di Gianpiero Magnani
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- INDICE :
PREMESSA
1- UNA TEORIA DEL RIFORMISMO
2- LE PREMESSE ANTROPOLOGICHE DEL RIFORMISMO
3- IL RIFORMISMO COME TEORIA E PRATICA DELLA POLITICA
4- I LUOGHI COMUNI DEL RIFORMISMO
5- LE CATEGORIE DEL RIFORMISMO
6- MORFOLOGIA DEL RIFORMISMO
7- RIFORMISMO E POLITICHE PUBBLICHE
8- RIFORMISMO E SOCIALISMO
9- I NEMICI DEL RIFORMISMO
10- RIFORMISMO E CASI CRITICI
11- RIFORMISMO E PROGRESSO MORALE
12- RIFORMISMO E DEMOCRAZIA
13- RIFORMISMO E LIBERTÀ
14- RIFORMISMO E TEORIE DELLA GIUSTIZIA
15- RIFORMISMO, INDIVIDUALISMO, CONTRATTUALISMO
16- RIFORMISMO, DIRITTI, GUERRE GIUSTE E INGIUSTE
17- IL RIFORMISMO E L’ECONOMIA GLOBALE
18-ERICH FROMM E L’UNITÀDEI RIFORMISMI
PREMESSA
Questo testo sul riformismo vuole essere, prima di tutto, un invito alla lettura, con tutti i limiti impliciti in un’operazione del genere: l’invito alla lettura di libri che possano suggerire, direttamente o indirettamente, quegli approfondimenti che sono necessari per chiunque intenda impegnarsi attivamente – e soprattutto costruttivamente – in politica. Libri recenti e meno recenti: in alcuni casi analizzeremo testi che hanno maturato già alcuni decenni dalla loro prima edizione, ma nei quali potremo trovare inaspettati ed importanti riferimenti al nostro tempo, al mondo di oggi, così diverso da quello in cui quegli stessi libri erano stati scritti. Conoscere la teoria politica, infatti, è molto importante: la storia dimostra che quello che diciamo e che pensiamo produce conseguenze sulle nostre vite, su quelle dei nostri simili e su quelle delle generazioni future; a seconda di quello che pensiamo, diciamo e quindi facciamo, le conseguenze possono essere buone o cattive, positive o negative, costruttive o distruttive. Talvolta possono essere anche molto distruttive, come la storia del Novecento ci ha ampiamente mostrato: conseguenze terribili, da non ripetere.
1- UNA TEORIA DEL RIFORMISMO
In questo saggio sosterrò la tesi secondo cui il riformismo è il più potente ed efficace strumento di cambiamento a disposizione della politica: è uno strumento potente, quindi di potere, ma che nello stesso tempo sa utilizzare il potere in modo efficace, cioè per produrre risultati costruttivi. Altri strumenti della politica sono parimenti e forse anche più potenti, come le rivoluzioni politiche, ma non sono altrettanto efficaci in quanto si risolvono in esiti che sono quasi sempre disastrosi; vi sono poi strumenti della politica che sono efficaci, come la buona amministrazione, che però non sono fonti potenti del cambiamento, mentre altre soluzioni non politiche possono essere strumenti efficaci ma non potenti di cambiamento, come la beneficenza e le attività di volontariato che determinano risultati singoli eccellenti ma scarsi esiti collettivi. Potremmo affermare che il riformismo è la soluzione per ottenere risultati “macro” laddove il terzo settore incide con soluzioni “micro”.
Il riformismo è una categoria del pubblico, non ha a che fare col
privato, con la felicità, coi piani di vita individuali se non nel fatto che,
nel realizzare riforme più o meno buone, più o meno eque, più o meno efficaci,
il riformismo determina conseguenze che hanno riflessi sui piani di vita
individuali: il pubblico incide sul privato; non solo con le attività di
riforma, naturalmente: anche i nemici del riformismo incidono sul
privato (negativamente), e spesso assai più di quanto (positivamente) possa
fare il riformismo. Come abbiamo accennato in premessa, la storia del Novecento
è ricca, purtroppo, di conseguenze terribili causate dall’azione politica di
persone che riformiste non erano.
L'unica rivoluzione, peraltro non politica, che può competere per potenza ed
efficacia col riformismo è la rivoluzione tecnologica, quando i suoi esiti sono
collettivi: elettricità per tutti, automobili per tutti, internet per tutti e
via dicendo. Viceversa le rivoluzioni politiche, che sul breve periodo sembrano
in grado di produrre trasformazioni epocali, in realtà nel periodo lungo si
risolvono in disastri; il riformismo, graduale nel breve periodo, dimostra
invece tutta la sua capacità di trasformazione proprio nel lungo periodo: si
potrebbe argomentare che, a lungo termine, il riformismo è l’unico processo
politico autenticamente rivoluzionario.
Poiché è l'unico strumento politico insieme potente ed efficace per determinare
cambiamenti (in economia, nella società, nelle istituzioni, ecc.), poiché è
l’unico vero strumento pubblico del cambiamento, il riformismo è da sempre il
nemico principale di coloro che intendono in modo diverso la politica e
l'azione che ne consegue: conservatori, massimalisti, integralisti, populisti
hanno i riformisti come loro principali nemici, da sempre e ovunque nel mondo.
I nemici del riformismo, solitamente, sono anche nemici della democrazia e
della “società aperta”: esiste infatti un nesso inscindibile fra democrazia e
riformismo, il riformismo ha bisogno della democrazia per esistere, la
democrazia si rafforza con riforme ben riuscite. Gran parte dei nemici del riformismo,
guarda caso, sono anche nemici della democrazia.
Il riformismo cambia il mondo, e lo cambia in meglio: in ciò sta la sua forza,
perciò è contestato, attaccato, colpito.
1-2 IL RIFORMISMO COME CATEGORIA DEL PUBBLICO
Il rapporto fra governanti e governati, osserva
Norberto Bobbio (L’età dei diritti, op.cit.), è il rapporto politico per
eccellenza, e può essere considerato dal punto di vista dei governanti oppure
da quello dei governati: gran parte della storia e del pensiero politico hanno
visto prevalere il primo punto di vista, spesso con grandi metafore (pastore,
nocchiero, tessitore, medico). La teoria e la pratica riformiste, al contrario,
vedono prevalere il punto di vista dei governati.
Inoltre, ancora un secolo fa si riteneva che il sistema politico fosse
autosufficiente e indipendente dal sistema sociale globale, ovvero che fosse il
sistema dominante: ciò che oggi è divenuta oggetto di cambiamento, invece, è
una determinata forma di società di cui lo Stato è soltanto un elemento.
Il riformismo, pertanto, pur rientrando nel rapporto fra governanti e
governati, cerca di assumere il punto di vista dei governati per introdurre
cambiamenti nel sistema sociale nel suo complesso, oltre che nella struttura
dello Stato che ne è una parte.
In un altro libro, (Stato, governo, società, op. cit.) Norberto Bobbio
analizza la dicotomia fra (diritto) pubblico e privato, che riflette l'avvenuta
differenziazione sociale e sancisce la supremazia del primo termine sul
secondo; la dicotomia può avere un uso descrittivo e uno valutativo. Nel suo
uso descrittivo, la distinzione fra pubblico e privato comprende altre
distinzioni:
- quella fra società di eguali e società di diseguali (in questa
categoria rientrano anche le distinzioni fra governanti e governati, e fra società
economica e società politica);
- quella fra legge e contratto (che distingue in particolare i vincoli
derogabili e quelli inderogabili);
- quella fra giustizia commutativa (ugual valore degli scambi in società
di uguali) e giustizia distributiva (a ciascuno secondo un preciso
criterio che può essere il merito, il bisogno, il lavoro, in società di
diseguali).
Casi limite, osserva Bobbio, sono la famiglia, che è una società di diseguali
retta da principi di giustizia distributiva, e la società internazionale, che è
una società formalmente di eguali retta dalla giustizia commutativa.
In un altro significato, infine, pubblico si contrappone a segreto.
Nel suo uso valutativo, invece, la dicotomia pubblico/privato si risolve nella
concezione del primato del privato (diritto di proprietà, concezione liberale
dello Stato) o del primato del pubblico (il tutto viene prima delle parti,
Stato interventista, Stato totale, primato della politica sull'economia,
primato dell'organizzazione verticale o diretta dall'alto sull'ordine sociale
spontaneo).
È evidente che il riformismo, collocandosi nella categoria del pubblico, è uno
strumento di intervento che, per agire, richiede comunque il primato della
politica e dello Stato interventista: non è detto, tuttavia, che i suoi
risultati finali possano consistere nel rafforzamento dello Stato e della
politica. Il riformismo è, infatti, un metodo politico, pubblico, di azione per
conseguire obiettivi che sono da determinare e che possono non coincidere
necessariamente col rafforzamento del pubblico e col politico.
La privatizzazione del pubblico nelle società più avanzate, osserva ancora
Bobbio, si manifesta nella contrattazione collettiva (sindacati) e nei rapporti
fra i partiti: lo Stato è il luogo dove si compongono, si scompongono e si
ricompongono i conflitti, attraverso accordi rinnovati, "rappresentazione
moderna della tradizionale figura del contratto sociale" (cit., pag.17).
La sicurezza sociale, osserva Giuseppe Pennini (Lo stato sociale, cit.), comprende misure pubbliche nei campi della sanità, dell’assistenza e della previdenza, istituzionalizzando così interventi che in passato erano fondati solo su basi volontaristiche (associazioni caritatevoli e mutualistiche); il pioniere dello stato sociale fu Bismarck, che ne fece lo strumento per integrare nell'unità nazionale tedesca tutti coloro che avevano i redditi più bassi. Da allora, tutte le forme di stato sociale si sono sviluppate secondo due modelli principali, un modello universalistico che riconosce le sue prestazioni a tutti i cittadini, ed un modello particolaristico che discrimina invece i beneficiari in base al loro status e che maggiormente si presta a gestioni clientelari: lo stato sociale diventa così "autoreferenziale", fattore di stabilizzazione di interessi particolaristici piuttosto che elemento di equità e di modernizzazione; per funzionare richiede economie caratterizzate da lavoro dipendente fisso e a tempo pieno, il suo elevato costo è la causa di "crisi fiscali" che ne fa una variabile in grado di condizionare lo stesso sistema economico, determinando distorsioni talvolta anche maggiori di quelle che avrebbe dovuto risolvere. Da qui la reazione, volta non ad ottenere il suo riassetto, ma il suo ridimensionamento, dal reaganismo al tatcherismo.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Norberto Bobbio, L’ETÀ DEI DIRITTI (ed.Einaudi,
Torino 1990)
- Norberto Bobbio, STATO, GOVERNO, SOCIETÀ (ed.Einaudi, Torino 1985)
- Giuseppe Pennisi, LO STATO SOCIALE (in MondOperaio, agosto-settembre 1992)
2- LE PREMESSE ANTROPOLOGICHE DEL RIFORMISMO
2-1 IL CAMBIAMENTO È NELLA NATURA DELL’UOMO
Le premesse su cui si fonda il riformismo sono antropologiche; dire che il riformismo è nella “natura dell’uomo” non è fare un’affermazione generica priva di fondamenti: l'uomo, osserva Antonio Polito (Non basta dire no op. cit.), è un animale abitudinario che si adatta solo progressivamente ai cambiamenti ed il compito principale del riformismo è proprio quello di aiutarlo a muoversi nel cambiamento con efficacia e con giustizia. Il riformismo è il più potente ed efficace strumento di cambiamento a disposizione dell’umanità: è uno strumento politico, pubblico, per cambiare in meglio le regole del gioco collettivo.
Secondo Erich Fromm (La rivoluzione della
speranza, op.cit.), sia la vita che l'individuo che la società stessa sono
processi dinamici che tendono a superare lo status quo, in meglio o in peggio;
quello che conta è dove dirigere il nostro agire, verso un'alternativa o verso
un'altra, e quando ci si ferma, inizia la decadenza (cit., pagg.23-24).
Le condizioni dell'esistenza umana, secondo Fromm, sono dovute al minore
condizionamento degli istinti ed al maggiore volume del cervello; l'uomo
perciò, diversamente da tutte le altre specie animali, ha la necessità di
costruirsi uno schema di orientamento ed uno schema di devozione
(pag.76).
Lo schema di orientamento aiuta l'uomo a decidere ed è necessario per superare
l'insicurezza che consegue al venir meno dell'istinto: "l'uomo si trova di
fronte a diverse alternative e rischia di sbagliare in ogni decisione che
prende" (cit., pag.73); schemi di orientamento sbagliati, osserva Fromm,
sono particolarmente pericolosi: la storia del Novecento è costellata di
vittime, dovute al nazifascismo, al comunismo, al nazionalismo, all’integralismo
religioso, a due guerre mondiali e a numerosi altri conflitti locali, tutti
conseguenze di schemi di orientamento e di devozione a dir poco sbagliati, i
cui risultati negativi sono stati ampiamente studiati dall’analisi storica e
sono peraltro ben noti a tutti.
In Avere o Essere (op.cit.) Erich Fromm osserva che l’uomo è come un
recipiente che mentre lo si riempie, ingrandisce, così che non sarà mai pieno
(cit., pag.93); la determinazione istintuale minima che caratterizza la specie
umana rende necessari i sistemi referenziali di orientamento, che sono come mappe,
e gli oggetti di devozione, che sono simili a mete, mappe e mete che
peraltro non sono mai del tutto esatte e mai del tutto sbagliate: ogni cultura,
passata, presente, futura, comprende sia i mezzi di orientamento che gli
oggetti di devozione, vale a dire una religione; l'atteggiamento
religioso è pertanto un aspetto della struttura caratteriale dell’individuo, e
come tale è necessario all’uomo (pagg.177-181).
La nostra coscienza, prosegue Fromm ne La rivoluzione della speranza, è
determinata dal filtro sociale che comprende il linguaggio, la logica, i
tabù, e quindi dalla struttura della società (pagg.84-85); le soluzioni vitali,
egli osserva, contano di più della soluzione migliore, la verità è approssimazione
crescente, la storia dell'uomo è caratterizzata da una presa di coscienza
crescente, sia della sua natura interna che di quella esterna (pagg.74-78).
Nel libro Dalla parte dell’uomo (op.cit.),
Erich Fromm osserva come la nostra specie sia un'anomalia dell'esistenza
animale, ma la nostra debolezza biologica, la nostra carenza di istinti, è
anche alla base della nostra forza, perché ci rende consapevoli di noi stessi,
sviluppa l’immaginazione, la ragione, le concezioni del passato, del futuro ed
anche della morte (cit, pag.39); l’esistenza umana è però dicotomica: è
parte della natura eppure la trascende, è caratterizzata da una condizione
di squilibrio, l’uomo è l'unico animale che può annoiarsi e la cui
esistenza diventa un problema (pag.40).
Alle dicotomie esistenziali si aggiungono poi le contraddizioni
storiche, che non vanno confuse con le dicotomie esistenziali e che,
diversamente da quelle, possono essere risolte: il progresso è la
reazione alle contraddizioni storiche mediante l’azione; anche se Fromm non
parla mai di “riformismo”, è evidente il nesso, tanto più che egli stesso, a
pag.42 del volume cit., osserva che le ideologie negano le contraddizioni
storiche, e quindi non sono capaci di risolverle.
Tutte le conquiste umane, osserva ancora Fromm, nascono da condizioni di
abbondanza (pag.142): ma mentre il problema della produzione nelle
società moderne è virtualmente risolto, rimane il problema della "organizzazione
della vita sociale" (pag.110); i mezzi sono divenuti indipendenti dai fini
e li hanno sostituiti (pag.147).
Negli individui troviamo insieme biofilia e necrofilia, che sono
orientamenti totali, modi di essere, ed è fondamentale vedere quale
orientamento predomina, consapevoli però che l'istinto di vita è sempre la
potenzialità primaria: l'orientamento biofilo più elementare è la tendenza a
conservare la vita ed a combattere la morte, per l'etica biofila il bene è
rispetto per la vita (Albert Schweitzer). La biofilia necessita però di abbondanza,
sia economica che psicologica, mentre la penuria incoraggia la
necrofilia: l'amore per la vita è contagioso e si sviluppa in società
caratterizzate da sicurezza, giustizia e libertà (cit., pagg.59-69).
Nel libro Amore, sessualità e matriarcato (op.cit.) Fromm osserva invece
come le differenze sessuali siano meno importanti delle differenze
caratteriologiche che esistono fra persone dello stesso sesso, "le
differenze radicate nella diversità sessuale non sembrano autorizzare
l'attribuzione di ruoli diversi all'uomo e alla donna in una qualsiasi società
" (cit., pag.151); la differenza sessuale è una fra le tante, come
l'individuo introverso e quello estroverso, tutte differenze che possono
aiutare o limitare lo svolgimento di certi lavori; i bambini, osserva ancora
Fromm, hanno volontà e passioni e vanno presi seriamente (pag.121).
Nel libro L’amore per la vita (op.cit.) egli osserva che l'uomo è più
crudele e distruttivo dell'animale, la cui aggressività è infatti condizionata
biologicamente: l'iperaggressività è potenzialmente presente nel
carattere dell'uomo, è una possibilità, una predisposizione ma non è una
necessità (pagg.55-57).
Come l'animale, l'uomo può reagire agli attacchi in due modi, con l'aggressione
o con la fuga; secondo Fromm, però, nell'uomo vi sono due tipi di aggressività,
quella biologicamente condizionata, difensiva, e quella che si manifesta come
crudeltà, necrofilia, sadismo (pagg.65-66). L'aggressività difensiva è però
maggiore nell'uomo rispetto agli animali perché l'uomo può immaginare il futuro
e sperimentare la minaccia come possibilità, mentre l'animale reagisce solo nel
presente; inoltre l'uomo, diversamente dall'animale, è suggestionabile con
parole e simboli, e quindi può persuadere i propri simili di essere minacciati,
nella vita o nella libertà: un attacco contro ideali, istituzioni, persone
particolari viene infatti inteso dall'uomo come un attacco alla propria vita.
Nel libro La disobbedienza e altri saggi (op.cit.) Fromm osserva come la
storia umana sia iniziata e sia evoluta con atti di disobbedienza (i
miti di Adamo ed Eva e di Prometeo); la disobbedienza può essere un atto contro,
di ribellione, o per qualcosa, per affermare la ragione (cit., pag.49).
Libertà e disobbedienza sono inseparabili: se si proclama la libertà non si può
bandire la disobbedienza (pag.17).
Fromm distingue l'obbedienza eteronoma che è sottomissione verso
un'autorità (la quale può essere razionale oppure irrazionale) dall'obbedienza
autonoma, cioè alla propria coscienza, che però anch'essa può essere
umanistica oppure autoritaria (cit., pag.14); ciò che fa la differenza, perciò,
non è se si obbedisce a se stessi o ad altri, ma se la fonte di autorità è
razionale oppure irrazionale, umanistica oppure autoritaria: il riformismo
incoraggia l’autorità razionale, umanistica, e combatte quella irrazionale,
autoritaria.
Il carattere sociale, osserva ancora Fromm, fa sì che la persona voglia
fare ciò che deve fare, è energia psichica utile al funzionamento di una
data società perché crea soddisfazione rispetto alle condizioni che impone, è l'intermediaria
fra la base economica e gli ideali prevalenti in quella società; i genitori
sono agenti della società (cit. pagg.26-28).
La minaccia dell'ostracismo, del totale isolamento, è più efficace della stessa
minaccia di morte: l'uomo è infatti l'unico animale che è capace di amare la
morte e ciò che è morto, è l'unico che può annoiarsi, è anche l'unico che si
sente minacciato da pericoli futuri oltre che immediati, pericoli che possono
colpire non solo interessi vitali ma anche simboli e valori (pagg. 38, 59, 85,
161).
L'essenza dell'uomo non è perciò una sostanza ma una contraddizione: è
quella di essere nella natura eppure di trascenderla; la religione,
secondo Fromm (Psicanalisi e religione, op.cit.), è "ogni
sistema di pensiero e d'azione, condiviso da un gruppo, in cui l'individuo
trovi orientamento e insieme un oggetto di devozione" (pag.25).
Nessuna società umana, sottolinea Fromm, è concepibile senza religione,
definita in senso ampio; ogni uomo ha infatti bisogni religiosi, che si
manifestano in modi diversi: la domanda non è perciò se un uomo sia religioso
oppure no, ma quale è la sua religione, se è umanistica oppure autoritaria,
caratterizzata da valori o limitata ad inseguire idoli (pag.28).
Nell’ultimo capitolo di questo libro, dedicato alla
visione unitaria dei riformismi, torneremo sulle teorie di Erich Fromm. Ma per
capire concretamente cosa egli intenda per religione umanistica, è sufficiente
leggere questo passaggio di Antonino Zichichi su Sandro Pertini nel libro Perché
io credo in Colui che ha fatto il mondo (op.cit., pag.176):
”A un certo punto il Presidente Pertini mi disse: 'Vede, Professore, accade che
qualche mio vecchio compagno, venendo qui, mi chieda come mai io ho lasciato
quel Crocefisso lì, invece di rimuoverlo dallo studio del Presidente della
Repubblica. Gli rispondo che non lo farei mai per due motivi. Primo, perché ho
un grande rispetto e una profonda ammirazione per quell'uomo finito sulla croce
per dire cose giuste. Secondo, perché quel Crocefisso è da molti - lei è tra
questi, io no - amato e venerato’. 'E io gliene sono grato’ risposi 'per averlo
lasciato lì.' 'Però ' aggiunse Pertini 'lei dovrebbe dire al Papa, da lei tanto
amato, che lei ha un amico ateo.'
Cosa che puntualmente riferii al Santo Padre. E Giovanni Paolo II mi disse:
'Quando avrà occasione di incontrare il Presidente Pertini gli dica: 'il Papa
mi ha detto che lei la Fede ce l'ha negli occhi '.”
2-2 PROSPETTIVA STORICA E RIFORMISMO
Il futuro, osserva Hans Heinz Holz nella sua Introduzione
al libro Dialettica e speranza di Ernst Bloch (op.cit.), è la dimensione
temporale costitutiva degli esseri umani, che diventa speranza nel
singolo individuo, in cui anche la fantasia svolge una funzione
importante, perché produce immagini di ciò che ancora non è, oggetti
utopistici, incontri col non-ancora, coscienza anticipatrice, pensiero che si
manifesta per immagini: miti, arte, simboli, archetipi.
La categoria di base è il concetto di possibilità, che permette di
pensare il mondo come processo. La possibilità può essere passiva, nel
senso di potenzialità, di conformità all'oggetto; ma nell’uomo può anche essere
attiva, non nel senso di possibilità formale, che può venir pensata, ma in
quello di possibilità reale, sia pure parzialmente condizionata dall’esistente.
Solo quest'ultima possibilità è satura di futuro, il soggetto (l'elemento
umano) è parte della totalità materiale (natura e storia) e non gli si oppone;
la vera dimensione della realtà ha il futuro all'orizzonte con il suo passato
antecedente.
Anche Ernst Bloch, in Dialettica e speranza (op.cit.), evidenzia come
Fromm che l'uomo è nato prematuro, tanto come bambino quanto come specie: la
storia passata è in gran parte preistoria perché non è stata costruita in modo
consapevole, è ancora "natura" (nel senso hegeliano di
essere-esterno-a-se-stesso, pag.164); la speranza è allora libertà
anticipata verso l'essere-per-sè.
La filosofia della storia scopre il futuro nel passato, e secondo Bloch è Marx
che la trasforma in filosofia della trasformazione del mondo: il socialismo
diventa perciò il movimento positivo per realizzare in modo consapevole
un'esistenza umanizzata che finora era vicina come desiderio ma lontana come
presenza (era solo un’utopia). In realtà Marx, se da un lato propone una
filosofia della trasformazione, dall’altro la costringe in un sistema
deterministico che molto poco ha a che fare col riformismo, tanto che il suo
prodotto finale è stato non già il riformismo bensì uno dei suoi nemici
storici, e cioè il comunismo.
In Differenziazioni nel concetto di progresso Bloch distingue diverse
dimensioni del tempo:
- il tempo storico, molto denso e poco esteso, caratterizzato da
finalità ed irreversibilità, è l’unico in cui il futuro conta molto di più del
passato (il futuro primeggia sul passato, la speranza sul ricordo, l'essere
come divenire sull'essere come ciò che è stato);
- il tempo-natura, meno denso ma più esteso, è applicato al passato ed è
sostanzialmente chiuso perché la storia naturale, in quanto precede la storia
dell'uomo, secondo Bloch non contiene nulla di nuovo;
- infine, il tempo della fisica, che come il tempo-natura è applicato al
passato, vincolato al già-avvenuto (physis).
Il progresso implica i concetti di direzione, senso, scopo, meta,
possibilità reale. La storia umana ha un senso, un tempo evolutivo ancora agli
inizi che secondo Bloch alla fine porterà alla realizzazione del regno della
libertà.
Le diverse dimensioni del tempo proposte da Bloch ci aiutano a collocare il riformismo, che non appartiene - è evidente - nè al tempo della fisica (misurabile in miliardi e milioni di anni), nè a quello della natura (misurabile in milioni e migliaia di anni); il tempo del riformismo è un tempo storico, un tempo mediamente storico, nel senso che per determinare i propri effetti positivi non ha bisogno nè di secoli, ma neppure di istanti (come invece vorrebbero i rivoluzionari): il tempo storico del riformismo si misura in anni, talvolta anche in decenni, è comunque un tempo commisurato alle generazioni umane, è un tempo per così dire generazionale nel senso che il suo arco temporale massimo si configura comunque sempre nell'ambito della singola generazione.
Norberto Bobbio (L'Umanesimo
socialista da Marx a Mondolfo, cit.) contesta la concezione umanistica
della storia come genericamente fatta dagli uomini perché, a suo avviso, ha un
significato solo negativo e non tiene conto del continuo avvicendarsi delle
classi dominanti: la storia umana si svolge in un ambiente dato, che la
condiziona, ed è fatta di terrore, lacrime e sangue. Molte teorie che
utilizziamo per capire la storia sono poi razionalizzazioni di apprezzamenti
che riguardano più i nostri desideri che le nostre facoltà critiche; inoltre,
secondo Bobbio la storia non è riconducibile all'immagine di Eraclito, non è un
fiume in cui scorre sempre acqua diversa ma è piuttosto la tela di Penelope,
in quanto "ogni generazione tende a fare tabula rasa del passato e
a ricominciare tutto da capo" (pag.15).
La storia può essere occasione di rimpianti o di ripensamenti, ma non si fa con
i se e l'unica domanda giusta da porsi è "perché è accaduto proprio
quello che è accaduto e non altro" (pag.16). La concatenazione di cause
nella storia è come un castello di carte, il metodo della storia fatta con i se,
sbagliato se usato retroattivamente, è invece l'unico metodo giusto da
utilizzare proiettivamente, per la storia da fare verso la quale abbiamo
il dovere di essere pessimisti, per prudenza, in quanto il pessimismo di oggi è
la premessa "per non essere domani, verso il passato, critici pentiti e
impotenti" (pag.17).
La nostra risposta alla domanda "che cos'è
la storia?", osserva Edward H. Carr (Sei lezioni sulla storia,
op.cit.), riflette il nostro giudizio sulla società attuale in cui viviamo: i
fatti non parlano da soli, è lo storico che decide quali fatti, in che ordine e
in quale contesto vanno presi in considerazione (pag.15 e pag.113); la storia
medievale ci è stata trasmessa da persone legate alla religione, nelle ricerche
degli storici moderni troviamo diffusamente punti di vista economici, l’individualismo
e l'idea di progresso derivante dalla comune visione teleologica
ebraico-cristiana. Lo storico sceglie, semplifica, tralascia, ignora; la
sociologia ha dimostrato invece la complessità delle società, le cui politiche
non sono riducibili a singoli uomini; inoltre i numeri, le moltitudini,
contano.
Ogni progresso nella storia è discontinuo, sia nel tempo che nello spazio; lo
storico, osserva Carr, vede il passato alla luce del suo tempo presente, conta
la data in cui un libro di storia è stato scritto, perché "il
passato è comprensibile per noi soltanto alla luce del presente, e possiamo
comprendere pienamente il presente unicamente alla luce del passato"
(cit., pag.61).
