se si mantengono fedeli alla "legge", anche se ciascuno di essi può ricavare vantaggi ad infrangerla (pag.75).
La possibilità di cambiare la struttura dell'ordine sociale diventa evidente storicamente allorchè il contratto sociale di tipo hobbesiano, "tra uomini schiavi e un padrone sovrano" (pag.277), diventa contratto sociale tra uomini indipendenti (Althusius, Spinoza, Locke, ma soprattutto Rousseau): nel momento in cui uomini indipendenti si contrappongono allo Stato, viene garantita la possibilità della rivoluzione (pagg.277 e 308-312); si ha la rivoluzione costituzionale quando i cambiamenti strutturali sono accettati da tutti i membri della comunità, altrimenti si hanno rivoluzioni non costituzionali che, come le controrivoluzioni, richiamano sequenze di giochi le cui somme sono zero o negative.
Il tentativo di descrivere i contenuti del miglioramento indipendentemente dall'accordo (attuale o potenziale) è fonte di arroganza intellettuale e morale; infatti deve intendersi buono, secondo Buchanan, solo "ciò che risulta dall'accordo tra uomini liberi, a prescindere dalla valutazione intrinseca del risultato stesso" (cit., pag.309).
I costi sociali, oltre ai costi diretti di ogni singolo progetto, comprendono anche gli effetti esterni, o di spillover (pag.286). Congestione ed inquinamento sono riconducibili al modello anarchico di Hobbes: gli individui entrano in conflitto per utilizzare risorse scarse con risultati che nessuno desidera; la rivoluzione costituzionale implica allora accordi reciproci per limitare comportamenti che sono necessari per realizzare obiettivi abbastanza efficienti. Il dilemma è prevedibile: "a mano a mano che cresce la popolazione, che la tecnologia si sviluppa e che la domanda varia nel tempo, devono anche aver luogo dei veri e propri cambiamenti costituzionali" (cit., pag.331).
L'inquinamento non è solo ambientale, può essere anche comportamentale: violare la legge stabilita è creare male pubblico allo stesso modo che inquinare l'ambiente naturale. Il deterioramento della qualità dell'ambiente è poi un risultato aggregato, che nessun individuo potrebbe desiderare singolarmente; ma anche il ladro impone diseconomie a tutti i membri della società, perché occorrerà rafforzare i servizi di polizia, e dunque finanziarli, e quindi i premi assicurativi aumenteranno, ecc. (pagg.233-236).
Creando male pubblico, il singolo individuo erode il capitale pubblico esistente, che viene convertito in reddito goduto privatamente; questa erosione individuale riduce la stabilità delle interazioni sociali, per i contemporanei ma anche per i posteri (pag.240). Pure l'erosione dell'ordinamento giuridico è distruzione di capitale pubblico: "una decisione di violare la legge comporta uno scambio tra perdita futura e guadagno attuale" (pag.257), ed i regimi democratici tenderanno ad essere reattivi piuttosto che strategici nei processi decisionali (pag.248 e 274).
Finora l'attività di governo, o politica, è stata l'equivalente sociale del filo di ferro, ovvero una risposta politica pragmatica o incrementale ai problemi (pagg.313-315), ed il progresso sociale è stato misurato con la quantità di legislazione; ma non sempre le riparazioni col fil di ferro funzionano e talvolta sono necessari cambiamenti più radicali. Il principio del laissez-faire proposto da Adam Smith era una rivoluzione costituzionale e consisteva in un'anarchia ordinata, mentre i critici socialisti, e la dottrina marxista, non sono riusciti ad offrire un principio organizzativo alternativo.
La decisione maggioritaria soddisfa preferenze mediane (pag.272); scrive Buchanan: "qualsiasi quantità di legge scelta collettivamente lascerà un gran numero di persone in posizioni non preferite perché riterranno la legge troppo restrittiva o troppo permissiva" (pag.220). Man mano che aumenta la complessità del bilancio, poi, cresce la delusione verso l'attività pubblica anche se le singole funzioni sono efficienti.
In gruppi di dimensioni modeste, il meccanismo politico ha analogie con lo scambio volontario: l'influenza del singolo sulle decisioni del gruppo è maggiore, ed è pure maggiore la libertà di emigrazione. Viceversa, nelle comunità con molti membri non solo aumenta il pericolo della violazione individuale dei diritti, ma aumenta anche il rischio che l'attività coercitiva possa non voler punire di fatto i trasgressori. Nei gruppi con grandi numeri, ciascun individuo considera il comportamento degli altri individui come parte del suo ambiente naturale, ed agisce consapevolmente come se il suo comportamento non influisse su quelli altrui; ogni individuo ha perciò un incentivo razionale all'inosservanza. Tra l'altro, i vincoli legali imposti al comportamento individuale sono soggetti a variazioni col cambiare dei gusti (preferenze), della tecnologia e delle risorse.
Bilanci sempre crescenti ed interpretazione sempre più irresponsabile della legge: il risultato finale è il Leviatano nell'accezione moderna del termine, una rete burocratica impersonale che imprigiona l'uomo e che lui stesso riconosce di avere creato (pagg.142-143, 166, 204, 212, 242, 278 e 304).
Una parte del compenso percepito per le cariche politiche, osserva ancora Buchanan, è reddito politico che consiste nella possibilità di scegliere alternative od opzioni che massimizzano la propria utilità personale e non quella dei propri elettori (pag.293). L'espansione dei bilanci pubblici è una tendenza unilaterale, e con la crescita del settore pubblico cresce il potere politico dei burocrati in quanto votanti. Gli interessi dei produttori tendono a dominare su quelli dei consumatori, ed anche gli interessi dei burocrati pubblici, in quanto produttori, tendono a dominare su quelli dei cittadini ed utenti, attraverso l'ampliamento del proprio ente di appartenenza, e la massimizzazione della propria utilità personale (pagg.299-300); esiste perciò un margine di discrezionalità nell'esercizio dell'autorità da parte degli amministratori che i poteri legislativo ed esecutivo non potranno mai controllare pienamente se non a costi proibitivi.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Norberto Bobbio, IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA (ed. Einaudi, Torino 1984)
- Norberto Bobbio, L’ETÀ DEI DIRITTI (ed.Einaudi, Torino 1990)
- James Buchanan, I LIMITI DELLA LIBERTÀ (ed. Rusconi, Milano 1998)
- Anthony Giddens, LA TERZA VIA. Manifesto per la rifondazione della socialdemocrazia (Milano 1999)
- John C. Harsanyi, L'UTILITARISMO, (ed. il Saggiatore, Milano 1988)
- Immanuel Kant, LO STATO DI DIRITTO - Amartya Sen, IL TENORE DI VITA. Tra benessere e libertà (ed.Marsilio, Venezia 1993)

 

16- RIFORMISMO, DIRITTI, GUERRE GIUSTE E INGIUSTE

16-1 DIRITTI PER L'AZIONE RIFORMISTA

Analizzeremo ora brevemente alcuni argomenti sui diritti e sulle guerre: argomenti tutt'altro che inattuali, visto il perdurare del terrorismo internazionale e le forme di reazione ad esso. Per argomentare temi così attuali, possiamo iniziare la nostra trattazione leggendo come questi stessi argomenti sono stati affrontati "in altri tempi": secondo Kant, ad esempio, i diritti vengono conferiti unicamente dalla giustizia, la quale deve essere pubblicamente notificabile: "tutte le azioni che concernono il diritto di altri uomini, e la cui massima non è compatibile con la pubblicità, sono ingiuste" (Per la pace perpetua, op.cit., pag.149). Si tratta di un principio negativo, in quanto il principio della pubblicità è soltanto un mezzo, sia pure certo, indimostrabile, facile da applicare.
Alla migliore costituzione possibile secondo leggi giuridiche ci si può avvicinare solo per gradi, con correzioni successive, "mediante un infinito processo di avvicinamento" (pag.163).
Herbert L.A. Hart, ne Il concetto di diritto (op.cit.), considera il diritto come una importante sfera della vita sociale, un campo (quello delle norme giuridiche) che si affianca agli altri importanti campi della vita sociale, che sono quelli della morale e dell'abitudine: il diritto è storicamente determinato ed è in costante rapporto di interazione con gli altri campi del sociale.
Trattando le norme giuridiche, Hart le confronta con le regole dei giochi sportivi: la società, egli osserva, è un sistema di regole, delle quali una parte, variabile da società a società e da epoca ad epoca, costituisce diritto. La giustizia, precisa Hart, è una parte della morale che si occupa di come vengono trattate classi di individui piuttosto che la loro condotta individuale; la giustizia è la virtù più pubblica e più giuridica, ma i suoi principi "non esauriscono il concetto di morale: e non tutte le critiche del diritto svolte su basi morali sono svolte in nome della giustizia" (pag.196).
Hart distingue il concetto di diritto dai diritti particolari, che determinano forme di ordinamento giuridico condizionate storicamente: rispetto all'ordinamento giuridico, egli individua pertanto le posizioni interne all'ordinamento, che sono quelle del soggetto di diritto, ed esterne che sono invece quelle dell'osservatore non partecipante che "guarda" le regole giuridiche del gioco sociale, ma al momento non è soggetto ad esse perché proviene da un altro ordinamento, dallo stato di natura, o da un altro pianeta (pagg.106-107).

Per Bobbio (L’età dei diritti, op. cit.) i diritti dell'uomo, la concezione individualistica, la democrazia, la stessa pace sono tutti termini strettamente connessi; un salutare esercizio, secondo Bobbio, è "leggere la Dichiarazione universale e poi guardarsi attorno" (pag.44).
I diritti umani possono essere rivendicati (aspirazioni ideali), ovvero anche riconosciuti e protetti (pag.XX): i problemi fondamentali sono pertanto la loro giustificazione (l'analisi dei fondamenti) e la loro protezione (mezzi, garanzie, condizioni). Però dopo la Dichiarazione universale del 1948, scrive Bobbio, "il problema di fondo relativo ai diritti dell'uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico" (cit., pag.16).
Sono pertanto due le concezioni fondamentali della società: la concezione organica e quella individualista, dove i cittadini non più sudditi acquistano diritti, la quale "procede lentamente dal riconoscimento dei diritti del cittadino di un singolo stato al riconoscimento dei diritti del cittadino del mondo, di cui è stata la prima annunciatrice la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo; dal diritto interno dei singoli stati, attraverso il diritto fra gli stati, al diritto cosmopolitico" (pag.XII).
Bobbio distingue l'individualismo metodologico, per il quale contano le azioni degli individui, l'individualismo ontologico, che attribuisce autonomia e pari dignità degli individui, e l'individualismo etico, che si traduce nel concetto di persona morale (pag.60).
Bobbio descrive i diritti dell'uomo come:
- prodotti non della natura ma della civiltà umana (pag.26);
- mutevoli o storicamente relativi (costituiscono una classe variabile, pag.9);
- eterogenei; sono tre i modi possibili di fondare i valori (pag.19): dedurli dalla natura umana, considerarli verità di per se stesse evidenti, oppure attraverso la prova del consenso;
- antinomici, in particolare nel contrasto fra diritti di libertà e diritti sociali: "le società reali, che abbiamo dinnanzi agli occhi, nella misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più giuste sono meno libere" (pag.41);
- universali, attraverso uno sviluppo in tre fasi: prima le teorie filosofiche (giusnaturalismo), poi sistemi di diritti positivi in singoli Stati (Dichiarazione dei diritti degli Stati americani e Rivoluzione francese), infine la Dichiarazione universale del 1948 (pagg.22 e seguenti); scrive Bobbio: "è avvenuto storicamente il passaggio da un sistema di diritti in senso debole, in quanto erano inseriti in codici di norme naturali o morali, a un sistema di diritti in senso forte, come sono i sistemi giuridici degli stati nazionali. E oggi attraverso le varie carte dei diritti in sede internazionale è avvenuto il passaggio inverso da un sistema più forte come quello nazionale non dispotico a un sistema più debole come quello internazionale" (cit., pag.85).
I diritti dell'uomo possono essere così storicamente classificati:
Diritti della prima generazione (pag.70, pag.127): diritti individuali che consistono in libertà ed implicano un non fare dello Stato;
Diritti della seconda generazione o diritti sociali, che non rispondono come i primi a minacce alla libertà dell'individuo ma che offrono rimedi alla sua indigenza, che sono antinomici rispetto ai diritti individuali e consistono in poteri in quanto richiedono un fare positivo dello Stato: i tre diritti sociali fondamentali sono il diritto al lavoro (pag.43), il diritto all'istruzione, il diritto alla salute (pag.13 e 41-43).
Diritti della terza generazione quali sono i diritti ambientali (pag.XV).
Diritti della quarta generazione (bioetica).
Assistiamo a processi di trasformazione dei diritti dell'uomo, caratterizzati dall'aumento crescente delle pretese e da difficoltà crescenti nel soddisfarle (pag.62 e 64); in particolare assistiamo a processi di universalizzazione (valgono i diritti fondamentali per ogni individuo, pag.215), a processi di internazionalizzazione (a partire dalla Dichiarazione universale del 1948), a processi di moltiplicazione per specificazione dei soggetti titolari di diritti (pagg.63-69-70-78). La specificazione si è verificata rispetto al genere (uomini, donne), rispetto alle varie fasi della vita (diritti dell'infanzia e della vecchiaia), tra stati normali e stati eccezionali dell'esistenza (diritti speciali ai malati, agli handicappati, ai malati di mente, ecc.).
Assistiamo anche a processi di generalizzazione (ad esempio del diritto di voto, pag.72), ed a processi di estensione dei diritti (alle generazioni future, agli animali).
Alla filosofia della storia, intesa come storia profetica (pagg.47-48-147), Bobbio contrappone una prospettiva di ambiguità della storia umana (pagg.50-251); mentre il progresso scientifico e tecnico è continuo e inarrestabile, il progresso morale è problematico (pagg.50-51). Si veda ad esempio il dibattito sulla pena di morte, che è strettamente connesso al dibattito sul diritto alla vita il quale si esplica in almeno quattro forme diverse (pagg.196-214):
- il diritto a non essere uccisi (cui corrisponde il dovere di non uccidere);
- il diritto a nascere (cui corrisponde il dovere di non abortire);
- il diritto a non essere lasciati morire (cui corrisponde il dovere di soccorrere chi è in pericolo di vita);
- il diritto alla sopravvivenza (cui corrisponde il dovere di offrire i mezzi minimi di sostentamento a chi ne è privo).
Scrive Bobbio: "tradotti in termini normativi, questi quattro doveri presuppongono quattro imperativi di cui i primi due negativi (o comando di non fare), gli altri due positivi (o comando di fare)" (cit., pag.214).
Secondo Amnesty International (Diritti senza pace, op.cit.) sono diritti umani inderogabili, vale a dire super-diritti, core rights o minimum humanitarian standards, la cui violazione costituisce crimine sottoposto a giurisdizione universale (pagg.77-78 e 82 nota):
"il diritto alla vita in alcune sue declinazioni, il diritto a non subire torture nè punizioni o trattamenti disumani e degradanti, il diritto a non essere sottoposti a regime di schiavitù o servitù, il diritto a non essere imprigionato per non essere in grado di adempiere ad un'obbligazione contrattuale, il principio di irretroattività della legge penale, il diritto a veder riconosciuta la propria personalità giuridica, il diritto alla libertà di pensiero, coscienza e religione" (pag.76, vedere anche i contenuti della citata Dichiarazione universale dei diritti umani del 1948).
Si tratta di diritti essenziali, interrelati, non divisibili, meritevoli di tutela (pag.88).
Il rapporto verticale Stato-individuo comporta per lo Stato alcuni doveri negativi di garanzia (non uccidere, non torturare, non discriminare, ecc.) ed altri doveri positivi (diritti per i cittadini); doveri secondari positivi sono poi necessari per garantire i diritti umani, del cui rispetto lo Stato è responsabile sia direttamente, che indirettamente per le violazioni altrui (pag.13): si tratta di interventi che richiedono risorse umane ed economiche ingenti, ad esempio per approntare la riforma delle procedure penali e dell'odinamento giudiziario.

I fondamenti della società acquisitiva, osserva Richard Tawney (op. cit.), sono nei diritti e non nelle funzioni; i diritti sono "innati, ereditabili, intoccabili e insindacabili, anteriori e indipendenti da ogni servizio o funzione" (pag.76).
Il privilegio, secondo Tawney, è un diritto cui non corrisponde alcuna funzione; la proprietà e la direzione delle imprese sono diritti che hanno una validità intinseca non riconducibile a funzioni di interesse collettivo. I diritti economici sono pertanto anteriori ed indipendenti da ogni funzione sociale, si pongono al di sopra di ogni giudizio umano e non dipendono dall'adempimento o meno delle funzioni (pagg.79-81).
Se, al contrario, il criterio-guida diventa la realizzazione di uno scopo sociale, sia per il commercio che per l'industria, la proprietà economica viene declassata, non è più un diritto assoluto ma contingente e revocabile nel caso le funzioni non venissero adempiute (pag.80).
La società funzionale, secondo Tawney, si caratterizza allora per:
1) acquisizione di ricchezza nel rispetto degli obblighi sociali;
2) proporzione fra remunerazioni e servizi resi;
3) conta non ciò che ciascuno possiede, ma ciò che può fare, creare, realizzare (pag.82).
La felicità è una condizione individuale e non può essere l'obiettivo della società.
Nelle società acquisitive il fine diventa quello di promuovere l'acquisizione illimitata di ricchezza individuale, la visione di una espansione infinita anche per il debole, illuso di poter anch'egli un giorno essere forte: l'individuo diventa "centro dell'universo e i principi morali si dissolvono in una scelta delle convenienze" (pag.83).
Ciò conduce ad una semplificazione dei problemi delle comunità complesse, perché non è necessario distinguere fra tipi diversi di attività economica, la cupidigia, il parassitismo, ecc., in quanto tutte le attività economiche vengono considerate allo stesso livello e non si ritiene di dover intervenire nei confronti dell'eccesso, del difetto, dello spreco e del superfluo (pag.84).

16-2 LA DEMOCRAZIA COME PRESUPPOSTO DELLA PACE

Norberto Bobbio ne Il futuro della democrazia (op.cit.) osserva come nessuna guerra sia mai scoppiata finora tra regimi democratici: la pace perpetua di Kant è dunque possibile, a patto che tutti gli stati assumano la forma di governo democratica (pag.26).
Sono infatti valori della democrazia la tolleranza, la nonviolenza, la fratellanza, le rivoluzioni silenziose, il rinnovamento graduale, il libero dibattito.
La seconda guerra mondiale, osserva Galbraith ne L’età dell’incertezza (op.cit.), fu in realtà l'ultima battaglia della grande guerra; le guerre hanno motivazioni quali l'imperativo territoriale (in società prevalentemente agricole), la paura di essere invasi (è lo spirito delle crociate: meglio combattere oggi qui che domani in casa nostra), la non intelligenza dei governanti (frequente, osserva, nel potere ereditario).
I privilegiati rischieranno sempre la loro distruzione piuttosto che rinunciare ad una parte dei loro privilegi materiali. Lo spirito rivoluzionario si sviluppa in assenza di riforme, e Galbraith individua tre condizioni per una rivoluzione:
a) leaders risoluti che hanno tutto da guadagnare e niente da perdere;
b) capi disciplinati che eseguono e accettano gli ordini senza discutere;
c) l'altra parte in causa deve essere debole: così è stato per l'indipendenza del Sud America dalla Spagna, per la rivoluzione francese, quella russa, quella cinese.
La primissima manifestazione di una società senza classi, secondo Galbraith, è la scomparsa della classe dei domestici. Potere e reddito scorrono nello stesso asse ma in direzioni opposte: il potere scende dalle classi superiori a quelle medie fino alle inferiori, mentre il reddito sale dalle inferiori alle superiori; il prestigio nel secolo XIX (e la relativa scalata sociale) partiva dalla ricchezza industriale per arrivare a quella terriera fino alla nobiltà; il prestigio nel XX secolo (e la scalata sociale) parte invece dalla ricchezza materiale passando per le professioni di attori, artisti, giornalisti fino ad arrivare ai politici.
La democrazia, osserva ancora Bertrand Russell nel libro Il potere (op.cit.), da un lato è incapace di prendere decisioni rapide o con conoscenze specifiche, dall'altro è però la migliore forma di governo per prevenire la guerra civile in quanto "impone l'accettazione del compromesso" (pag.140).
Russell distingue il desiderio del potere come mezzo per soddisfare altri desideri dal desiderio del potere come fine in sè (pag.189): quest'ultimo non può essere benefico; inoltre, i mezzi impiegati non devono avere conseguenze secondarie negative tali da annullare la bontà del fine perseguito. Anche le opportunità possono avere aspetti positivi (professioni costruttive) o negativi (opportunità per i delinquenti, i dittatori, pagg.191-192).
Il bene e il male, osserva Russell, sono negli individui e non nelle comunità; lo scopo ultimo del potere dovrebbe essere la collaborazione sociale fra tutti gli esseri umani (pag.195). La democrazia è in grado di domare il potere: i suoi meriti non sono positivi, "non garantisce un buon governo" (pag.198) ma negativi, in quanto previene certi mali.
L’opinione di Russell, in effetti, non può essere del tutto condivisa: la democrazia senza riformismo, infatti, può non garantire un buon governo, mentre lo scopo del riformismo è proprio quello di realizzare una democrazia governante.

16-3 CI SONO GUERRE GIUSTIFICABILI PER I RIFORMISTI?

In un'epoca storica in cui le democrazie sono "superpotenti", sia dal lato economico che da quello militare, possono esistere guerre giuste per i riformisti?
L'idea di sovranità nazionale, scrive Peter Singer in One World (op.cit.), è stata messa in discussione dalla comune dipendenza da un'unica economia mondiale, da un'unica atmosfera, ma anche da tecnologie che consentono più facilmente il genocidio e da sistemi di comunicazione che ne danno notizia in modi e tempi impensabili fino ad un secolo fa.
Il genocidio, osserva Singer, è un evento tutt'altro che eccezionale nella storia umana: solo nel Novecento abbiamo avuto notizia di misfatti quali il massacro degli armeni da parte dei turchi fra il 1915 ed il 1917, lo stalinismo, il nazismo, i massacri in Cambogia, Ruanda, Bosnia, Kosovo, Timor Est (cit., pag.129). La prevenzione attraverso politiche contro la povertà, l'ingiustizia, lo sfruttamento e per una migliore istruzione è necessaria ma non sufficiente, occorre perseguire questi crimini con una legislazione internazionale che riconosca la responsabilità penale internazionale per crimini contro l'umanità, come è stato fatto col Tribunale penale internazionale istituito a Roma nel 1998 (pagg.142-143); qualora, però, anche questa legislazione fallisca, in caso di genocidio bisogna poter intervenire militarmente.
Occorre allora individuare quali criteri possano giustificare un'azione militare: una prima risposta potrebbe essere che l'autorità deve essere in capo alle Nazioni Unite, che però non sono un modello di democrazia, sia perché il Consiglio di Sicurezza ha poteri di veto, sia perché la stessa Assemblea generale rappresenta i governi (molti dei quali sono dittature) e non i cittadini del mondo (pagg.163-166).
Per quanto riguarda i criteri che giustificano in sè l'opzione militare, poi, l'argomento consequenzialista sembra poterci indurre ad utilizzare qualsiasi mezzo per prevenire tragedie come il genocidio; tuttavia, in una prospettiva a lungo termine, l'etica consequenzialista "dovrebbe difendere la supremazia del diritto internazionale, a causa delle sue potenzialità di ridurre le probabilità di guerra" (cit., pag.149).
L'argomento utilitaristico indica la guerra come ultima risorsa, cui far ricorso solo quando non è possibile prevenire altrimenti perdite di vite e sofferenze ancora maggiori di quelle causate dalla guerra, che deve avere peraltro buone probabilità di successo; tale argomento "suggerisce di non intervenire quando è probabile che i costi dell'intervento risultino superiori ai benefici ottenibili" (cit., pag.156).
L'argomento politico secondo cui la democrazia come forma di governo sarebbe in grado di prevenire i genicidi non è, secondo Singer, del tutto convincente: "la democrazia nel senso del governo della maggioranza, non offre la garanzia che i diritti umani vengano rispettati" (cit., pag.154). Certamente sono molto più efficaci le procedure palesi di discussione pubblica, e le informazioni tempestive e complete che possono arrivare dai mezzi di comunicazione di massa.
Vi è poi un argomento giuridico contro l'intervento militare, in quanto distrugge lo Stato-nazione creando condizioni di anarchia e situazioni in cui il potere viene controllato dal crimine organizzato. Contro l'argomento del relativismo morale, Singer osserva poi che vi è almeno una "regola aurea" molto vicina all'universalità perché riscontrabile in diverse culture e religioni, che è quella della reciprocità: "tratta gli altri come vorresti che gli altri trattassero te" (cit., pag.159).
In realtà questa è, secondo Singer, la regola fondamentale dell'etica, un'etica comune costituita da principi molto generici che però ci permette di distinguere i governanti democratici e di autorità tradizionale dai governanti che mantengono il potere grazie a misure repressive; scrive Singer in proposito: "il fatto che un regime non sia democratico non implica che si debba realizzare qualche forma di intervento; se il regime non sta attuando un genocidio o altri crimini contro l'umanità, la questione dell'intervento non si pone" (cit., pag.161).
I limiti alla sovranità sono pertanto i limiti alla volontà ed alla capacità dello Stato di proteggere la propria popolazione: uno Stato che non può o non vuole assumersi la responsabilità di proteggere le popolazioni che vivono nel proprio territorio, giustifica l'intervento militare esterno, che diventa a questo punto necessario per fermare le atrocità.