La storia ha perciò una duplice funzione: da un lato farci capire le società del
passato, dall’altro ci consente di aumentare il nostro dominio sulla società
presente (pag.152). Tutti i fatti storici sono infatti unici ed irripetibili,
ma lo storico crea generalizzazioni linguistiche, come per esempio il concetto
di guerra, che ci permettono di imparare dalla storia.
La storia può quindi trasformare le sconfitte di oggi in successi posticipati,
e la consapevolezza storica dell'uomo moderno, osserva Carr, non ha precedenti,
viviamo nell’età dell'autocoscienza (pag.143 e seg.).
La sofferenza fa parte della storia, che è caratterizzata da perdite
accanto a vittorie, e da concetti morali astratti riempiti di contenuto
concreto (quanta libertà o quanta uguaglianza e a chi?); i valori, come gli
individui, hanno un carattere storicamente condizionato, non sono astratti: i
valori di un periodo sono influenzati dai fatti circostanti, la verità storica
è a metà del continuum tra fatti privi di valore e valori non ancora
trasformati in fatti (cit., pagg.139-141).
lo storico si pone due domande fondamentali: perché e verso dove
(pag.116); cerca le cause, le moltiplica, le semplifica, le ordina, individua
quelle prioritarie: "un miscuglio di cause economiche, politiche,
ideologiche e individuali, di cause a lungo e a breve termine" (pag.96).
Niente nella storia è inevitabile, o necessario, o casuale; non esiste
un'antitesi fra libero arbitrio e determinismo, tutte le azioni umane sono
libere e determinate "a seconda del punto di vista da cui le
guardiamo" (pag.102).
La visione catastrofista, osserva Paolo
Sylos-Labini (Il riformismo e le “leggi di movimento”, cit.), fu
all’origine delle posizioni rivoluzionarie ed antiriformistiche del marxismo.
Il fallimento del catastrofismo è strettamente connesso alla rigidità che
deriva dalle estrapolazioni lineari: la storia è infatti determinata da
tendenze che possono modificarsi e talvolta anche cambiare direzione. Di più,
molte disuguaglianze sociali e strutturali non derivano dalla proprietà privata
dei mezzi di produzione, ma da barriere culturali e dal divario della
conoscenza.
La flessibilità intellettuale, il rifiuto dei dogmi, porta naturalmente ad una
visione gradualista, progettuale e quindi riformista: “una progettualità non da
tavolino, ma strettamente collegata alle tendenze e ai movimenti in atto nella
società “ (cit., pag.79).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Ernst Bloch, DIALETTICA E SPERANZA (da Subjekt-objekt,
ed. Vallecchi, 1967)
- Norberto Bobbio, L’UMANESIMO SOCIALISTA DA MARX A MONDOLFO (in AA.VV. L'Umanesimo
Socialista di Rodolfo Mondolfo, Milano 1977)
- Edward H.Carr, SEI LEZIONI SULLA STORIA (What is History? 1961/ed.
Einaudi-CDE, 1982)
- Erich Fromm, LA RIVOLUZIONE DELLA SPERANZA
- Erich Fromm, DALLA PARTE DELL'UOMO. Indagine sulla psicologia della morale
(1947/ed. Astrolabio, Roma 1971)
- Erich Fromm, LA DISOBBEDIENZA E ALTRI SAGGI (1981/ed. Mondadori, Milano 1982)
- Erich Fromm, AMORE, SESSUALITÀ E MATRIARCATO (1994/ed. Mondadori, Milano
1997)
- Erich Fromm, L'AMORE PER LA VITA. Letture radiofoniche (1983/ed.
Mondadori, Milano 1984)
- Hans Heinz Holz, INTRODUZIONE a Dialettica e speranza di Ernst Bloch
(ed. Vallecchi, 1967)
- Antonio Polito, NON BASTA DIRE NO, a cura di Franco Debenedetti
(ed.Mondadori, Milano 2002)
- Paolo Sylos-Labini, IL RIFORMISMO E LE "LEGGI DI MOVIMENTO" (in
MondOperaio, giugno-luglio 1984)
- Antonino Zichichi, PERCHÉ IO CREDO IN COLUI CHE HA FATTO IL MONDO
(ed.Rizzoli, Milano 1999)
3- IL RIFORMISMO COME TEORIA E PRATICA DELLA POLITICA
Che cosa è politica?
La domanda è tutt’altro che banale perché, a seconda di cosa riteniamo sia
“politica” o “politico”, cambia la prospettiva con cui consideriamo storia,
idee, ideologie, eccetera.
Norberto Bobbio (Destra e sinistra, op.cit.) distingue l'azione
politica, il linguaggio politico, le strategie politiche, le visioni della
politica:
- l'azione politica è finalizzata alla formazione di decisioni
collettivamente vincolanti (pag.12), ed è l'aspetto della politica che più
interessa i riformisti;
- il linguaggio politico, al contrario, è fatto in gran parte da parole
tratte dal linguaggio comune ed è poco rigoroso dal punto di vista descrittivo
(pag.61);
- per quanto riguarda le strategie politiche, il contrasto rispetto al metodo
permette di distinguerne la radicalizzazione (estremismo contro moderatismo,
pag.28): metodo antidemocratico e catastrofico nell'un caso (estremismo di
destra e di sinistra), metodo democratico, gradualistico, evoluzionistico
nell'altro caso (moderatismo di destra e di sinistra);
- le visioni della politica danno origine a concetti spaziali, ad una topologia
politica (pag.66).
Il significato o uso dei termini politici può essere poi assiologico o storico
(pag.3), quest'ultimo ulteriormente distinguibile in un uso descrittivo
ed in uno valutativo.
Alcune teorie fra loro alternative della politica
possono essere riepilogate sinteticamente come segue:
- La politica è buona amministrazione della cosa pubblica (concezione
aristotelica della politica); secondo Aristotele (La Politica,
op.cit.) l'uomo è un animale politico in quanto è un costruttore di poleis
(pag. 50 e 92): la polis è una comunità di valori, è un tutto anteriore sia
all'individuo che alla famiglia, che ne sono parti come fossero organi del
corpo umano.
- La politica è contrapposizione fra gruppi, è divisione antagonistica fra
amici e nemici (teoria della politica di Carl Schmitt); “sottoprodotti”
di questa concezione antagonistica sono la teoria machiavellica del
potere e la teoria marxista che interpreta la politica principalmente
come attività di critica ed insieme come processo storico di crisi dell’ordine
esistente.
- La politica è attribuzione imperativa di valori (David Easton), ma
anche un processo di conversione di domande e sostegni in prestazioni
(regolativa, estrattiva, distributiva, ricettiva: teoria funzionalista di
Almond e Powell).
Delle tre concezioni generali che ho appena schematizzato, al riformismo
interessa soprattutto la terza, anche se è costantemente obbligato a “fare i
conti” con la seconda concezione, quella antagonistica nella quale sono riuniti
tutti i nemici, storici ed attuali, del riformismo: dal conservatorismo al
massimalismo, dall’autoritarismo al fondamentalismo (religioso, nazionalistico,
ecc.) al totalitarismo.
Ma perché al riformismo interessa soprattutto la terza concezione della
politica? Perché per il riformista la politica è innanzitutto attività di
trasformazione, di mutamento, di cambiamento delle regole che ordinano
l’agire collettivo. I contenuti del riformismo non sono antagonistici,
anche se il riformismo è poi costretto dai suoi nemici all’antagonismo: i
contenuti del riformismo sono in primo luogo costruttivi, progettuali, e
rivolti al cambiamento.
Secondo Franco Debenedetti (Non basta dire no, op.cit., pag.35), due
sono gli ostacoli principali che si presentano al riformista:
- ottenere il consenso per le proprie proposte;
- tener conto dei vincoli di compatibilità con le risorse esistenti, ed
in ciò si distingue nettamente dal massimalista, che persegue il cambiamento
“tout court” senza valutarne possibilità, compatibilità, conseguenze.
Il riformista propone nuovi progetti ma anche nuovi punti di vista, e pensa in
termini di governo anche quando è all'opposizione; combatte le spinte
alla radicalizzazione, ma nel far ciò deve saper anche proporre un progetto
ampio di cambiamento che possa essere accettato dalla maggioranza degli
elettori (cit., pagg.36-38). Quella riformista è un'impostazione culturale,
offre speranze rivolte al futuro anziché coltivare utopie rivolte al passato
(cit., pag.58).
Carl Schmitt (Le categorie del politico,
op.cit.) osserva come dal XX secolo, ed in taluni casi anche prima, lo Stato
abbia perso il monopolio del "politico": settori finora neutrali
perché non-statali e non-politici si caricano via via di significato politico
man mano che si verificano contrapposizioni; in democrazia, osserva, settori
come quelli religioso-confessionale, culturale, economico, giuridico,
scientifico, educativo non sono più contrapposti a quello politico, e viene
meno la stessa contrapposizione stato-società, ovvero politico contro sociale
(cit., pag.106).
La distinzione di fondo per individuare l’esistenza di fenomeni di tipo
politico, secondo Schmitt, è quella fra amico e nemico, che non è
una semplice distinzione metaforica o simbolica, ma indica il massimo grado di
contrapposizione fra gruppi umani; il nemico è pubblico (hostis)
e la contrapposizione è tanto più politica quanto più si avvicina al punto
estremo, che è la guerra.
Per Giacomo Marramao (L’ordine disincantato, op.cit.) la concezione
politica espansiva attribuisce, sia a destra che a sinistra, un ruolo-guida
alla politica; viceversa, la concezione politica restrittiva la
considera una funzione fra molte altre. Secondo la concezione restrittiva,
osserva Marramao, "la politica apporta un contributo tanto più efficace
alla soluzione dei problemi sociali quanto più essa conosce i limiti delle
proprie possibilità di azione e di intervento" (cit., pag.69): la ragione debole,
senza incantamenti, ha in realtà come sua forza proprio il sapersi debole,
l'esserne consapevole (pag.99).
Andrew Gamble (Fine della politica?,
op.cit.) osserva come il prevalere di argomenti pessimisti, di disillusione,
disincanto, fatalismo, portano al dibattito sulla fine: fine della
politica, della storia, dell'ideologia, dello stato, della sfera pubblica,
dell'autorità; l'idea di fondo è che vi siano forze impersonali (quali la
globalizzazione e la tecnologia) che rendono impossibile da parte dell'uomo il
controllo del proprio destino (pagg.7, 21, 45 e seguenti). Compito della
politica deve essere invece quello di permettere alle società umane di
controllare il proprio destino, attraverso potere, risorse, ordine, regole,
identità, fedeltà; a questa visione della politica si contrappongono la tesi
conservatrice della politica afflitta da corruzione ed inefficienza, e la tesi
della politica totalitaria (pag.9). Molte utopie sono infatti "luoghi
apolitici" (pag.10).
La politica è invece necessaria, osserva Gamble, è un elemento costitutivo
della nostra esperienza; il suo campo d'azione si può restringere, ma mai
scomparire.
La sfera politica ha tre dimensioni (pagg.14-16 e 101-105):
- l’identità, che è la dimensione espressiva del politico (chi siamo?);
- il potere, che è la dimensione strumentale del politico (chi ottiene
cosa, quando e come);
- l’ordine, che è la dimensione regolativa del politico.
Tutte le dimensioni implicano conflitto: chi decide, come decide e quali
decisioni prende.
La politica è azione, desiderio, immaginazione, volontà interna all'uomo, e si
contrappone al fato inteso come vincolo esterno, contingenza, destino
inevitabile: ma poiché un mondo senza vincoli non è possibile, vi deve essere
equilibrio fra i due termini (pagg.23-24).
Il fallimento del comunismo, osserva Gamble, è dovuto alla "sua
spericolata fiducia nella capacità della volontà politica di rifare la società
senza tener conto dei vincoli esistenti", fra cui vi sono gli stessi diritti
individuali.
Il neoliberismo, invece, propone un mondo senza politica, fondato su principi
economici, che però è realizzabile solo per mezzo della politica in quanto
necessita di "monetarismo, deregolamentazione, privatizzazione e
flessibilità dei mercati del lavoro" (pag.59); la politica ha inoltre una
funzione essenziale nel formulare i principi che ordinano i mercati economici
(pagg.109 e 111).
La storia moderna, osserva ancora Gamble, si caratterizza per i molteplici
tentativi di sostituire fonti d'autorità con altre, piuttosto che di eliminare
l'autorità in sé: conflitti "tra chiesa e stato, cristianesimo e
islamismo, re e parlamento, capitale e lavoro, religione e scienza"
(pag.64); il pluralismo dei valori rende impossibile stabilire una
priorità fra essi.
La governance è l'insieme dei meccanismi per guidare e governare una
società, fra cui vi sono il government (governo), i mercati, le reti
(pag.84), la cooperazione internazionale, la governance a più livelli: ne è
esempio l'Unione Europea, che segna il passaggio dallo stato-nazione interventista
allo stato regolatore. La nozione di governance è perciò più ampia del government,
ed un tema chiave della politica è proprio l'equilibrio fra le diverse modalità
di governance.
La categoria della sfera pubblica comprende il settore pubblico, il governo,
la partecipazione degli attori pubblici ma anche privati alla discussione dei
problemi comuni; l'interesse pubblico non è dato bensì è oggetto di
discussione o di negoziato, ed è centrale in esso il tema dell'equità: equo
trattamento, equo processo.
I mass media, e soprattutto la televisione, consentono ai leader politici di
rivolgersi direttamente all'elettorato, rendendosi indipendenti dai partiti e
rendendo superflue le tesi politiche, che vengono così sostituite da semplici
slogan (pag.88).
Per Almond e Powell (Politica comparata,
op.cit.) il sistema politico consiste in funzioni o processi di conversione,
che trasformano flussi in entrata, "inputs" che consistono in domande
e sostegni, in flussi in uscita, gli "outputs" che sono le
prestazioni del sistema politico, che gli Autori distinguono in regolative,
estrattive, distributive, ricettive, simboliche (cit., pag.66); i
sistemi politici sono entità multifunzionali, caratterizzati da interdipendenze
ma non da armonie, e si distinguono per la relazione che hanno con la coercizione.
Per quanto riguarda gli inputs, ovvero i flussi in entrata del sistema
politico, questi consistono da un lato in domande, che influenzano le
decisioni e gli obiettivi politici, e che riguardano beni e servizi,
regolazione del comportamento, partecipazione, comunicazione, informazione;
dall’altro lato consistono in sostegni che aiutano il sistema politico a
conseguire i propri obiettivi: sostegni materiali, ubbidienza, attenzione,
partecipazione.
Gli inputs possono arrivare dalla società nazionale, dal sistema internazionale
o dalle stesse elites politiche; la conversione degli inputs in outputs (che
sono le prestazioni del sistema), avviene grazie ai tre poteri tradizionali
(legislativo, esecutivo, giudiziario) e ad altre tre funzioni che sono
l'articolazione e l’aggregazione degli interessi, e la funzione di
comunicazione (cit., pagg.48-68). L’articolazione degli interessi segna il
confine fra il sistema politico e quello sociale; l’aggregazione degli
interessi converte invece le domande in scelte politiche, attraverso i partiti
e la differenziazione e specializzazione delle strutture politiche: nelle
democrazie moderne, infatti, le strutture politiche sono altamente
differenziate, ma il cittadino è essenzialmente un politico intermittente
od "occasionale" (cit., pag.85).
L'idea di una formazione quotidiana delle norme, osservano gli Autori, è
un’idea moderna: il costituzionalismo è divenuto l'alternativa al metodo
carismatico di cambiamento, che è tipico invece dei sistemi politici
tradizionali.
L’applicazione delle norme, ovvero la funzione esecutiva, all'inizio era
l’amministrazione domestica della corte (cit., pag.205); qui è fondamentale il
ruolo della burocrazia, il cui grado di efficienza condiziona le prestazioni
del sistema, ovvero gli outputs del processo politico di conversione.
La funzione di comunicazione è necessaria per tutte le altre funzioni, i
sistemi autoritari soffrono infatti di allucinazioni che alla fine ne
compromettono la stabilità (yesmen, cit. pag.246).
I principali fattori che influenzano gli outputs del sistema politico sono le
risposte delle elites politiche, le risorse necessarie e l'apparato
organizzativo. Gli inputs e gli outputs riguardano i confini di un sistema
politico, che sono soggetti a fluttuazioni, a causa di guerre, elezioni, ecc.
(all’epoca in cui fu scritto il libro,
non si parlava ancora di globalizzazione); all’interno di ogni sistema
politico si svolgono poi importanti funzioni di mantenimento e di adattamento,
quali la funzione di reclutamento politico e la funzione di
socializzazione politica, che è attiva nell’individuo sin dall'infanzia.
Per David Easton (Il sistema politico,
op.cit.) le teorie sono spesso suggerimenti di riforma, e a causa della loro
interazione col sociale sono talvolta profezie autocontraddicentesi o profezie
autoverificantesi. Una linea politica, osserva Easton, nega cose ad
alcuni e le rende accessibili ad altri: è una rete di azioni e decisioni che distribuiscono
i valori; una decisione isolata non è una linea politica, le decisioni
peraltro sono solo la fase formale di una linea politica, occorre agire
per attuarla e l’azione è appunto la seconda fase, effettiva, di una linea
politica.
La politica, secondo Easton, si differenzia da altre forme di attività sociale
perché assegna valori all’intera società a mezzo autorità cui è
necessario obbedire: una situazione politica si verifica allorché si
sviluppa un'attività di assegnazione autoritaria di valori per l'intera
società, attività che è inevitabile, osserva Easton, dalle società più semplici
fino alla comunità internazionale.
3-2 IL RIFORMISMO E IL CAMBIAMENTO DELLE REGOLE
L'attività dei riformisti è tale in quanto si
occupa, in primo luogo, di cambiare le regole che governano una società: non
tutte le regole, non subito ma gradualmente, l'attività riformista porta a
cambiare il quadro delle regole sociali, e quindi cambia gli assetti delle
società.
Ma quali sono le regole che governano una società? Dal libro Norma e azione di Georg H. von Wright (op.cit.),
riepiloghiamo ora brevemente una serie di concetti di uso comune, che
riguardano l'azione sociale in generale, e dei quali il riformista deve tener
conto in quanto soggetto che agisce nell'intento di cambiare le regole sociali.
Anzitutto, von Wright distingue le leggi dalle norme.
Per leggi intende (pag.38):
- leggi della natura, che sono descrittive e possono essere vere o
false;
- leggi dello Stato, che sono prescrittive, prive di valore di verità,
il cui scopo è influenzare i comportamenti (pag.39), il discorso prescrittivo è
normativo, le prescrizioni sono emanate da un'autorità normativa (pag.44);
- leggi della logica, come le regole di un gioco o della grammatica, che
"non descrivono nè prescrivono ma determinano qualcosa"
(pag.42).
Per norme intende tre gruppi principali (pag.53):
- le regole dei giochi, del linguaggio, delle abitudini;
- le prescrizioni o regolamentazioni, che consistono a loro volta in
proibizioni, comandi e permessi: implicano un'autorità normativa, sanzioni (la
minaccia di una punizione, pag.178), sono prive di valore di verità e
contingenti (pagg.154-157);
- le direttive o norme tecniche, che sono mezzi da usare per conseguire
un fine.
Individua poi tre gruppi secondari di norme, e cioè i costumi, i principi
morali, le regole ideali; queste ultime riguardano l'essere
piuttosto che il fare, sono collegate al concetto di bontà, a stati del
carattere; i costumi assomigliano invece alle regole del linguaggio e delle
abitudini, ed alle prescrizioni.
È evidente che l'azione riformista, nell'analisi dettagliata di von Wright,
riguarda in primo luogo le leggi dello Stato e le prescrizioni,
ma in taluni casi anche i costumi, i principi morali e le regole
ideali; talvolta riguarda anche le regole delle abitudini e le direttive,
quando per esempio norme tecniche devono essere adeguate a nuove conoscenze.
Von Wright distingue otto modi di azione elementare riferiti a fatti (pag.75 e
seg.):
a) gli atti umani, che producono risultati e conseguenze; sono atti
umani fare, distruggere, preservare, sopprimere;
b) le astensioni elementari (dal fare/produrre, dal distruggere, dal
preservare, dal sopprimere); anche le astensioni possono avere conseguenze
(pag.89). Von Wright distingue l'agire dal fare: "quando un atto non
raggiunge il risultato proposto, l'agente ha tentato di fare qualcosa";
tentare è un modo di agire logicamente incompleto (pag.83).
Il riformismo, a nostro avviso, riguarda essenzialmente atti umani (certo non
le astensioni), gli agenti del riformismo sono sempre persone, singoli individui
che prendono inziative politiche in un contesto che però è certamente
collettivo (partito, assemblea legislativa, ecc).
La validità di una norma ha due significati (pagg.258-271): nel senso normativo
è legittima, nel senso fattuale è in vigore, esiste; gli atti
normativi invalidi sono atti di usurpazione, la logica della rivoluzione è
ottenere potere normativo illegittimo e premere sui cittadini perché
disobbediscano alle norme esistenti. I permessi legittimi sono diritti.
L'attività del riformista, osserviamo noi, è sempre legittima, in un quadro
democratico; fuori dal contesto democratico, il comportamento del riformista si
caratterizza per atti di disobbedienza e di resistenza all'ordine costituito.
Per Albert O. Hirschman (Come far passare le
riforme, op.cit.) riforme e rivoluzioni sono soluzioni antagonistiche dei
problemi, producono entrambe cambiamenti negli assetti (potere e ricchezza) dei
gruppi sociali (pag.159).
La rivoluzione viene spesso concepita come un interludio, brevissimo e
cataclismatico, fra società statiche, reso necessario dalla limitata capacità
dell'uomo di "visualizzare il cambiamento" (pag.163); sequenze di
decisioni politiche possono contenere sia elementi riformatori che
rivoluzionari. La violenza è condizione necessaria ma non sufficiente per una
rivoluzione, deve essere centralizzata, unilaterale, "temporaneamente non
restituita" (pag.169); secondo Hirschman, vi è anche una violenza
compatibile con la riforma: oltre che pressione e protesta (segnale), la
violenza decentralizzata può essere essa stessa risolutrice o riduttrice di
problemi (occupazione, sciopero), che diventano in tal modo più docili ad
iniziative riformatrici.
Politiche riformatrici possono avere contenuti antagonistici, il loro impatto
sui diversi gruppi interessati può essere volta per volta benefico,
indifferente, dannoso. A differenza del rivoluzionario, il riformatore può
imparare dai suoi errori e dalle resistenze che incontra (pag.187).
Salvatore Veca, in Ricerche politiche due
(cit.), osserva come la società non sia una somma di individui ma un campo di relazioni
fra individui e gruppi; l'approccio contrattualista implica un contesto
comunicativo (accordo originario non coatto), "ragionare vuol dire
presentare buone ragioni" (pag.168).
Veca distingue le regole costitutive, assimilabili agli impegni
categorici di Kant (prescrizioni non condizionate da fini), dalle regole
regolative che sono imperativi ipotetici, variabili al variare dei fini
("istruzioni per l'uso", pagg.170-171). Non seguire una regola
regolativa vuol dire non giocare bene un gioco, non seguire una regola
costitutiva vuol dire che non si sta giocando "quel" gioco.
Le regole costitutive non sono violabili, concernono il riconoscimento, il
significato, "le condizioni di possibilità di qualcosa" (pag.172); la
non conformità a regole regolative produce inefficienza, la non
conformità a regole costitutive causa la defezione dal gioco morale.
Il riformismo è una forma di decisionismo, graduale,
razionale, attento alle conseguenze: è attività di ricerca e di soluzione delle
criticità, ma anche delle potenzialità che offre il tempo presente, una ricerca
che svolge anche attraverso griglie di domande ben poste, analisi non banali,
non superficiali, fondate su dati ed informazioni il più possibile complete. Il
riformismo tramuta decisioni in azioni, e quindi il prendere decisioni è un
aspetto essenziale di ogni politica riformista.
In questo paragrafo esamineremo alcuni concetti contenuti in particolare nel
libro Scelte (op.cit.) di Michael D. Resnik, che si occupa appunto di teoria
delle decisioni, teoria che può essere descrittiva o sperimentale (come le
decisioni vengono prese), ovvero solo normativa o astratta (come le decisioni
dovrebbero essere prese).
Resnik distingue anche le decisioni prese come individui (singoli esseri umani
ma anche nazioni, corporazioni, ecc.), dalle decisioni di gruppo come sono, ad
esempio, le elezioni; la teoria dei giochi si occupa del primo tipo di
decisioni, che hanno come obiettivo solo quello di favorire gli interessi degli
individui coinvolti nel gioco.
I filosofi morali hanno dimostrato che le azioni morali sono razionali, quelli
politici che attori razionali costruiranno società giuste; l'uomo economico
razionale, utilizzato per formulare le leggi della domanda e del'offerta, egli
osserva, non è un modello descrittivo.
Le decisioni si compongono di atti, di stati e di risultati
che dipendono dai primi due (pag.13); uno stato, poi, può essere indipendente o
conseguente da un atto.
Utilizzare la teoria delle decisioni costa però tempo e denaro, si tratta di
valutare il rischio comparato sulla base delle informazioni acquisite, talvolta
può anche essere irrazionale usarla ed è meglio prendere decisioni immediate.
Non sempre peraltro le decisioni razionali, una volta prese, si rivelano essere
anche decisioni giuste, nel senso che i risultati che ne derivano siano sempre
positivi per i soggetti che le hanno prese.
Resnik distingue le decisioni in condizioni di certezza, le decisioni in
condizioni di incertezza, dove l'ignoranza può essere parziale o totale, e le
decisioni in condizioni di rischio nelle quali tutti i risultati che derivano
da un atto hanno le stesse probabilità di verificarsi.
Talvolta può essere razionale scegliere una situazione di rischio piuttosto che
una di certezza, se ha maggiore probabilità di dare un risultato maggiore
(pag.226).
Un problema di decisione è spesso una sequenza di decisioni, che è
rappresentabile con un diagramma ad "albero" e che comprende nodi
di decisione e nodi di possibilità, ciascuno dei quali può essere a
sua volta rappresentato da una tavola di decisione, in cui fare scelte di
strategie (pag.30 e seg.)
In condizioni di ignoranza, un moderato pessimista può prendere decisioni
razionali utilizzando le funzioni di utilità ed applicando la regola del
maximin, che dice di massimizzare il minimo ovvero di scegliere il meno
peggio (pag.43 e seg.); la regola di rammarico minimax propone invece di
analizzare le opportunità perse, piuttosto che le possibilità peggiori
(pagg.46-47).
L'ottimista estremo, al contrario, applicherebbe la regola del
"maximax", che consiste nel massimizzare i massimi; l'indice di
ottimismo, peraltro variabile da individuo a individuo e da circostanza a circostanza,
può aiutarci a stabilire quale soluzione di compromesso scegliere; laddove gli
esiti fossero contraddittori, la scelta può essere fatta applicando la regola
di maggioranza, che però è anch'essa soggetta a malfunzionamenti, come nel
caso del paradosso del voto, dove la regola di maggioranza semplice porta a
scelte collettive che non costituiscono una funzione di benessere sociale:
"Poichè una maggioranza preferisce a a b, una maggioranza
preferisce b a c e una maggioranza preferisce anche c ad a,
le preferenze sociali generate dalla regola di maggioranza semplice
formerebbero un circolo, violando così la condizione che non valga aPc
se vale cPa" (cit., pag.282).
In filosofia sociale, osserva ancora Resnik, il principio di differenza (Rawls)
e l'utilitarismo (Harsanyi) possono portare ad ordinamenti differenti, sebbene
sia difficile determinare se una data politica sociale promuove l'utilità media
piuttosto che gli interessi di chi sta peggio.
Per decidere in condizioni di incertezza occorrerebbe allora individuare le
circostanze specifiche che ci aiutino a scegliere anche le regole da applicare
per decidere, favorendone alcune ed escludendone altre; in ogni caso, i
principi di giustizia sociale devono passare un test di equità, che consiste
nel verificare se soggetti razionali li sceglierebbero dietro un velo di
ignoranza (pag.66 e seg.).