L'uso della forza come mezzo decisivo della politica, osserva Max Weber ne La politica come professione (op.cit.), deve essere giustificato rispetto ai fini voluti, ai quali peraltro si sommano gli effetti collaterali che contribuiscono a rendere irrazionale il mondo; dal bene, conclude Weber, non consegue necessariamente il bene (pagg.77-78).
Norberto Bobbio osserva in proposito come sia difficile distinguere una guerra giusta da una ingiusta, in quanto la sua giustificazione dipende da osservatori che sono anche parti in causa: "una volta accettata la violenza come metodo di lotta politica, era difficile nel caso concreto distinguere la violenza giusta da quella ingiusta, per la semplice ragione che per ognuna delle parti la causa giusta era la propria" (Profilo ideologico del Novecento italiano, cit., pag.66).
I termini di una opposizione, osserva ancora Bobbio nel libro Il problema della guerra e le vie della pace (op.cit.), possono essere definiti, l'uno o entrambi, sia positivamente che negativamente, cioè indipendentemente ovvero in dipendenza l'uno dell'altro; qualora uno sia definito in negativo rispetto all'altro, questo si dice termine debole, l'altro termine forte perché più rilevante (pag.122): pace è definita negativamente come assenza di guerra, piacere come assenza di dolore, disordine come mancanza di ordine.
La scelta razionale fra mezzi diversi per raggiungere uno stesso fine, osserva ancora Bobbio, deve considerare due requisiti, l'attuabilità, cioè la possibilità in rapporto alla complessità, e l'efficacia, cioè il potere del mezzo in rapporto alla profondità (pag.90).
Lo stesso precetto non uccidere aveva in origine la funzione di impedire la disgregazione del gruppo, piuttosto che quella di proteggere il singolo; scrive Bobbio: "ne è la miglior prova il fatto che questo precetto, considerato giustamente come uno dei capisaldi della morale, vale solo all'interno del gruppo, non vale nei riguardi dei membri degli altri gruppi" (Il futuro della democrazia, op.cit., pag.55).
La tolleranza nel significato storico si riferisce al problema di credenze o opinioni diverse, cioè di verità anche contrapposte; oggi il concetto viene esteso al problema della convivenza con i diversi, minoranze etniche, linguistiche, razziali, omosessuali, pazzi, handicappati (pag.235). Anche la tolleranza ha due significati, uno positivo ed uno negativo, e così pure il suo opposto, l'intolleranza (pag.245).
Secondo Bobbio, la tolleranza deve essere estesa a tutti tranne che agli intolleranti, valutando però la possibilità di educare l'intollerante al rispetto altrui; scrive Bobbio: "meglio una libertà sempre in pericolo ma espansiva che una libertà protetta ma incapace di svilupparsi. Solo una libertà in pericolo è capace di rinnovarsi. Una libertà incapace di rinnovarsi si trasforma presto o tardi in una nuova schiavitù " (cit., pag.250).
Nell'atteggiamento di fronte alla guerra (compresa la guerra atomica), nel libro Il problema della guerra e le vie della pace Bobbio distingue i realisti, i fanatici, i fatalisti, i nichilisti e i mistici (pagg.43-45): per i fatalisti la guerra non appare diversa da altri eventi catastrofici naturali, e talvolta viene giustificata come castigo divino; la tentazione di uccidere aumenta con la sicurezza di non essere uccisi, la morte di persone a noi lontane ci è indifferente emotivamente (pagg.8-16).
Bobbio individua quattro tipi di guerre: fra stati, interna (civile), coloniale (imperialistica), di liberazione (pag.125). Distingue il giudizio di legittimità (giudizio etico sul giusto titolo: giusta causa della guerra) dal giudizio di legalità (giudizio giuridico sulla conduzione della guerra: ius belli): una guerra può pertanto essere legittima e legale, legittima e illegale, illegittima e legale, illegittima ed illegale; il diritto internazionale infatti non regola le cause di una guerra ma solo la sua condotta (con armi convenzionali). La guerra atomica è sia illegittima che illegale, non rispetta alcun limite previsto dallo ius belli, non rispetta le persone (i civili), le cose (gli obiettivi non militari), i mezzi (le armi micidiali), i luoghi (le zone di guerra; pagg.64-65).
Pace, secondo Bobbio, ha un significato descrittivo, come "stato di cose", ed uno emotivo, come valore.
In positivo, la pace consegue ad un accordo fra stati (diritto internazionale); mentre in negativo, nella sua definizione generica, pace è un termine alternativo a guerra, fra la pace in senso positivo e la guerra vi può essere una zona intermedia in cui sono possibili tregue ed armistizi. Anche il concetto teologico-filosofico di pace è positivo, ma valutativo in quanto comporta una definizione persuasiva: la pace giusta, come dovrebbe essere; al contrario, la definizione tecnico-giuridica del diritto internazionale è avalutativa, è una definizione lessicale (pagg.126-127).
Il pacifismo passivo nel XIX secolo considerava la guerra destinata a scomparire con l'evoluzione del regime politico, come per Kant, o con l'evoluzione di quello economico come per il positivismo evoluzionistico o il materialismo storico; comunismo, anarchia, pacifismo, rispondono alla stessa logica di rovesciamento dialettico: della proprietà, dello stato, della guerra (pag.112).
Il pacifismo attivo del XX secolo cerca invece rimedio alla guerra nei mezzi (col disarmo), nelle istituzioni (col pacifismo giuridico), negli uomini (con la liberazione dalla guerra per via morale, scientifica, religiosa). Il pacifismo attivo perciò si distingue in:
- pacifismo strumentale, che agisce sui mezzi: in negativo distruggendo le armi (disarmo), in positivo sostituendole con mezzi non violenti (teoria e pratica della non violenza);
- pacifismo finalistico, che agisce sugli uomini: attraverso la persausione, la conversione, l'obiezione di coscienza; oppure attraverso terapie di guarigione da quella che viene considerata una malattia (pagg.88-89);
- pacifismo istituzionale, che agisce sulle istituzioni: può essere giuridico, istituendo lo stato mondiale federale (pag.143); sociale, istituendo al contrario la soppressione dello stato col socialismo (pagg.83-86 e pag.145); democratico come nella concezione illuministica: la causa delle guerre sono i dispotismi (pag.144).
A seconda delle giustificazioni date, le teorie sulla guerra possono essere bellicistiche, dottrine della guerra giusta, pacifistiche (pacifismo attivo); la teoria della guerra giusta è intermedia e la considera come una procedura giudiziaria caratterizzata da un processo di cognizione e da uno di esecuzione; il problema, osserva Bobbio, è però la certezza ed imparzialità del giudizio, perché chi decide è parte in causa: la guerra è giusta da entrambe le parti, dà ragione a chi vince e non fa vincere chi ha ragione. La guerra, secondo Bobbio, non è perciò assimilabile ad una procedura giudiziaria ma piuttosto ad una rivoluzione (pagg.58-60).
L'etica della politica continua ad essere un'etica della potenza, manca in particolare una coscienza atomica; l'atomica non ha portato infatti la fine della guerra ma la sua sospensione: nel XIX secolo la fine della guerra era legata alla sua non necessità, nel XX secolo alla sua possibilità; senza dissuasione, la guerra torna ad essere possibile (pag.55 e 97).
Alcune teorie considerano la pace come bene insufficiente (pace ingiusta) e la guerra come male necessario ("il fine buono giustifica anche il mezzo cattivo", pag.134); quest'ultima, osserva Bobbio, è strettamente connessa alle teorie del progresso e la pace è solo una condizione per realizzare altri valori superiori: giustizia, libertà (Kant, pag.40), benessere (pag.135). La vita, si chiede allora Bobbio, è il massimo dei beni?
Quando la guerra diventa un mezzo per difendere un valore supremo più importante della vita, diventa un male minore e talvolta necessario, e quindi appare giusta; la guerra in questo caso appare un male minore anche ai disperati, occorre pertanto eliminare quelle situazioni "che possono essere considerate mali peggiori della peggiore guerra" (cit., pag.48).
La guerra come male necessario è strettamente legata all'idea di progresso, un progresso che diventa raggiungibile con la guerra; in effetti, osserva Bobbio, molte conquiste del progresso umano sono state ottenute utilizzando la violenza, che però può trovare giustificazione solo come extrema ratio, esercitata in casi estremi da un potere legittimo e per ragioni giuste (pagg.71, 149-155). Bobbio concentra la sua attenzione sui mezzi alternativi, la cui ricerca deve accompagnare ogni condanna della violenza affinchè questa non sia sterile: il metodo democratico è stato finora il tentativo più riuscito di sostituire mezzi non violenti alla violenza nel risolvere le controversie (pagg.157-159).
Per gli obiettori di coscienza la guerra è un male assoluto, ma il miglior metodo nonviolento, ripete Bobbio, è pur sempre la democrazia: col voto il vinto di oggi può essere il vincitore di domani (pagg.22-27).
Bobbio distingue due tecniche efficaci di non violenza collettiva: il boicottaggio del potere economico e la disobbedienza civile verso il potere politico; le varie alternative di non violenza (superstato, metodo democratico, non violenza collettiva) sono però tutte parziali: non basta quindi condannare la violenza, se non si inventano nuove istituzioni e nuovi strumenti che la rendano inutile, controproducente, troppo costosa (pagg.160-161).
Sempre nel libro Il problema della guerra e le vie della pace, Bobbio definisce il diritto come "l'insieme di regole per l'ordinamento pacifico di un gruppo" (pag.101): l'obiettivo minimo e comune ad ogni ordinamento giuridico è la pace, che è come un argine che canalizza i poteri di un gruppo sociale, la cui diga è la Costituzione (pag.111).
Il rapporto fra guerra e diritto si può considerare in quattro modi (pag.99):
- guerra come antitesi al diritto (stato di natura hobbesiano);
- guerra come mezzo per realizzare il diritto (inteso come diritto soggettivo, giusta pretesa);
- guerra come oggetto del diritto (ius belli);
- guerra come fonte di diritto (guerra come rivoluzione internazionale, rivoluzione interna come guerra civile, pag.107).
Anche la forza rispetto al diritto può essere in antitesi, mezzo per realizzare il diritto, oggetto del diritto (diritto di guerra), fonte di diritto (teoria della guerra giusta, pag.104). La teoria della guerra giusta stabiliva i criteri di legittimità, di giustificazione: difesa, punizione, riparazione di un torto; oltre a ciò, però, una guerra per essere giusta doveva anche essere legale, nelle regole della sua condotta (pag.103). La teoria della guerra giusta è soggetta però a due critiche: il giudizio è affidato alle stesse parti in causa e la violenza non garantisce di per sè la vittoria a chi ha ragione. Perciò, osserva Bobbio, mentre con una procedura giudiziaria vince chi ha ragione, con la guerra ha ragione chi vince (pagg.105 e 133).
Inoltre le teorie che giustificano la guerra non reggono di fronte alla prospettiva della guerra atomica la quale, essendo incontrollabile, è l'antitesi del diritto (pagg.41 e 112). La strategia nucleare impedisce la guerra di difesa come risposta all'attacco altrui perché in questo caso non vi può essere eguaglianza fra delitto e castigo ma solo "delitto impunito", che come tale è ingiustificabile (pag.62); la guerra atomica è pertanto un male assoluto, nel senso di Hobbes (pag.131).

Secondo Amnesty International, la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale possono incidere profondamente, vincolando gli aiuti al rispetto dei diritti umani da parte dei governi assistiti (Diritti senza pace, op.cit., pag.56).
La fine della guerra fredda ha segnato infatti una escalation di conflitti locali, regionali, etnici o religiosi con un crescendo di abusi e di conseguenti flussi migratori di rifugiati , che in massima parte hanno interessato paesi già poveri del Terzo Mondo (pagg.29-30, pag.42 e seg.); l'elenco dei paesi è molto lungo: Ruanda, Mozambico, El Salvador, Cambogia, Sahara Occidentale, Algeria, Somalia, Guatemala, Bosnia Herzegovina, Haiti, Liberia, ecc. In questo contesto, le Nazioni Unite si sono trovate ad organizzare non più solo tradizionali operazioni di interposizione, di peace-keeping (Namibia 1978, Sudafrica 1992), ma anche di peace-building, cioè di sostegno alla ricostruzione anche in collaborazione con ONG, e con tutti i problemi organizzativi del caso, come nella "sindrome armena" dovuta ad eccesso di assistenza (pag.121 nota); in qualche caso, si è trattato anche di operazioni di peace-making, azioni dirette delle Nazioni Unite per imporre la pace.
L'istituzione del Tribunale Penale Internazionale Permanente segna l'inizio del sopravvento del diritto delle genti sul diritto interno degli Stati leviatani ("caso Pinochet", pag.17): un Tribunale Penale Internazionale fu istituito inizialmente dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite per processare i responsabili del genocidio in Ruanda (1994), la Conferenza Diplomatica di Roma nel 1998 lo istituì in forma permanente (pagg.49-50). Le sentenze di giudici nazionali e internazionali in tema di diritti umani hanno effetti di deterrenza e di prevenzione, facendo venir meno l'immunità per i mandanti delle violazioni (pag.94 e pag.97, nota).
Ma il genocidio perpetrato in Ruanda è anche l'esempio di come il rifiuto o il ritardo nell'intervento, anche armato, di Stati terzi in paesi che violano in modo massiccio i diritti umani può causare disastri; le responsabilità per gli abusi di massa, osserva poi Amnesty International, vanno condivise anche dai governi coinvolti indirettamente, attraverso la vendita di armi (pagg.51-55).
I macro-obiettivi politici del movimento per i diritti umani sono la democrazia, che è l'obiettivo primario dei movimenti per il rispetto dei diritti civili e politici, ed il progresso economico-sociale attraverso sindacati, associazioni ambientaliste, ONG per la cooperazione e lo sviluppo (pag.90): "nulla è più politico (...) dell'impegno per la tutela dei diritti umani" (cit., pag.8).

Secondo Heilbroner (La prospettiva dell'uomo, op.cit.), le guerre su piccola scala continueranno a verificarsi col permanere degli stati-nazione, la cui esistenza viene giustificata proprio dalle costanti minacce di guerra, in un circolo vizioso che risulta acuito dall'emergere di "governi di ferro" nei paesi sottosviluppati.
Solo l'azione politica può risolvere le crisi generate dall'ambiente sociale e naturale, ma i comportamenti politici delle nazioni sono in larga misura proiezioni dei comportamenti dei singoli leaders, le cui idiosincrasie non si possono prevedere.
Kant, ne La pace perpetua (op.cit.), osservava come la guerra non possa mai essere guerra di sterminio: "nessuno Stato in guerra con un altro deve permettersi comportamenti ostili che, nella pace futura, renderebbero impossibile la fiducia reciproca" (pag.61).
Per Kant la guerra punitiva non esiste, così come non esiste una guerra giusta, che presupporrebbe con ciò già la sentenza di un giudice: la guerra è solo il triste mezzo con cui si possono affermare i propri diritti nello stato di natura, non essendovi in quello stato alcun tribunale in grado di giudicare in base al diritto (pag.61).
Lo stato di natura è infatti, per Kant, uno stato di guerra, lo stato di pace deve essere istituito e non può consistere in semplice assenza di ostilità; lo stato di natura è caratterizzato invece da tendenze egoistiche, vi può essere soltanto un diritto privato (pag.153).
Nessuno Stato può ingerirsi con la forza nella costituzione e nel governo di altri Stati (pag.59), neppure nella situazione palese di violazione dei diritti all'interno di quei paesi; la tesi è singolare: l'intervento è invece giustificato nel solo caso in cui lo Stato si divida in due, una delle quali pretende di dominare il tutto.
D'altro canto, secondo Kant, uno Stato non deve contrarre debiti pubblici nei suoi affari esterni (pag.57), la bancarotta di uno Stato lede infatti i diritti degli altri Stati che vengono coinvolti nel disastro.
Secondo Kant gli eserciti permanenti col tempo devono scomparire del tutto (pag.55): si tratta di una tesi interessante, in controtendenza rispetto alle politiche dei nostri giorni che sono volte, al contrario, all'introduzione di eserciti permanenti ed all'abolizione della leva. Gli eserciti permanenti, sostiene infatti Kant, producono una corsa senza fine agli armamenti e sono essi stessi causa di guerre aggressive; occorre invece favorire esercitazioni militari volontarie e periodiche dei cittadini ad autotutela da aggressioni esterne (pag.55).
Ne Lo stato di diritto Kant osserva che l'insurrezione armata non è mai giustificata, perché rende incerta ogni costituzione giuridica e fa precipitare ad una condizione di stato di natura, ex-lege in cui ogni diritto cessa di avere effetto; l'insurrezione, infatti, non cambia la costituzione civile ma la dissolve. Il cambiamento della costituzione può dunque avvenire solo via riforma, non via rivoluzione; una volontà suprema che volesse avere il diritto di sostituire la forza alla legislazione, distruggerebbe se stessa.

Gandhi, osserva Giuliano Pontara nella sua Introduzione alla "Teoria e pratica della non-violenza", non rifiuta i conflitti ma solo l'uso della violenza per la loro risoluzione (pag.XXVI): la non-violenza è un freno volontario alla capacità di colpire, serve pertanto molto più coraggio per esercitare la non-violenza che per usare le armi (pagg.XXIV-XXV); la dottrina di Gandhi implica la partecipazione attiva alla vita politica, diversamente dalla non-violenza di Tolstoj che, osserva Pontara, è una posizione meramente rinunciataria (la lotta politica è per Tolstoj il campo della violenza e dell'immoralità, pag.XXXIX).
Gandhi distingue la non-violenza come convinzione (rifiuto morale della violenza, non-violenza forte), la non-violenza come scelta tattica (resistenza passiva, non-violenza debole), e la non-violenza del codardo; quest'ultima non è giustificabile nei casi dell'autodifesa e della protezione degli indifesi (pagg.XXII-XXIV).
L'azione non-violenta varia al variare delle situazioni (pag.XCIV e seguenti), di fondamentale importanza è la capacità dell'agire non-violento di persuadere l'oppositore; la non-violenza forte comporta la capacità di sopportare sacrifici, di saper soffrire, e gradualità dei mezzi (pagg.CVIII-CXV).
Vi sono situazioni in cui per la dottrina gandhiana è lecito uccidere: per fermare l'altrui follia omicida, e nel caso dell'eutanasia (pag.XXX e XLVII); un contrasto fra doveri può portare il non-violento a violare in certe situazioni la norma della non-violenza: la decisione morale è, in ultima analisi, prodotta dalla coscienza individuale, che può essere attendibile ma non infallibile (pagg.LIII-LXVIII). Alcuni importanti argomenti connessi alla partecipazione o all'appoggio di non-violenti a gruppi che ricorrono alla violenza sono discussi da Pontara a pag.LVI e seguenti: l'obbligo di lealtà, l'obbligo di equità, argomenti utilitaristici e tattici (non sottomissione, riduzione della violenza nel mondo, giudizi sulla possibilità e sull'efficacia dell'azione non-violenta, diritti derivanti dall'adempimento di un dovere).
Il motivo per cui si compie un'azione (per codardia, ecc.) è rilevante ai fini delle responsabilità di chi agisce (pag.LXVII).
Gandhi ritiene vi sia una verità oggettiva, ma l'atteggiamento verso chi sbaglia deve essere di pazienza e di comprensione; l'unica autorità è la ragione, l'individuo è la misura della verità (pag.LXXV).
Da un lato la violenza è un male morale, un agire moralmente illecito; dall'altro è l'impiego di mezzi coercitivi, e può essere: "diretta o indiretta, fisica o psichica, per omissione o per commissione, manifesta o latente, personale o strutturale, più o meno intensa, estesa, ecc." (cit., pag.XLI).
L'uso della violenza implica inoltre limitazioni e distorsioni delle informazioni, quali condizionamenti e indottrinamenti; anche chi assiste i soldati, persino nei servizi sanitari, secondo Gandhi partecipa alla guerra (pag.LV).
Solo l'impiego di metodi non-violenti garantisce soluzioni reali dei conflitti, determinando verità più vaste di quelle parziali che determinano i conflitti stessi. Inoltre non basta astenersi dalla violenza, occorre agire per cercare di ridurla il più possibile nel mondo; argomenti a posteriori a favore della non-violenza sono:
- l'instabilità delle situazioni che derivano dalla violenza;
- la brutalità connessa all'uso della violenza e il rischio della sua escalation;
- la lotta violenta facilita l'accesso al potere di individui e istituzioni autoritarie;
- la violenza compromette i valori democratici di libertà, di autonomia e soprattutto di uguaglianza.
Ogni limitazione alla libertà individuale deve essere di natura non-violenta, equa, volontaria, reciproca; Gandhi è contrario ad ogni forma di privilegio sociale od economico (pag.LXXVIII) e si oppone all'automazione che elimina lavoro umano. Il forte decentramento sociale ed anche economico aiuta i metodi non-violenti. Non può esservi inoltre governo non-violento ove vi siano accentuate divisioni fra ricchi e poveri; Gandhi rifiuta però sia la violenza rivoluzionaria che la lotta di classe.

Istintivamente, osserva Bertrand Russell in Autorità e individuo (op.cit.), dividiamo l'umanità in amici (impulso a collaborare) e nemici (impulso a competere), cambiando continuamente la divisione; la forza coesiva deriva dal nemico esterno comune: "in tempi sicuri, possiamo permetterci il lusso di odiare il nostro vicino, ma in tempi di pericolo dobbiamo amarlo" (pag.14). Perciò lo Stato mondiale, non avendo alcun nemico, rischierebbe di disgregarsi per mancanza di forza coesiva.
La coesione sociale non si può fondare allora solo sul timore verso nemici esterni, in quanto si tratta di una forza negativa che cessa con la vittoria, ma vi deve essere coscienza della cultura comune (pag.36). Da sempre il governo ha due funzioni: una negativa, impedire la violenza privata ed assicurare il rispetto della legge, ed una positiva che in passato era solo la guerra, ma poi la sua azione si è andata estendendosi all'educazione ed all'economia (pag.37).
L'appello all'odio verso un nemico presunto come risposta a ciò che non va, produce alla fine effetti catastrofici (pag.77).
Nel saggio La Vittoria Disarmata (op.cit.), Bertrand Russell rifiuta il pacifismo teorico: alcune guerre sono giustificabili, "la guerra contro il nazismo era inevitabile" (pag.15); ma la vera novità del secondo dopoguerra sono state le armi nucleari che, secondo Russell, hanno la caratteristica di ritorcersi contro chi le usa e pertanto sono una debolezza e non una forza (pag.159).
Conseguenza di ogni conflitto è l'esasperazione dei sentimenti nazionali; il nazionalismo si caratterizza per amore per il proprio paese (nazionalismo buono) e per l'odio verso gli altri (nazionalismo cattivo).
Il pericolo viene enormemente accresciuto dalle reazioni ad esso: "la paura crea odio, porta alla convinzione che l'altra parte sia assolutamente malvagia e la nostra assolutamente buona" (pag.169); la divisione dell'umanità in buoni e cattivi rispecchia una mentalità infantile: in tutti noi ci sono sia il bene che il male, chi si ritiene migliore non è detto che lo sia per davvero (pag.167).
Un governo mondiale è il solo mezzo capace di impedire guerre totali; il governo mondiale dovrebbe avere il monopolio delle armi più potenti, un esercito di individui appartenenti a diverse nazioni e razze, il controllo delle materie prime necessarie per costruire armi di distruzione di massa, codici di diritto internazionale e corti internazionali di giustizia, mentre una Corte Suprema Internazionale dovrebbe poter intervenire sugli accordi fra Stati.
Secondo Russell, però, i poteri del governo mondiale sarebbero solo quelli indispensabili a prevenire le guerre, mentre gli Stati membri resterebbero autonomi in tutti gli altri aspetti (pag.174).

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Amnesty International, DIRITTI SENZA PACE. Difendere la dignità umana nei conflitti armati (Edizioni Cultura della Pace, Firenze 1998)
- Norberto Bobbio, L’ETÀ DEI DIRITTI (ed.Einaudi, Torino 1990)
- Norberto Bobbio, IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA (ed. Einaudi, Torino 1984)
- Norberto Bobbio, IL PROBLEMA DELLA GUERRA E LE VIE DELLA PACE (1979/ed. il Mulino, Bologna 1984)
- Norberto Bobbio, PROFILO IDEOLOGICO DEL NOVECENTO ITALIANO (ed. Einaudi, Torino 1986)
- John Kenneth Galbraith, L'ETÀ DELL'INCERTEZZA (Milano 1977)
- Herbert L.A. Hart, IL CONCETTO DI DIRITTO (1961/ed.Einaudi, Torino 1965)
- Robert Heilbroner, LA PROSPETTIVA DELL'UOMO (An inquiry into the human prospect, 1974)
- Immanuel Kant, PER LA PACE PERPETUA. Un progetto filosofico (ed. Rusconi, Milano 1997)
- Immanuel Kant, LO STATO DI DIRITTO
- Giuliano Pontara, INTRODUZIONE a M.K.Gandhi, Teoria e pratica della non-violenza (ed.Einaudi, Torino 1973)
- Bertrand Russell, IL POTERE. Una nuova analisi sociale (1954/ed. Feltrinelli, Milano 1981)
- Bertrand Russell, AUTORITÀ E INDIVIDUO (1949/ed.Longanesi, Milano 1980)
- Bertrand Russell, LA VITTORIA DISARMATA (ed. Longanesi, Milano 1965)
- Peter Singer, ONE WORLD. L'etica della globalizzazione (ed. Einaudi, Torino 2003)
- R.H.Tawney, LA SOCIETÀ ACQUISITIVA (1948)
- Max Weber, LA POLITICA COME PROFESSIONE (Politik als beruf, 1919/ed. Anabasi, Milano 1994)

 

17- IL RIFORMISMO E L'ECONOMIA GLOBALE

17-1 GLOBALIZZAZIONE PRO E CONTRO

Secondo Franco Debenedetti, grandi forze positive muovono le nostre economie: tecnologia, innovazione, conoscenza, globalizzazione, democrazia, individualismo, new economy (Non basta dire no, op.cit., pagg.58-59).
Vi è poi il fatto del declino del sindacalismo in Occidente, mentre servirebbe la sua espansione a livello mondiale (Bruno Manghi, Non basta dire no, pagg.103-108): la concertazione è tipica dei periodi critici, e come tale è eccezionale; la prassi ordinaria è quella di accordi fra sindacati e governo.
Il riformismo non è un metodo universale ed è geneticamente estraneo alla destra in quanto, attraverso l'analisi distaccata della realtà, si pone il problema di trasformarla per costruire un mondo diverso e più giusto: è una strategia politica ed una cultura (non l'unica) che appartiene ai non conservatori (cit., pagg.142-148).
La globalizzazione spaventa la parte più debole (come ricchezza ma anche come sapere) della società: occorre invece ricercare un compromesso socialdemocratico in una prospettiva che sia europea, perché ci sono problemi che hanno natura sopranazionale (agricoltura, ricerca, immigrazione, sicurezza sociale, pag.140).

Galbraith nel libro La società opulenta (op.cit.) individua tre "problemi economici di oggi": ineguaglianza, sicurezza, produttività.
Evidenzia l'affievolimento dell'interesse per il problema dell'ineguaglianza: ciò è dovuto in parte alla mancata tendenza al peggioramento, in parte al fatto che il prestigio sociale non è più legato al possesso di ricchezza, bensì alla direzione delle aziende.
Le ineguaglianze diminuiscono con la redistribuzione del reddito e con l'aumento della produzione; quest'ultima lascia però sempre un margine di povertà che tende ad autoperpetuarsi.
La sicurezza aumenta in presenza di monopoli, cartelli, controllo dei prezzi, restrizioni all’iscrizione di nuove imprese, protezione per mezzo di tariffe e quote, attività pubblicitarie, controllo e finanziamento del progresso tecnico, grandi dimensioni. Diminuisce in presenza di concorrenza e libero movimento dei prezzi, crisi, disoccupazione.
Per incrementare la produzione e la produttività occorre:
- utilizzare in modo completo le risorse disponibili (lavoro e capitale);
- combinare vantaggiosamente lavoro e capitale, grazie al progresso tecnico;
- aumentare la disponibilità di lavoro, grazie a natalità ed immigrazioni;
- aumentare la disponibilità di capitale, in particolare come sostituto del lavoro;
- migliorare il livello delle capacità professionali, sempre grazie al progresso tecnico.
Gli investimenti per l'istruzione e la ricerca scientifica costituiscono un’economia esterna: hanno un’utilità generale per tutte le imprese, la mentalità convenzionale è legata al fatto che un secolo fa questi investimenti non erano intimamente connessi alla produzione. Lo stato impiega capitali in attività di ricerca sostanzialmente per interessi militari: la ricerca di base e le sue applicazioni riguardano perciò aviazione, esplorazione spaziale, energia nucleare, comunicazioni via satellite, calcolatori elettronici, ecc.
L'istruzione è un'arma a doppio taglio; la stimolazione della domanda con la pubblicità e l'emulazione è decrescente al crescere dell'istruzione, mentre è crescente la stimolazione di desideri più esoterici: musica, arti figurative, interessi scientifici e letterari, in parte anche i viaggi.
L'equilibrio sociale consiste nel rapporto soddisfacente fra beni e servizi prodotti dall'economia privata e dallo Stato. Non si può affermare che la soddisfazione che una comunità ricava dall'incremento marginale delle risorse destinate a scopi pubblici sia uguale alla soddisfazione ottenuta dall'incremento marginale delle risorse destinate ad usi privati, perché si tratta di valori incommensurabili: in primo luogo, gli individui interessati sono diversi; inoltre, si paragona la soddisfazione di bisogni artificiosamente stimolati con la soddisfazione di bisogni che non lo sono.
Cause di squilibrio sociale per Galbraith sono l'insufficienza dei servizi pubblici, l'ineguaglianza, l'inflazione.
Gli individui poveri sono individui il cui reddito è inferiore a quello della comunità, anche se è sufficiente a farli sopravvivere; la povertà può essere individualizzata (deficienze dei singoli individui per inabilitazioni, alcolismo, ignoranza, procreazione incontrollata, ecc.), o zonale (nella zona sono quasi tutti poveri per ostacoli ambientali, discriminazione razziale, insufficienza di scuole, disintegrazione della vita familiare, ecc.). Per i redditi fissi, la povertà è poi più grave nelle città che nelle campagne. La sua riduzione dipende da una molteplicità di interventi, quali l'assegnazione di fonti elementari di reddito, l'istruzione ed assistenza ai ragazzi delle famiglie povere, l'edilizia abbondante, la realizzazione di trasporti efficienti, comodi ed economici, l'assistenza sanitaria, i miglioramenti ambientali.
La società opulenta deve garantire a chi ne ha bisogno un reddito minimo per una vita comoda e dignitosa.

Secondo Ethan B.Kapstein (Governare l'economia mondiale, op.cit.), il sistema internazionale è caratterizzato da globalizzazione, innovazione, speculazione, deregolamentazione, e suggerisce l'immagine del casinò, dove la fortuna incide sui risultati tanto quanto le capacità professionali (pagg.37-40 e pag.217).
Il settore più globalizzato sembra essere quello finanziario, perché fortemente condizionato dalla rivoluzione tecnologica che ha investito informazione e telecomunicazioni (pagg.16-17).
Il multilateralismo, almeno nel campo del controllo sulla finanza internazionale, sembra non essere un modello efficace di governo mondiale, a meno che non vi sia un paese-guida che faccia rispettare gli accordi, e tale ruolo finora è stato ricoperto dagli Stati Uniti (pagg.211-225). I rapporti di potere e di sovranità fra stati nazionali ed organizzazioni transnazionali non costituiscono un gioco a somma zero; per evitare crisi finanziarie analoghe a quella degli anni Trenta, gli stati hanno costruito una struttura a due livelli, dove in alto sta la cooperazione internazionale e in basso il controllo nel paese di origine: con questo modello si cerca di regolamentare anche settori diversi da quello finanziario, come quello delle telecomunicazioni e l'inquinamento delle coste causato dalle petroliere (pagg.218-220).
L'inquinamento e le crisi finanziarie costituiscono vere e proprie esternalità transnazionali, effetti indesiderati che derivano da guasti del sistema.
I mercati, osserva Kapstein, possono fornire servizi normativi (pag.225).
Il controllo dell'allocazione del credito è uno strumento importante delle politiche economiche degli stati-nazione (pag.32), ma altrettanto importante è la prevenzione delle crisi finanziarie, più ancora della loro gestione: qui esigenze di sicurezza e solidità (regolamentazione) si scontrano con quelle di competitività (liberalizzazione).
Le aziende multinazionali, osserva Naomi Klein in No logo (op.cit.), sono le più potenti forze politiche del nostro tempo: la multinazionale è come uno stato-nazione che si autoregola, occorre invece secondo la Klein che la regolamentazione delle aziende multinazionali torni di dominio pubblico (pagg.412-413).