I giudizi di probabilità sono frequenti nella nostra vita quotidiana; le
assicurazioni trasformano il calcolo delle probabilità di condizioni di rischio
in valori monetari attesi; il calcolo delle probabilità può basarsi su
interpretazioni oggettive, indipendenti dai giudizi umani, o su punti di vista
soggettivi e quindi misurare credenze e propensioni piuttosto che frequenze:
nuove informazioni possono modificare le credenze, e quindi le probabilità
soggettive.
In una decisione in condizioni di rischio è importante sapere quanto abbastanza
un risultato è preferito ad un altro, perché una "scala intervallare di
preferenze" ci aiuta a capire se ci vogliamo far carico o meno dei rischi
connessi a quel risultato; una scala monetaria può funzionare come scala
intervallare: quanto siamo disposti a pagare per ottenere quel risultato?
(pag.130 e seg.).
Resnik osserva in proposito come spesso scale e valori monetari misurino decisioni
non d'affari e risultati non monetari; taluni costi sociali vengono misurati
anche in termini di perdita di giornate lavorative, o di minor prodotto interno
lordo.
In realtà, molte decisioni mirano ad ottenere risultati il cui valore è
superiore al loro valore monetario: altre considerazioni, spesso del tutto
razionali, entrano in gioco, di tipo umanitario, sentimentale, morale,
estetico, ecc. (pag.138). Una scala di utilità rappresenta in termini numerici preferenze
che sono tipicamente non numeriche, e che quindi non si possono sommare,
sottrarre, moltiplicare o dividere: "l'utilità non è una quantità
additiva" (cit., pag.159).
Secondo i teorici humiani, osserva Resnik, prendere decisioni significa
scegliere tra blocchi di informazioni (pag.184); l'analisi dei vari paradossi
porta poi alla conclusione che vi possono essere teorie alternative delle
decisioni, a seconda del tipo di razionalità sottostante: la razionalità di
gruppo, ad esempio, può entrare in conflitto con la razionalità individuale,
come nel caso del dilemma del prigioniero dove strategie che sono razionali per
i singoli individui producono tuttavia risultati non ottimali (pag.234 e seg.).
Il dilemma del prigioniero rientra nella teoria dei giochi, che studia
le strategie, ovvero le sequenze di mosse compiute da due o più giocatori per
ottenere un certo risultato; anche qui l'informazione può essere imperfetta, si
introducono possibilità (es. di accordi parziali) ed imprevisti. I giochi non
competitivi nei quali i giocatori possono comunicare fra loro sono detti giochi
cooperativi, producono come risultati accordi che sono vincolanti e
permettono la redistribuzione delle vincite (pag.200); i giochi di
contrattazione sono giochi cooperativi in cui un risultato fra più
possibili viene scelto da giocatori in posizioni simmetriche, contrattando fra
di loro (pag.253 e seg.).
La comunicazione talvolta fa emergere conflitti di volontà che possono
essere risolti introducendo delle regole di comportamento che si configurano
come veri e propri principi morali che però sono soggetti a defezioni
e, quindi, al noto problema dei free riders, cioè di coloro che traggono
maggiori vantaggi dall'infedeltà, ovvero dall'infrangere gli accordi e dal
disobbedire alle regole.
Ancora una volta, prendere buone decisioni ed agire di conseguenza è difficile,
nessuna teoria specifica può assistere il riformista nel suo lavoro, nè
fornirgli un metodo o una risposta che sia definitiva, ma ciascuna teoria può
tuttavia fornire suggerimenti, non definitivi, non esaustivi, validi caso per
caso per aiutare il riformista nel suo lavoro e di cui il riformista deve
poterne tener conto.
Diversamente dal rivoluzionario, che abbonda di ideologie, il riformista lavora
in un contesto di indeterminatezza e ne è consapevole: questa consapevolezza,
alla fine, diventa il suo elemento di forza che gli consente di ottenere
risultati che nessun ideologo potrebbe vantare, nonostante la propria
assolutezza declaratoria.
Le decisioni, osserva Norberto Bobbio (Ricerche politiche due, op.cit.), sono sempre atti
individuali. Sono "decisioni collettive" tanto quelle prese da più
individui (decisioni collegiali) che quelle prese per più individui (decisioni
collettive vere e proprie, pagg.10-11).
L'iter procede dalla preferenza alla scelta e da questa alla decisione:
"l'atto di decidere è successivo a quello di scegliere" (pag.12). Una
decisione che non è preceduta da una scelta è una decisione necessitata e
quindi non libera; la scelta implica più alternative possibili, non scegliere
però non equivale a non decidere.
Una decisione collettiva è valida se accettata e vincolante: le decisioni
individuali sono sempre accettate, quelle collettive quasi mai (decisione
unanime, pagg.14-15 e 21), occorrono pertanto delle norme che attribuiscano a
qualcuno il potere di prendere decisioni per tutti, che sono peraltro le norme
costitutive o primarie che disciplinano l'istituto giuridico della
rappresentanza.
L'individuazione delle regole procedurali per decidere viene prima perciò
rispetto al contenuto delle decisioni collettive: "chi vince la battaglia
per la procedura, ha già vinto la battaglia per la decisione finale"
(pag.28). L'accordo sulle regole di procedura decide infatti chi e come
prenderà le decisioni sostanziali.
Alla base dell'individualismo metodologico vi è la concezione che i
sistemi di preferenze individuali non possano essere cambiati con la
manipolazione o la violenza, e che le istituzioni richiedono la legittimazione
degli individui (Remo Bodei, op.cit. pag.61). Una società giusta è quella in
cui i singoli scelgono il principio del maximum minimorum: maximin
ovvero miglioramento della situazione peggiore.
I cenni sulla teoria delle decisioni ci portano
ora a compiere un breve ma necessario passaggio sul concetto di razionalità, un
passaggio necessario perché ci aiuta ancor di più a capire come mai il
riformismo, apparentemente così debole rispetto alle spinte ideologiche,
fondamentaliste, rivoluzionarie, produce ex post risultati positivi tali che
nessun'altra azione collettiva potrà mai riuscire ad eguagliare. Il riformismo
è razionale, ma la ragione, osserva Herbert A. Simon (La ragione
nelle vicende umane, op. cit.) è solo strumentale, è un metodo: ci dice
come fare per conseguire un fine, quale esso sia (pag.38); i valori e
non la ragione ci difendono da fini sbagliati (pag.42).
Simon distingue quattro modelli di razionalità umana: il modello olimpico,
il modello comportamentale, il modello intuitivo, l'adattamento
evolutivo.
La teoria dell'utilità soggettiva attesa richiama un modello olimpico di
comportamento che non soddisfa tutta la complessità del mondo e non è
applicabile alle singole decisioni degli individui, perché queste riguardano
argomenti ristretti, non contemplano tutte le alternative e gli scenari possibili
ma solo poche eventualità o valori, e si compiono in tempi solitamente
ristretti (pagg.50-56).
Le decisioni individuali vengono prese allora in un modello comportamentale di razionalità
limitata, in cui le molteplici variabili che teoricamente dovrebbero
influenzarsi a vicenda, in pratica si ignorano (un "mondo quasi
vuoto", pag.55).
Il modello intuitivo suppone invece facoltà intuitive e di giudizio
determinate dall'esperienza che rende possibili criteri elaborati di
distinzione e, quindi, decisioni intuitive; secondo Simon, sono necessari
almeno dieci anni di studi intensivi per giungere a prendere decisioni in campi
specifici con cognizione di causa (pagg.59-61). Nel modello olimpico tutti i
problemi sono all'ordine del giorno; i modelli comportamentale ed intuitivo non
sono fra loro alternativi, è l'emozione a scegliere i problemi: sono
infatti i meccanismi emozionali (pathos) che stabiliscono le priorità
della nostra attenzione rispetto ai problemi ("conoscenza
passionale", pagg.54-67), e quindi l'ordine delle nostre scelte.
L'evoluzione è una forma di razionalità, è adattamento, massimizzazione
economica, "competizione per la nicchia ambientale" (pag.80); suoi
meccanismi sono la variazione (prove, elementi di novità) e la selezione
(eliminazione degli errori): questo modello di scelta, osserva Simon, è però
inadeguato laddove siano possibili solo una prova e nessun errore (pag.78);
inoltre l'evoluzione biologica è razionalmente miope, in quanto ottiene solo
massimi locali, ed è priva di scopo (aumenta la complessità, pagg.105-110).
Sia il modello comportamentale che la teoria evoluzionistica rinunciano al
raggiungimento dell'ottimo ma si limitano a conseguire
"miglioramenti" (pag.113); la specie umana, in particolare, è programmabile
perché può modificare la propria cultura (pag.92).
Simon distingue l'altruismo debole, "interesse personale
temperato" che determina vantaggi a lungo termine (es. l'altruismo
parentale), dall'altruismo forte, che non riceve ricompense; l'altruismo
debole richiede un ambiente favorevole all'altruismo, necessita riconoscimento
(pagg.95-100). Alla base dell'altruismo vi è la docilità, il comportarsi
in modi approvati socialmente, il temperare l'interesse personale (pagg.103 e
149).
Credenze e valori che derivano da fonti autorevoli piuttosto che da prove
pratiche, sono contagiosi e spesso in conflitto; Arrow ha peraltro
dimostrato l'impossibilità di una funzione del benessere sociale (pagg.116 e
125). La razionalità è resa possibile dalla stabilità dell'ambiente, e
quindi dal ruolo che giocano in tal senso le istituzioni (pag.118);
problemi collettivamente importanti e controversi, in cui anche gli esperti
sono divisi, vanno risolti con procedure democratiche (pag.120 e 140).
Solo alcuni problemi sono strettamente connessi, quali energia/ambiente, o
inflazione/disoccupazione; anche le istituzioni politiche concentrano
l'attenzione su certi problemi rispetto ad altri in base ai criteri della novità
e dell'imprevisto, e questo in quanto l'attenzione è una risorsa
scarsa (pagg.123-136).
I problemi generati dall'incertezza richiedono soluzioni soddisfacenti
piuttosto che ottime: il dilemma del prigioniero ci suggerisce in tal senso di
utilizzare strategie di non aggressione (pagg.126-128). Scelte sociali
razionali sono favorite dalla routine, quale può determinarsi grazie ad
organizzazioni specializzate, meccanismi per la determinazione dei prezzi,
strutture di mercato; anche i procedimenti per contraddittorio
rafforzano la razionalità (dibattiti, legittimità procedurali, pagg.129-132).
Dati empirici, cognizioni, teorie, razionalizzazioni sono i fatti iniziali che
determinano la successiva efficacia o inefficacia della ragione nelle decisioni
(pag.135).
George Katona, nel libro L’analisi
psicologica del comportamento economico (op.cit.), osserva come l'individuo
tenda a ripetere il proprio comportamento in situazioni che ritiene simili alle
precedenti; le decisioni autentiche sono poco frequenti e non derivano da
comportamenti abituali: il comportamento infatti può essere rigido (atti
ripetuti di routine) oppure flessibile se comporta una riorganizzazione del
campo ed un nuovo livello di comprensione. Il comportamento flessibile nasce
dalla consapevolezza dell'esistenza di nuove condizioni.
Il bilancio economico nazionale è globale ed ex post, andrebbe integrato da
informazione ex ante quali le intenzioni, i progetti, gli atteggiamenti: le
previsioni sulla situazione economica generale influenzano spese ed
investimenti.
Una politica economica efficace ricorre sia a strumenti economici che
psicologici: deve infatti considerare le reazioni (conformi e non conformi)
alle misure che intende attuare e che devono essere precedute da una
preparazione psicologica adeguata. L'informazione economica deve essere data in
modo da essere compresa, i dati ed il loro significato devono essere resi noti
assieme all'opinione pubblica, che deve essere messa a conoscenza dei vari
aspetti di ciascun problema. Persone autorevoli che fanno previsioni
superficiali non servono, le previsioni sono utili solo se formulate in modo da
presentare i fatti su cui si basano e in modo che ciascuno possa giudicarne la
fondatezza.
I responsabili della politica economica devono raccogliere e diffondere i dati
economici, e la conoscenza delle reazioni della gente ad un provvedimento può
essere determinata già ad uno stadio quasi iniziale ed è fondamentale per
valutarne l'opportunità.
La spiegazione scientifica, osserva Jon Elster in
Ulisse e le Sirene (op.cit.), può essere causale,
funzionale, intenzionale; si presume che il comportamento umano sia tipicamente
razionale o intenzionale, così come il comportamento animale sia funzionale
(pag.32).
Il raggiungimento di massimi locali rende impraticabili le strategie indirette
che comportano invece l’attesa e che sono spesso cruciali per le scelte fatte
dall’uomo, che pertanto è una sorta di macchina capace di raggiungere massimi
globali (pag.47). Esempi di massimizzazioni globali, secondo Elster, sono: in
politica, il temporeggiamento (strategia di attesa) e il controriformismo
(strategia indiretta); in economia, il sistema dei brevetti (ancora una
strategia di attesa) e gli investimenti (strategia indiretta). Il riformismo è,
per Elster, il “rifiuto delle strategie indirette” (pag.49): la meccanica
sociale a spizzico di Popper può infatti raggiungere solo massimi locali, come
la selezione naturale; mentre il comportamento rivoluzionario è un esempio di
utilizzo di strategie indirette ed è caratteristico dell’agire umano.
Anche la ricerca casuale può talvolta essere scelta con un processo razionale:
occorre distinguere, osserva infatti Elster, “tra la scelta di un’azione e la
scelta di una procedura per scegliere” (pag.52); entrambe possono avvenire con
decisione deliberata, oppure per prova ed errore. Pertanto, una procedura per
prova ed errore può generare scelte deliberate ed intenzionali.
Diversamente dagli animali, che sono miopi, gli uomini sono imperfettamente
razionali in quanto riescono a risolvere strategicamente la loro miopia.
Esaminando tutte le alternative, anche quelle non attuali e solo possibili,
l’uomo può scegliere la migliore, ha “una capacità generalizzata di
massimizzare globalmente” (pagg.56 e 153-155).
Elster distingue l’individuo razionale parametrico, che considera l’ambiente
come una costante, da quello strategico, che sceglie in base alle proprie
aspettative verso il futuro, ma anche in base alle aspettative sulle
aspettative altrui; un esempio di interazione di tipo strategico è il già
citato dilemma del prigioniero (pag.61 e seguenti).
La solidarietà è altruismo condizionato, in quanto vi sono i free rider
e le strategie miste (pag.64 e seg.). La teoria della razionalità imperfetta si
fonda sulla debolezza umana e sulla consapevolezza di essere deboli: farsi
legare può essere utile, ad esempio con leggi costituzionali; quando la
volontà è debole, la tecnica principale di comportamento razionale è proprio
quella di farsi legare assumendo obblighi: una decisione presa al tempo t1
aumenta la probabilità di prendere un’altra decisione al tempo t2 (pagg.85-90).
Il rapido sviluppo economico di società distrutte dalla guerra può essere un
esempio di strategie alla “Ulisse”, come pure le decisioni di credere (l'argomento
di Pascal, pagg.97 e seg.).
Un individuo è razionale se ha preferenze coerenti e complete nel tempo:
priorità del presente e “graduale svanire nell’ombra del futuro”
(pagg.127-134). Talvolta l’eccessiva razionalità diventa irrazionale dal punto
di vista pratico o economico; il maggior ostacolo alla razionalità è spesso
l’ignoranza e non la debolezza della volontà (pagg.115-121).
Le democrazie moderne hanno creato istituzioni per obbligarsi: la banca
centrale, le elezioni periodiche, l’abdicazione dei politici da taluni valori o
strumenti troppo importanti o pericolosi (politica estera, monetaria,
radiotelevisiva pubblica, pag.158). Secondo Elster, elezioni con date fissate a
caso eliminerebbero le conseguenze sub ottimali di misure impopolari ad inizio
legislatura e popolari alla fine (pag.159).
L’assemblea costituente diventa in tal modo il vero soggetto politico (politique
politisante), mentre “le generazioni successive sono vincolate alla politique
politisée, ovvero l’adempimento, giorno per giorno, delle regole del gioco”
(pag.163).
Ciascuna generazione vuole legare le successive ma non farsi legare dalle
precedenti, così come ogni capitalista vuole salari bassi per i propri operai
ma alti per tutti gli altri per avere un elevato livello della domanda:
ciascuno può realizzare il proprio sogno, tutti non possono farlo. La strategia
di Ulisse obbliga allora le generazioni future con un’assemblea costituente,
che si realizza non per diritto ma per accidente storico (pag.164).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- G.A.Almond e G.B.Powell, POLITICA COMPARATA
(ed. Il Mulino, Bologna 1970)
- Norberto Bobbio, DESTRA E SINISTRA (Donzelli editore, Roma 1994)
- Norberto Bobbio in Michelangelo Bovero (a cura di), RICERCHE POLITICHE DUE. Identità,
interessi e scelte collettive (ed. il Saggiatore, Milano 1983)
- Franco Debenedetti (a cura di), NON BASTA DIRE NO (ed.Mondadori, Milano 2002)
- David Easton, IL SISTEMA POLITICO (The political system. An inquiry into the state of
political science,
1953)
- Jon Elster, ULISSE E LE SIRENE. Indagini sulla razionalità e
l’irrazionalità (Edizioni il Mulino, Bologna 1979)
- Andrew Gamble, FINE DELLA POLITICA? (ed. Il Mulino, Bologna 2002)
- Albert O. Hirschman, COME FAR PASSARE LE RIFORME (ed. il Mulino, Bologna
1990)
- George Katona, L’ANALISI PSICOLOGICA DEL COMPORTAMENTO ECONOMICO
- Giacomo Marramao, L'ORDINE DISINCANTATO (Editori Riuniti, Roma 1985)
- Michael D. Resnik, SCELTE (ed. il Mulino, Bologna)
- Carl Schmitt, LE CATEGORIE DEL POLITICO (ed. il Mulino, Bologna 1972)
- Herbert A. Simon, LA RAGIONE NELLE VICENDE UMANE (ed.il Mulino, Bologna 1983)
- Salvatore Veca in Michelangelo Bovero (a cura di), RICERCHE POLITICHE DUE. Identità,
interessi e scelte collettive (ed. il Saggiatore, Milano 1983)
- Georg H. von Wright NORMA E AZIONE (ed. il Mulino, Bologna 1989)
4- I LUOGHI COMUNI DEL RIFORMISMO
In questo capitolo esamineremo alcuni luoghi
comuni del riformismo: si tratta di argomenti in gran parte utilizzati dai
nemici del riformismo, per screditarne funzioni e potenzialità.
Un primo argomento, che ci è utile anche per distinguere il riformista
autentico da chi parla soltanto di riforme, è quello che potremmo chiamare
dell'illusionismo politico.
Marco Simini, nel libro La comprensione reciproca (op.cit.), sottolinea
il ruolo dell'illusione nella storia, dagli stratagemmi militari e politici
alla sorpresa per la violazione di regole; il buon comunicatore, osserva, è un
illusionista (pagg.107-141): l'individuo è soggetto infatti ad illusioni
percettive e cognitive, agisce seguendo un proprio modello della realtà che è
sempre relativo rispetto a quest'ultima; la realtà viene elaborata
individualmente da filtri di origine neurologica (il sistema nervoso umano coi
cinque sensi ne percepisce infatti solo una parte), filtri sociali (linguaggio,
cultura), filtri individuali (aspettative, modelli cognitivi che generalizzano,
cancellano, deformano la realtà): "una persona con una determinata idea
politica tenderà a notare solamente le informazioni che confermano le sue
convinzioni" (cit., pag.29), chi ascolta un comizio è già in sintonia con
le idee del relatore, le credenze tendono a rinforzarsi perché siamo verificatori
piuttosto che falsificatori di ipotesi (pagg.36, 111), la sostituzione di
modelli produce esperienze di illuminazione, ristrutturazioni di
contesto e di significato (pagg.124 e 169).
Ogni gruppo sociale o movimento politico agisce infatti nell'ambito di modelli
costituiti da "valori, credenze, regole e concetti-simbolo peculiari"
(pag.34); l'individuo è influenzato in modo fondamentale dall'ambiente
culturale, sociale, familiare in cui vive, ed alla base delle incomprensioni di
solito vi sono conflitti di regole (personali, culturali, consce,
inconsce, pag.40); vi sono regole di cui diventiamo consapevoli solo quando
vengono violate, regole spaziali e concezioni temporali (pagg.21 e 41). Ogni
regola è come un vestito, non è assoluta e può sempre essere modificata:
"al di là delle diverse regole, condividiamo alcuni valori
fondamentali" (pag.166).
Simini analizza l'effetto alone (esempio: bellezza=bontà), le ancore
(ad esempio: luogo/odore/sapore = stati d'animo; le ancore sono utilizzate
dalla propaganda), i concetti-simbolo, positivi e negativi, che in
campagna elettorale valgono più dei programmi e delle parole, la comunicazione
non verbale (postura, gesti, fisiologia, paralinguistica), le metafore
(pagg.46-55, 98 e seg., 101 nota, 142, 158 e seg., 182).
La proprietà commutativa non vale per la comunicazione: l'ordine di
trasmissione delle informazioni è importante (pag.60 e 155, nota), non è la
quantità di informazioni che rende efficace il messaggio, ma come questo viene
ricevuto dall'interlocutore (predicati linguistici, visivi, uditivi,
cenestesici, pagg.87-91); Simini critica la didattica che si basa in prevalenza
su aspetti visivi piuttosto che uditivi o cenestesici (le tre submodalità sono
descritte a pagg.67-68). Inoltre, il nostro inconscio non legge i
"no", le negazioni, sebbene il nuovo venga spesso descritto
con più efficacia come ciò che non è: automobile come carrozza senza cavalli,
benzina senza piombo, ecc. (pagg.57 e 161).
Problemi o idee possono essere considerati da vari punti di vista: fattuale,
emotivo, pessimista, ottimista, creativo, organizzativo (pag.189 e seg.); le domande
possono essere utilizzate per indurre l'interlocutore nella "trappola
della falsa alternativa" (pag.164), le domande ingenue
disorientano, le implicazioni parassite invece inducono in errore
(pagg.181-184). Simini analizza le principali strutture verbali imprecise
(termini vaghi, comparativi, nominalizzazioni, ecc.), l'albero decisionale, la
plausibilità di una catena consequenziale di eventi ("supponiamo che",
pagg.145-152-176).
Nel dibattito politico è fondamentale il principio di contrasto:
"una tesi apparirà più moderata di quanto obiettivamente sia, se espressa
dopo un intervento estremista e radicale" (pag.125); la consapevolezza
collettiva del potere della comunicazione è una garanzia di libertà (pag.14).
John Kenneth Galbraith, nel libro Anatomia del
potere (op.cit.), distingue gli strumenti di esercizio del potere,
che individua nella punizione (sottomissione per coazione), nella remunerazione
(sottomissione per ricompensa), e nel condizionamento (persuasione), dalle fonti
del potere, che possono essere la personalità (leadership, potere
condizionatorio), la proprietà (che è strettamente connessa al potere
remunerativo), l'organizzazione. Per i teorici socialisti, egli osserva, la
proprietà era l’unica forma di potere.
La squadra sportiva è un esempio concreto di fonti e di strumenti di potere in
vista di un fine, che è la sottomissione della squadra avversaria (pagg.77-78,
nota). Ma molto potere politico e della stampa, osserva Galbraith, è in realtà
solo illusione del potere, pura persuasione; e talvolta l'organizzazione
diventa il surrogato all'esercizio del potere stesso (pagg.84-85).
Il livello di civiltà di un paese è determinato da quanto si riesce a disciplinare
il potere punitivo senza determinare vuoti di potere (pag.99). Il disprezzo per
la politica può portare alla teoria della politica esercitata da
"non-politici" e la politica stessa viene ridotta a tecnica di
amministrazione; le qualità del politico, osserva invece D'Alema (La
politica, perché? op.cit., pagg.4-12), sono passione, responsabilità e
lungimiranza, e la partecipazione stessa alla vita politica è peraltro una
importante forma di socialità.
4-2 L’EQUAZIONE : RIFORMISMO UGUALE MODERAZIONE
Albert O. Hirschman (Come far passare le
riforme, cit.) invita a distinguere ciò che è facile o difficile da ciò che
sembra facile o difficile: attacchi a forze sociali o interessi che
sembravano tigri di carta e poi si dimostravano tigri vere (o viceversa,
pag.319).
Le principali linee di attacco, gli argomenti contro le riforme sono
(pagg.321-322):
a) l'anello di retroazione innescato dalla riforma aggrava i problemi;
b) i beneficiari finali di un provvedimento sono diversi da quelli individuati
originariamente;
c) si producono esternalità (emergono nuovi problemi).
Scrive Marvin Harris "il mondo è pieno di
moralisti che pretendono di aver scelto liberamente ciò che inconsapevolmente
sono stati costretti a volere, mentre milioni di persone che vorrebbero essere
libere finiscono col piegarsi a nuove forme di schiavitù perché non comprendono
i fattori che condizionano la libertà di scelta. Per cambiare in meglio la vita
sociale, bisogna cominciare a capire perché solitamente cambia in peggio"
(cit., pag.13).
Le conseguenze delle mancate riforme, osserva Franco Debenedetti (Non basta dire no, op.cit.), diventano la ragione per
non farle (pag.220); nelle campagne elettorali, osserva Michele Salvati
(op.cit., pag.176), conta il messaggio costituito da poche idee-forza, e non il
programma.
Antonio Polito osserva come i no di chi gode di rendite di posizione
spesso blocchino le riforme (op.cit.pagg.4-6); talune discussioni sulle riforme
hanno però più un fine simbolico che reale come è accaduto in Italia sulla
questione dell'art.18 (Giancarlo Lombardi, cit. pag.94).
In talune circostanze, col cambio delle maggioranze di governo, la continuità
del processo di riforme già avviato è più importante di una riforma ulteriore,
fatta solo per dimostrare iperattività (Paolo Onofri, cit.pag.115); peraltro, i
temi di discussione politica possono essere imposti tanto dalla maggioranza che
governa quanto dalla minoranza che fa opposizione.
Albert O.Hirschman, in Felicità privata e
felicità pubblica (op.cit.), prende in esame l'oscillazione fra periodi di
attenzione a temi pubblici e periodi di attenzione ad obiettivi privati di
benessere; la delusione di aspettative è un'esperienza comune degli
esseri umani, in quanto le aspettative spesso eccedono la realtà e non
viceversa (delusione come disinganno, pag.17); solo gli esseri umani
possono compiere errori, e talvolta esercitano questo potere al massimo grado
(pag.27).
La delusione per un genere di attività porta alla protesta oppure alla defezione
dalla stessa per un'attività di altro genere; in questo caso la sfera pubblica
può essere percepita come un'alternativa a quella privata (dicotomia consumatore-cittadino,
pagg.70-71). Il passaggio dal pubblico al privato è invece sostenuto spesso da
una ideologia, che si caratterizza come tale perché "proclama il
comportamento nel proprio interesse come un dovere sociale" (pag.74).
Ogni mutamento fondamentale, individuale o sociale, dipende dalla combinazione
di fattori strutturali (forze soggiacenti e metapreferenze) con
fattori contingenti (eventi catalizzatori); la regola, nella vita
individuale ed anche sociale, è infatti la riproduzione e non il mutamento.
L'esperienza della delusione può essere l'evento catalizzatore che si verifica
nel momento opportuno, in cui la prendo sul serio perché ho il desiderio di un
cambiamento radicale: è ragionevole pensare, secondo Hischmann, che coloro che
sono delusi dalla sfera privata si proporranno pubblicamente in modo riformista
(pag.83).
Oggi tutti sono riformisti; anzi, sono "i
veri riformisti": il riformismo, osserva Nicola Rossi, non è un metodo e
non va confuso col gradualismo; sul terreno del metodo, tutti possono essere
riformisti ma nel contempo "su quel terreno si stemperano le identità e si
confondono i ruoli" (in Non basta dire no, a cura di Franco
Debenedetti, cit. pag.142).
Il luogo comune citato assomiglia a quello analizzato da John Dunn a proposito
della democrazia (La teoria politica di fronte al futuro, op.cit.): oggi
siamo tutti democratici, siamo tutti riformisti, perciò non è più necessario un
“partito riformista”.
Il luogo comune secondo cui “siamo tutti riformisti” assomiglia molto alla
ricerca di ciò che fa tendenza (essere cool) descritta da Naomi Klein in
No logo (op.cit.), ed è sinonimo di insicurezza, anche se economicamente
e politicamente può essere molto vantaggioso: si arriva a rendere cool
le aziende, all'interno ed all'esterno, e persino i paesi (Tony Blair come
"stilista di una nazione", cit.pag.98); I marchi, e tutto ciò che fa
tendenza, crea valore, ma i messaggi pubblicitari distorcono importanti ideali
(ecologia, femminismo, recupero del degrado urbano, cit. pag.344).
L’essere tutti riformisti, o peggio ancora esserlo perché fa tendenza, è un
luogo comune che appare quasi una dichiarazione di impotenza: siamo tutti
riformisti, quindi nessuno è riformista!
Karl Korsch, in Dialettica e scienza nel
marxismo (op.cit.) paragonava Il Capitale di Marx all' Origine
della Specie di Darwin: quest'ultimo scoprì la legge evolutiva della
natura, l'altro svelò la legge di sviluppo della storia umana, vale a dire il
materialismo storico, una legge che avrebbe dovuto avere validità scientifica,
secondo i principi della scienza sperimentale. Ma proprio la storia ha mostrato
la falsità di queste "argomentazioni scientifiche"; sta di fatto però
che il cosiddetto "marxismo socialdemocratico" dell'epoca, per
Korsch, era un movimento politico paragonabile alla trasformazione del
cristianesimo originario, che era rivoluzionario ed antistatale, nel
cristianesimo medievale divenuto religione ufficiale di Stato (cit., pag.139).
Anche la critica, tanto osannata dalla tradizione marxista, è soltanto la premessa
del fare riformista, non ne è il contenuto; proprio perché il riformismo è
soprattutto fare, piuttosto che contestare, mentre una vasta parte di coloro
che contestano, si fermano in realtà al primo capitolo del loro personale libro
sul cambiamento, individuano ciò che non va, a ragione o a torto lo proclamano
spesso a voce alta e talvolta anche con atti tutt'altro che pacifici, ma non
propongono soluzioni concrete, realistiche, sistematiche, propositive. Come
dice quel proverbio, "can che abbaia non morde".
I riformisti, al contrario, sono cani che non abbaiano, oppure lo fanno
sottovoce, però mordono! Si tratta quindi di due prospettive diverse di
affrontare i problemi, che il più delle volte sono tra loro inconciliabili: da
un lato la critica tout court, volta a prefigurare un nuovo ordine sociale
spesso solo vagamente ed irrealisticamente fantasticato (massimalismo,
populismo, radicalismo, movimentismo), dall'altro critica costruttiva per
ottenere cambiamenti concreti, spesso significativi nell'ordine sociale
esistente (riformismo).
4-5 RIFORMISMO RIVOLUZIONARIO ?
In Riforme e rivoluzione nella storia
contemporanea (op.cit.), Riccardo Lombardi osserva come Giller Martinet
avesse proposto l'approccio del riformismo rivoluzionario,
caratterizzato da riforme politiche in stretto legame con l'azione di massa
nelle fabbriche e nella società: il riformismo semplice, secondo Lombardi,
diventava pertanto quella politica di riforme che il sistema riesce non solo a
tollerare, ma anche ad integrare; mentre il riformismo rivoluzionario si
differenziava perché puntava alla conquista non del potere ma dei poteri
(in primo luogo quello governativo) che sono indispensabili come primo passo
per avviare una società di transizione (pag.325).
Leon Blum, in Francia, spostò il problema politico del riformismo, da quello
della transizione al socialismo a quello dell'amministrazione progressiva e
riformatrice (pag.330); una politica di riforme, osserva ancora Lombardi, è più
importante sotto il profilo educativo e per i consensi che riesce a strappare
agli avversari politici, che per la sua efficacia nell'ottenere riforme
concrete (pag.327).
Il riformismo rivoluzionario è pertanto una contraddizione in termini,
inaccettabile sul breve periodo: o si è riformisti, o si è rivoluzionari; e se
si è riformisti, si deve anche essere consapevoli di essere politicamente
contrapposti ai rivoluzionari, coi quali non si può avere alcun dialogo
costruttivo. Nel lungo periodo, invece, a nostro avviso la situazione è diversa
e le posizioni sono rovesciate: sono i riformisti, nel lungo termine, ad
ottenere i risultati rivoluzionari, mentre i rivoluzionari di oggi potranno
essere soltanto, nella migliore delle ipotesi (per loro), i dittatori di
domani, in ogni caso saranno comunque dei perdenti sotto il doppio profilo
morale e storico-politico, sconfitti sul piano dei valori e sconfitti sul piano
dei risultati. Il riformismo rivoluzionario dell’oggi, semplicemente, non
esiste.
4-6 RIFORMISMO DI DESTRA E DI SINISTRA
Secondo Norberto Bobbio il termine “riformismo” è
neutro; la parola “riformismo”, infatti, “non importa se forte o debole, non
vuol dire assolutamente niente, se non si spiega chiaramente quali sono le
riforme da fare, perché anche i conservatori fanno riforme (non ne hanno mai
fatte tante come di questi tempi)” (Bobbio, Le mie critiche al Psi,
cit.).
Le principali visioni della politica, per Bobbio, sono quella diadica o assiale
o del terzo escluso, la visione triadica e la multiade (Destra e sinistra,
cit.).
Nella visione diadica il valore descrittivo dei termini politici opposti può
essere forte (ad esempio progressisti o conservatori), oppure debole (ad
esempio bianchi o neri); il modo di pensare per diadi è peraltro molto diffuso:
ne sono esempi i termini contrapposti di società-comunità, piano-mercato,
pubblico-privato, destra-sinistra, trascendenza-immanenza.
La visione diadica della politica può essere descritta con metafore temporali
(innovatori contro conservatori, progressisti contro tradizionalisti), o con
metafore spaziali: la politica verticale è rappresentata dal rapporto
governanti-governati, a sua volta descrivibile con le dimensioni “alto-basso”
(Camera alta e Camera bassa, alto clero e basso clero) e
“superficiale-profondo” (governo visibile, governo invisibile); la politica
orizzontale consiste nel rapporto dei governanti o dei governati fra di loro, e
può essere descritta con varie dimensioni spaziali: destre-sinistre (con
ideologie e programmi contrapposti), avanti-dietro (il principe o
partito-avanguardia e i suoi seguaci), vicino-lontano (il centro-sinistra è
vicino al centro ma lontano dalla destra, ecc.), Nord-Sud che, osserva Bobbio,
è la grande antitesi a livello planetario (pag.41).
La visione triadica della politica può a sua volta distinguersi come visione
del Terzo incluso (nè nè, "aut aut", è il caso ad esempio del centro
quando si definisce nè destra nè sinistra), o come visione del Terzo includente
(“et et”, è il caso del socialismo liberale o liberal-socialismo), visione
triadica complementare, che caratterizza i movimenti "trasversali", i
cui temi possono essere di tutti i partiti.
Il sistema elettorale proporzionale dà origine nei fatti ad una multiade,
mentre l'immagine della sfera è quella che meglio si addice ai regimi
totalitari.
Destra e sinistra, osserva ancora Bobbio, sono termini antitetici,
reciprocamente esclusivi, congiuntamente esaustivi (Destra e sinistra, cit.,
pag.3). La sinistra, anzi le sinistre, è un concetto caratterizzato da
relatività storica; anche il liberalismo "è di destra e di sinistra
secondo i contesti" (cit., pag.57).
Tratti caratteristici delle sinistre sono il concetto di emancipazione contrapposto
alla tradizione, che è un tipico valore delle destre, il concetto di eguaglianza,
quello di diversità (la più grande rivoluzione egualitaria del nostro
tempo è quella femminile, che è stata fatta invocando la diversità, cit.
pag.64), l’artificialismo: l'uomo è ritenuto capace di correggere tanto
la natura matrigna che la società matrigna; scrive Bobbio in proposito:
"l'artificialismo della sinistra non si arrende neppure di fronte alle
palesi diseguaglianze naturali, a quelle che non possono essere attribuite alla
società: si pensi alla liberazione dei matti dal manicomio" (cit., pag.75).
Nel nostro tempo, i temi legati alla bioetica rientrano pienamente in questa
concezione.
4-7 RIFORMISMO VECCHIO E NUOVO
Giuseppe Vacca (in La politica perché,
cit.) distingue il vecchio riformismo, ancorato alla politica nazionale,
dal nuovo riformismo, che è sopranazionale: il termine si è peraltro
dilatato fino a comprendere ogni azione di governo che produce mutamenti,
quindi il riformismo di Brandt ma anche quello della Tatcher, ed è rimasta
l'identificazione col gradualismo derivata dall'antitesi ormai anacronistica
fra riforme e rivoluzione (pag.73).
Costruzione del welfare state e regolazione politica del mercato interno
(nazionalismo economico) erano gli obiettivi delle sinistre in Occidente fino
agli anni Settanta del secolo scorso; il "compromesso fra Smith e
Keynes" finì con la crisi del sistema di Bretton Woods (cit., pagg.80-81).
Il Pci, osserva ancora Vacca, fu l'unico caso di "riformismo nazionale
comunista" che si espresse nella fondazione della Repubblica Italiana ma
mostrò poi una contraddizione irrisolvibile fra politica interna e
internazionale, producendo il fenomeno solo italiano della democrazia bloccata.
L'identità riformista, secondo Michele
Salvati (Il partito democratico, cit.), viene prima
dei programmi e della propaganda elettorale, e la costruzione di un partito
riformista, in Italia, rappresenta uno scenario di rottura, piuttosto che di
gradualismo.
Destra e sinistra, in democrazia, "sono avversari politici ma non nemici
mortali" (cit., pag.17); la storia è infatti "storia comune", talvolta
caratterizzata da legami bipartisan sebbene non consociativi.
Il riformismo radicale nella sinistra italiana ha prodotto
"separati in casa" (cit., pagg.23-24), pur essendovi in realtà un
legame di continuità tra riformismo moderato e riformismo radicale, che si
manifesta anche nella difficoltà a collocare varie personalità; tuttavia, le
maggiori diversità si riscontrano in politica economica e in politica
internazionale. Inoltre, chi aveva ragione storicamente è stato distrutto, e
chi aveva torto è oggi l'erede di quei valori (cit., pagg.18 e 91).
Ambizioni personali, risentimenti, fiducia o sfiducia reciproca troppo spesso
poi fanno giocare la politica "dal lato del cameriere" (cit.,
pag.51).
La politica, osserva ancora Salvati, è un intreccio di temi che riguardano sia
il contenitore (architettura politica) che il contenuto
(messaggi, programmi, politiche, pag.65).
Sono elementi tipici delle identità di centrodestra il liberalismo, il
populismo ed il conservatorismo, quest'ultimo nella sua triplice componente
(pag.66): religiosa (Dio, famiglia), nazionalistica (Patria),
opportunistico-corporativa (difesa dello status quo e di interessi
privilegiati).
Sono elementi tipici del centrosinistra ancora il liberalismo, elementi
solidaristico-egualitari e corporativo-opportunistici e, nel nostro Paese,
anche il riformismo cattolico; l'idea del "partito democratico" è la
logica conseguenza nel presente dell'anormalità storica del nostro Paese,
caratterizzato dal riformismo cattolico e dalla presenza della Chiesa di Roma
(cit., pagg.15, 45 e 113), e comprende quattro tradizioni culturali:
"socialdemocratica, cattolico-popolare, liberale di sinistra,
ambientalista", unite da una doppia lealtà, della corrente verso il
partito e del partito verso la coalizione, dando origine a "contaminazione
ideologica" (pag.95).
Di queste quattro tradizioni culturali della sinistra italiana, osserva
Salvati, tre non sono riconducibili al socialismo: in una fase storica in
profonda mutazione, sono cambiate le basi sociali, le domande politiche, le
stesse definizioni di amico e di nemico; il che implica una "sinistra
plurale" (cit., pagg.96-97).
In una competizione bipolare, osserva ancora Salvati, occorre saper attrarre
sia l'elettore mediano, moderato o centrista, che quello esterno al proprio
schieramento (cit., pag.69). Il messaggio di libertà è ingannevole, una cosa è
infatti il messaggio, altra cosa il programma e l'attività di governo (cit.,
pag.78); l'attenzione agli utenti ed ai consumatori, ad esempio, spesso
confligge con quella ai dipendenti ed ai produttori. Il meglio
"astratto" va quindi distinto dal meglio "possibile",
l'entusiasmo per le occasioni può oscurare l'analisi delle difficoltà (cit.,
pag.117).
I riformisti si distinguono per la loro capacità di declinare i valori "in
modo compatibile con la situazione e attraente per gli elettori" (cit.,
pag.118). Sono temi di natura economico-sociale la sicurezza, la criminalità,
la giustizia, il federalismo, l'immigrazione (cit., pag.83).
Esistono, osserva Salvati, sia un rinnovamento che un conservatorismo opportunistici
(cit., pag.116), ed un conservatorismo del sindacato (cit. pag.131). Le
problematiche su come riformare il riformatore si traducono in riforme
costituzionali da un lato ed auto-riforma della politica dall'altro, dove
peraltro accordo e fiducia reciproca sono beni scarsi.
I comunisti italiani introdussero la distinzione fra riformisti (socialdemocratici,
riformismo debole) e riformatori (riformismo forte o "buono",
pag.101). Salvati osserva come vi sia stata una transizione della sinistra nel
tempo, dal secolo liberal-democratico (rivoluzione francese, whig,
pagg.95 e 104), caratterizzato dal dibattito sui diritti formali/legali ed i
cui nemici erano l'aristocrazia, la chiesa e la proprietà fondiaria, a quello
socialista caratterizzato per l'attenzione ai "diritti sociali"
(pagg.106-107) ed alla contrapposizione socialdemocrazia versus
comunismo. L'odierno dibattito sulla "terza via" (lib-lab)
riguarda il compromesso fra principi liberali e principi socialisti (pag.110)
ed è conseguenza:
a) della bancarotta del comunismo (dimensione ideologica);
b) dei cambiamenti intervenuti nel capitalismo, per il quale non è più
applicabile la "strategia Keynes-Beveridge" (dimensione
"mondo" e globalizzazione, cit. pag.115).
La sinistra era liberale e repubblicana nel suo primo secolo di vita,
socialista nel secondo, una miscela liberal-socialista nel terzo (cit.,
pag.118); l'obiettivo è sempre lo stesso: creare una società giusta (Rawls) o
decente (Margalit). In Italia questo progetto è stato all'origine
dell'associazione "Libertà Eguale" (cit., pagg.127-128).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Autori vari, LA POLITICA, PERCHE? Riflessioni
sull'agire politico (Donzelli editore, Roma 2001)
- Norberto Bobbio, DESTRA E SINISTRA (Donzelli editore, Roma 1994)
- Norberto Bobbio, LE MIE CRITICHE AL PSI (in MondOperaio, 12/1989)
- Franco Debenedetti (a cura di), NON BASTA DIRE NO (ed.Mondadori, Milano 2002)
- John Kenneth Galbraith, ANATOMIA DEL POTERE (ed.Mondadori/CDE, Milano 1984)
- Marvin Harris, CANNIBALI E RE (Feltrinelli editore, Milano 1979)
- Naomi Klein, NO LOGO (ed. Baldini e Castoldi, Milano 2000)
- Karl Korsch, DIALETTICA E SCIENZA NEL MARXISMO (ed. Laterza, 1974)
- Albert O. Hirschman, COME FAR PASSARE LE RIFORME (ed. il Mulino, Bologna
1990)
- Albert O. Hirschman, FELICITÀ PRIVATA E FELICITÀ PUBBLICA (ed. il Mulino,
Bologna 1983)
- Guido Quazza (a cura di), RIFORME E RIVOLUZIONE NELLA STORIA CONTEMPORANEA
(ed. Einaudi, Torino 1977)
- Michele Salvati, IL PARTITO DEMOCRATICO. Alle origini di un'idea politica
(Edizioni il Mulino, Bologna 2003)
- Marco Simini, LA COMPRENSIONE RECIPROCA (ed.Franco Angeli, Milano 1997)
5- LE CATEGORIE DEL RIFORMISMO
Luciano Pellicani (“Riformismo”, in Mondoperaio,
gennaio-febbraio 2004) distingue il riformismo dei mezzi, in cui permane
l'idea di fuoriuscire dal capitalismo e dal mercato, dal riformismo dei fini,
che si caratterizza storicamente per le politiche di welfare (pag.168).
Secondo Antonella Besussi (La società migliore, op.cit.), il riformismo
è un progetto a spizzico, come sosteneva Popper, e può anche ispirarsi
al desiderio di ripristinare un ordine decaduto o di far progredire un ordine
bloccato; in tal senso è continuista (riformare per preservare) e può
anche essere peggiorista nel senso di "restituire il mal
tolto" (pag.13).
La Besussi analizza quindi le caratteristiche del riformismo che chiama invece migliorista,
e riferendosi all’opera di William James individua alcune ragioni filosofiche a
favore del migliorismo, che sono (pag.14, nota):
- l'anti-determinismo, ovvero il possibile come categoria della realtà;
- il volontarismo morale, e cioè che la speranza di mutamento da sola
non basta, servono anche le azioni;
- la medietà, secondo cui le rettifiche allo status quo non sono
impossibili ma neppure inevitabili, il riformismo è a metà fra il pessimismo e
l'ottimismo;
- la provvisorietà, che è una prospettiva anti-escatologica: i problemi
non si possono risolvere una volta per tutte (pag.14);
- la visione empiristica della politica, secondo cui contano gli uomini
e le donne come sono, qui ed ora (pag.21).
Il riformismo può essere una soluzione non antagonistica, se migliora la
posizione di alcuni lasciando invariata quella di altri (ad esempio dando
garanzie formali, pag.16); oppure può essere una soluzione antagonistica,
quando il suo intento è di produrre simmetria fra esclusi ed inclusi
distribuendo dotazioni, e la ridiscussione delle regole in questo caso è la
questione centrale: "non si tratta soltanto di far vedere qualcuno, ma di
farlo giocare" (pag.17).
Il rapporto fra il migliorismo e i suoi potenziali antagonisti può essere
trattato con tre strategie:
- realistica, cercando il consenso degli antagonisti con la persuasione, e
distinguendo fra loro la minoranza pregiudizialmente ostile da una maggioranza
recuperabile (pag.52);
- utopistica, secondo cui gli antagonisti sono nemici da sconfiggere,
colpevoli, ecc.;
- centrata sulla riforma, per cui decisioni non accettate trovano però
ugualmente giustificazione se producono esiti accettabili per più persone
(pag.50).
Il riformismo migliorista si caratterizza quindi per:
- una interpretazione degli eventi sociali in termini di suffering
situations (pag.27);
- la sovrapposizione di posizioni antagonistiche, parzialmente trattabili
(pag.34);
- una prospettiva liberal, il new deal non è socialismo ma un
esperimento di riforma del capitalismo (pag.195);
- consequenzialismo: contano i risultati sociali in termini di
riduzione della sofferenza e di inclusione (pag.26);
- pragmatismo: i mezzi sono più importanti dei fini, la politica è
responsabile anche delle procedure (e dei relativi costi) per ottenere un
risultato;
- minimalismo: occorre selezionare una classe di problemi (pag.34);
- sperimentalismo: il migliorismo è caratterizzato da un atteggiamento
non astensionistico, "i principi sono ragioni per vedere fatti: quando
diventano ragioni per evitarli perdono il loro valore" (pag.29);
l'astensionismo tratta invece le regole sociali come leggi naturali e premia
chi è "naturalmente" vincente, un'aristocrazia naturale
(pagg.60 e 105);
- perfettibilità dello status quo: il migliorismo ha fiducia nell'attivismo
e nel gradualismo, rifiuta il catastrofismo, è estraneo al monismo ed è
indifferente alle ideologie; il rifiuto del comunismo accomuna e divide
conservatori e miglioristi, con la differenza però che il conservatore vede la
risposta ma non ciò che la produce (pag.191 e 301);
- possibilismo: il possibilismo si colloca oltre il realismo ed il
probabilismo (cambiamenti innocui), ma prima dell'utopismo (che porta a
cambiamenti impraticabili); il riformismo migliorista "si concentra sulla
ricerca di soluzioni possibili (praticabili, anche se ancora intentate e/o
controverse) quando le soluzioni probabili non garantiscono una efficace
soluzione dei problemi" (pag.29);
- pluralismo, come criterio metodologico sottostante (pag.311).
L'orientamento al migliorismo di principi e politiche può essere più o meno
efficace, più o meno esplicito; il migliorismo può essere quantitativo,
la logica è incrementale e vi è un problema di soglia per fissare un minimo di
risorse necessarie (pag.38).
Il riformismo migliorista è umanitario: contano gli effetti sulle
persone, è un'etica della decenza sociale alla cui base è il principio di non
esclusione ("la giustizia è il fine, la decenza il mezzo", pag.26):
una società decente prevede solo inclusi e visibili, non prevede l'offerta
disperata ("desperation bidding", pag.25) che è invece
caratteristica delle situazioni di sopravvivenza.
L'utilitarismo negativo è implicito nel migliorismo: non si tratta di
eliminare la sofferenza ma di minimizzarla; le sofferenze possono essere
accidentali, inflitte deliberatamente, auto-imposte, conseguenza indiretta di
eventi. Il criterio è sempre la sofferenza, che è una condizione
facilmente universalizzabile, comprensibile da chiunque non si ritenga
invulnerabile (pag.200): la domanda di aiuto che deriva dalla sofferenza è
urgente, invece la felicità è un concetto manipolabile: "sofferenza
e felicità non sono moralmente simmetriche" (pag.24, nota).
La politica, osserva Galbraith ne L’età
dell’incertezza, (op.cit.), va intesa come arte del possibile: saper
separare l'importante dal periferico e concentrarsi sull'importante. La
difficoltà dei problemi, secondo Galbraith, non è conoscerne le soluzioni
(perché sono note) ma affrontarli: affrontare i problemi richiede impegno
spesso senza possibilità di compromessi, né di dilazioni, né di convenienze
politiche; fare un uso pragmatico delle idee senza lasciarvisi imprigionare
significa che niente in via di principio è buono o cattivo, il banco di prova è
se funziona o aiuta la gente a funzionare.
Problemi estremamente grandi e complessi (ad esempio l'olocausto nucleare) si
caratterizzano talvolta per l'indifferenza collettiva; l'educazione democratica
impone di contrastare chi contrasta l'interesse generale, la democraticità del
processo di governo riduce i pericoli e la debolezza dello stato moderno.
La politica può allora essere:
a) della gente, attraverso il rafforzamento del potere legislativo (e del
potere di informare accompagnato dalla reazione pubblica conseguente) e la
partecipazione diretta, attraverso referendum, elezioni, petizioni, ecc.;
b) dei leaders, ed implica un indebolimento del potere legislativo.
La democrazia come spettacolo porta alla demagogia ed è una patologia; la
furfanteria non è che la riproduzione di frodi più antiche: i metodi, osserva
Galbraith, sono tutti noti.
Martin Buber (Sentieri in utopia, op.cit.)
distingue i progetti topici (che cercano di risolvere i problemi di una data
situazione) da quelli che tendono a creare situazioni nuove (pag.88); il
socialismo utopistico è topico (qui ed ora, pag.98): in Palestina, invece, i
villaggi comunitari ebraici sono nati non da una dottrina ma da una situazione
(pag.154).
La progettazione, scrive Tomas Maldonado (La speranza progettuale,
op.cit.), "è il nesso più solido che unisce l'uomo alla realtà ed alla
storia" (pag.31); la capacità di progettare, come la capacità di
fare appartengono entrambe all'universo operativo dell'uomo.
Il tipico “fare senza progetto” è il gioco, il tipico “progettare senza
fare” è l'utopia; entrambi, il gioco e l'utopia, sono attività libere e
spontanee, caratterizzate dalla gratuità ed entrambi sono "esercitazioni
preparatorie: il gioco per il fare, l'utopia per il progettare" (pag.32);
l'utopia ha però una componente in più che al gioco manca, ed è la speranza
(pag.33).
L'utopia diventa concreta solo nel contesto di un'azione efficace:
"senza valutazione tecnica la concretezza del discorso utopico è una
finzione" (pag.135), la debolezza strumentale è debolezza operativa.
La progettazione implica la proiezione concreta: un processo dialettico
di reciproca formazione e reciproco condizionamento interessa la condizione
umana e l'intorno umano, l'uomo non può vivere senza la proiezione concreta,
perché comprometterebbe il suo stesso avvenire (pagg.27-30).
La progettazione permette atteggiamenti di pessimismo costruttivo, come
sulla questione ambientale (pagg.80-80); la progettazione priva di una
"lucida coscienza critica - ecologica o sociale - ci conduce sempre ad
evadere dalla realtà contingente" (pag.100): la gestione è il
comportamento che trasforma l'informazione in azione.
Le bipolarizzazioni ordine-disordine e semplicità-complicazione
sono inseparabili (pag.125): la progettazione ambientale porta i sistemi che
tendono alla complessità disordinata ad una complessità ordinata (non
complicata, pag.126).
I sistemi possono essere (pag.103):
isolati (il sistema non scambia con l'ambiente nè materia nè energia);
chiusi (il sistema scambia con l'ambiente la sola energia);
aperti (il sistema scambia con l'ambiente sia l'energia che la materia).
I biosistemi ed i sistemi sociali dovrebbero essere sistemi aperti, la tendenza
storica dimostra che i sistemi sociali più chiusi o isolati sono i più fragili,
"la loro mancanza di elasticità e quindi di adattabilità li rende
particolarmente vulnerabili all'influenza dei fattori endogeni ed esogeni di
deviazione" (pag.104).
L'analisi rawlsiana (Una Teoria della
Giustizia, op.cit.) costituisce un esempio di teoria prescrittiva,
almeno nella sua capacità di delineare in modo adeguato un "ideale
sociale" (pag.24) e nel far derivare da esso in modo coerente le istituzioni
di una "società giusta". Nell'elaborare la sua teoria della
giustizia, John Rawls riprende in effetti i temi classici delle filosofie
contrattualiste del Settecento, in particolare quella kantiana (i principi di
giustizia sono imperativi categorici, pag.217), e si pone in alternativa
all'utilitarismo ed al perfezionismo (pagg.31 e 36).
Nelle teorie teleologiche, osserva Rawls, giusto è ciò che massimizza il
bene, bene che viene definito indipendentemente (eccellenza: perfezionismo;
piacere: edonismo; felicità: eudaimonismo; pag.38 e pag.455); nelle teorie
deontologiche il bene non viene definito indipendentemente dal giusto: è
bene ciò che è giusto, il giusto non massimizza il bene (pag.42). Buono,
nella teoria di Rawls (teoria contrattualista della giustizia come equità), è
ciò che è razionale che un individuo voglia secondo il suo piano di vita
(pag.368), ed è un concetto più esteso del "moralmente buono"
(pag.330 e seg.; la distinzione fra uomo ingiusto e uomo malvagio è a pag.361).
L'utilitarismo nega la priorità della giustizia ed estende a tutta la società
il principio di scelta individuale, in taluni casi giustificando violazioni
alla libertà in cambio di altri benefici (pag.140); per il contrattualismo, al
contrario, i principi di scelta sociale sono oggetto di accordo come gli altri
principi (di giustizia, ecc.), mentre inclinazioni e desideri umani non
costituiscono un dato da soddisfare: gli interessi che violano i principi di
giustizia sono infatti privi di valore (pagg.41-43). Il principio di giustizia
affronta problemi di distribuzione (eguaglianza), il principio di
utilità problemi di aggregazione (benessere totale, allocazione,
pag.88): l'intuizionismo come metodo nega la priorità di un principio
sull'altro e ritiene possibili soluzioni di compromesso, di equilibrio fra i
due principi (pag.47, pag.469 e seguenti).