Arnold Toynbee, ne La città aggressiva (op.cit.), osserva come le città rimasero luoghi eccezionali fino alla rivoluzione industriale, la maggioranza della popolazione, infatti, era agricola; le fasi di crescita delle città corrispondono allo sviluppo tecnologico e sono parallele allo sviluppo della civiltà: inesistenti nel primo milione di anni, piatte negli ultimi cinquemila (esistevano solo le capitali), e fino a duecento anni fa quando nasce un nuovo tipo di città che si differenzia dalla capitale, la città meccanizzata.
Le città tradizionali sorgevano in aree piccolissime ad alta densità; le distanze brevi erano indispensabili in assenza di mezzi di comunicazione efficienti, e spesso si abitava nello stesso edificio in cui si lavorava; le città moderne hanno una minore densità e la rivoluzione nei mezzi di trasporto ha consentito di articolarle in zone ampie e separate (residenziale, commerciale, industriale), ma le megalopoli si caratterizzano per la congestione del traffico e la mobilità della popolazione, tendente a divenire suburbana e pendolare.
I fenomeni pendolari nella storia dell'umanità sono due, il nomade pastorale, caratterizzato da un ciclo annuo, che abita e lavora nello stesso luogo non stazionario, ed il pendolare urbano caratterizzato invece da un ciclo giornaliero, che si sposta dal luogo dove lavora a quello dove abita.
Toynbee evidenzia i fenomeni di autolesionismo costituiti dalle megalopoli arcaiche del carbone e dalle megalopoli moderne della benzina, sovrabbondanti di auto private, congestione del traffico ed inquinamento, mentre la ferrovia occupa spazi minimi per il trasporto di quantità enormi di persone e di merci, e necessita di investimenti per salvaguardare la possibilità futura di viaggiare. Le città meccanizzate sono rumorose, sporche, senza anima, prive di contatto con la campagna, si riforniscono da fonti lontane, e non sono amate: il cittadino ne è alienato in ogni caso, chi vi fa denaro lo utilizza per scappare, con un’inversione rispetto al passato del rapporto fra la città ed i suoi abitanti, che era caratterizzata invece da intimità, protezione, stimolo, libertà.
L'ecumenopoli potrebbe racchiudere tutta la superficie terrestre in un'unica conurbazione attraverso la fusione fra le varie megalopoli esistenti. L'esplosione demografica, in particolare della parte più povera ed arretrata, porta all’esplosione urbana, l'essere umano normale del futuro sarà un individuo di città e non più di campagna, con la conseguente urbanizzazione della produzione alimentare.
Ma la città-mondo futura si caratterizza già oggi per l'aumento del consumo quotidiano e pro capite di acqua, per una distribuzione ineguale della densità media della popolazione (sobborghi travolti dagli slums e bidonville nel cuore delle metropoli, per la costituzione di municipalità suburbane con l'isolamento giuridico e fiscale delle residenze suburbane della classe media, per la diminuzione dei tributi nei confini amministrativi tradizionali delle città, sempre più occupate da residenti con bassi redditi.
Gli effetti psicologici della diversità (reddito, modi, costumi, aspetto fisico) sono maggiori nell'ambiente urbano rispetto a quello rurale.
La città-mondo dovrà essere accompagnata da un governo mondiale, altrimenti il caos amministrativo porterà alla catastrofe. La città-mondo dipende inoltre dall'applicazione della scienza alle tecnologie della medicina e dell'agricoltura; l'incremento demografico comporta la necessità di massimizzare e la produzione e la conservazione delle merci, la rimozione degli slums sarà possibile solo creando un equilibrio fra abitazioni disponibili ed incremento demografico, e supportando l'incremento dei pendolari con lo sviluppo del traffico, sia di superficie che ferroviario: il treno è la sola tecnologia dei trasporti che possa rispondere alla sfida dell'esplosione demografica, anche nel trasporto merci, grazie ai containers; il veicolo stradale rappresenta invece uno spreco, sia in termini di spazio occupato che di consumo. Il traffico delle auto private dovrà essere regolato e indirizzato verso l'esterno delle aree urbanizzate, ovvero in linee dirette sotterranee al loro interno. La pianta tradizionale della città è diventata una trappola per la moderna città meccanizzata in espansione, che ha preso la forma di una sequenza di cerchi concentrici, come il tronco di un albero, con una progressiva maggiore pressione sul centro ed il suo conseguente decadimento con l'esodo dei ceti medi e alti.
La città prima della meccanizzazione era un disco solido, come una ruota di legno; dopo la meccanizzazione è divenuta un cerchio vuoto, come una gomma d'auto. La città-mondo non si può immaginare con un unico punto centrale, la pressione dell'attività umana su di esso sarebbe infatti enorme, come l'oceano nei suoi punti più profondi.
Una città a misura d'uomo alterna armonia e conflitto sociale, ma non la solitudine: ogni centro civico deve essere contenuto nelle dimensioni delle città del passato. La funzione tradizionale delle mura era difensiva, oggi è quella di salvare aree verdi e parchi.
La città mondo dovrà essere costituita da cellule con scala uguale alle città locali tradizionali, che saranno centinaia di migliaia affiancate come in un mosaico e non più disperse in un ambiente rurale: il fatto che circa diecimila anni fa l'uomo sia riuscito a trasformarsi da cacciatore nomade a coltivatore sedentario è un precedente che lascia sperare, secondo Toynbee, che egli riuscirà a sopravvivere anche a questa ulteriore trasformazione.

Il XX secolo, osserva Amartya Sen in Lo sviluppo è libertà (op.cit.), ha portato miseria, fame, violazione dei diritti e delle libertà fondamentali, ma anche un’opulenza inimmaginabile prima, l’allungamento della vita media, la democrazia (pag.5). Le privazioni, osserva Sen, si combattono con lo sviluppo, che non è un mero aumento di PNL o dei redditi individuali, ma è un processo di espansione delle libertà umane; ci possono essere discordanze fra reddito pro capite e libertà individuale, ma miseria, intolleranza ed autoritarismo sono tutte fonti di illibertà.
L’idea dello sviluppo come libertà richiede che le libertà siano parti costitutive dello sviluppo per due ragioni: per una ragione di efficacia, in quanto la libera azione degli individui è fondamentale per lo sviluppo, e per una ragione valutativa perché vi è progresso laddove vengono promosse le libertà umane (pagg.10-12 e 24).
La difesa della libertà è prioritaria per via della sua asimmetria ed interconnessione con persone diverse, perciò la sua violazione è di per sè un male (pagg.69-70).
Per le libertà e l’idea di sviluppo come libertà sono importanti non solo gli obiettivi finali, ma anche i processi (le procedure) e le possibilità (o conseguenze, pag.23): non sono ammissibili, ad esempio, “guardiani” della tradizione culturale o religiosa (pag.38). L’espansione delle libertà reali degli individui è sia lo scopo principale che il mezzo principale dello sviluppo; le libertà hanno dunque sia un “ruolo costitutivo” che un “ruolo strumentale” nello sviluppo, il quale consiste peraltro nel processo stesso di espansione delle libertà: “la partecipazione politica e il dissenso sono parti costitutive dello sviluppo” (pag.41).
Lo sviluppo è dunque un processo di estensione dei vari tipi di libertà sostanziale, mentre il sottosviluppo è illibertà (pag.91).
Le libertà o illibertà economica, sociale e politica sono tra loro strettamente connesse: non c’è mai stata una carestia in una democrazia funzionante, anche se povera; libere elezioni ed informazione incentivano i governi ad impedirle: ad esempio, l’India dopo l’indipendenza nel 1947 non ha più avuto carestie, mentre in Cina la carestia del 1958-1961 fece trenta milioni di morti (pagg.14-22, 48-57, 156, 181).
Le correlazioni fra reddito e ricchezza da una parte e salute, nutrizione, istruzione, speranza di vita dall’altra vanno in entrambe le direzioni; anche fra libertà individuale ed assetti sociali vi è una relazione bidirezionale. Povertà e disoccupazione non sono solo scarsità di reddito, ma comprendono l’esclusione sociale ed effetti che sono di natura psicologica (pagg.25-27, 36, 52 e 99).
Sono libertà strumentali cruciali, fra loro interconnesse, le libertà politiche (compresi i diritti civili), le infrastrutture economiche (i mercati), le occasioni sociali (scuola, sanità), le garanzie di trasparenza (diritto all’informazione, meccanismi legali di responsabilizzazione), la sicurezza protettiva (la rete di protezione sociale, la sicurezza dell’impiego, pagg.6, 43 e seg., 58, 67). La crescita economica va considerata sommando l’incremento reale dei redditi privati alla crescita dei servizi sociali e della sicurezza sociale; la crescita dell’istruzione e l’espansione del sistema sanitario possono sconfiggere la povertà, come è stato nel caso della restaurazione Meiji (pagg.45-46).
Peraltro i servizi sociali, istruzione e sanità in primo luogo, hanno un’alta intensità di lavoro e quindi accelerano la crescita economica, e nel contempo costano poco nei paesi poveri dove i salari sono bassi: vanno quindi realizzati subito anche nelle economie più povere e senza aspettare che diventino ricche (pagg.52-53). In Gran Bretagna le politiche sociali si incrementarono rapidamente nei due periodi di economia di guerra, provocando una forte diminuzione della mortalità per cause non belliche (pag.54).
Le regole procedurali, osserva Sen, non si possono però accettare indipendentemente dalle loro conseguenze: i giudizi di valore indicati dall’utilitarismo esprimono l’idea che ogni scelta vada giudicata in base alla somma totale delle utilità che produce, e si fondano su tre componenti distinte (pag.63): il consequenzialismo, secondo cui tutte le scelte vanno giudicate in base ai risultati che producono; il welfarismo per il quale tutte le scelte vanno giudicate in base alle utilità che producono; la classifica per somma secondo cui conta il valore aggregato delle utilità e non come sono diversamente distribuite fra gli individui.
L’ingiustizia, per l’utilitarismo, è quindi la realizzazione di minore utilità aggregata, una concezione sbagliata in quanto indifferente alla distribuzione, che però non inficia la validità delle sue intuizioni consequenzialiste e welfariste, e quindi l’attenzione ai risultati ed al benessere degli individui. Gli assetti e le istituzioni sociali, secondo l’approccio consequenzialista, vanno giudicati infatti non solo sulla base dei loro aspetti costitutivi, ma anche per le conseguenze che producono (pagg.64-71).
Le conseguenze spesso non corrispondono alle aspettative: il riformatore razionale impara facendo (pag.255); le conseguenze non volute non sono necessariamente imprevedibili, bisogna imparare a prevedere conseguenze importanti e non intenzionali (pag.257).
L’utilitarismo nega valore intrinseco a diritti e libertà, che contano solo se influiscono sull’utilità: si può essere schiavi felici o anche mentalmente condizionati ed adattati (pag.67).
Le condizioni mentali di persone diverse non sono confrontabili (desideri, piaceri, felicità, ecc.), l’utilità esprime le preferenze di ciascun individuo, non è possibile alcun confronto interpersonale di utilità e lo stesso comportamento di scelta, in persone con stati d’animo diversi, dà origine a funzioni di utilità diverse. Allo stesso modo, con funzioni di domanda eterogenee è impossibile il confronto fra redditi reali di persone diverse; Sen individua almeno cinque cause che variano il rapporto fra redditi reali e vantaggi che ne derivano in termini di benessere e di libertà, rendendo inservibile il concetto di opulenza (pagg.72-76): l’eterogeneità degli esseri umani per età, sesso, malattie; le diversità ambientali del clima ma anche svantaggi ambientali o malattie infettive; le variazioni delle condizioni sociali (istruzione, criminalità, epidemiologia); le differenze relative, come essere relativamente poveri in una società ricca (pag.94); la distribuzione intrafamiliare del reddito per età, sesso, bisogni.
Sen privilegia il criterio delle capacità o libertà sostanziali (capabilities, pag.19), rispetto alle utilità (welfaristi) o ai beni principali (Rawls): non basta possedere i beni principali, osserva Sen, questi infatti devono essere convertiti in capacità di raggiungere i propri scopi, gli individui sono diversi fra loro per età, sesso, talento, malattie, invalidità, condizioni familiari, indipendentemente dai beni posseduti; talune occasioni non vengono colte, la stessa libertà di scegliere è di per sè un valore (scegliere di digiunare non è la stessa cosa di soffrire la fame, pag.80).
Il livello di reddito incide sulle ‘capacitazioni’ in modo contingente e condizionato, variando da comunità a comunità, da famiglia a famiglia, da persona a persona; la povertà reale può essere perciò più o meno intensa rispetto al livello del reddito (pagg.92 e seg.).
I risultati del mercato dipendono dagli assetti sociali e politici, di cui è parte integrante l’azione pubblica; le innovazioni sociali possono incidere positivamente sui mercati economici (pag.146 e 259).
Il conservatorismo finanziario (l’estremismo antideficit) non è applicabile allo stesso modo in tutte le situazioni, e indipendentemente dagli scopi della spesa pubblica (sanità e istruzione piuttosto che spese militari); la discussione pubblica è fondamentale per individuare i bisogni economici e stabilirne la priorità, la “condizione umana” in sè non ci dice nulla (pagg.157-158).
Le virtù della democrazia, secondo Sen, sono tre: è importante intrinsecamente, ha un’utilità strumentale perché crea possibilità e previene catastrofi economiche (pag.183 e seg.), svolge un ruolo costruttivo nel creare valori e norme (“governo attraverso la discussione”, pag.273); la democrazia acquista poi un fondamentale valore pratico nelle situazioni critiche (pagg.161-162).
Le carestie vanno distinte dalle situazioni di povertà endemica, e spesso sono legate alla perdita di titoli ad acquistare cibo in un mercato che non ne è privo (pagg.163-168 e seg., 207 e seg.); il funzionamento del mercato del lavoro è cruciale per prevenire fame e carestie e peraltro, osserva Sen, gli individui non sono solo mezzi di produzione ma anche il fine dei processi economici (pagg.166 e 295), come pure il superamento delle divisioni e delle distanze culturali (pagg.170-176 e seguenti); lo Stato può intervenire facilmente, anche solo creando occasioni di lavoro temporaneo in progetti pubblici a breve termine (pag.182).
Le misure coercitive non sono efficaci per ridurre il tasso di fertilità; il benessere sociale può essere invece promosso più efficacemente dal ruolo attivo giocato dalle donne, in particolare attraverso l'istruzione e l'occupazione femminile (pagg.192-219).
La libertà personale e la tolleranza devono essere garantite e condivise da tutti: il valore della libertà e della tolleranza va coniugato con l’uguaglianza della libertà e della tolleranza; interpretazioni diverse e più riduttive (valori asiatici, islamici, occidentali, africani, ecc.) sono ipersemplificazioni del tutto arbitrarie (pag.234 e seguenti). Le regole di buon comportamento e la fiducia reciproca sono fondamentali per far funzionare economie di scambio (pag.263 e seguenti); libertà e responsabilità sono strettamente connesse, la libertà ha molti aspetti: processuale, possibilitante, costruttivo (pagg.284-292).

Jeremy Rifkin, nel libro L’era dell’accesso (op.cit.), osserva come i termini accesso e rete stiano acquisendo un'importanza maggiore di proprietà e mercato; il concetto di accesso è carico di significati politici, per via del rapporto di inclusione/esclusione, e riguarda sia il livello che il tipo di partecipazione (pagg.21 e 353): chi può accedere e a che tipo di mondi e di esperienze. L'Africa è il continente meno connesso, la distinzione è oggi fra gli informaticamente ricchi e gli informaticamente poveri (pag.306).
L'accesso è divenuto una misura dei rapporti sociali senza generare dibattito sociale: forse perché il passaggio dalla proprietà all'accesso, come altri grandi cambiamenti storici, è stato impercettibile (pag.155 e pag.183).
Il dibattito pubblico si è sviluppato sulla deregolamentazione dei servizi e delle attività dello Stato ma non sull'inclusione progressiva della sfera personale nel dominio del mercato: "ogni istante della nostra vita è influenzato da qualche forma di rapporto economico" (pag.152); Rifkin descrive il processo di saturazione della mercificazione del tempo, la trappola malthusiana del tempo: le relazioni di natura economica aumentano per quantità, varietà ed invadenza e si sostituiscono alle relazioni tradizionali (pag.153).
Il capitalismo moderno si caratterizza infatti per la progressiva acquisizione nella sfera economica dei molteplici ambiti della vita umana; con l'economia del ciberspazio anche il tempo viene acquisito dall'economia e "l'era dell'accesso si definisce, soprattutto, attraverso il crescente asservimento delle esperienze alla sfera economica" (pag.131). L'agente economico assume un ruolo affettivo; questa nuova dipendenza commerciale per certi aspetti è assimilabile alla dipendenza dallo Stato sociale (pagg.139-140).
Il nuovo capitalismo è diverso dal capitalismo industriale quanto quello lo era dall'economia mercantile dei secoli precedenti e sta ridisegnandosi in forma di rete, con concezioni sistemiche: reti di fornitori, di produttori, di clienti, consorzi di standard, reti di cooperazione tecnologica, dove il potere economico si concentra in pochi megafornitori: le reti, eliminando i mercati e sostituendoli con catene fornitore-utente, rappresentano un’aperta violazione alle normative antitrust (pagg.26, 57, 79, 100).
La nuova economia delle reti si caratterizza per l'accorciamento del ciclo di vita dei prodotti, la cosiddetta "legge di Moore", e le aziende in vantaggio sulla concorrenza spesso competono contro se stesse (pagg.27-29).
Il valore aggiunto, depurato dell'inflazione, è molto superiore alla massa materiale prodotta: la produzione si sta smaterializzando, l'economia 'fisica’ si contrae. Il peso come unità di misura per l'import/export perde d’importanza: "prodotti più leggeri, miniaturizzazione, contrazione degli spazi di lavoro, scorte just-in-time, leasing e outsourcing sono le prove della svalutazione di una visione materiale del mondo che ha posto l'accento sulla fisicità " (pag.76).
Regalare beni per vendere servizi con effetto network; il modello reticolare hollywoodiano (pagg.38-129) è stato adottato rapidamente in altri settori economici di punta: informatica, scienze biologiche (i geni sono ceduti su licenza, il patrimonio mondiale di sementi è brevettato, pagg.90-93), franchising ("l'oggetto di un contratto di franchising è la negoziazione dell'accesso, non il trasferimento di una proprietà ", pag.84), produttori virtuali, distribuzione digitale della musica, dematerializzazione dello spazio lavorativo, dematerializzazione del denaro, sia nel senso che il suo valore non è più garantito da alcuna ricchezza tangibile, sia nel senso della soft bank, declino del risparmio, aumento dell'indebitamento personale (pagg.44-66).
Fino all'inizio del XX secolo la parola consumo aveva un significato negativo, di spreco (pag.188). Oggi l'industria turistica globale è la mercificazione di un'esperienza culturale ed è la terza voce di spesa dopo abitazione ed alimentazione, le attrattive locali sono manipolate per originare esperienze di tipo teatrale (parchi tematici, centri commerciali, villaggi palcoscenico separati dal resto del territorio e dei suoi abitanti); ma mentre la piazza è un luogo pubblico, il centro commerciale non lo è (pagg.195-213).
Il mercato è derivato, presuppone la comunità sociale e la cultura, e la fiducia che da loro deriva: comunità forte vuol dire fiducia sociale ed empatia, e quindi economia sana. Il terzo settore svolge quindi un ruolo fondamentale: mercato e reti non possono reggersi da soli, dipendono dall'esistenza di comunità forti che esistono solo nello spazio geografico, nel territorio (pagg.323-336).
Relazioni durature si realizzano solo in comunità d’interesse (pag.148): queste si caratterizzano per legami di consapevolezza, d’identità (elemento di differenziazione), di relazione (rapporto interattivo), di comunità (interessi condivisi e relazioni a lungo termine). Le nuove comunità d’interesse, osserva Rifkin, sono sempre meno legate ai luoghi geografici (pag.297).
Ma una parte considerevole dell'economia mondiale è nelle mani di poche centinaia di società multinazionali, poche centinaia di miliardari posseggono un patrimonio superiore al reddito della metà popolazione più povera del mondo (pag.298 e pag.307): l'allontanamento dello Stato e delle imprese dalla comunità locale, se non è sostituito dal terzo settore, rischia di far crescere un quarto settore costituito da economia sommersa e cultura criminale, e da fondamentalismi (pagg.298, 307, 340-344).
Il disagio sociale creato dalla disoccupazione diffusa favorisce partiti politici estremisti, vi è correlazione fra disoccupazione e criminalità: nel libro La fine del lavoro (op.cit.) Rifkin evidenzia come l'attuale momento storico si caratterizzi per conflitti a bassa intensità dove la distinzione tradizionale fra guerra ed attività criminale va sempre più scomparendo (pagg.336-348). I microconflitti e l'estremismo politico e religioso aumentano con la disoccupazione tecnologica, col minore potere d'acquisto, specie della classe media, e con le minori disponibilità finanziarie degli stati; criminalità e disoccupazione sono strettamente correlate (pagg.454-455).
La perdita dell'occupazione formale di massa costituirà forse il maggior problema sociale del XXI secolo (pag.16, pag.289 e seguenti); il valore di mercato del lavoro è stato finora la misura del valore degli individui: con processi di crescente automazione occorrerà trovare altri modi "per definire il valore degli individui e le relazioni sociali" (pag.19).
La fine del lavoro è caratterizzata da processi di automazione laborsaving, di re-engineering (particolarmente accaniti verso il middle management, pag.29, pag.279 e seguenti, pag.454), di outplacement (pag.25), di downsizing (riduzione della dimensione delle imprese, pag.158).
Il XX secolo segna la metamorfosi del consumo, da vizio a virtù (pag.47 e seguenti); il credito al consumo fu fondamentale per imporre una cultura edonistica negli Stati Uniti, il cui new deal si caratterizzò come un insieme di programmi di opere ad alta intensità di manodopera; ma fu l'economia di guerra a dominare con un "complesso militare-industriale (...) che, se avesse costituito una nazione a sè stante, si sarebbe collocato al tredicesimo posto nella graduatoria dei paesi industrializzati" (pag.68). La guerra fredda, il Vietnam contribuirono all'espansione dell'economia nonostante nuove tecnologie.
Gli scioperi intensi del dopoguerra americano avevano per oggetto aumenti salariali, ma ai sindacati sfuggì il pericolo per l'occupazione della crescente automazione, di cui le prime vittime furono gli afroamericani (pagg.120-128 e 147). La riduzione della spesa pubblica per contenere il crescente debito pubblico porta a re-engineerizzare il pubblico con l'obiettivo di accrescere la produttività, riducendo posti di lavoro (pag.79).
La "visione utopistico-tecnologica", dalla frontiera del West alla frontiera tecnologica, presenta un lato oscuro che emerge con l'utilizzo delle bombe atomiche in Giappone, la corsa allo spazio durante la guerra fredda ridarà nuovo valore all'utopia tecnologica, che poi verrà frenata ancora dai disastri del Challenger, di Chernobyl, dall'incidente al reattore di Three Mile Island, dall'inquinamento crescente (pagg.84-104).
Il termine efficienza emerge nel XIX secolo in termodinamica; la sua applicazione nel processo economico risale a F.W.Taylor (1895) per significare "il massimo rendimento ottenibile nell'unità di tempo con il minimo dispendio di energia, lavoro e capitale" (pag.95). I ritmi dell'automazione però sono diversi da quelli della natura, e provocano "sovraccarico" (stress, pag.303 e seguenti).
I giapponesi realizzarono nel dopoguerra un modello di produzione post-fordista: l'impresa non assomigliava più ad una burocrazia militare, con una struttura gerarchica piramidale discendente, ma consisteva in una lean production, una produzione leggera caratterizzata da un approccio cooperativo di gruppo, just-in-time piuttosto che just-in-case come quello americano. Le tecnologie informatiche aiutano ancor di più organizzazioni del lavoro a rete o a matrice piuttosto che piramidali (pagg.164-173 e 299).
I maggiori cambiamenti tecnologici stanno investendo l'agricoltura, con un passaggio epocale dalle pirotecnologie, che prevedono l'utilizzo del fuoco per creare nuovi materiali, alle biotecnologie, biologia molecolare, protetta giuridicamente dai brevetti, che considera le specie come contenitori di programmi genetici (pagg.183-206).
Cambiamenti tecnologici investono l'industria automobilistica, che è la maggiore attività industriale del mondo, come pure il settore siderurgico e quello tessile (pagg.215-231). Anche i servizi hanno subito profonde trasformazioni, dal centralino elettronico alla divisione elettronica della posta, dagli uffici automatici (bancomat, pos, ecc.) agli uffici virtuali del tele-lavoro (pagg.234-235, 238, 241 e seguenti); scanner e codici a barre elettronici hanno consentito la diminuzione dei cassieri, che erano il terzo gruppo di impiegati negli Stati Uniti dopo i contabili e le segretarie, queste ultime rese inutili dall'introduzione e diffusione dei computer (pag.245-252).
L'automazione elettronica si sta espandendo anche alla ristorazione, fino alla spesa elettronica con conseguente effetto di spiazzamento tecnologico (pagg.254-256 e 453).
L'automazione ha consentito un maggiore controllo sui processi produttivi, ed una maggiore produttività; nella produzione pianificata il lavoratore agiva in una fase specifica del processo produttivo, nella produzione programmata funge soltanto da osservatore (pag.297). L'introduzione dei computer, osserva inoltre Rifkin, sembra aver aumentato piuttosto che ridotto il tempo di lavoro (pagg.355-356).
I processi di automazione stanno investendo anche il Terzo mondo, il lavoro contingente (temporaneo, parziale e outsourcing) è il nuovo esercito di riserva; essere disoccupati significa "sentirsi improduttivi e privi di valore" con conseguenze spesso disastrose per la salute (pag.317 e seguenti).
Il controllo del capitale finanziario e dei mezzi di produzione non garantisce più oggi il controllo dell'attività economica, che è nelle mani dei knowledge workers; il maggior capitale d'investimento americano sono i fondi pensione (pag.285 e 364).
Informazione e comunicazione non conoscono confini, nè frontiere, Rifkin evidenzia come il ruolo geopolitico e quello di "datore di lavoro di ultima istanza" dello stato nazionale si stiano affievolendo. La soluzione ai problemi della mancanza di lavoro sta nel terzo settore, nelle attività di volontariato o economia sociale (pagg.377-381).
La partecipazione al terzo settore, secondo Rifkin, è l'alternativa alla cultura criminale (pag.394); comunità di interesse ridurranno la necessità di intervento dello Stato in materia di assistenza sociale.
Il futuro, secondo Rifkin (pag.195), sarà caratterizzato da:
- riduzione del settore pubblico;
- globalizzazione di quello privato;
- comunità locali forti ed autosostenentesi.
Concetti basilari sono quelli di network cooperativo, settore indipendente o terzo settore, volontariato, "salario ombra" deducibile fiscalmente, salario sociale, reddito minimo garantito, riduzione dell'orario di lavoro (pagg.396-433).
Le NGO sono soggetti importanti per creare occupazione, ma anche per le rivoluzioni democratiche e per la cooperazione internazionale (pagg.439-446).

17-2 LA NECESSITÀ DEL RIFORMISMO NEL CONTESTO DELL’ECONOMIA GLOBALE

Il capitalismo, osserva Giorgio Ruffolo in Riformismo e capitalismo globale (cit.), è l’unico sistema storico in mutazione permanente; il riformismo lo ha capito ed ha cercato di controllarne i cambiamenti attraverso due soggetti fondamentali, che sono lo Stato nazionale ed il sindacato di classe, soggetti oggi entrambi indeboliti (cit., pagg.15 e 17-53).
Tre sono i punti critici su cui è impegnata la moderna sinistra riformista: rispondere alla globalizzazione mondiale, alla destrutturazione del lavoro e del Welfare State, alla mercatizzazione dei rapporti sociali; le risposte possono essere rigide, come la mera conservazione delle conquiste ottenute, oppure mimetiche (e tale è, secondo Ruffolo, la “terza via”), oppure ancora di pragmatismo etico, che consiste nel tradurre gli ideali in obiettivi, nel “costruire un sistema di indicatori-obiettivo che nell’insieme configuri l’immagine di una società desiderabile e possibile, relativamente a un periodo determinato” (cit., pag.20).
Governare la globalizzazione, osserva ancora Ruffolo, significa governare i flussi monetari e finanziari, governare i flussi commerciali, governare i beni comuni planetari (cit., pagg.55 e 66); il sistema di Bretton Woods riuscì a stabilizzare sia i cambi che i tassi di interesse, oggi occorre trasformare e rafforzare il FMI e combattere i paradisi fiscali, mentre è improprio parlare di moneta unica mondiale o di governo mondiale: “non si possono governare processi presenti con istituzioni future” (cit., pag.64), e nulla è più frustrante del riformismo annunciato: “nuovo, vero, moderno, serio, concreto…” (cit., pag.66).
Il tema della regolazione mondiale comprende i problemi del che cosa, del come e del chi: l’Europa potrebbe essere la piattaforma di partenza (cit., pag.68).
La competitività, osserva ancora Ruffolo, a livello macroeconomico è un concetto retorico, un paese non è un’impresa mossa soltanto dalla massimizzazione dei profitti, e peraltro gli Stati Uniti sono insieme il paese economicamente più forte ed anche il più indebitato (cit., pagg.56 e 74).
Anche secondo Pierre Carniti (La società dell'insicurezza, cit.) i paesi non sono aziende e la competitività è meno importante della coesione sociale, che si fonda non sul saldo della bilancia commerciale ma piuttosto su cose come "istruzione, salute, lavoro, sicurezza, ambiente" oltre che sulla produttività (cit., pag.111); e gli stati, osserva Carniti, scompaiono per guerra o rivoluzione, mai per un'Opa. Per quanto riguarda il conflitto, poi, questo non costituisce un problema per la democrazia ma piuttosto ne è il fondamento.
Grazie alle rivoluzioni informatica ed elettronica, il potere finanziario è divenuto extraterritoriale, mentre il potere politico è ancora vincolato territorialmente (governi e parlamenti nazionali, sindacati, cit., pagg.14-17-25).
Tre sono i tipi di diseguaglianze, tutte in crescita, che accompagnano il processo di globalizzazione: quelle interne ai paesi ricchi, quelle interne ai paesi poveri, quelle fra paesi ricchi e paesi poveri. Deregolamentazione, flessibilità, precarizzazione, regresso dell'economia pubblica, declino della politica caratterizzano la società dell'incertezza, che diventa imprevedibile sia nelle dinamiche individuali che in quelle sociali (cit., pag.55).
La fine del comunismo ha accelerato i processi di globalizzazione delle economie di mercato, ma ha anche creato nuove divisioni: separatismi, nazionalismi, fondamentalismi (cit., pag.71).
Funzione della politica è correggere il mondo, oltre che amministrarlo; i principi vanno tenuti fermi, le politiche variano invece col variare dei contesti: la storia può insegnarci solo ciò che non si deve fare, il da farsi va inventato, è il compito della politica (cit., pag.95). E non basta solo avere ragione, bisogna anche farla valere (cit., pag.72).
Alla globalizzazione dell'economia occorre rispondere con la globalizzazione della democrazia: la globalizzazione è infatti una risorsa, che comporta rischi ma anche opportunità; è una seconda modernità (pag.59). Le due grandi minacce del nostro tempo sono quella ambientale e quella derivante dalla natura di gioco d'azzardo del sistema finanziario, caratterizzato da livelli crescenti di volatilità, incertezza, speculazione; ed entrambe le minacce, osserva Carniti, sono senza nemici (cit., pag.98).