L'approccio contrattualista è noto anche come artificialismo (cfr. Veca,
La Società Giusta, pag.9), perché considera le società umane come artefatti,
cioè costruzioni artificiali che l'uomo può modificare con la propria volontà;
esso si contrappone, in primo luogo, a quelle teorie che considerano le società
umane come fenomeni naturali, che esistono al di là e al di sopra della
volontà umana, e che perciò non sono modificabili con atti di volontà;
esponenti illustri di questo secondo approccio sono Aristotele, Hegel e Marx.
La differenza fondamentale che esiste fra gli artificialisti (tra cui Rawls) ed
i naturalisti può essere meglio compresa osservando, con Salvatore Veca, che
per i primi la società è un problema, mentre per i secondi è un dato.
Dire che la società è un problema, significa infatti sostenere che essa può
essere modificata (risolta) mediante interventi razionali compiuti dall'uomo,
mediante progetti, e che quindi tutto ciò che riguarda l'assetto
sociale, economia, istituzioni, diritto, rapporti sociali, ecc., può essere
migliorato, talvolta radicalmente, in virtù dei soli sforzi umani. Dire che la
società è un dato, al contrario, significa sostenere che la sola azione umana
non è sufficiente per cambiare l'ordine delle cose, poichè l'assetto sociale è
indipendente dalla volontà degli uomini, è qualcosa che risponde a leggi
proprie.
Il riformismo è, sempre, artificialista, contrattualista, e mai naturalista od olista
come sono, invece, tutte le maggiori ideologie i cui contenuti portano, sempre
ed inevitabilmente, ad esiti politici che sono totalitari e perciò
anti-riformisti.
Giacomo Marramao, nel libro L’ordine
disincantato (op. cit.), osserva come, fin dalle origini, il pensiero
occidentale formuli il bisogno di individuare una responsabilità del
divenire: il concetto di causa è connesso al concetto di responsabilità,
secondo Marramao vi è un "vincolo analogico tra la causa gnoseologicamente
intesa e la causa penale" (pag.15).
Le azioni umane, osserva John Dunn (Storia delle dottrine politiche,
op.cit.) non sono mai al di sopra di ogni sospetto; molte azioni politiche
hanno però conseguenze che sono non intenzionali: "nella comprensione
della politica le conseguenze sono sempre almeno tanto importanti quanto le
intenzioni" (pag.66).
La democrazia, centrale nella moderna legittimità politica, è in tensione
violenta con la realtà pratica dello Stato moderno, che è stato costruito per
negare le rivendicazioni del popolo di porsi a fondamento dell'autorità
politica: i cittadini sono liberi di agire, in pratica nella sola dimensione
privata, solo in forza dell'astensione o indulgenza dei propri capi politici
(pag.72).
La democrazia costituzionale rappresentativa moderna e il Welfare State, che è
il suo "precario complemento socioeconomico" (pag.77), non hanno
ancora mantenuto la promessa di essere realizzazione concreta di quei valori
che l'hanno legittimata ed ispirata: diritti umani, giustizia, sicurezza,
prudenza nell'utilizzare la natura non umana.
Per migliorare i risultati, per agire in modo più efficace, secondo Dunn
occorre allora uno sforzo educativo (pag.78).
Jay W. Forrester, in Dinamiche mondiali
(op.cit.), esamina le problematiche connesse alla crescita esponenziale
: una grandezza può raddoppiare più volte senza raggiungere valori
significativi e ad un certo punto, pur seguendo la stessa legge di crescita, raggiungere
improvvisamente valori elevatissimi.
Con la popolazione in crescita, la sufficienza alimentare richiede interventi
di meccanizzazione, irrigazione, disinfestazione e razionalizzazione delle
colture, interventi che non si possono continuare indefinitamente; è ugualmente
possibile che altri problemi acuti si facciano sentire prima ancora
dell'insufficienza alimentare: insufficienza di risorse naturali non
rigenerabili, inquinamento, tensione sociale da sovraffollamento.
La disparità fra paesi sviluppati e sottosviluppati potrebbe essere annullata
più per un declino delle nazioni sviluppate che per un miglioramento effettivo
di quelle sottosviluppate; anzi, i paesi sottosviluppati potrebbero soffrire
molto meno per la loro parte di declino, perché le economie meno organizzate,
integrate e specializzate sono meno vulnerabili al collasso. Inoltre i paesi
sottosviluppati si trovano in una posizione di equilibrio con l'ambiente
circostante che è migliore e superiore rispetto ai paesi sviluppati. Il libro di
Forrester è del 1970, la storia successiva ne ha in parte smentito le
previsioni, come dimostra il passaggio dal “G7” al “G20”, con l’emergere di
nuove potenze economiche mondiali: “Cindia” (Cina e India) o il “Bric”
(Brasile, Russia, India, Cina).
I nostri sistemi sociali, osserva ancora Forrester, sono caratterizzati da
anelli di azioni e reazioni, non da meccanismi di causa ed effetto
unidirezionali; le azioni avvengono nell'ambito di anelli di retroazione,
retroazione che può essere positiva, se genera crescita nel sistema, oppure
negativa, che è invece alla base della tendenza verso l'equilibrio. Ogni anello
di retroazione è un percorso chiuso che collega un'azione al suo stesso effetto
sulle condizioni circostanti; queste ultime a loro volta diventano
"informazioni" che influenzano l'azione successiva.
Forrester individua due diversi tipi di variabili, i livelli (accumulazioni) e
i flussi (che provocano cambiamenti di livello). I moltiplicatori
aumentano o diminuiscono i flussi del sistema a seconda di quanto sia
favorevole o sfavorevole l'ambiente esterno.
I sistemi sociali sono caratterizzati da interdipendenze e sono quindi
insensibili alla maggior parte dei mutamenti di politica, che sono adatti per
sistemi semplici e pertanto non servono ad alterare il comportamento dei
sistemi complessi.
La mente umana è eccellente nell'osservare le forze e le azioni elementari che
compongono un sistema ed anche nell'identificare la struttura di una situazione
complessa; l'esperienza educa invece la mente umana in maniera molto modesta
nello stimare le conseguenze dinamiche derivanti dall'azione reciproca delle
parti di un sistema complesso.
Forrester sostiene che una teoria espressa mediante un modello per calcolatore
può essere ben più controllata e verificata rispetto ad una teoria verbale.
La raccolta di dati e l'analisi statistica sono allora più efficaci se dirette
ad un modello del sistema: la simulazione per modelli non serve a formulare
previsioni esatte, ma indica l'orientamento del sistema a fronte di mutamenti
nella sua struttura e nelle politiche.
Presunte soluzioni possono generare difficoltà peggiori che inducono a
formulare soluzioni più incisive che complicano ulteriormente le cose:
- eliminare uno dei sintomi del disagio può solo modificare il comportamento
del sistema, con conseguenze spiacevoli;
- il tentativo di ottenere un miglioramento a breve scadenza pone spesso le
basi per un peggioramento a lungo termine (però il breve termine è più
immediato ed evidente);
- il raggiungimento di scopi limitati o su punti di scarsa importanza spesso
contrasta con gli obiettivi generali del sistema stesso;
Generalmente vi è antagonismo fra gli scopi di un sottosistema ed il benessere
del sistema generale; molti problemi di oggi sono il probabile risultato di misure
a breve termine prese nei decenni passati.
Una riduzione significativa del tasso di natalità provoca un arresto della
crescita demografica per qualche decennio, dopo di che la crescita riprende;
elevare la qualità della vita, secondo Forrester, significa ridurre
l'inquinamento, alleviare la fame, assicurare la salute, limitare popolazione e
industrializzazione, arrestare lo sviluppo incontrollato.
Per Albert O. Hirschman (Le passioni e gli
interessi, op.cit.) le azioni e decisioni umane producono conseguenze
impreviste perché le aspettative che accompagnano quelle azioni e decisioni
contribuiscono a nascondere il vero risultato futuro (pag.94): effetti non
realizzati ma sperati, effetti realizzati ma inattesi. Inoltre, scrive,
"il pensiero prescinde naturalmente dalle circostanze che esso ritiene non
essenziali e che invece costituiscono l'unicità di ogni singola situazione
storica" (pag.96).
Nel libro Felicità privata e felicità pubblica (op.cit.), Hirschman
analizza il fenomeno del free rider, il battitore libero che viola le
regole, ed il fenomeno degli "incentivi selettivi", benefici privati
distribuiti da sindacati e partiti per fare proselitismo (servizi, abbonamenti,
ed altro).
La debolezza della volontà, o acrisìa, si verifica quanto le persone agiscono,
e sono consapevoli di agire, contro i loro metagiudizi (pag.78); l'effetto
di rimbalzo consiste invece nel sottovalutare i costi ed esagerare i
benefici di un'azione che viene intrapresa dopo un'altra in cui non vogliamo
più essere coinvolti: lo sforzo dell'azione pubblica, che dovrebbe essere un
costo, diventa talvolta un beneficio che va sommato al risultato che si vuole
conseguire. Questa fusione fra sforzo e realizzazione fa sì che sia sufficiente
l'azione "come se fosse possibile promuovere il cambiamento"
(pag.98): io posso cambiare la società, l'azione pubblica cambia me anche senza
reali mutamenti che io riesca effettivamente ad ottenere.
Chi si dedica per la prima volta ad un'azione pubblica può constatare che il
tempo che essa richiede è molto di più del tempo che ci si attendeva, si
verifica il fenomeno del traboccare del tempo (pagg.105 e 110), ed
inoltre che le attività necessarie per raggiungere obiettivi anche di alta
idealità e di interesse comune sono "di natura assai differente: stringere
strane alleanze, dissimulare i propri obiettivi reali, tradire gli amici di
ieri; tutto ciò naturalmente nell'interesse del ‘fine’ " (pag.110).
La vita politica crea delusione, e comporta la riallocazione successiva
dell’impegno politico in termini di minor costo e minor tempo; la
privatizzazione non è un processo storico ovvio, ma secondo Hirschmann lo
sviluppo del mercato riduce la possibilità di corruzione (pag.134).
Il passaggio dal pubblico al privato può essere facilitato dall'esservi nella
vita privata anche motivazioni pubbliche, dall'idea che la produzione di
ricchezza è più importante dell'esercizio del potere e che essa è un gioco a
somma positiva (pagg.130-140).
A diverse fasi della nostra vita corrispondono diversi nostri stili di vita: non
può esservi un'unica nostra modalità dalla nascita alla morte come ritiene
invece l'etica giudaico-cristiana (pag.144); gli individui sono in grado
pertanto di modificare il loro sistema di preferenze, che non è perciò qualcosa
di dato, come vorrebbe la teoria economica, e di concepire forme diverse di
felicità; sono quindi meno perfetti del "soggetto razionale" della
teoria economica ma nel contempo anche superiori ad esso (pagg.146-147).
L'azione pubblica, osserva ancora
Hirschman, ha come obiettivo una "condizione futura del mondo",
suscita attese che dipendono dall'immaginazione dei cittadini e non dal
risultato reale dell'azione; la nostra immaginazione, peraltro, evoca mutamenti
radicali e totali piuttosto che graduali, pertanto i risultati saranno sempre
insoddisfacenti rispetto alle aspettative, creando con ciò non solo delusione
ma anche incoraggiamento per il lavoro che ancora resta da fare (pagg.103-105).
Hirschmann evidenzia come nelle società antiche i mutamenti fossero talmente
lenti che la loro stessa idea era assente, ed osserva come fino all'Illuminismo
le sole idee di cambiamento fossero quelle di un declino e di una corruzione
interna (caduta dell'Impero Romano, pag.104) e non che un miglioramento della
società fosse possibile; l'antica idea della conoscenza proibita viene
invece oggi riproposta nella tesi secondo cui la ricerca scientifica
incontrollata produce conseguenze terribili (pag.64; si veda in proposito il
dibattito attuale sul Large Hadron Collider del CERN di Ginevra).
Il suffragio universale è un antidoto ai cambiamenti rivoluzionari, il voto
toglie legittimità ad altre forme di azione politica (pag.123), diventa qui di
fondamentale importanza l'azione riformista, il consenso che riesce ad
aggregare, come viene spiegata alla gente.
Il voto dà a ciascuno però la possibilità di esprimere la propria opinione ma
non la sua intensità, e questo per il postulato dell'uguaglianza (pag.128); il paradosso
del votante (pag.118) consiste in una defezione dal voto nella
impossibilità di esprimervi l'intensità dei propri sentimenti, che possono però
essere manifestati in altri modi, con scioperi, manifestazioni, ecc.
Kant (Per la pace perpetua, op.cit.)
individua a tale proposito alcune regole sofistiche della politica che vanno
combattute:
- fac et excusa (pag.133), la giustificazione è più facile a fatto
compiuto;
- si fecisti, nega (pag.133), negare ogni colpa per un atto illecito
commesso;
- divide et impera (pag.133);
- reservatio mentalis, come redigere trattati internazionali con espressioni
che possono essere interpretate ove occorra a proprio vantaggio, "per
esempio, l'uso della distinzione fra lo status quo de fait e quello de
droit" (pag.159);
- probabilismus, attribuire cattive intenzioni ad altri Stati o ad altri
soggetti politici come pretesto per attaccarli;
- peccatum philosophicus, considerare ingiustizia veniale l'annessione
di un piccolo Stato da parte di uno molto più grande con un presunto maggior
benessere del mondo (pag.159).
Nel libro Lo stato di diritto (op.cit.) Kant osserva che il politico
morale coniuga principi di prudenza politica con la morale (ovvero
con la dottrina del diritto e del dovere). L'accordo della politica con la
morale è possibile solo in un'unione federativa; il principio trascendentale
della pubblicità stabilisce che sono ingiuste tutte le azioni relative al
diritto degli uomini non compatibili con la pubblicità, non vi può essere
infatti segreta riserva sottintesa per alcun diritto dello Stato.
Essere responsabili, per Bobbio (L’età
dei diritti, op. cit.), vuole dire da un lato essere consapevoli delle
conseguenze delle proprie azioni, dall'altro rispondere di esse di fronte agli
altri (pag.143); le forme di controllo sociale sono essenzialmente due
(pagg.34-35): l'influenza (dissuasione, scoraggiamento, condizionamento)
che incide sulle scelte altrui e il potere (violenza fisica, impedimento
legale, minaccia di gravi sanzioni) che impedisce all'altro di agire
altrimenti; quest'ultimo, il potere, è alla base della protezione giuridica
(pag.37).
Max Weber distingue l'etica della responsabilità, che quando prescrive
una certa azione tiene conto delle conseguenze, dall'etica dell’ intenzione,
che è indifferente alle conseguenze, prescrive un'azione indipendentemente dai
mezzi, è prettamente apolitica e porta all’amoralità della vita politica e
quindi all’antitesi fra etica e politica; categorie fondamentali per riflettere
sull'agire umano sono quelle di scopo e di mezzo, la riduzione
dei fenomeni culturali a cause economiche, egli osserva, non è esauriente
neppure per i processi strettamente economici. Weber evidenzia che la funzione
specifica della scienza è quella di trasformare in problema ciò che
convenzionalmente appare come evidente, il dubbio è il padre della conoscenza,
i problemi vanno individuati in maniera valutativa e risolti in maniera
avalutativa (Il metodo delle scienze storico-sociali, op.cit.).
Secondo Hans Jonas (Il principio
responsabilità, op.cit.) il nostro potere di fare eccede quello
di prevedere e quello di valutare (pag.29); ciò che è bene spesso diviene certo
solo con l'esperienza del suo contrario, male, malattia, frode, guerra:
"sappiamo molto meglio ciò che non vogliamo che ciò che vogliamo"
(pag.35). Pertanto, le previsioni di sventura devono avere priorità di ascolto
rispetto a quelle di salvezza, perché siamo liberi solo nei primi passi, i
successivi sono obbligati e le profezie di sventura possono talvolta servire a
scongiurare quanto da esse temuto (pag.150).
La possibilità di guadagni finiti non giustifica perdite infinite, la posta
in gioco (come in una scommessa o in un gioco d'azzardo) non può essere il
futuro, la vita, la totalità degli interessi altrui: la cautela è il
nucleo centrale dell'agire morale per un'etica della responsabilità
(pagg.43-48).
La responsabilità legale porta al risarcimento (responsabilità civile),
quella morale alla punizione (responsabilità penale); ma, osserva Jonas,
esiste anche una responsabilità morale per il da farsi oltre che per ciò
che è stato fatto (pagg.116-118).
Sapere, potere e responsabilità sono strettamente connessi, inscindibili, il
potere di virus e batteri è maggiore di quello di tigri ed elefanti, il potere
è in primo luogo potere di distruzione (pag.177); la responsabilità dell'uomo
di Stato o responsabilità politica è totale e indipendente da come
questi abbia ottenuto il suo mandato, per elezione democratica o per
usurpazione (pag.129), ed è continua in quanto il suo esercizio non può
cessare, a differenza ad esempio della responsabilità del medico, che è
circoscritta al trattamento; la responsabilità politica procede storicamente,
deriva dalla nostra temporalità ed ha nel futuro la sua dimensione più
autentica (pagg.133-135).
Una teoria politica, quando è causa di azioni, rientra fra le profezie che si
autoadempiono, anche se sui risultati finali incidono più le circostanze che
non i programmi (vi è incertezza in ogni previsione, pagg.144-146).
Il sapere globale dell'umanità aumenta, osserva ancora Jonas, ma quello del
singolo diventa sempre più frammentario; la tecnica non è un fine ma un mezzo,
e si giustifica solo per i suoi effetti (pagg.210-212). Occorre abbandonare
l'idea marxista di una preistoria: "ogni presente dell'umanità costituisce
un fine in se stesso" (pag.281); al principio-speranza di Bloch,
Jonas contrappone il principio-responsabilità: "sentirsi
responsabili in anticipo per l'ignoto", principio quest'ultimo che porta a
delineare un'etica del rispetto (pagg.285-286).
5-5 L’ATTENZIONE DEL RIFORMISMO ALLE CONSEGUENZE
Le regole del comportamento collettivo non sono
del tutto modificabili a piacere. L'atto politico è, dal punto di vista della
norma che si propone di cambiare, un atto fondamentale di disobbedienza;
non ogni atto di disobbedienza produce effetti politici, naturalmente, però il
punto importante da sottolineare è che non ogni atto di disobbedienza politicamente
significativo è possibile: può non essere possibile per vincoli di
necessità (non possiamo sfidare più di tanto le leggi della fisica o
dell'economia), o per ragioni di convenienza, di opportunità, o per le
conseguenze negative che produce (distruttive, totalmente imprevedibili,
eccetera).
Scrive Tocqueville: "Il legislatore rassomiglia all'uomo che traccia la
sua rotta in mezzo al mare; può bensì dirigere la nave che lo porta, ma non può
cambiarne la struttura, nè creare i venti, nè impedire all'oceano di sollevarsi
sotto i suoi piedi" (La democrazia in America, op.cit., pag.154).
Poichè non ogni disobbedienza è possibile, poichè non ogni cambiamento è
possibile, l'azione politicamente efficace è quella che meglio di altre tiene
conto delle conseguenze che ne derivano: è politica delle riforme,
graduale, progressiva, consequenziale, controllata e consensuale.
Secondo Yves Meny e Jean-Claude Thoenig (Le
politiche pubbliche, op. cit.), in una politica pubblica coesistono due
funzioni di produzione: la funzione della gestione interna
dell'organizzazione pubblica, che è responsabile della propria efficienza, e la
funzione dell'organizzazione con l'esterno, che consiste nel trasformare
prodotti e realizzazioni in effetti e in impatti.
Gli effetti talvolta sono molteplici e possono essere di:
- overload, ovvero effetti perversi quali la moltiplicazione di
spese, organici, politiche, ecc.;
- spill over, ovvero effetti di ricaduta quali congestione,
inquinamento a distanza, ecc.;
- implementation gap, cioè risultati minori a fronte di maggiori
interventi.
Effetti perversi, effetti indotti, effetti connessi producono conseguenze non
volute; inoltre, le politiche pubbliche possono fallire sul nascere, rimanere semplici
dichiarazioni di intenti, oppure esaurirsi per erosione progressiva,
oppure ancora diventare variabili indipendenti che sfuggono al controllo
di chi è legittimato a decidere.
Una griglia di domande ben poste sugli obiettivi dell'autorità pubblica,
annunciati e reali, sui soggetti interessati, sugli esecutori mobilitati allo
scopo, sull'orizzonte di tempo coperto ci permette, secondo gli Autori, di
capire anzitutto se di politica pubblica vera si tratta, se consiste in
programmi d'azione piuttosto che in attività simboliche, dichiarazioni di
intenti, declamazioni di principio e di effettuare valutazioni:
valutazioni ex-ante, nella fase di formulazione della politica pubblica;
valutazioni ex-post, nell'analizzarne effetti e conseguenze. Inseguire
un obiettivo, infatti, può permettere di conseguirne altri (conseguenze come
opportunità).
Secondo Ernst F. Schumacher (Piccolo è bello,
op.cit.), il metodo delle prove e degli errori consiste nel realizzare e
verificare mutamenti su piccola scala prima di applicarli su larga scala; ogni
soluzione genera infatti un problema, e se quelli successivi sono maggiori vuol
dire che la soluzione è errata.
Il principio dell'assioma di mezzo punta a far convergere ordine e
libertà, vale a dire governare dando istruzioni (metodo duro) e governare
esortando (metodo morbido). La vita reale, osserva Schumacher, può dar luogo a
tutte le combinazioni possibili: libertà o totalitarismo con economia di
mercato o pianificazione con proprietà privata o proprietà collettivizzata; in
effetti, decenni dopo la pubblicazione del libro di Schumacher abbiamo potuto
assistere a quella che a rigore appare una autentica contraddizione nei
termini: la Cina contemporanea, ovvero una dittatura comunista ad economia di
mercato, addirittura del liberismo più deregolamentato.
Le combinazioni possibili sono dunque molteplici, come nel caso di atti o
eventi con passato o futuro certo o incerto: la pianificazione riguarda
atti futuri certi, il calcolo esplorativo, utile per studi di
fattibilità e tendenze, riguarda eventi futuri certi, la previsione
riguarda eventi futuri incerti, la valutazione riguarda invece quattro
combinazioni possibili di incertezza: atti passati incerti, atti futuri
incerti, eventi passati incerti, eventi futuri incerti.
Gli eventi sono in qualche modo prevedibili, avendo una natura subumana;
gli atti, invece, originano da una scelta, da libertà che è in varia
misura creativa e sono quindi imprevedibili. La regolarità dei fenomeni sociali
dipende dalla mancata utilizzazione della libertà creativa, cioè dalla routine;
la prevedibilità dipende dalla comprensione della situazione corrente, più che
dalla tecnica previsionale: tecniche elaborate possono produrre previsioni
viziate (verosimiglianza spuria, dettagli non validi); la prevedibilità è
completa per gli eventi, quasi completa per attività pianificate, relativa per
attività di routine, nulla per le singole decisioni individuali. Le ipotesi
della prevedibilità alla fine possono poi essere solo tre: crescita (uguale,
maggiore, minore), stabilità, declino (uguale, maggiore, minore).
Ogni progetto nel suo sviluppo, osserva Albert O.
Hirschman in Come complicare l’economia (op.cit.) comporta minacce,
anche imprevedibili, e conseguenti azioni di rimedio; il principio della “mano
che nasconde” implica che nuove iniziative vengano spesso intraprese con la
convinzione che la loro realizzazione sia facile e che le sfide non esistano.
Riformulando una nota frase di Marx: “l’umanità affronta sempre soltanto quei
problemi che crede di poter risolvere” (cit., pag.209).
L’insufficiente percezione dei costi e delle difficoltà può essere un incentivo
ad intraprendere un progetto, in particolare progetti industriali e di
infrastrutture, mentre per quelli agricoli o di commercializzazione le difficoltà
emergono quasi subito (pagg.211-214).
Hirschman distingue progetti a breve e a lunga gestazione: quelli a lungo
termine possono richiedere grossi investimenti conseguenti alle perdite subite,
all’opposto quelli a breve termine rischiano di essere abbandonati
prematuramente (pag.215).
Spesso progetti interni vengono presentati come imitazioni di modelli stranieri
riusciti (“pseudo-imitazione”, pag.216): il progetto “passo a passo” viene in
questo modo sostituito da un “programma globale” che funge da alibi in caso di
difficoltà; in tal caso basta dire che non sono state seguite le istruzioni
(pag.218).
Il principio della mano che nasconde si alimenta così di due tecniche
complementari: la pseudoimitazione che riduce la percezione delle difficoltà,
ed il programma pseudo globale che fa ritenere più ampia la comprensione delle
difficoltà di quanto non sia realmente; questo principio aiuta le persone
avverse al rischio ad assumersi rischi. Il principio della mano che nasconde
aiuta lo sviluppo perché rafforza lo spirito d’iniziativa in particolare in
coloro che hanno dovuto superare difficoltà inattese e che ci sono riusciti;
Hirschman ricorda la massima di Nietzsche: “ciò che non mi distrugge, mi rende
più forte” (pag.221).
L’azione può essere incentivata tanto dalla sottovalutazione dei costi quanto
dalla esagerazione dei benefici (pagg.223-224); entrambi i meccanismi di
autoinganno possono essere utili nelle fasi di transizione, purchè siano brevi:
appena è possibile, per evitare fallimenti, è importante saper distinguere tra
rischi accettabili e rischi inaccettabili.
Vi sono errori che sono casuali e rimediabili (pag.301). La produzione di
surplus permette alla società di passare oltre fenomeni di deterioramento solo
con disagio ma senza risultati disastrosi (pag.306); il surplus sociale si
contrappone peraltro alla situazione singola, dell’individuo o dell’azienda che
può essere completamente diversa: in economia prevale l’uscita (dal
mercato), in politica (ma anche in famiglia) prevale la voce; l’uscita
in politica è defezione, un “crimine” (pag.315).
La partecipazione politica è un beneficio: far parte di un movimento che
persegue un obiettivo desiderabile, osserva Hirschman, può essere gratificante
quasi quanto ottenere quell’obiettivo (pag.324); gli sforzi per ottenere
felicità pubblica non possono essere separati dal suo raggiungimento, e non
rappresentano un costo: perseguimento e raggiungimento dell’obiettivo si
confondono e conta la somma delle due grandezze (fenomeno del
“pellegrinaggio”, pag.416).
Una serie di azioni possono essere intraprese come se si potesse
promuovere il cambiamento, e tale esperienza comunque fa crescere: non posso
cambiare la società, ma col mio impegno pubblico cresco io; la partecipazione
agli affari pubblici non è solo uno strumento per conseguire un fine, ma è un
bene in sé (pagg.417-418).
5-6 IL RIFORMISMO COME RISPOSTA A RISCHIO E INCERTEZZA
Nelle società medievali, osserva Deborah Lupton (Il
rischio, op.cit.), minacce e pericoli di ogni genere incombevano, e la vita
quotidiana era costruita su pratiche e credenze.
Il disordine, l'incertezza, creano ansia e insicurezza cui reagiamo con azioni
individuali e collettive ("sistemi di prevenzione istituzionali",
pag.9). La nozione di rischio compare inizialmente collegata alle assicurazioni
marittime, e denota eventi naturali estranei alla volontà ed alle
responsabilità umane; con la modernità e con lo svilupparsi dell'idea che sia
possibile una conoscenza oggettiva del mondo, sia naturale che sociale, il
rischio diventa un evento statisticamente prevedibile, in qualche modo
calcolabile, e nel mondo sociale pian piano sostituisce i concetti di
"fortuna" e di "fato".
Per tutti gli eventi non prevedibili, invece, il concetto utilizzato in epoca
moderna non è quello di "rischio" ma quello di
"incertezza"; oggi i due concetti tendono a fondersi, la parola
rischio ha una connotazione solo negativa e significa pericolo, azzardo,
minaccia, danno o, in un'accezione debole, qualcosa di non disastroso ma
comunque inopportuno o seccante. Il concetto di rischio ha generato molti campi
di ricerca, analisi, valutazioni, informazione e gestione "dalla medicina
e la salute pubblica, alla finanza, il diritto, gli affari e l'industria"
(cit., pag.15), e nei mezzi di comunicazione di massa la parola rischio è
proliferata sostituendo via via altre parole come azzardo, pericolo e minaccia.