Robert Heilbroner, ne La prospettiva dell’uomo, (op.cit.), osserva come ciascuna generazione dia per scontati i propri standard di vita e non provi gratitudine per quelle a lei precedenti, mentre i sacrifici per le generazioni future incontrano la difficoltà di stabilire una identificazione con gruppi che non sono oltre i nostri confini, ma oltre il nostro tempo. L'atteggiamento verso il futuro delle moderne società consumistiche è determinato perciò da considerazioni egoistiche.
Proprio l'assenza di legami col futuro fa dubitare che gli stati-nazione e gli ordinamento socioeconomici possano prendere decisioni adesso per risolvere i problemi del futuro; gli stati nazione, osserva peraltro Heilbroner, sono surrogati psicologici della famiglia, e la speranza di poter raggiungere la fratellanza universale è utopistica.
La concezione umanistica ha il proprio punto debole nell'incapacità o non volontà di affrontare certe caratteristiche umane radicate; inoltre, le priorità attuali consistono nell'incoraggiare quel progresso industriale che, se da un lato permette di combattere la povertà, dall'altro è destinato a divenire il nostro pericolo mortale (pericolo ambientale e climatico).

Per Galbraith (Il progresso economico in prospettiva, op.cit.) lo sviluppo economico è un processo differenziato, non è possibile un'unica diagnosi delle cause di sottosviluppo, in pochi casi vi è identità fra cause di arretratezza e condizioni di progresso.
Il capitale fornito a paesi ancora in fasi iniziali di sviluppo è sprecato, lo sviluppo negli stessi paesi sviluppati non dipende dal capitale ma da altri fattori (immaginazione scientifica e tecnica, abilità e qualità della forza lavoro, chiarezza di obiettivi, capacità di utilizzare a pieno le risorse disponibili). Lo sviluppo diventa più facile man mano che si avanza, il differenziale fra i paesi più sviluppati e gli altri aumenta.
Dividere il mondo fra benefattori ed assistiti è sbagliato e nocivo psicologicamente, lo sviluppo è un'impresa in cui il bisogno d'aiuto si accompagna a qualcosa da offrire: il senso di fiducia in se stessi aumenta non con gli aiuti ma con le esportazioni. La disoccupazione nei paesi meno avanzati dipende spesso proprio dall'adozione delle tecnologie dei paesi più evoluti, che sono adatte alle particolari esigenze di quelle economie.
L'organizzazione ed i servizi dei paesi più evoluti non sono la causa ma il risultato del loro sviluppo. Nelle prime fasi dello sviluppo occorre porre le basi amministrative, sociali ed educative necessarie per la crescita successiva.
Contare sul mercato senza pianificazione pubblica significa correre il rischio inaccettabile che poco o nulla si realizzi: le conquiste spaziali, l'energia atomica, l'elettronica dipendono dalla pianificazione, il tipico piano di sviluppo moderno è un piano di investimenti. Un buon piano di sviluppo deve:
- basarsi su una teoria del consumo che abbia una visione chiara dei bisogni del consumatore da servire;
- avere una strategia di progresso economico che distingua le cose essenziali da fare da quelle utili o indifferenti (se ogni cosa diventa essenziale, ciò che lo è veramente sfugge all'attenzione);
- dare rilevanza tanto alle dimensioni visibili delle realizzazioni industriali quanto a quelle invisibili (efficienza, direzione indipendente e sana, qualità dei prodotti, basso costo delle materie prime e della produzione, possibilità di sostituire ed espandere gli impianti).
L'azienda industriale è una personalità sintetica, è la combinazione di molte personalità reali in modo da riuscire a fare ciò che un singolo individuo isolato non riuscirebbe assolutamente. La realizzazione della personalità sintetica dell'ente sociale "azienda" è possibile solo in condizioni di libertà: autonomia significa però allora maggiore responsabilità pubblica per i risultati prodotti.
L'impresa del settore pubblico in un paese sottosviluppato ha come primo obiettivo quello di espandere se stessa.
L'istruzione è insieme una forma di consumo ed una specie di investimento, gli incrementi produttivi dipendono dall'istruzione, specialmente quella di tipo universitario. L'istruzione come consumo implica la possibilità di scegliere il tipo di istruzione preferita, l'istruzione come investimento implica l'adattamento degli studenti alle necessità, che sono maggiori quanto più sono scarsi i mezzi: Galbraith sottolinea in questo caso l'importanza degli incentivi; il paese in via di sviluppo deve adattare il proprio sistema scolastico in funzione delle esigenze peculiari dello sviluppo, adattandone le materie e la preparazione degli studenti alla sua situazione specifica.
L'università, osserva Galbraith, è un'oligarchia del corpo accademico: la democrazia al suo interno significherebbe incoerenza e caos.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Pierre Carniti, LA SOCIETÀ DELL'INSICUREZZA (Città Aperta Edizioni, Enna 2001)
- Franco Debenedetti (a cura di), NON BASTA DIRE NO (ed.Mondadori, Milano 2002)
- John Kenneth Galbraith, LA SOCIETÀ OPULENTA
- John Kenneth Galbraith, IL PROGRESSO ECONOMICO IN PROSPETTIVA (Economic development in perspective)
- Robert Heilbroner, LA PROSPETTIVA DELL'UOMO (An inquiry into the human prospect, 1974)
- Ethan B.Kapstein, GOVERNARE L'ECONOMIA GLOBALE. La finanza internazionale e lo stato (Asterios Editore, Trieste 1994)
- Alfredo Reichlin, Giorgio Ruffolo, RIFORMISMO E CAPITALISMO GLOBALE (Passigli Editori, Firenze 2003)
- Jeremy Rifkin, L'ERA DELL'ACCESSO. La rivoluzione della new economy (ed. Mondadori, Milano 2000)
- Jeremy Rifkin, LA FINE DEL LAVORO (ed.Baldini&Castoldi, Milano 1999)
- Amartya Sen, LO SVILUPPO È LIBERTÀ (Ed. Mondadori, Milano 2000)
- Arnold Toynbee, LA CITTÀ AGGRESSIVA (Cities on the move, 1970)

 

18- ERICH FROMM E L’UNITÀ DEI RIFORMISMI

18-1 VALORI COMUNI

L’idea che vi siano valori comuni che caratterizzano le varie forme in cui si esplica l’azione riformista, consentendo intese, unioni, unificazioni fra partiti riformisti con tradizioni culturali diverse, è un’idea che l’agenda politica italiana ha reso prioritaria per consentire la vittoria elettorale a queste forze, nessuna delle quali singolarmente, nè il riformismo socialista, nè quello cattolico, nè quello liberale, nè quello ambientalista avrebbero i consensi necessari per poter governare da sole.
L’idea, quindi, di arrivare a fondare un unico partito riformista, sintesi di formazioni politiche diverse ma che tutte si riconoscano nell’unico ed unificante metodo di azione politica, è un’idea che nel panorama politico italiano si è fatta avanti dopo che i risultati elettorali anche della cosiddetta “seconda Repubblica” hanno dimostrato, come era peraltro già evidente nella “prima Repubblica” che i riformisti, da soli, non avrebbero mai potuto governare il Paese.
L’idea di valori comuni, unificanti dei vari riformismi, non è però un’idea recente, e non è neppure un’idea originale del nostro Paese. Vi sono infatti, almeno dal punto di vista teorico, importanti precedenti, ed in particolare un autore che, nel corso di tutta la sua produzione intellettuale, ha sempre posto al centro dell’attenzione questa possibilità. L’autore di cui tratteremo in questa sede si chiama Erich Fromm, e la sintesi teorica da lui proposta delle diverse tradizioni culturali che, in campo politico, approdano al riformismo, si chiama Umanesimo.

Nel libro Psicanalisi della Società Contemporanea, Fromm osserva come non vi siano nuovi ideali da perseguire, come i grandi maestri abbiano indicato, con linguaggi diversi, le norme per vivere bene, che possono essere unificate, al di là delle diversità contingenti dei linguaggi, in un unico grande insegnamento umanistico che abbia carattere universale e condiviso; le differenze, infatti, hanno prevalso sulle somiglianze a causa delle chiese e delle gerarchie che si sono impadronite di quelle norme, creando divisioni e conflitti (cit., pag.330).
Lo sviluppo futuro dell'umanità dovrà comportare, secondo Fromm, la decisa negazione di ogni idolatria e la nascita di un sistema di pensiero di carattere universalistico che racchiuda in sè "gli insegnamenti umanistici comuni a tutte le grandi religioni dell'oriente e dell'occidente" (pag.337) e per il quale la pratica di vita possa prevalere sulle credenze dottrinarie, ateistiche, che sono specifiche di ogni singolo sistema di pensiero.
Anche nel libro La rivoluzione della speranza, Fromm individua un insieme di valori comuni nella storia psico-spirituale sia dell'Occidente che dell'Oriente, che egli chiama valori umanistici (pagg.104-106), perché la loro realizzazione è fondamentale per il completo sviluppo dell’essere umano.
L'uomo, osserva Fromm, spesso confonde la sua essenza con una forma particolare di esistenza: le diverse definizioni di uomo (Homo faber, Homo sapiens, Homo ludens, Homo negans, Homo esperans) non chiariscono ciò che è umano in senso universale, perché una definizione assoluta della natura umana non è possibile (pagg.68-71); inoltre, "ognuno porta in se stesso ogni aspetto dell'umanità, ed è santo come criminale" (pag.72): perciò, è possibile per noi una conoscenza dei nostri simili basata su compassione ed empatia (pag.95).
Esiste quindi un continuum che passa dalla libertà al determinismo, attraverso le visioni messianiche (cristianesimo, ma anche Marx) e la loro secolarizzazione (le chiese, il comunismo); occorre che le visioni prevalgano sulla loro ritualizzazioni, le cui forme distruttive si sono manifestate nel corso della storia umana, dall’inquisizione ai gulag.
La fratellanza è il valore comune che soddisfa le due necessità umane, che sono libertà e rapporti comunitari, ovvero indipendenza ma anche appartenenza, essere parte di un tutto (pag.81). Città di Dio e Città Terrena, osserva ancora Fromm in Avere o essere, sono tesi ed antitesi la cui sintesi è la Città dell'Essere (pag.262).
Nel libro Psicanalisi dell’amore Fromm evidenzia come, per le grandi religioni umanistiche, il fine dell'uomo sia quello di superare il proprio narcisismo: le differenze filosofiche e religiose non possono peraltro scomparire del tutto, perché un unico sistema ortodosso condurrebbe a nuovo narcisismo; questa precisazione è di estrema importanza per non ricadere negli errori già commessi nel corso della storia dalla trasformazione dei sistemi di pensiero in chiese: occorre infatti trovare un'esperienza umanistica comune rispettando tutte le differenze. Alle feste nazionali, secondo Fromm, bisognerebbe sostituire feste, solennità e simboli delle Nazioni Unite; i testi di storia andrebbero riscritti come libri di storia universale (cit., pagg.117-122).

18-2 LA SPERANZA COME PREMESSA DEL CAMBIAMENTO

Il cambiamento richiede azione, l’abbiamo visto in precedenza; ma anche la speranza, secondo Fromm, è un elemento fondamentale di ogni tentativo di cambiare la società: Fromm distingue la speranza passiva, che è attesa e rassegnazione, da quella attiva, che è invece la proiezione nel futuro; la fede è convinzione "in ciò che ancora non è stato provato" (La rivoluzione della speranza, cit., pag.20), ed è accompagnata dalla speranza come stato d'animo: entrambe, fede e speranza, sono visioni del presente in stato di gestazione.
I grandi cambiamenti non si possono fondare sulla sfiducia (come il “Grande Rifiuto” di Marcuse), nè i conflitti possono scomparire semplicemente con la soddisfazione materiale dei bisogni (pag.126). L'alternativa alla speranza è la mania di distruzione: eros contro thanatos (pag.30).
In Avere o essere, Fromm osserva come i sacrifici necessari per mutare il nostro modo di vita siano tali da far preferire una catastrofe futura, mentre i leaders politici il più delle volte fingono di operare efficacemente, attraverso trattative e conferenze senza fine (cit., pagg.25-26).
La nuova società , secondo Fromm, deve essere caratterizzata da crescita selettiva, sicurezza, soddisfazione psicologica, decentramento, partecipazione alle decisioni, informazione, sviluppo scientifico, democrazia industriale, "liberazione delle donne dal dominio patriarcale" (pag.248), reddito minimo garantito, disarmo atomico.
L'arte di essere (pagg.221 e seguenti) riguarda :
1) uno scopo supremo dell'esistenza che è la piena crescita di se stessi e dei propri simili;
2) due negazioni, e cioè la rinuncia al proprio narcisismo, ad adorare idoli, alle illusioni, ma anche la rinuncia a tutte le forme di avere, possedere, controllare, ecc.;
3) attività positive quali sono il rispetto di ogni forma di vita, dare e condividere, lo sviluppo della propria capacità di amare e di pensare in maniera critica, lo sviluppo della propria fantasia come anticipazione di possibilità concrete, conoscere se stessi, essere presenti, far propria una libertà che non sia arbitrarietà, essere consapevoli che nessuno e nulla fuori di noi può dare significato alla nostra vita e che male e distruttività sono conseguenze necessarie del fallimento del nostro proposito di crescere.
Nel libro Voi sarete come dei, Fromm analizza l'atteggiamento negativo della speranza dinamica, che è paradossale perché accetta la tesi secondo cui la salvezza può arrivare subito come fra molte generazioni future, e tende perciò ad alienarsi nella idolizzazione del futuro: adorazione della posterità in Robespierre e Diderot, Leggi della Storia per marxismo e comunismo, fondamentalismi religiosi (pagg.105-106).
Mentre i comportamenti degli animali sono determinati dall’istinto, l'immaginazione è specificamente umana come lo è l'autocoscienza, e fa sì che l'uomo possa essere buono o cattivo: "il problema del bene e del male sorge solo quando c'è l'immaginazione" (cit., pag.109).