Anche i rischi, alla fine del Novecento, si sono globalizzati; la cosiddetta
postmodernità ha inoltre preso atto dei limiti della scienza, ed "è
caratterizzata dall'incertezza e dall'ambivalenza connesse al continuo
mutamento, alla frammentazione culturale e al dissolvimento di norme e
tradizioni", e fa sì che gli individui vivano "in uno stato di paura
costante ma contenuta" (pagg.17-18).
Lupton individua sei tipi di rischi rilevanti per il nostro benessere: quelli
prodotti dall'inquinamento ambientale, i rischi dello "stile di
vita", i rischi sanitari, quelli derivanti dai rapporti interpersonali, i
rischi economici, i rischi della criminalità (pagg.19-20).
La selezione dei rischi, attraverso la riflessione e i discorsi, e la loro
gestione diventano pertanto attività politiche fondamentali: il concetto stesso
di rischio implica scelta, calcolo, responsabilità, e le società occidentali lo
affrontano in tre modi principali: con sistemi assicurativi, che trasformano il
rischio in una perdita di denaro e provvedono col calcolo attuariale e
probabilistico al suo indennizzo; con indagini epidemiologiche, riguardanti la
salute ambientale e gli stili di vita; con logica clinica ovvero gestendo caso
per caso con tecniche terapeutiche, servizi di sostegno, ecc. (pag.104 e seg.).
La percezione del rischio è stata affrontata nelle scienze sociali, da un lato
dalla prospettiva cognitivista, psicologica, secondo cui il rischio è un prodotto
della probabilità e delle conseguenze in termini di dimensioni e di gravità del
verificarsi di un evento, dall'altro dalla prospettiva costruttivista, secondo
cui nessuna percezione del rischio è oggettiva ma deriva da valori, credenze,
conoscenze, rituali (pagg.23, 35 e seg.).
Dalla metà del XX secolo le minacce alla vita umana hanno assunto dimensioni
senza precedenti, non possono più essere circoscritte (è il caso
dell'inquinamento, delle radiazioni, degli alimenti tossici), e quindi non sono
più facilmente calcolabili (pag.70); nel contempo, l'idea che ai rischi è
connessa la responsabilità umana, che talvolta li genera, ma che li deve anche
prevenire e controllare, produce contrapposizioni e conflitti sia tra esperti e
profani, che fra gli stessi esperti tra di loro: "il fenomeno del rischio
è un prodotto di interpretazioni del mondo in conflitto tra loro" (cit.,
pag.115). La società del rischio diviene riflessiva, si confronta con se
stessa, diventa argomento di dibattito, ma promuove anche istituzioni
internazionali ed alleanze a livello planetario; i rischi contribuiscono a
costruire una cittadinanza globale, e nel contempo minacciano in egual modo
classi e paesi, ricchi e poveri (pag.76).
Il "nuovo prudenzialismo" è una strategia neoconservatrice che limita
l'attività dello Stato a consigliare ed assistere gli individui in iniziative
di autogestione del rischio anzichè ricorrere alle più costose assicurazioni
sociali, che implicano invece la socializzazione del rischio e che sono
caratteristiche, aggiungiamo noi, dell'azione riformista (pag.108 e seg.).
Molte azioni abitudinarie, in realtà, sono forme di prevenzione dei rischi, ma
non esiste un "modello ideale di cittadino autonomo" (pag.131), in
quanto ciascun individuo reagisce in modo diverso ai rischi, a seconda del
proprio gruppo di appartenenza, delle proprie risorse materiali, dell'età, dei
rapporti di potere. L'Altro, gruppo o individuo percepito come diverso da noi
(per razza, classe, cultura, religione, malattia, handicap, potenzialità criminale,
sessualità, ecc.), è considerato esso stesso come una fonte di rischio, come un
agente di contaminazione, appartenente al "mondo animale" piuttosto
che al "mondo umano" (pag.133 e seg.).
La strategia principale di esclusione diventa in questo caso quella spaziale,
individui e gruppi estranei vanno tenuti distanti e fuori dagli spazi pubblici
(pag.151 e seg.); talvolta, però, assumersi rischi acquista per l'invidivuo un
"valore positivo": negli sport estremi, nelle vacanze avventurose,
nelle fughe dalla routine, nell'esaltazione collettiva ma anche assumendosi
rischi economici e "flessibilità ": chi si espone maggiormente, anche
trasgredendo le regole, nella realtà come nell'immaginario (nei film), sono i
giovani maschi, spesso alla ricerca di atti eroici (pag.157 e seg.); nei
modelli di femminilità prevale invece la percezione di una maggiore
vulnerabilità, e quindi comportamenti mediamente improntati alla prudenza ed
all'autocontrollo. L'Altro suscita emozioni ambivalenti, paura e ansia ma anche
seduzione e trasgressione; Lupton osserva come tale effetto venisse prodotto,
nel passato, dalle feste di carnevale, ma anche nel romanzo gotico e, oggi, nel
genere horror; il culturalmente proibito genera un rischio simbolico, che
consiste nel superare od oscurare un confine, e come tale è fonte di emozione e
di piacere (pag.173 e seg.).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
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- Max Weber, IL METODO DELLE SCIENZE STORICO-SOCIALI
6- MORFOLOGIA DEL RIFORMISMO
L’obiettivo di questo capitolo è quello di focalizzare le forme in cui esplica il riformismo: la sua caratteristica di essere un metodo sempre mutevole, adattabile alle circostanze, è infatti uno dei punti di maggior forza del riformismo; esamineremo perciò alcuni tipi o modelli storici di riformismo, e quindi la stretta connessione che vi è fra il riformismo e le attività che si pongono come obiettivo la soluzione di problemi.
Nel libro Quale socialismo? (op.cit.)
Norberto Bobbio rileva come il contributo più importante dato alla teoria
politica dal socialismo, quello riformista come quello rivoluzionario, sia
stato una teoria del partito: partito come organizzazione di massa nel
caso del socialismo riformista, partito-avanguardia nel caso del socialismo
rivoluzionario e massimalista. Anche per Marx, osserva Bobbio, il problema non
era come si governa, bensì chi governa (borghesia o
proletariato): chi governa e come sono i due problemi
fondamentali della teoria politica (cit., pag.38).
Chi governa per fare cosa? Il riformismo pretende di dare risposte concrete ad
entrambe le domande.
Il problema dei soggetti del riformismo è
duplice. Da un lato, vi è il problema che l’attività di riforma può essere
valutata appieno solo ex-post, a riforme concluse, a risultati
conseguiti; dall’altro lato, vi è il problema di individuare ex-ante i
soggetti ed i loro alleati: non basta, infatti, qualificarsi come “riformisti”
per esserlo. Secondo John Dunn (op.cit.) oggi siamo (quasi) tutti democratici:
siamo, forse, anche tutti riformisti? Il problema dei soggetti del riformismo
diventa ancor più problematico, scusate il gioco di parole, laddove come in
Italia i riformisti non riescono ad ottenere la maggioranza dei consensi dell’elettorato
e devono allearsi con forze politiche che riformiste non sono, ed in taluni
casi sono anche anti-riformiste. Come si poteva conciliare, ad esempio,
l’alleanza elettorale e programmatica tra riformisti e comunisti, quando in
tutta la storia del Novecento riformisti e comunisti sono stati gli uni contro
gli altri armati?
In un altro capitolo di questo libro abbiamo visto che i comunisti sono nemici
tradizionali dei riformisti e che l’anticomunismo, lungi da essere un valore
della destra, è invece un patrimonio storico proprio della sinistra riformista;
come sarebbe possibile, dunque, un’alleanza di questo genere?
In generale, uno dei principali argomenti della tolleranza verso gli
intolleranti è che gli intolleranti, una volta abituati ad un clima di
tolleranza, diverranno essi stessi tolleranti; il rapporto dei riformisti con i
comunisti sembra proprio essere stato di
questo tipo: una trasformazione culturale progressiva, un “addomesticamento”
dei comunisti verso il riformismo. Riformisti infatti non si nasce, lo si
diventa: il riformismo è un “abito mentale” che si acquisisce con
l’educazione ai suoi valori, il primo dei quali è il valore della democrazia, e
con la formazione alle sue tecniche di trasformazione sociale; il riformismo
richiede, insieme, ideali e competenza, non è qualcosa che si acquisisce
così, tanto per fare o tanto per dire, o perché sia di moda essere riformisti.
È qualcosa che invece richiede dedizione e formazione, preparazione e
competenza; non è una qualità innata dell’individuo e, perciò, col tempo e con
l’impegno, può diventare patrimonio anche di persone il cui passato non è stato
propriamente riformista.
Per quanto riguarda i rapporti politici fra riformisti e comunisti, rapporti
storicamente conflittuali ed antitetici, col crollo stesso dei regimi comunisti
si erano create le condizioni per un “addomesticamento” dei militanti comunisti
agli ideali del riformismo, che si sono dimostrati storicamente vincenti; il
fatto stesso che un comunista accettasse le regole della democrazia è stato, ad
esempio, una contraddizione in termini: laddove i comunisti avevano in passato
conquistato il potere, la democrazia è stata la prima istituzione ad essere
soppressa.
L’idea che potesse esistere un “comunismo democratico” è stata un prodotto
soprattutto della cultura politica del nostro Paese, e della tradizione
culturale del Pci, fin dal dopoguerra; tale idea, peraltro, confondeva e
fondeva gli ideali che sono propri della tradizione umanistica con le logiche
del comunismo, che sono all'opposto autoritarie (il "comitato
centrale"): la conseguenza logica del comunismo non è infatti la
"terza via" di Berlinguer ma lo sterminio del nemico oggettivo, non è
la Primavera di Praga ma lo stalinismo, non Dubcek ma Pol Pot. La transizione
alla democrazia del Pci dell’epoca fu poi aiutata dal fatto che quel partito
non raggiunse mai il governo dello Stato nazionale, e dove effettivamente
governava, cioè in talune regioni italiane, governava con metodo
socialdemocratico e non certo comunista; mancando l'obiettivo della conquista
del governo centrale, venne meno anche la necessità immediata di una verifica
delle sue attese di democraticità: tenuto conto che chi rappresenta di fronte
all’elettorato un partito comunista non necessariamente, in caso di vittoria
elettorale, può continuare a rappresentare quel partito anche nel governo dello
Stato: il meccanismo della “purga”, della eliminazione del dissenso interno,
eliminazione morale ma spesso anche fisica, è perfettamente compatibile con le
logiche e l’ideologia che hanno caratterizzato i movimenti comunisti, anche
quelli che apparentemente avevano scelto la strada della democrazia.
Potremmo perciò dire che l’alleanza fra riformisti e comunisti, necessaria per
ottenere un risultato elettorale che consentisse ai riformisti di governare, è
stata però anche un’alleanza condizionata, perché al suo interno le forze
comuniste dovevano mantenersi minoritarie e subalterne ai riformisti, oppure
dovevano riuscire ad abbandonare l’idea comunista, non solo nei fatti, ma anche
nelle parole e nel “nome”: la questione nominalistica, apparentemente
insignificante rispetto ai comportamenti politici concreti, è stata invece una
questione importante, sebbene non l'unica, e forse neppure la prioritaria visto
che i riformisti italiani si sono poi divisi in una pluralità di partiti e
soprattutto di fazioni politiche tra loro contrapposte.
Ma vi è un altro problema della individuazione
dei soggetti del riformismo: la democrazia moderna, osserva Max Weber ne La
società burocratica (cit.), non può essere amministrata da
non-professionisti; la democrazia moderna implica lo sviluppo del funzionario
professionale e di una vasta burocrazia, è democrazia burocratica,
caratterizzata dal funzionariato pagato, anche all'interno degli stessi partiti
politici.
Nel saggio La politica come professione (cit.), Max Weber osserva come
la politica si avvalga di un mezzo specifico che è il potere, le cui basi di
legittimità possono essere la tradizione, il carisma personale, oppure la
legalità. Lo Stato moderno ha espropriato l'uso della forza legittima e i beni
materiali dai funzionari che in passato, come ceto, ne avevano la
proprietà personale: da questa separazione nasce il politico di professione,
che si mette al servizio dei capi politici per ideale ma anche per tornaconto
personale (pag.23).
Weber distingue anche i politici occasionali, che si limitano ad
esprimere il proprio voto o a partecipare passivamente ad attività politiche,
ed i politici a tempo parziale, fiduciari che non vivono di politica
(pag.24). Di solito, evidenzia Weber, chi vive per la politica vive
anche di politica, come fanno i funzionari di partito, i rappresentanti
di interessi in associazioni di categoria, i giornalisti, ecc. (cit., pag.66);
le lotte di partito sono quindi soprattutto lotte per distribuire uffici, posti
remunerati, prebende (pag.29).
La politica come "impresa" produce la separazione dei funzionari tecnici
da quelli politici, che sono licenziabili in qualsiasi momento ma ai
quali non vengono chiesti particolari studi accademici; Weber esclude invece
dalla politica il grande imprenditore, perché legato alla sua impresa e quindi
non libero (pag.27; curiosamente, il libro è del 1919).
Il funzionario professionista non fa politica, non lotta ma amministra al di sopra
delle parti e su responsabilità superiore; l'uomo politico, invece, prende
partito, lotta, si assume la responsabilità di ciò che fa; funzionari
eticamente di buona qualità, in quanto politicamente irresponsabili possono
diventare politici di cattiva qualità.
Finché non si creano reti di associazioni locali di partito, il ruolo dei
notabili è fondamentale nelle elezioni; con lo sviluppo degli apparati di
partito diventa capo solo chi li controlla, erogando posti e vantaggi. Quando
l'elemento carismatico supera il programma astratto di partito, la democrazia
diventa plebiscitaria e i parlamentari diventano meri percettori di
rendite politiche al seguito del capo (cit., pagg.50-55).
I notabili, rappresentando la tradizione dentro il partito, rendono più difficile
l'avvento del capo, dell’homo novus, salvo poi diventarne seguaci in
caso di vittoria; negli Stati Uniti l'elezione diretta del presidente favorì lo
sviluppo della macchina plebiscitaria di partito, col principio dello
"spoil system" (tutti i posti a chi vince) e la lotta per le
"nomination". La carriera politica, osserva Weber, si caratterizza
per "gravi tentazioni" e "continue delusioni" (cit.,
pag.66), offre come soddisfazione un senso di potenza e di vanità che caratterizza
però anche altre professioni, come quelle degli scienziati e degli accademici.
Le qualità del politico, osserva ancora Weber, sono la passione, la dedizione,
il senso di responsabilità, la capacità di valutazione che si esplica come distanza
da cose e uomini; sono invece peccati mortali del politico l'infedeltà alla
causa e la mancanza di responsabilità, per esempio nel suo cercare colpe nel
passato anziché preoccuparsi per il futuro (cit., pag.72). Lo Stato
rivoluzionario, osserva infine Weber, assegna il potere ad "assoluti dilettanti",
con tutte le conseguenze negative che ne derivano e che sono causa della sua
stessa fine (cit., pagg.35, 72); questa osservazione di Weber è di particolare
importanza, perché ci fa capire che le dittature non possono essere fattori di
progresso umano, indipendentemente dall'ideologia che le sorregge.
6-3 L’ESPERIENZA DEL NEW DEAL AMERICANO
Giuliano Cazzola ha definito Franklin Delano
Roosevelt come "il più grande riformatore del ventesimo secolo" (Riscoprire
Roosevelt e il New Deal, cit. pag.113); il new deal, che letteralmente
significa nuovo accordo, costituì un "patto interclassista"
che trovò un vasto consenso negli operai, negli impiegati ma anche negli
imprenditori, e fu capace di costruire sui valori della libertà economica e
politica un progetto di riforma della vita pubblica americana che fu la causa,
fra l'altro, del mancato sviluppo di un partito socialista come accadeva invece
in tutti gli altri paesi, compreso il vicino Canada.
Il Wagner Act, osserva ancora Cazzola, divenne punto di riferimento per
decenni delle legislazioni progressiste in materia di lavoro: il conflitto
venne riconosciuto non più come un evento pericoloso per il sistema, ma come un
fatto positivo e addirittura funzionale alla modernizzazione del paese; fu
sancito il diritto alla contrattazione collettiva, fu riconosciuto il principio
che il capitalismo doveva svilupparsi in un quadro di regole stabilite dal
potere politico, furono introdotti i sussidi di assistenza sociale ed avviato
un vasto programma di lavori pubblici per ridurre la disoccupazione.
Il new deal americano inaugura una variante di
riformismo, che Antonella Besussi chiama migliorismo, che considera come
principale male pubblico la sofferenza delle persone (La società
migliore, cit. pag.12).
La storia migliorista del new deal si può distinguere in un primo new deal che
ha come obiettivo la ripresa economica ed un secondo new deal che si propone di
realizzare condizioni di giustizia sociale (pag.41).
Il primo new deal dà attenzione pubblica a questioni prima considerate come
semplici relazioni private, quali i diritti dei lavoratori e l’etica degli
affari, ed orienta le relazioni interne ed esterne al mercato nel senso della
benevolenza sociale.
L’antinomia fondamentale da superare è fra interesse individuale ed interesse
pubblico; non vi è più parità fra ambito politico ed affari, l'unico sovrano è
il governo.
Il migliorismo è un selettore fra riformismi
possibili, migliore non è ottimo, il riformismo migliorista è ridimensionato
nelle ambizioni: migliore significa giustificabile per chiunque, anche
per coloro che hanno motivi di dissenso, e quindi è capace di scoraggiare i
comportamenti sleali dei cosiddetti battitori liberi.
Il programma migliorista enfatizza la distribuzione di benefici rispetto alla
loro produzione, e rifiuta il commercialismo, cioè la pervasività sociale del
successo nel mercato: "chi vince sul mercato non per questo deve vincere
in tutti i giochi" (cit., pag.20); quando benefici privati coincidono con
danni pubblici, la comunità ha quindi il diritto di interferire.
Il new deal è un programma politico diviso fra riforme centrate su principi
(possibilismo) e riforme centrate su politiche (realismo), "valuta secondo
principi e procede secondo politiche" (cit., pag.12) per governare una
crisi economica straordinariamente intensa che è insieme vincolo
(complicazione e condizionamento) ma anche opportunità perché offre la
possibilità di decidere cosa conservare e cosa rimuovere.
Il new deal cerca di miscelare in modo ottimale diritti ed efficienza col
programma delle tre R (cit., pag.23): Reform (riforma), Recovery
(sviluppo), Relief (assistenza). Combina principi (ragioni, progetti) e
politiche (pratiche, amministrazione) assumendo le caratteristiche di un
"lavoro in corso"; il conflitto politico americano si caratterizza
infatti più per lo scontro fra principi e fatti, che fra principi alternativi.
Labor e business sono interessi parziali, il new
deal consiste in una mediazione interventista per realizzare un capitalismo
accettabile che richieda la disponibilità dei più forti a vincolarsi, un
potere economico socialmente responsabile, comportamenti di buon vicinato. In
una società decente non vi sono cittadini al di sopra o al di sotto
delle regole, la persona è separata dai suoi vantaggi e svantaggi: "sei
qualcuno indipendentemente da quello che hai perché potrebbe accaderti di non
avere nulla" (cit., pag.118); una nozione di sorte media morale
esclude fortune e sfortune non comuni (pag.270).
Il programma new deal vuol sottoporre il capitalismo ad un'operazione di
chirurgia etica, per determinare cosa vale la pena conservare e cosa rimuovere,
perché ritiene che la forza del capitalismo, cioè la sua capacità di
produrre benessere diffuso, sia separabile dalla sua debolezza, e cioè
dalla concentrazione del benessere che rende più forti i forti e più deboli i
già deboli.
Il new deal affronta anche alcune dicotomie:
nazionale/locale; generale/parziale (il nuovo ordine è per tutti e non per
pochi); inclusione/esclusione; politica tesa ad imporre (con elite di esperti,
migliorismo perfezionista) e politica tesa ad accreditare (adattamento locale
di scopi generali, migliorismo democratico, formula della "democrazia alle
radici", cit. pag.179); vicino/distante (tende a nazionalizzare i problemi
e quindi ad accentrare responsabilità ed insieme persegue un forte
interventismo locale, distribuendo responsabilità e qualificandosi come governo
vicino).
Vi è contrapposizione fra le figure del "doer", il funzionario del
governo, professionista della riforma, ed il "wailer", professionista
della protesta: quest'ultimo si astiene sempre in occasione delle riforme (ogni
commento ulteriore sull'attualità di questa distinzione è qui del tutto
superfluo).
La Besussi evidenzia anche le differenze che vi sono col progressismo:
per i new dealers la riforma è un lavoro, per il progressismo è una missione;
per i primi il riformatore è simile ad un investigatore alla Humphrey Bogart,
che indaga i fatti "senza illudersi di poter rifare il mondo" (cit.,
pag.321). Entrambi, progressismo e migliorismo, sono però contrari alla
filantropia, come alle idee di provvidenza, mano invisibile, cicli naturali,
ecc.
I riformatori talvolta appaiono come una sorta di clero secolare, "preti
laici", lo scontro politico diventa allora quasi una guerra di religione:
"luce contro buio, verità contro menzogna, virtù contro vizio, principi
contro interessi" (cit., pag.303); il libro biblico dell'Esodo riassume
circostanze e sentimenti di ogni progetto di cambiamento, in una lettura non
messianica ma "socialdemocratica" (cit., pag.164). Il secondo new
deal è però interessato più ad attenuare gli svantaggi del viaggio che alla
meta finale: la terra promessa, infatti, è qui ed ora.
Il riformismo, osserva la Besussi, è un genere,
un nome comune e come tale è indeterminato (pag.10).
Il riformismo divide lo status quo in zone buone e cattive, è un intervento
di chirurgia ricostruttiva (pag.13), parziale, ed assume che la
cancellazione delle zone cattive possa lasciare intatte le zone buone: un
albero che sta crescendo male può essere lasciato così com'è (conservatori),
abbattuto (radicali), oppure potato (miglioristi).
6-4 LA NUOVA FRONTIERA DI KENNEDY
La Nuova Frontiera, osserva Arthur
M.Schlesinger Jr. (I mille giorni di John F.Kennedy, op. cit.), era un
programma politico che non faceva promesse ma proponeva al popolo americano una
nuova stagione di impegno civile, era un programma fatto non per dare ma per
chiedere qualcosa; si connotava come un’era di attività, di progressismo, di
rinato interesse per la cosa pubblica, in contrapposizione al precedente
periodo conservatore, connotato da passività e da acquiescenza.
Esplorata la vecchia frontiera americana, rimangono ora “le zone inesplorate
della scienza e dello spazio, gli insoluti problemi della pace e della guerra,
le inconquistate sacche dell’ignoranza e del pregiudizio, le irrisolte
questioni della miseria e dell’abbondanza” (cit., pag.79). Problemi nuovi che
richiedono soluzioni nuove, caratterizzate da immaginazione, inventiva,
rinnovamento, decisione; la rinascita interna degli Stati Uniti diventa per
Kennedy la premessa per la loro leadership mondiale.
Dopo le sue esperienze dirette, prima della
guerra e poi della malattia, l’impegno in politica aveva per Kennedy anzitutto
l’obiettivo di non far peggiorare lo stato di cose (“la politica è una
giungla”, cit. pagg.122-123): egli “fu il portavoce dell’inquietudine della
generazione del dopoguerra” (cit., pag.135). L’io pubblico doveva restare
fedele all’io privato, gli amici ed i nemici in politica andavano considerati
sempre come contingenti, tenendo sempre aperta l’opportunità della
riconciliazione.
Il presidente americano, capo sia di stato che di governo, osserva Schlesinger,
è al centro di cerchi concentrici di rapporti, che vanno dalla sua famiglia al
mondo intero, ed è suo compito permeare questa rete di rapporti con i suoi
scopi e i suoi valori: Kennedy leggeva moltissimo, soprattutto storia,
diffidava sia delle posizioni estremiste che delle grandi teorizzazioni, ed era
molto distaccato dalle astrazioni e dai formalismi religiosi, intellettuali,
culturali e dalla retorica.
Impresse un proprio stile alla politica:
era un pragmatista che valutava le diverse opzioni in base alle conseguenze, ed
aveva una cultura storica che gli consentiva di comprendere che non tutto è
riconducibile alla dicotomia bene-male e che spesso il coraggio di raggiungere
un compromesso può produrre più cambiamenti del conflitto distruttivo (cit.,
pag.132 e 173).
Kennedy era anche un “ascoltatore superbo”, sapeva fare autocritica e
riconosceva l’importanza delle circostanze, che in taluni casi avevano fatto
grandi suoi predecessori; l’unico criterio per valutare un presidente, secondo
lui, era però quello di valutare i suoi risultati concreti. Il fatalismo di
Kennedy si rispecchiava nella sua epoca come l’ottimismo di Roosevelt nella
propria; occorreva essere fedeli alla realtà piuttosto che ai propri piani
d’azione (cit., pagg.654-662).
Roosevelt affrontò la crisi economica con enti di emergenza costituiti da
persone di sua fiducia, al di fuori delle istituzioni, lasciando però ai suoi
successori un apparato governativo più vasto ed invasivo; Kennedy tentò invece
di esercitare un ruolo personale, scontrandosi con la burocrazia feudale del
governo federale (vi fu una contrapposizione fra “governo presidenziale” e
“governo permanente”, soprattutto dopo l’episodio della Baia dei Porci) ed
istituì un solo ente esterno alla burocrazia, il "Peace Corps".
I discorsi presidenziali erano uno strumento per Kennedy per fare politica, in
quanto costituivano essi stessi delle direttive per l’esecutivo; utilizzava
spesso frasi a ritmo staccato ed un periodare “a specchio” (cit., pag.672).
Poteva contare su di uno staff di esperti, molti dei quali ex professori
universitari, e su diverse commissioni di studio sia in politica interna che
estera, tutti aperti al dibattito (cit., pagg.87-88 e 179-184); Lyndon Johnson,
in particolare, era un “pensatore indiretto”, che agiva solo quando i consigli
che riceveva coincidevano con le sue aspettative. Le commissioni servivano sia
a focalizzare meglio il programma di governo, sia a scegliere gli uomini, e talvolta
vi furono anche votazioni esplorative, come durante la crisi di Cuba.
Mentre il liberalismo del New Deal era dominato
da questioni “quantitative” (sicurezza e lavoro durante la depressione), il
liberalismo dell’era Kennedy era “qualitativo”: in una fase di maggiore
ricchezza economica, era rivolto al miglioramento della vita quotidiana,
concentrando la propria attenzione ai problemi dell’istruzione, degli alloggi,
dell’assistenza medica, dei diritti civili. Diversamente dall’epoca del New
Deal, poi, rifiutava moralismo, retorica, idealismo, in favore di decisioni che
venivano prese non perché erano giuste o sante ma perché erano razionali e
necessarie.
Fu in questo contesto che l’Unione Sovietica non venne più chiamata “nemico” ma
“avversario”; e non più considerata come la fonte di tutti i mali del mondo:
concepì la contrapposizione con i sovietici più in termini nazionali che
ideologici, perseguì anch’egli il potenziamento militare, ma più in termini
convenzionali che nucleari, e soprattutto cercò di spostare la sfida dal
settore militare a quello della ricerca spaziale. La competizione con i
sovietici non era una guerra santa, si trattava di mostrare al mondo qual era
la società migliore; interpretò la coesistenza pacifica come libera
circolazione delle idee nel mondo e gli artisti, secondo lui, erano
l’espressione più forte del libero individuo, “la storia stessa scorre contro
il dogma marxista e non verso di esso” (cit., pag. 879).
Il rischio di un “errore di calcolo” nel prevedere le mosse dell’avversario
costituiva per Kennedy il maggior pericolo per la pace, occorreva ridurre i
margini di incertezza nelle stime sul comportamento delle due nazioni. Comprese
appieno l’assurdità della corsa agli armamenti nucleari, e si adoperò per
aprire negoziati; fu il primo presidente a considerare il mondo intero oggetto
di “politica interna”.