18-3 L’UMANESIMO COME STELLA POLARE DEL RIFORMISMO

Nell'introduzione al libro L'umanesimo socialista, Fromm definisce l'umanesimo come "la fede nell'unità della razza umana e nella capacità dell'uomo a perfezionare se stesso con i propri sforzi" (cit., pag.5).
Egli condivide le affermazioni di Terenzio e di Goethe secondo cui ciascun individuo porta in sè tutta l'umanità e nulla di ciò che è umano, nel bene e nel male, gli può essere estraneo. Gli umanisti credono nella possibilità dell'uomo di rendere perfettibile se stesso unicamente con i propri sforzi; l'umanesimo emerge nella storia come reazione a minacce: nel Rinascimento come reazione al fanatismo religioso, nell'Illuminismo come reazione al nazionalismo estremo, nella seconda metà del XX secolo come reazione all'alienazione ed alle armi nucleari (pag.6). Nel nostro tempo, verrebbe da aggiungere, l'umanesimo può emergere come reazione alle minacce fondamentaliste, alle diseguaglianze ed alla distruzione progressiva dell'ambiente terrestre.
I primi due umanesimi (del Rinascimento e dell'Illuminismo) pensavano che l'istruzione potesse svolgere il compito di trasformare l'uomo in un essere completo; Marx individuò l'importanza del sistema sociale ed economico, ma individuò nel proletariato la classe-guida della trasformazione, mentre oggi possiamo vedere che esiste una alienazione del benessere tanto disumanizzante quanto l'alienazione della povertà (pagg.6-7).
Per Marx, secondo Fromm, era fondamentale l'optimum di consumo anzichè il maximum, la troppa ricchezza rende prigioniero l'individuo della propria avidità e gli impedisce di divenire pienamente umano come la troppa miseria (pag.264).
L'essenza dell'uomo consiste nelle sue diverse possibilità di risolvere la propria contraddizione esistenziale: esistere nella natura, "in un luogo e tempo accidentali", e nello stesso tempo esserne trascendente, senza istinti ma cosciente "di se stesso, degli altri, del passato e del presente" (cit., pag.270).
In Psicanalisi della Società Contemporanea, Fromm parla di umanesimo normativo per individuare criteri di giudizio universali in base ai quali valutare il grado di salute di una società; esiste infatti una deficienza socialmente strutturata nelle società occidentali, in cui i mass media svolgono la funzione di narcotico: come esiste la follia individuale, osserva, esiste anche una folie à millions (pag.23).
In Avere o essere Fromm osserva come un reddito annuo minimo garantito sia fondamentale per accrescere la libertà umana, ad esempio permettendo di cambiare lavoro (pag.148 e seguenti). Occorre anche indirizzare diversamente i consumi: vi sono beni e servizi che dovrebbero essere gratuiti, come lo sono già ora l'aria e l'istruzione inferiore; fra questi, l'istruzione superiore, i beni fondamentali, i trasporti (pag.151); la pubblicità, per Fromm, è "uno dei più gravi attentati al diritto del privato di sapere ciò che desidera" (pag.47): servono perciò restrizioni legali alla pubblicità e leggi fiscali per disincentivare la produzione di cose inutili e dannose (pagg.145-146).
Il socialismo, per Fromm, resta la sola soluzione costruttiva: socialismo umanistico e democratico, socialismo comunitario, implicando con ciò la socializzazione dei partiti socialisti (Psicanalisi della società contemporanea, cit., pagg.266-273, 314); il riformismo può essere superficiale, quando si limita a correggere i sintomi ma non le cause, oppure radicale: ma non vi può essere progresso se non è integrato fra le sfere economico-sociale, spirituale e psicologica, "la vera misura della riforma non è il suo ritmo ma il suo realismo" (pag.263).

La concezione umanistica è stata criticata da Norberto Bobbio: Umanismo di Marx, di Rodolfo Mondolfo, uscì nel 1968, anno della crisi cecoslovacca; fu in quell'occasione, rileva Bobbio, che venne coniata l'espressione socialismo dal volto umano (L'Umanesimo socialista da Marx a Mondolfo, cit., pag.7), una novità in quanto da allora il socialismo veniva per la prima volta distinto al suo stesso interno (e non più solo dagli oppositori) in socialismo dal volto umano (socialdemocrazia) e socialismo dal volto disumano (comunismo, stalinismo).
L'umanismo di Mondolfo, riferito al socialismo, è una concezione generale della storia e un'etica:
- la storia è fatta dagli uomini e non da forze che li trascendono;
- l'etica umanistica comporta il concetto di riappropriazione della propria umanità da parte dell'uomo (pag.5), dopo aver constatato le condizioni disumanizzanti in cui si trova a vivere l'uomo storico rispetto ad una sua immagine ideale (uomo autentico, totale, come dovrebbe essere, ecc.).
Secondo Bobbio, tuttavia, l'espressione "umanismo" è carica di suggestione emotiva, viziata da retorica di tradizione spiritualistica, evanescente dal punto di vista concettuale (pag.8).
Mondolfo non è nè fatalista (non crede al solo primato delle condizioni oggettive), nè volontarista (non crede al solo primato delle forze soggettive), ma cerca di volta in volta di mediare le due tesi (pag.13).
Ma il concetto di umanesimo è ambiguo anche nel suo significato etico, le immagini di uomo (e pertanto anche di umanesimo) sono tante quanti i sistemi filosofici e religiosi (pag.9); Bobbio propone l'esempio delle due etiche, stoicismo ed epicureismo, che divisero il mondo antico fra etica della virtù ed etica del piacere: ma qual è superiore, la vita attiva o la vita contemplativa ? Homo faber o homo ludens ? All'immagine dell'uomo nuovo si è poi aggiunta quella della donna nuova, ed i diversi umanismi sono stati spesso concezioni dell'uomo in quanto tale, virtù maschili (p.10).

Bobbio però criticava Mondolfo, non direttamente le teorie di Fromm, che nel libro La disobbedienza e altri saggi descrive in modo più approfondito i principi fondamentali dell'umanesimo come concezione globale dell'uomo, che sono l'unicità della nostra specie (tutto ciò che è umano è in ciascuno di noi), l'importanza della dignità umana, la capacità di autoperfezionamento ed autosviluppo dell'uomo, la ragione, l'obiettività e la pace (cit., pag.61).
Tutti noi abbiamo tutte le possibilità dentro noi stessi (buone e cattive), e per questo è possibile comprenderci (e capire anche il nostro inconscio, pag.65).
L'umanesimo si sviluppa storicamente come reazione a minacce contro l'uomo (pag.67); il socialismo è stato inteso erroneamente come movimento economico, come nazionalizzazione dei mezzi di produzione, ma il principio supremo del socialismo è che "l'uomo ha la precedenza sulle cose, la vita sulla proprietà, e quindi il lavoro sul capitale; che il potere consegue alla creazione, e non al possesso; che gli uomini non devono essere governati dalle circostanze, ma al contrario le circostanze dagli uomini" (cit., pag.96).
In Psicanalisi dell’amore, Fromm osserva come Freud, Spinoza, ma anche lo stesso Marx, non furono deterministi bensì alternativisti: "l'uomo può spezzare le catene della necessità se è consapevole delle forze che operano a sua insaputa, se fa lo sforzo enorme di vincere la propria libertà " (pag.191).
Per il socialismo umanistico (La disobbedienza e altri saggi, op.cit.):
A) la pace non può essere solo assenza di guerra, che è la sua definizione negativa, ma deve essere in positivo collaborazione fra gli uomini, pace come stato di armonia, disarmo (pagg.96, 129 e 151); i sistemi sociali ed economici infatti, per Fromm, sono insiemi di rapporti umani e le strategie della pace impongono la lotta contro gli idoli, il riconoscimento di interessi reciproci, la mobilitazione collettiva (pagg.95 e 166-169).
B) la libertà è libertà da paura, bisogno, oppressione, violenza ma anche libertà di partecipare e sviluppare il proprio potenziale umano, secondo la lezione di Berlin (pag.97).
C) occorre arrivare all'abolizione della sovranità nazionale, da sostituire con una comunità di nazioni (pag.103).
D) la democrazia è politica, partecipazione informata ai processi decisionali, ma è anche industriale.
Per realizzare il socialismo umanistico, secondo Fromm, occorre però individuare obiettivi intermedi da raggiungere, nei quali un certo grado di pianificazione e di Stato può servire per raggiungere la meta finale, che è caratterizzata invece da cooperazione e dallo stato minimo (pag.99). Fromm auspica anche la costituzione di assemblee cittadine e la decentralizzazione (pag.102); evidenzia, a pagg.80-81 del libro cit., come la burocrazia possa trasformare la democrazia in rituale e distingue i profeti, che enunciano idee originali, dai sacerdoti che invece utilizzano idee altrui (pag.43).
La felicità non può essere definita in un solo modo, non è un concetto univoco, ma non può neppure essere la possibilità di fare quello che si vuole; l’alternativa alle etiche autoritarie non è l’etica del laissez-faire: l'autorità irrazionale, fondata sulla suggestione e sulla forza, non va sostituita col laissez-faire ma con autorità razionali, basate sulla competenza (pagg.70 e 104).
Nell'arte, il socialismo si propone di giungere ad eliminare la distinzione fra chi la produce e chi la consuma: non è semplicemente un insieme di atti di riforma, non è solo un programma economico, sociale, politico ma è un programma umano mosso "dall'aspirazione ideale a una società migliore dell'attuale" e che però sia fondata su potenzialità concrete (pag.112).
Nel libro L’amore per la vita, Fromm rileva che privato e pubblico non possono essere divisi, le cognizioni di sè e della società sono inseparabili (pag.133). L'amore per i propri simili è strettamente legato alla compassione, il cui contrario è l'indifferenza: "chi sa amare un unico suo simile, non ama nessuno" (pag.168).
Si può fare senza avere uno scopo: il fare senza scopo, osserva Fromm, è l'autoespressione dell'individuo: "quanto di più bello c'è nella vita consiste nel dare espressione alle proprie forze, e non già con uno scopo, ma per amore dell'atto in sè " (pag.105).
Nella concezione biblica, qualsiasi intervento umano è lavoro, mentre il riposo è uno stato di pace fra uomo e natura e il Sabato è il giorno di tale armonia; l'idea profetica di pace è quindi armonia non solo fra gli uomini ma anche fra uomo e natura (pagg.85 e 132).
Nel libro Voi sarete come dei, Fromm sottolinea il carattere rivoluzionario del Vecchio Testamento, il cui tema principale è "la liberazione dell'uomo dai legami incestuosi del sangue e della terra, dalla sottomissione agli idoli, dalla schiavitù, dai padroni potenti" (pag.9) e ne dà una interpretazione nel senso dell'umanesimo radicale, una filosofia globale che si può ritrovare anche negli scritti di Amos, Socrate, Kant, Herder, Lessing, Goethe, Marx, Schweitzer e degli umanisti del Rinascimento e dell'Illuminismo (pag.13).
Il punto centrale dell'Antico Testamento è la lotta contro l'idolatria, il fine dell'agire umano è un processo costante di auto-liberazione dalle catene della natura, del passato, del clan, degli idoli, della schiavitù (pagg.32 e 50). L'obbedienza a Dio ed alle sue leggi aiutò l'uomo a liberarsi dai legami incestuosi primari (natura, clan, madre, sangue, terra), che è la condizione per l'evoluzione umana; l'indipendenza completa è però difficile, ed è multiforme: dalla nazione, dal gruppo sociale, dal denaro, dai propri successi e dal proprio narcisismo (pag.52-62).
La vita e la morte nella Bibbia non sono fatti biologici ma valori e principi, si può essere morti ma vivi biologicamente (pag.122); gli ebrei, secondo Fromm, proprio a causa della loro tragedia storica, furono capaci di mantenere una cultura umanistica (pag.15).
L'uomo è fragile, debole, ma è un sistema aperto (pag.55).
Il riformismo è un sistema aperto.

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:

- Norberto Bobbio, L’UMANESIMO SOCIALISTA DA MARX A MONDOLFO (in AA.VV. L'Umanesimo Socialista di Rodolfo Mondolfo, Milano 1977)
- Erich Fromm, PSICANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
- Erich Fromm, LA RIVOLUZIONE DELLA SPERANZA
- Erich Fromm, DALLA PARTE DELL'UOMO. Indagine sulla psicologia della morale (1947/ed. Astrolabio, Roma 1971)
- Erich Fromm, PSICOANALISI DELL'AMORE. Necrofilia e biofilia nell'uomo (The Heart of Man. Its genius for good ad evil, 1964/Newton Compton, Roma 1971)
- Erich Fromm, AVERE O ESSERE?
(ed. Mondadori, Milano 1977)
- Erich Fromm, LA DISOBBEDIENZA E ALTRI SAGGI (1981/ed. Mondadori, Milano 1982)
- Erich Fromm, VOI SARETE COME DEI. Un'interpretazione radicale del Vecchio Testamento e della sua tradizione (1966/ed. Astrolabio-Ubaldini, Roma 1970)
- Erich Fromm, AMORE, SESSUALITÀ E MATRIARCATO (1994/ed. Mondadori, Milano 1997)
- Erich Fromm, L'AMORE PER LA VITA. Letture radiofoniche (1983/ed. Mondadori, Milano 1984)
- Erich Fromm, L'UMANESIMO SOCIALISTA. Introduzione e L'applicazione della psicoanalisi umanista alla teoria di Marx (in Socialist Humanism An International Simposium, 1965/ed. Rizzoli-BUR, Milano 1981)
- Erich Fromm, L'UOMO SECONDO MARX (Marx's concept of man, in Alienazione e sociologia, ed. Franco Angeli, Milano 1973)