Quando si insediò alla Casa Bianca, ereditò tuttavia dall’amministrazione
Eisenhower la crisi del Laos e l’addestramento in corso in Guatemala di forze
anticastriste che avrebbero poi condotto la disastrosa operazione della Baia
dei Porci con conseguenti contestazioni negli stessi Stati Uniti, soprattutto
da parte degli intellettuali. Fu proprio a seguito di quella vicenda che
Kennedy decise di fidarsi meno degli esperti, e di allargare il numero dei
propri consiglieri anche a “generalisti” di sua fiducia.
Nel gestire la crisi del Laos in Indocina gli americani fecero vari errori;
Kennedy tentò la via della soluzione diplomatica, ma senza riuscirvi: aveva
come obiettivo il mantenimento dello status quo, l’equilibrio presente fra le
forze; Kruscev puntava invece ad uno status quo “dinamico” che coincideva con
l’avanzata del processo rivoluzionario nel mondo (si veda anche il dibattito
fra le superpotenze su Berlino, a pag.426 e seguenti, che finì con la
costruzione del muro e con la ripresa degli esperimenti nucleari sovietici
nell’atmosfera).
Con la gestione delle crisi di Berlino e del Laos, Kennedy imparò a dosare
forza e diplomazia, imparò l’arte “del ricorso misurato alla forza ai fini del
mantenimento della pace” (cit., pag.455); imparò anche ad utilizzare la
presenza americana alle Nazioni Unite, nella persona di Adlai Stevenson, come
la voce della sua politica estera, ed a considerare l’ONU, pur con tutti i suoi
limiti, come una forza di stabilizzazione in un mondo instabile. Capì anche
l’importanza del neutralismo che si stava diffondendo nel mondo (Nehru,
Tito, Nasser, Sukarno), nei cui confronti non sempre l’America seppe mostrarsi
equilibrata: la “teoria del domino” già imperante nell’amministrazione
Eisenhower, condusse all’intervento in Vietnam ed all’assistenza al despota
Diem (cit., pag.534 e seg., pag.986 e seg.).
Spesso gli Stati Uniti finivano con l’essere coinvolti nell’odio contro
l’Occidente da parte dei nazionalisti e degli anticolonialisti, specie in
America Latina, gruppi e movimenti che nulla avevano a che fare col comunismo
ma che finivano per allearsi con Mosca; tuttavia, la condanna dell’apartheid e
la garanzia anche militare data ai diritti dei negri, per i quali si impegnò
attivamente e di cui incontrò i leader, aumentarono le simpatie per Kennedy sia
nel continente americano che in Africa.
La prima decisione presidenziale di Kennedy fu il
raddoppio delle razioni alimentari governative ai bisognosi, cui fece seguito
una particolare attenzione ai problemi dell’America Latina, che non aveva
trovato riscontro nei presidenti che l’avevano preceduto e che sfociò
nell’Alleanza per il Progresso; Kennedy proclamò il “diritto alla giustizia
sociale” per l’intero continente americano: “la rivoluzione di questo emisfero
sarà incompleta finché vi sarà anche un solo bambino affamato, uno studente che
non potrà studiare, un lavoratore senza lavoro, un solo individuo senza casa e
un vecchio senza assistenza” (cit., pag.752).
Ma il problema cruciale dell’America Latina era l’individuazione ed il sostegno
a leader democratici; la politica estera di Kennedy non era tanto interessata
alla libertà economica, quanto a quella individuale e politica, ed
all’indipendenza nazionale: voleva la pace ma nella libertà e non a sue
spese, e nei momenti cruciali il suo pensiero andava ai bambini e ai giovani
(soprattutto durante la crisi di Cuba, che fu per gli americani una sorpresa
paragonabile a Pearl Harbour, cit., pagg.786, 806 e seguenti).
I maggiori alleati del comunismo, comprese Kennedy, erano la miseria,
l’ingiustizia e l’oppressione, tutti imperanti nei paesi del Terzo mondo. Gli
aiuti all’estero vennero finalizzati a programmi di sviluppo, comprese le
riforme strutturali quali la creazione di istituzioni democratiche e la riforma
agraria, e non più solo all’assistenza tecnica e militare; Galbraith, all’epoca
ambasciatore in India, accentuò l’importanza dell’istruzione per la crescita
economica, e nell’amministrazione Kennedy andò sempre più accentuandosi il
convincimento che crescita economica e democrazia politica dovevano progredire
di pari passo. Istituì allora i Peace Corps, volontari da mandare
all’estero per dare assistenza tecnica; la politica estera fu rinnovata, furono
abbandonate le tesi unitarie ed astratte sul mondo e riconosciuta l’importanza
politica dei paesi neutrali: il mondo era pluralistico e non monistico,
l’economia pubblica e quella privata non vennero più contrapposte, contava
l’esperienza pratica piuttosto che l’ideologia.
L’Europa unita era parte della strategia kennediana; la “Grande Meta” era una
libera comunità atlantica, e peraltro Kennedy valutava in positivo anche i
tentativi, soprattutto in Italia, di costruire coalizioni di centro-sinistra,
fra i democratici cristiani ed i socialisti democratici (cit., pag.832, 870 e
seg.).
Sotto il profilo teorico, la politica di Kennedy
era l’espressione dell’empirismo radicale di William James: l’universo è
plurale, non esiste un’unica verità ma solo verità parziali che sono a
disposizione degli uomini liberi. La diversità si manifestò peraltro anche in
campo comunista, col contrasto fra Unione Sovietica e Cina: il nazionalismo si
stava rivelando ovunque più forte del marxismo; in ogni caso, non poteva
esistere una “soluzione americana” a tutti i problemi mondiali: le crisi
descritte dai giornali contribuivano a creare una situazione di “illusione
ottica”, la dottrina kennediana della diversità evidenziava invece come
le lotte per l’indipendenza nazionale costituiscano tendenze storiche
fondamentali, di cui è parte integrante la stessa rivoluzione americana; il
mondo è caratterizzato dalla diversità, i problemi si risolvono con la
collaborazione internazionale: non il monolitismo comunista ma il pluralismo
caratterizzato da indipendenza nazionale e libertà personale determina il corso
della storia. In questo contesto, gli Stati Uniti dovevano collocarsi coi
movimenti per l’indipendenza e la democrazia.
La teoria kennediana della diversità precorse nel tempo l’idea della terza
via e costrinse Mosca alla posizione opposta, quella della sterile
contrapposizione dualistica fra socialismo e capitalismo.
Anche il fratello Robert diede voce all’idealismo della Nuova Frontiera: come
ministro della Giustizia, si attivò nella lotta contro la criminalità, nella
battaglia per far applicare i diritti civili, nel liquidare il maccartismo e
nel promuovere l’equa applicazione della giustizia, anche verso gli imputati
indigenti.
Ma la presidenza Kennedy non fu esente da
critiche: anzi, dovette affrontare sia l’opposizione di una sinistra radicale
che chiedeva il disarmo unilaterale e finiva col giustificare Kruscev (Stuart
Hughes, Bertrand Russell), che di una destra catastrofista e reazionaria, il
cui mondo ideale era all’epoca un mondo senza, “senza comunismo, senza
impegni oltremare, senza Nazioni Unite, senza governo federale, senza
sindacati, senza negri e senza stranieri” (cit., pag.734). Nella società
americana l’immagine della virilità nazionale si accompagnava all’etica del
“fumo di rivoltella”, un “paese di frontiera” (cit., pag.735); il risentimento
della destra contro Kennedy era totale: ne contestava idee, religione,
famiglia, aspetto, ricchezza, ogni cosa.
Eppure la presidenza Kennedy cambiò profondamente fini e valori dell’America,
abbatté pregiudizi e gettò le basi di “una trasformazione di così vasta portata
da fare dell’America degli anni sessanta una società assai diversa dall’America
degli anni cinquanta” (cit., pag.697, pag.710 e seguenti). Kennedy influenzò e
fu influenzato dal suo tempo; molti interventi furono efficaci perché erano le
situazioni stesse, volte al peggio, a richiedere dei miglioramenti: “la nazione
è disposta ad ascoltare soltanto se il momento è molto grave” (i diritti
civili, la politica estera, pag.705). lo spirito della Nuova Frontiera si basò
su idee, intellettuali, autocritica, ma anche umorismo; il presidente
rappresentava “la politica della modernità “ (pag.722 e seg.), era un liberale
pragmatico, appartenente più alla corrente riformista e pragmatista del
movimento progressista piuttosto che a quella utopistica e millenaristica. Morì
assassinato a Dallas, nel 1963.
Anthony Giddens (La Terza Via, op.cit.)
distingue la socialdemocrazia classica, caratterizzata dal welfare state
generalista (che protegge i cittadini "dalla culla alla tomba",
cit.pag.24), dalla terza via la quale si caratterizza per alcune novità:
- Democrazia cosmopolita (cit., pagg.128-133): sia le identità nazionali
che quelle etniche sono artificiali, nessuno è un purosangue, centrale è la
questione dell'immigrazione che di solito si dimostra vantaggiosa per il paese
ospite (nazionalismo cosmopolita).
- Governo mondiale: sia il rischio ecologico che la riduzione
dell'ineguaglianza mondiale non possono essere risolti a livello locale;
nell'età dell'informazione "il territorio non è più così importante per
gli stati-nazione come in passato. Le conoscenze e le capacità competitive
contano molto di più delle risorse naturali" (cit., pag.136).
- Comunità, da non intendere come recupero di forme perdute di
solidarietà locale, ma come associazioni di volontariato, imprenditorialità
sociale, banca del tempo, progetti di microcredito, organizzazioni non
governative, movimenti sociali ed altri gruppi (cit., pagg.58 e 87). Forme
importanti di cosmopolitismo provengono dal basso (Greenpeace, Amnesty
International). Esiste uno spazio globale depoliticizzato che, secondo
Giddens, "richiede regolamentazione, l'introduzione di diritti e obblighi:
ubi societas, ibi ius, dovunque ci sia società, ci devono essere
leggi" (pag.136).
- Welfare positivo: dove il welfare assume connotazioni negative (mirato
ai poveri, come negli Stati Uniti), ne conseguono divisioni sociali; i
programmi contro la povertà vanno sostituiti con approcci fondati sulla
comunità: "Chiesa, famiglia e amici sono le fonti principali della
solidarietà sociale, lo stato dovrebbe intervenire soltanto quando queste
istituzioni non arrivano a soddisfare pienamente i propri obblighi" (cit.,
pag.112). Fondamentale è l'investimento nell'istruzione, che è la base
per redistribuire possibilità.
Ne deriva il tema della sostituzione del welfare state da parte della
welfare society (cit., pag.116): gli organismi del terzo settore devono
svolgere un ruolo più importante come fornitori di servizi di welfare; vi sono
tuttavia ambiti nei quali i movimenti sociali, le ONG ed anche i mercati non
possono sostituirsi al governo (l'elenco delle ragioni per cui esiste un
governo è a pagg.57-58, lo schema del programma della terza via è a
pag.76, lo schema dei valori della terza via è a pag.73, op.cit.).
La denominazione "terza via" non va confusa con altre "terze
vie" del passato: è "terza" in quanto "nuova" (cit.,
pag.13) rispetto alla socialdemocrazia classica e al neoliberismo o Tatcherismo
(i cui schemi sono riepilogati a pagg.24-25, op.cit.).
Il welfare state della socialdemocrazia classica, secondo Giddens, "oggi
crea quasi tanti problemi quanti ne risolve" (cit., pag.32). Inoltre, la
separazione socialismo-capitalismo (asse economico) ha molto meno rilievo
rispetto ai contrasti libertario-autoritario e moderno-tradizionalista.
Il termine chiave è globalizzazione, che riguarda i mercati finanziari,
le comunicazioni elettroniche, la modernizzazione ecologica (la protezione
ambientale come fonte di crescita economica, cit. pag.34). Un aspetto chiave è
la speculazione sui cambi: "come meccanismo stabilizzante l'euro e il
dollaro potrebbero venire formalmente ancorati fra loro" (cit., pag.144);
inoltre, un Consiglio di sicurezza economica andrebbe istituito nelle Nazioni
Unite.
La fine del mondo bipolare (pagg.134-135) si caratterizza oggi per l'esistenza
di stati senza nemici (cit., pagg.134-135, vedere lo schema a pag.82),
che devono occuparsi della "gestione del rischio" inteso sia come pericolo
che come opportunità, in particolare per regolare il cambiamento
scientifico e tecnologico (cit., pagg.66-70 e 81). Scienza e tecnologia non
possono più essere considerate esterne alla politica.
Il concetto di sviluppo sostenibile non consente definizioni precise perché:
a) non possiamo conoscere i bisogni delle generazioni future;
b) non possiamo sapere come il cambiamento tecnologico influenzerà l'utilizzo
delle risorse (cit., pag.64).
Alcuni ambiti di intervento del welfare positivo riguardano:
- la vecchiaia; bisogna abolire l'età fissa di pensionamento e considerare gli
anziani non come un problema ma come risorse (cit., pag.118);
- istruzione a vita;
- fornire sicurezza quando falliscono iniziative imprenditoriali e dando la
possibilità di essere tassati su una base biennale/triennale anzichè annuale;
- incoraggiare "politiche a favore della famiglia nei luoghi di lavoro
(...) non solo la presenza di asili e doposcuola, ma anche diverse opportunità
di lavoro, come per esempio il telelavoro o il lavoro nei giorni festivi,
possono contribuire a riconciliare l'impiego con la vita domestica" (cit.,
pag.123);
- necessità di contratti di genitorialità a vita, nel passaggio dalla famiglia
tradizionale (unità economica caratterizzata da ineguaglianza dei sessi,
doppia morale sessuale, scarsi diritti legali per i bambini, ecc.) alla famiglia
democratica (nell'epoca del "bambino pregiato" e dell'uguaglianza
dei sessi, pagg.93-97, op.cit.);
- progetti dei dollari-tempo e dei salari ombra (cit., pag.124);
- riformare il sistema dei sussidi laddove induce all'azzardo morale.
Il welfare state, secondo l'Autore, "è una condivisione di rischi
piuttosto che di risorse" (cit., pag.115); lo stato diviene in questa
concezione un "investitore sociale, che opera nel contesto di una
società di welfare positivo" (cit., pag.116). Questa società del
welfare positivo si estende al di sopra e al di sotto della nazione,
l'autonomia dell'individuo diventa l'obiettivo principale (pagg.124-125).
Il termine terza via, osserva ancora
Anthony Giddens (The Third Way and its Critics, trad.it. Cogliere
l’Occasione, op. cit.) è stato usato più volte sia a destra che a sinistra,
da Franco a Tito, e la stessa socialdemocrazia durante la guerra fredda fu
intesa come una terza via (cit., pag.13 e 28).
La globalizzazione, che non è solo economica ed informatica ma anche sociale,
politica e culturale, non permette più alle "grandi istituzioni"
(stato, sindacati, grandi imprese) di mantenere gli impegni sociali, e il
problema non è più di redistribuzione ma di creazione della ricchezza,
attraverso l'innovazione; allo Stato spetta il compito di incentivare piuttosto
che contribuire col disavanzo pubblico: deve passare dai remi al timone (cit.,
pagg.14, 17 e 74).
La leva fiscale (aumento della spesa pubblica) è stata utilizzata per ragioni
diverse sia dalla destra (difesa e big government) che dalla sinistra
(programmi sociali, pag.20); il thatcherismo era una forma politica radicale,
in quanto divideva all'interno in amici e nemici (cit., pag.22).
La politica della terza via, secondo Giddens, è il tentativo di rispondere alle
trasformazioni (non solo economiche) in atto; i problemi sociali sono generati
dai mercati, ma anche dallo Stato, dal governo e dal welfare state, che
richiedono perciò l'attuazione di programmi di modernizzazione che consentano
di perseguire gli ideali di solidarietà e di giustizia sociale: serve allora un
ripensamento a sinistra simile a quello che mezzo secolo fa fece rompere col
marxismo (cit., pagg.38-41).
Lo Stato può produrre diseguaglianze, il mercato può diventare lo strumento per
superarle, la sinistra deve cambiare il proprio atteggiamento verso il mercato,
le imprese, i capitali privati; i mercati, però, generano esternalità e non si
autoregolano (cit., pagg.42-45).
La politica della redenzione va superata sia a destra che a sinistra,
perché "non esiste una fonte unitaria dei mali del mondo" (cit.,
pag.46); inoltre molti temi politici (il radicalismo, gli anziani, la politica
della vita) non sono più riconducibili alla dicotomia destra/sinistra, che
invece era centrata sulle relazioni di classe.
Sono preoccupazioni prioritarie dei cittadini la famiglia, la criminalità, la
coesione sociale; siamo di fronte a nuove questioni ma non disponiamo di
soluzioni sistematiche su come coniugare prosperità sostenibile, solidarietà
sociale, istituzioni che garantiscano la libertà (pag.28). Sono sempre di più
quelli che chiedono maggiore emancipazione, maggiore libertà personale e
sessuale, e meno interventi governativi; le combinazioni regolamentazione
economica/anarchia morale ed anarchia economica/controlli morali non
hanno più senso (cit., pagg.49-53).
Le politiche per la famiglia devono essere soprattutto di sostegno, ed in ogni
caso i diritti vanno sempre legati alle responsabilità: "nessun diritto
senza responsabilità " (pagg.17-54-58-139); la sinistra è stata finora
troppo indifferente verso la criminalità e la frammentazione della famiglia:
una volta che essa diventa credibile su questioni su cui per tradizione è
lontana, diventa più facile per gli elettori ascoltarla sui suoi temi naturali,
quali l'istruzione, la salute, l'ambiente, ecc. (pagg.56-57).
La terza via ricerca "una via mediana su tutto" (cit., pag.22): la
politica della terza via ritiene che crescita economica e modernizzazione
ecologica siano obiettivi coerenti e addirittura interrelati (produrre di più
con meno, pag.133 e seguenti), che vada massimizzata l'eguaglianza delle
opportunità ma anche limitata la disuguaglianza degli esiti finali (pag.94), e
che vadano combattute tutte le forme di esclusione (ghetti, segregazione
sociale), sia in fondo che in cima alla scala sociale (pag.59, pag.118 e
seguenti). Per raggiungere questi obiettivi, la globalizzazione può offrire
benefici: attraverso la moltiplicazione delle organizzazioni non governative, e
con una nuova internazionalizzazione della sinistra che oggi è diventata
isolazionista (pagg.60, 126, 131).
Scienza e tecnologia hanno slegato la produttività dai fattori tradizionali
della produzione (nuovo capitale e nuovo lavoro, pag.72), e paradossalmente più
informazione aumenta l'incertezza economica (economia della conoscenza,
pagg.73, 75 e seguenti).
Servono da un lato un "modello dinamico di egualitarismo" (cit.,
pag.121), dall'altro un pluralismo strutturale (pag.63): quindi, Stato
(che Giddens invita a distinguere fra Stato grosso e Stato forte,
pag.65 e seguenti), governo, federalismo (sia verso l'alto che verso il basso),
società civile (che è il fondamento della cittadinanza ma che non coincide con
l'idea di comunità), gruppi del terzo settore (pagg.85-86).
L'istruzione, prolungata per l'intero corso della vita, è l'investimento
pubblico più importante (pag.78), la sinistra deve altresì incoraggiare la
cultura imprenditoriale, che è innovativa, in economia ma anche nella società
civile (capitale sociale, cit. pagg.80-85). Gli interventi governativi non
devono consistere in sovvenzioni dirette, ma concentrarsi sulle condizioni-quadro
della competitività e dello sviluppo.
L'esclusione sociale non coincide con la povertà e spesso la povertà non è una
condizione definitiva e a lungo termine, ma una fase della vita, e sembra
determinata più dalle trasformazioni tecnologiche, da tendenze demografiche e
da cause familiari che dal libero mercato (pag.97 e seguenti, pagg.108-115). Il
welfare dovrebbe offrire aiuto e non elemosina, occorrono politiche diverse in
relazione alla durata delle condizioni di povertà.
La tassazione, secondo Giddens, va spostata dalle imposte sui redditi (su cui
incidono sia la progressività che il livello di tassazione), alle imposte sui
consumi ed all'ecotassazione (energia, rifiuti, trasporti, pag.103 e seguenti).
Il sistema assistenziale dovrebbe occuparsi dei diversi ‘perché’ della
povertà e non solo come ora del ‘chi’ è povero, individuando le
vulnerabilità e correggendo le condizioni che possono generare povertà
(pagg.112 e 114). Occorre restituire spazi commerciali ad un uso pubblico,
promuovere la varietà dei media, incentivare fiscalmente la partecipazione e la
democrazia economica (pagg.146-147-148).
6-6 RIFORMISMO E SOLUZIONE DI PROBLEMI
Fra i problemi umani, osserva Norberto Bobbio (Il problema della guerra e le vie della pace, op.cit.), non esiste "il problema dei problemi", risolto il quale si risolvono gli altri (pag.129); l’insieme di problemi cui il riformista si trova di fronte è quindi multiforme e mutevole nel tempo, e richiede necessariamente l’individuazione delle priorità.
Albert O. Hirschman, nel
libro Come far passare le riforme (op.cit.) distingue processi e
tecniche di policy-making (formazione delle decisioni) e di problem-solving
(soluzione di problemi, pag.127). Vi sono problemi privilegiati ed altri
trascurati (pag.133); le ideologie piuttosto che le manifestazioni di
malcontento (violenza) attirano l'attenzione su certi problemi ma non su altri:
ad esempio, gli aumenti tariffari attirano l’attenzione di più che la mortalità
infantile, mentre agli eventi climatici rispondiamo con la disperazione
piuttosto che col malcontento, quasi che i danni provocati dal clima fossero
una sorta di destino ineluttabile.
Emergono molto prima gli errori nella soluzione di problemi pressanti
piuttosto che di problemi scelti, anche perché la motivazione a
risolvere i primi spesso eccede la loro stessa comprensione (cit., pagg.139 e
142).
La comprensione (fattori oggettivi di cambiamento) dovrebbe invece
precedere la motivazione (fattori soggettivi di cambiamento), i fini
dovrebbero essere scelti solo dopo avere mezzi disponibili per conseguirli; una
risposta creativa non è però sempre possibile in quanto vi sono problemi
pressanti, ed è inevitabile la ricerca di una risposta adattiva (che
talvolta è difettosa, cit. pag.144).
Ci devono essere canali di comunicazione efficace fra chi sperimenta gli errori
e chi li commette, Hirschman auspica anche fasi utopiche di policy-making,
che tengano in anticipo agli atti provvedimenti che saranno utili solo in tempi
successivi (i tentativi falliti dei predecessori hanno talvolta "costi
sommersi" che possono fruttare benefici se recuperati, cit. pag.152).
Vi sono casi in cui i passi avanti nella soluzione di un problema vengono
interpretati come se il problema non esistesse più (auto-immagine del
policy-maker come demiurgo).
I processi di problem-solving consistono in "passi avanti
convergenti o sequenziali nella comprensione e nella motivazione" (cit.
pag.158) e richiedono capacità di delibera e di attuazione dei provvedimenti
anche in condizioni di resistenza da parte di gruppi.
La segnalazione del malcontento alle autorità centrali può avvenire perché il
problema si è intensificato, oppure perché è aumentata la protesta, perché è
migliorato il meccanismo di segnalazione (cit. pag.168).
La crisi stimola l'azione, rende possibile la soluzione di problemi cui prima
non era dedicata particolare attenzione; spesso i gruppi sono in disaccordo
sulla gravità di una crisi, e quando un vecchio problema si aggrava, di solito
nascono problemi nuovi (cit., pagg.172-177).
L'emozione e l'ansia producono stereotipi che riducono le capacità di risolvere
i problemi; nel problem-solving sociale l'ansia di solito è accompagnata
dall'aggravarsi del problema, mentre nel problem-solving individuale questo non
avviene e quindi il parallelo fra i due è fuorviante (cit. pag.174).
Un problema estraneo e differente talvolta può aiutare i processi decisionali
su altri problemi; un problema dominante invece riduce l'attenzione sui
restanti problemi, rendendoli marginali (cit. pag.178 e nota).
L'emergenza derivante da situazioni di crisi aiuta l'attività di
problem-solving, e può verificarsi sia per un aggravamento dei problemi sia, al
contrario, per un loro riflusso accompagnato però da pressioni rivoluzionarie
(cit. pag.229).
Hirschman distingue le politiche pressanti (far fronte ai problemi)
dalle politiche scelte autonomamente da chi governa: "il più delle volte
lo Stato non agisce, ma reagisce" (cit. pag.304).
Talvolta problemi privilegiati e problemi trascurati possono
essere connessi, legati fra loro; il fatto che un problema sia di un tipo
piuttosto che dell'altro dipende da quante persone coinvolge, da quanto
importante sia per loro e da quanta influenza dispongono (cit., pagg.307-309).
Di particolare interesse, proprio in relazione
alla individuazione dei problemi, è stata l’esperienza del Club di Roma: la
trasformazione delle condizioni di vita, secondo Aurelio Peccei (Quale futuro?, cit.) dipende dallo sviluppo tecnologico,
che è più rapido della nostra capacità di adattamento; l'uso incontrollato
della tecnologia, priva di controllo esterno e di capacità autoregolanti, crea
squilibri: inquinamento, popolazione, dipendenza da sistemi informatici, da
automobili, ecc.
La tecnologia è applicazione della conoscenza, il fattore tecnologico ha oggi
una forza ed un'autonomia senza precedenti nella storia, ed occorre metterlo
sotto controllo, occorre "pianificazione normativa".
La biosfera è lo "spazio della vita", una pellicola di aria,
acqua e terra che copre il nostro pianeta con uno spessore di appena una
dozzina di chilometri: la crescita ha perciò dei limiti, limiti reali (capacità
teorica del pianeta) e limiti pratici (impiego irrazionale delle risorse,
politiche nazionali divergenti); la crescita ha poi altri limiti non quantificabili:
la nostra appartenenza organica alla biosfera (costante confronto, conflitto e
adattamento reciproco con altre forme di vita) e la capacità del nostro sistema
nervoso di accettare ed assorbire impatti tecnologici ancora più grandi, con
conseguente perdita di valori, "stress" delle velocità, delle
tensioni e dei rumori, incertezze e complessità dell'esistenza, implosione
delle informazioni, dipendenza da macchine, automazioni e simbolismi
complicati, spersonalizzazione e senso di inutilità dell'individuo.
Vi sono problemi di dimensioni planetarie, che interessano tutti i popoli e che
non sono risolvibili separatamente:
- sicurezza (armamenti);
- polluzione atmosferica (aumento del tasso di anidride carbonica);
- oceani (occorre organizzarne un uso razionale e pacifico);
- aumento delle fratture culturali, economiche e tecnologiche fra i popoli;
- aumento della popolazione;
- ribellione giovanile;
- possibilità di manipolare il materiale genetico umano.
L'esperienza del passato non può più guidarci ma anzi ci può trarre in inganno.
Peccei individua, all’epoca in cui ha scritto il libro (siamo nel 1974), 32 problemi
critici continui, che elenchiamo e che è possibile constatare oggi, a
distanza di alcuni decenni, quanti di essi sono stati risolti e quanto (tanto)
rimane invece da fare per le politiche riformiste, a livello planetario; ecco
l’elenco:
1) fame e denutrizione;
2) sottosviluppo;
3) povertà di massa;
4) sviluppo demografico incontrollato;
5) distribuzione demografica squilibrata;
6) educazione inadeguata;
7) assistenza medica insufficiente;
8) sistema previdenziale arretrato;
9) inquinamento ambientale crescente;
10) distruzione della natura;
11) sperpero di risorse naturali;
12) sottoccupazione diffusa;
13) sistema mondiale di scambi arretrato;
14) proliferazione urbana;
15) decadenza del cuore delle città;
16) sistemi di trasporto e di comunicazione insufficienti;
17) carenze dell'edilizia popolare;
18) insufficiente tutela dell'ordine pubblico;
19) inadeguato controllo della criminalità;
20) sistema correzionale arretrato;
21) insufficiente attrezzatura ricreativa;
22) discriminazione verso le minoranze;
23) discriminazione verso gli anziani;
24) scontento sociale crescente;
25) alienazione dei giovani;
26) crescente crisi di partecipazione;
27) sottogoverno dilagante;
28) correzione arretrata dell'ordine morale;
29) insufficiente autorità degli enti internazionali;
30) polarizzazione della potenza militare;
31) corsa alle armi nucleari;
32) inadeguata comprensione dei problemi critici continui.
L'approccio ai problemi critici continui, osserva Peccei, deve essere di
sistema, e ciò comporta l'analisi delle interdipendenze ed interazioni dei
problemi; ne derivano principi di globalità, lungo termine e complessità:
a) il nostro destino è diventato per molti aspetti unico e indivisibile, unità
e solidarietà globali sono premesse di sopravvivenza;
b) la pianificazione come visione e obiettivo a lungo respiro è necessaria;
c) l'approccio sistemico è inevitabile, problemi complessi non ammettono soluzioni
semplici o approcci parziali.
I sistemi, osserva ancora Peccei, sono aggregati dinamici di elementi uniti da
determinate leggi e finalità, sono in sovrapposizione dinamica e reciproca, e
sono soggetti a complicate crisi evolutive interne o di adattamento ad agenti
esterni: il sistema-base, all'epoca, era lo stato-nazione, altri sistemi sono
gli organismi internazionali, le alleanze e i patti militari, le comunità
economiche e le zone di libero scambio, aree e sistemi monetari, accordi
commerciali e tariffari, le convenzioni internazionali, le imprese
multinazionali, i movimenti che tendono a strutture di sistema (in campo
sindacale, scientifico, intellettuale, dei governi, ecc.), i sistemi di
carattere naturale (bacini idrografici, mari, oceani, venti, piogge, alcune
specie animali, ecc.). Questa massa in movimento e in crisi - e l'impennata
tecnologica che l'accompagna - determinano nuovi valori assoluti, quali
velocità, dimensione, complessità.
La problematica mondiale produce:
- problemi demografici;
- problemi del reperimento delle risorse vitali (cibo, acqua, energia, materie
prime);
- problemi connessi all'ambiente biofisico;
- problemi derivanti dall'evoluzione psicosociale della società organizzata
(istituzioni, sicurezza, sviluppo, comunicazioni, pianificazione);
- problemi della personalità (istruzione, cultura, adattamento, partecipazione,
espressione, tempo libero, qualità della vita);
- problemi della filosofia della vita (ricerca del significato dell'esistenza,
ordine morale, etico, spirituale).
La qualità dell'habitat diminuisce quanto più aumentano il benessere ed il
tasso di affollamento; la tecnologia non riesce a risolvere tutti i problemi ma
spesso fornisce solo palliativi e rimanda l'inevitabile a più tardi: l'aumento
della popolazione richiede infatti un aumento più che proporzionale della base
animale e vegetale che la sostiene.
La rivoluzione biologica ha creato società disomogenee: i giovani maturano
prima, la vita attiva si prolunga in età avanzata, la mobilità si è
decuplicata, convivono e competono più generazioni che sono distanziate tra
loro storicamente e culturalmente. La pressione demografica reale sull'ambiente
non dipende solo dalla popolazione ma anche da abitudini, comportamenti,
mobilità, capacità di sovvertire i cicli naturali, ecc.: stiamo vivendo la
transizione da un'epoca in cui la tecnologia proteggeva l'uomo dall'ambiente ad
una in cui la tecnologia deve servire per proteggere l'ambiente dall'uomo.
Il dramma della nostra epoca, continua Peccei, è la dicotomia fra il potere che
abbiamo e la poca saggezza e razionalità con cui lo applichiamo, assistiamo ad
un doppio accrescimento esponenziale dell'uomo, come numero e come potere.
Occorre allora acquisire le dimensioni concettuali di un pensiero realmente
avanzato, dimensioni che devono essere:
1) dimensione sistemica (il sistema internazionale comprende singoli
sistemi interconnessi con altri sistemi e sottosistemi di sistemi più ampi che
li condizionano);
2) dimensione globale, o "ecumenica";
3) dimensione diacronica (la visione e la giustificazione delle nostre
azioni e decisioni deve essere di lungo periodo anziché basarsi su contingenze
a breve termine);
4) dimensione normativa, che è la più importante e che consiste nello
stabilire obiettivi globali a lunga scadenza per l'umanità.
Raramente controlliamo la direzione della nostra corsa o ci chiediamo quanto
costi o quale ne sia il significato ultimo; inoltre le nostre capacità di
previsione e di programmazione sono ancora poco sviluppate. La problematica
mondiale non può essere affrontata infatti con un approccio lineare,
sequenziale e frammentario.
Il compito dell'uomo deve essere quello di leader del processo evolutivo sulla
terra, finora prerogativa della natura; la saggezza ecologica consiste nella
capacità di:
- comprendere le condizioni dinamiche del nostro ambiente naturale-artificiale;
- scegliere serie armoniche di obiettivi a breve e a lunga scadenza;
- realizzare ed organizzare meccanismi artificali di preallarme, pianificazione
e feedback ad integrazione di quelli naturali.
Peccei riepiloga i principali problemi affrontati nella riunione di Salisburgo
del febbraio 1974, che all'epoca erano:
Etica e priorità politiche
nuove strutture di pace basate sulla giustizia (distensione e disarmo),
sacrifici locali per benefici a lungo termine, maggiore solidarietà,
distinguere fra necessità e bisogni, limitare lo spreco, creare forze e
meccanismi per assistere i politici ad assumere una visione di lungo periodo.
Localizzazione delle industrie
trasferimento in regioni meno sviluppate, localizzazione dove esiste surplus di
offerta di lavoro.
Sviluppo
sviluppo economico selettivo diretto ai bisogni della popolazione, diminuzione
delle ineguaglianze, che precede la riduzione dello sviluppo materiale (delle
società e tra le società).
Popolazione
problemi di disoccupazione, di raddoppio della popolazione, di nuove e migliori
tecnologie, di maggiore sviluppo economico per quei paesi con aumenti
sostanziali delle popolazione.
Risorse
relazioni di prezzo più eque e trasparenti tra materie prime e prodotti,
controllo e regolamentazione delle società multinazionali, spostamento delle
risorse dagli armamenti allo sviluppo economico-sociale, implicazioni derivanti
dal disavanzo alimentare, dall'inflazione, da più alti prezzi dell'energia.
Istituzioni nazionali e internazionali
inadeguatezza delle istituzioni politiche e sociali, eredità coloniali,
necessità di una carta dei diritti e dei doveri economici degli stati, di
rafforzare le istituzioni internazionali, di cooperazione economica, di nuovi
modelli di sviluppo, di meccanismi più razionali per rendere operative le
strategie globali.
Possiamo valutare, oggi, quanti dei problemi sollevati all'epoca da Peccei sono
stati risolti, quanti devono ancora essere risolti, quanti altri se ne sono
aggiunti; nel 2004, a trent’anni dalla pubblicazione de I limiti dello
sviluppo, un’operazione del genere è stata fatta con la ricerca I nuovi
limiti dello sviluppo (op.cit.):
anche dal punto di vista della problematica mondiale, potremmo dire, la
storia continua...
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Amnesty International, OMICIDI POLITICI
GOVERNATIVI, Roma 1983
- Antonella Besussi, LA SOCIETÀ MIGLIORE (ed. il Saggiatore, Milano 1992)
- Norberto Bobbio, QUALE SOCIALISMO? (ed.Einaudi, Torino 1970)
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- Giuliano Cazzola, RISCOPRIRE ROOSEVELT E IL NEW DEAL (in MondOperaio, 5/1990)
- John Dunn, LA TEORIA POLITICA DI FRONTE AL FUTURO (ed. Feltrinelli, Milano
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- Anthony Giddens, LA TERZA VIA. Manifesto per la rifondazione della
socialdemocrazia (ed. il Saggiatore, Milano 1999)
- Anthony Giddens, COGLIERE L'OCCASIONE (The Third Way and its Critics,
Carocci editore, Roma 2000)
- Albert O. Hirschman, COME FAR PASSARE LE RIFORME (ed. il Mulino, Bologna
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- Donella e Dennis Meadows, Jorgen Randers, I NUOVI LIMITI DELLO SVILUPPO (ed.
Mondadori, Milano 2006)
- Aurelio Peccei QUALE FUTURO? (ed. Est Mondadori, Milano 1974)
- Arthur M. Schlesinger Jr., I MILLE GIORNI DI JOHN F.KENNEDY (Ed. Rizzoli,
Milano 1998)
- Max Weber, LA SOCIETÀ BUROCRATICA (conferenza tenuta a Vienna nel 1918)
- Max Weber, LA POLITICA COME PROFESSIONE (Politik als beruf, 1919/ed.
Anabasi, Milano 1994)
7- RIFORMISMO E POLITICHE PUBBLICHE
7-1 UNA CLASSIFICAZIONE DELLE POLITICHE PUBBLICHE
Le politiche pubbliche, scrive Bruno Dente
(Le politiche pubbliche in Italia, op.cit.), sono azioni di soggetti
(attori) orientate alla soluzione di problemi collettivi; le decisioni
riguardano il se (ad esempio se fare o meno una legge), che cosa
(i principi), entro quando (la tempistica); i nessi sono temporali
(sequenziali) e causali (che riguardano le conseguenze). La situazione reale è
caratterizzata da un reticolo decisionale in cui ogni attore recita più
ruoli, e dalla dicotomia decisione/attuazione (cit., pagg.15-16, 173, 265,
271).
Le politiche possono essere (pagg.18-21):
- regolative (di comportamenti);
- distributive (erogatorie);
- redistributive (di trasferimento da alcuni soggetti ad altri soggetti);
- costitutive (organizzative e procedurali);
- simboliche (credenze: la politica estera e molta legislazione penale
hanno un carattere simbolico).
Gli attori delle politiche pubbliche possono essere istituzioni preposte
(anche subnazionali e sovranazionali), partiti (soprattutto quando “piazzano”
loro uomini), magistrature, burocrazie, esperti, gruppi di interesse
istituzionali, economici, ecc. (pagg.26-34, 107, 358).
Gli attori possono agire con razionalità economica (dando attenzione alle
risorse), burocratica (privilegiando ruoli e funzioni),
scientifico-professionale, etica (solidarietà, volontariato), politica
(interessata al consenso, pag.396).
L’accumularsi di problemi porta alle decisioni di emergenza, che sono decisioni
reattive anziché anticipatorie (pagg.41-43); inoltre alcune
politiche determinano gli esiti di altre, come le riforme istituzionali e la
politica monetaria.
Una decisione efficace raggiunge gli obiettivi voluti, una decisione efficiente
riduce al minimo le risorse necessarie (pag.379, nota).
Politiche regolative-redistributive con una pluralità di attori e su questioni
segmentabili, rischiano di diventare distributive e gli interessi privati dei
diversi attori, nessuno dei quali è in posizione dominante, rischiano di
prendere il sopravvento sugli interessi diffusi della collettività (interazioni
logrolling, pag.380).
La democrazia ha un significato procedurale (di partecipazione, di autogoverno)
ed uno sostanziale, che consiste invece nel soddisfare i bisogni dei cittadini.
Il costituzionalismo metodologico confonde la descrizione della realtà
con la prescrizione, ma l’efficacia di una decisione è data dalla sua
capacità attuativa e non solo da quella declaratoria (pagg.11-12 e 61).
Dente individua quattro
gruppi di politiche pubbliche: istituzionali, economiche, territoriali,
sociali.
Elenchiamole sinteticamente, evidenziando come ogni titolo potrebbe, da solo,
essere approfondito in più libri (di analisi storica, descrittiva,
prescrittiva, metodologica, deontologica, ecc.).
1) POLITICHE ISTITUZIONALI (pagg.51-66,
95-117, 141-142):
- POLITICA ESTERA: è “la più antica politica pubblica dello Stato” (pag.51) ed
è interattiva comportando distinzioni di action/reaction ed esterno/interno;
gli attori sono politico-istituzionali ma anche gruppi, mass media, figure
individuali, associazioni, organizzazioni internazionali.
- POLITICA MILITARE, intesa come politica di difesa, come politica di
sicurezza, come ordine pubblico.
- POLITICA DELLA GIUSTIZIA ed influenza dei magistrati sulla politica.
- POLITICA DELLA RIFORMA ISTITUZIONALE che è una superpolitica pubblica che
spazia dalle riforme costituzionali alle autonomie locali
all’autoriforma degli attori stessi del sistema politico.
- POLITICA DI RIFORMA AMMINISTRATIVA, che riguarda l’economicità, l’efficienza,
lo sviluppo per ministeri, enti pubblici, enti locali.
- POLITICA DI RIFORMA DEL GOVERNO LOCALE.
Tutte le riforme possono essere sistemiche ma anche (e/o) partigiane, i
contenuti possono essere regolativi e/o amministrativo-procedurali; i partiti
godono spesso di un “potere negativo” (chi vieta?) e la tesi del
“paradosso della riforma” induce a soluzioni che talvolta sono conservatrici.
2) POLITICHE ECONOMICHE (pagg.214-251)
- POLITICHE MONETARIE.
- POLITICHE FISCALI, che sono fortemente influenzate da esperti e da lobbisti.
- POLITICHE DELL’AGRICOLTURA.
- POLITICHE INDUSTRIALI, che possono essere di tipo strutturale, di
reindustrializzazione, di riallocazione, di sviluppo di nuove industrie. La
politica industriale può avere logiche strutturali, ovvero di competitività
generale, o di problem-solving, ovvero di gestione di singole crisi; fra
gli strumenti utilizzati vi sono il credito all’esportazione, il protezionismo,
le politiche fiscali e la fiscalizzazione degli oneri sociali, con interventi
che possono essere “di piano” o “a pioggia”.
- POLITICHE PER IL MEZZOGIORNO.
- POLITICHE DEL LAVORO, che comprendono: politiche per la tutela della
salute e dei diritti civili; politiche del mercato del lavoro; politiche
di garanzia del reddito in caso di disoccupazione, malattia, invalidità,
vecchiaia; politiche delle relazioni industriali e sindacali; politica
dei redditi; politiche della flessibilità relativamente
all'occupazione giovanile, alle donne, ecc. Talvolta assistiamo a scambi di
provvedimenti e di risorse in materia fiscale, investimenti nel Mezzogiorno,
equo canone, ecc.; le politiche per l’occupazione possono essere erogatorie se
danno incentivi, regolative se pongono vincoli o la loro abolizione, organizzative
se volte all'orientamento ed alla riqualificazione.
Nelle politiche del lavoro giocano un ruolo sia i sindacati che gli esperti e
la cultura giuridico-formalista spesso prevale su quella sociologica, con
conseguente produzione di una legislazione torrentizia che talvolta crea
problemi invece di risolverli.
3) POLITICHE TERRITORIALI (pagg.260-339).
- POLITICHE DELLE RETI, che riguardano energia, trasporti, telecomunicazioni.
- POLITICHE URBANISTICHE, che riguardano le trasformazioni fisiche del territorio,
la pianificazione, le esternalità, ma anche POLITICA URBANA, che
concerne invece più gli insediamenti ed il loro uso.
- POLITICHE AMBIENTALI, che riguardano principalmente le esternalità
negative: inquinamento atmosferico, idrico, acustico, rifiuti; qui è
rilevante il ruolo degli esperti, che peraltro sono spesso in conflitto fra
loro, ma anche dei movimenti ecologisti e della magistratura. Le politiche
ambientali si svolgono a più livelli (comunitario, nazionale, regionale,
locale) e spesso soono vincolate alla soluzione pragmatica di problemi
esistenti piuttosto che a determinare nuove possibilità.
- POLITICHE DELLA CASA.
- POLITICHE DEI BENI CULTURALI, quali sono i beni archeologici, artistici e
storici, ambientali, archivistici, librari; i beni culturali come beni
immateriali sono sia valori da proteggere (conservazione, e quindi politica
regolativa) che risorse da sfruttare (problema del loro uso, della fruizione di
massa, delle sponsorizzazioni).
4) POLITICHE SOCIALI (pagg.349-384).
- SCUOLA E CULTURA.
- POLITICHE PENSIONISTICHE E DEI SERVIZI per gli anziani, gli invalidi, ecc.,
che devono tenere conto di dinamiche demografiche, economiche e culturali.
- POLITICHE ASSISTENZIALI, che storicamente vanno dalla beneficienza delle
opere pie al sistema pubblico di sicurezza sociale (welfare state).
- POLITICHE SANITARIE che comprendono molteplici temi: informazione,
prevenzione, educazione, qualificazione, sanità veterinaria, igiene alimentare,
emergenze, salute nel lavoro e nello sport, tutela materno-infantile, anziani,
disabili, tossicodipendenti.
Per quanto riguarda le riforme elettorali,
Maurice Duverger (I sistemi politici, op.cit.) osserva che il sistema
elettorale può essere di tipo maggioritario (semplice o a due turni), di tipo
proporzionale (uninominale o plurinominale, quest'ultimo con più candidati per
ogni circoscrizione), o di tipo misto (semimaggioritario o semiproporzionale,
pag.267 e seguenti); la rappresentanza proporzionale (che a differenza di
quella maggioritaria è compatibile solo col suffragio plurinominale) può
determinarsi col sistema del quoziente elettorale, cioè dividendo i voti
espressi per il numero di candidati eleggibili, oppure con un numero uniforme
determinato in anticipo (pag.107 e seguenti).
Il regime politico delle democrazie liberali può essere parlamentare o
presidenziale; il pluralismo partitico che caratterizza le democrazie liberali
(che sono definite da Duverger come regimi parlamentari, pagg.143, 149 e
seg.) può essere il bipartitismo (come nei sistemi maggioritari,
pag.118), oppure il pluripartitismo (che porta a "democrazie
mediate", ossia a governi di coalizione, pag.114); Duverger analizza anche
il caso del "partito dominante" (pag.153), e quello
"direttoriale" (pag.299).
I poteri del parlamento sull'esecutivo possono essere di delimitazione,
controllo, rivendicazione, opposizione (pag.131 e seguenti); le seconde Camere,
storicamente, possono essere democratiche, federali, aristocratiche, economiche
(pag.135 e seguenti). In ogni caso, il voto di sfiducia è l'elemento
fondamentale dei regimi parlamentari (pag.144).
I regimi presidenziali possono essere puri (presidente eletto a
suffragio universale, bonapartismo, pag.289) o semipresidenziali (pag.158 e
seguenti).
L'obbedienza alle norme, che sono regole di condotta collettiva, si fonda
principalmente sul valore che viene loro riconosciuto da un sistema di valori,
piuttosto che sulle sanzioni; il diritto è parte della cultura, nasce prima
come diritto privato e diritto penale, poi come diritto amministrativo e diritto
costituzionale (pagg.5-7).
Il concetto di Costituzione, osserva Duverger, è legato a quello di
"patto", nel preambolo di ogni costituzione vi sono sempre Dichiarazioni
di Diritti (pag.183); la costituzione può essere rigida oppure flessibile,
in quest’ultimo caso è modificabile con leggi ordinarie (pagg.8-9 e 184).
7-2 INTERVENTI SULLE POLITICHE PUBBLICHE
In questo paragrafo cercheremo di analizzare
alcuni spunti che emergono sia da testi più tecnici che da "libri
critici", e che possono tornare utili, in vario modo, a chi si occupa di
attività di riforma.
Le riforme rispondono a sfide (diseguaglianze) e richiedono strategie (visioni
d'insieme) di lungo periodo: le materie del welfare (assistenza, previdenza,
fisco, lavoro, istruzione, sanità, sviluppo) sono strettamente connesse, esiste
una forte continuità nelle istituzioni e nelle culture che impedisce
cambiamenti bruschi, occorre un consenso vasto che spesso sfocia in compromessi
(Michele Salvati, cit., pagg.155-156, pag.171 e seguenti); talvolta è necessario
innovare il sistema delle tutele, ad esempio in tema di lavoro passando dal
modello mediterraneo (tutela del posto) a quello europeo (tutela del mercato,
pag.167 e seguenti; cfr. anche Ferdinando Targetti pag.181 e Tiziano Treu
pag.206). Le maggiori novità degli ultimi anni, osserva Tiziano Treu
(pagg.216-217), sono la moltiplicazione di nuovi lavori e la crescita della
popolazione anziana.
I problemi della trappola della povertà, del fiscal drag e del welfare
to work (tutele di reddito piuttosto che tutele d'azienda) sono discussi in
particolare da Ferdinando Targetti a pagg.185-191 del volume citato; obiettivi
di una riforma del mercato del lavoro sono maggiore occupazione, pari
opportunità, minore precarizzazione (pag.180). Le riforme hanno un costo e non
si può prescindere da considerazioni di finanza pubblica (pag.199), ma risolvere i problemi del conto economico delle finanze
pubbliche attraverso interventi di stato patrimoniale, osserva Debenedetti, è
illusorio e non lungimirante (pag.149).
Secondo Yves Meny e Jean-Claude Thoenig (Le politiche pubbliche, op. cit.) l'attività di
governo consiste in atti simbolici, dichiarazioni di intenti,
non-decisioni, gestione amministrativa degli apparati pubblici, politiche
pubbliche: solo queste ultime sono programmi d'azione finalizzati a
produrre cambiamenti nei comportamenti collettivi, e solo queste ultime,
aggiungiamo noi, sono interessanti per la prospettiva riformista. Ma alla
domanda "chi decide cosa?" è spesso difficile dare una risposta
precisa, perché i soggetti delle politiche pubbliche sono mutevoli: alla
storica relazione orizzontale (gruppi sociali ed economici in
competizione-conflitto) è subentrata una relazione verticale in cui i
decisori effettivi diventano gli stessi soggetti che formalmente dovrebbero
essere soltanto esecutori delle politiche pubbliche; la visione tradizionale top-down
che consiste nella sequenza gerarchica centro-periferia (decisione-esecuzione)
è sostituita dalla prospettiva bottom up, in cui sono gli esecutori
della politica pubblica ad avere un ruolo politico.
Gli esecutori delle politiche pubbliche sono infatti in grado di stravolgere
sia gli obiettivi che le realizzazioni di una politica pubblica, attraverso
comportamenti di rigore applicativo (attenersi scrupoloso alle norme), discrezionalità
(adattamento alle circostanze), accomodamento negoziato (deroga a propri
clienti esterni). L'autorità pubblica, che ufficialmente decide, si
caratterizza per una limitata razionalità: ha poco tempo per decidere, dispone
di poche e costose informazioni, pochi criteri di scelta ed ha necessità di
porre fine all'incertezza; la sua limitata razionalità, sommata ai vincoli
imposti dalle situazioni esterne, obbliga il decisore "ufficiale" a
ricorrere a negoziati, compromessi, precedenti, criteri pseudo-scientifici per
trovare una soluzione soddisfacente tralasciando quella ottima e
delegando l'esecuzione della politica pubblica ad un apparato pubblico che se
ne appropria. Capita così che a decisioni importanti prese non corrispondano date
precise né responsabili chiaramente identificati, come nel caso della bomba
atomica francese che, scrivono gli Autori, "non è stata oggetto di una
scelta: essa ha preso corpo poco a poco, passo per passo, fino a che un giorno
la Francia si è svegliata con un embrione di arsenale bellico nucleare a
propria disposizione" (pag.161).
Il potere politico appropriato dagli esecutori fa sì che l'azione pubblica non
sia di tipo lineare (causa-effetto) ma si evolva in un contesto
sistemico: causa-sistema-effetti molteplici.
Di assoluta rilevanza per ogni politica economica
riformista è l’insegnamento di John Maynard Keynes, in particolare per quanto
riguarda il ruolo attivo dello Stato come attore economico e la sua importanza
per favorire politiche di piena occupazione.
Keynes nacque nel 1883, lo stesso anno in cui morì Karl Marx; una coincidenza
che è piena di significati, anche politici oltre che economici, soprattutto per
quanto riguardava le prospettive del capitalismo: Marx era infatti il maggior
teorico del catastrofismo,
conseguenza di una teoria economica che egli riteneva fondata su basi
scientifiche; il futuro era prevedibile, ed il crollo definitivo del sistema
capitalistico pure. Keynes era al contrario il maggior teorico del riformismo in campo economico: il
sistema capitalistico è come un motore che, di tanto in tanto, si guasta ed ha
bisogno di interventi correttivi da parte di un soggetto esterno al sistema
economico stesso, che egli individuava nello Stato e nelle sue politiche
economiche di spesa pubblica.
L’importanza di Keynes è evidente nei periodi di recessione economica, quando i
suoi libri tornano in bella vista negli scaffali delle librerie; la lezione di
Keynes, il suo riformismo interventista in campo economico, è attuale oggi come
lo era ai tempi della Grande Depressione, quando i suoi insegnamenti servirono
per uscire dalla crisi; scrive a tale proposito Hyman P. Minsky: “la Teoria generale fu il frutto dell’unione
tra la fredda razionalità dell’economista di professione e l’impegno dell’uomo
animato da una convinta fede di tipo riformista” (cit., pag.16).
Il nucleo analitico fondamentale della Teoria
generale, secondo Minsky, è stato in gran parte trascurato se non ignorato
dagli economisti, in particolare tutta la parte dell’analisi keynesiana che
riguarda le condizioni d’incertezza in cui si formano le decisioni degli
operatori economici, il carattere ciclico dell’economia capitalistica e, non
ultimo, il ruolo fondamentale che
riveste l’economia finanziaria del capitalismo avanzato, “il ruolo che
le interrelazioni finanziarie, con la loro instabilità e facile perturbabilità,
svolgono nel determinare le varie fasi del ciclo economico” (cit., pag.7).
Caratteristica fondamentale del ciclo economico è che nessuno dei suoi stati è
permanente, in quanto ciascuno contiene elementi e forze che tenderanno a
rovesciarlo; la stabilità è dunque destabilizzante: “non appena ci si
approssima a qualcosa di simile alla stabilità, subito entrano in azione dei
processi destabilizzanti” (cit., pag.83).
Mentre l’instabilità degli investimenti è la causa immediata del ciclo
economico, la causa di fondo per Minsky deve essere invece “individuata
nell’instabilità della composizione dei portafogli e delle interrelazioni
finanziarie” (cit., pag.77). Keynes, egli osserva, aveva due diverse idee di
ciclo economico: una debole legata al “modello acceleratore-moltiplicatore”,
l’altra ben più accentuata con oscillazioni repentine fra stati di boom e stati
di crisi.
Ma il problema politico fondamentale, per Keynes, era quello di riuscire a
coniugare efficienza economica, giustizia sociale e libertà individuale, nel
contesto dell’economia capitalistica. E mentre il laissez-faire portava a politiche economiche inadeguate, il
programma politico di Keynes, al contrario, si dimostrava efficace in quanto
era “articolato in tre punti: socializzazione degli investimenti, modifica
della distribuzione del reddito e adozione di un meccanismo di mercato
decentralizzato” (Minsky, pag.194).
Keynes considerava giustificabile la disuguaglianza di reddito che deriva da
abilità imprenditoriali, non giustificabile nvece quella dei rentier, la rendita che deriva dalla
pura proprietà della ricchezza. Per eliminare definitivamente le rendite,
secondo Keynes era necessario conseguire “uno stato di piena occupazione, senza
guerre e senza crescita demografica” (Minsky, pag.197). I beni fondamentali
erano quelli in grado di soddisfare bisogni assoluti (cibo, abitazione, salute)
piuttosto che quelli relativi, e fra i beni fondamentali vi erano anche gli
affetti, i rapporti personali e la cultura. Ma, osserva Minsky, “i ceti più
abbienti, invece di consumare filosofia e cultura, hanno consumato beni ad alta
intensità di capitale, dando poi il cattivo esempio ai ceti medi. (…) Ai giorni nostri lo stato di opulenza non
ha fatto aumentare la domanda di piacevoli attività intellettuali, ma anzi ha
favorito l’incremento della domanda di beni la cui produzione necessita di beni
capitali” (cit., pag.200). Il pieno impiego viene garantito dalle spese militari
e da investimenti privati dai discutibili benefici futuri; la corsa agli
armamenti con l’introduzione di nuove armi sempre più avanzate, in particolare,
dal punto di vista delle conseguenze economiche è simile a quella di un
conflitto vero e proprio. Mentre il sostegno indiscriminato agli investimenti
privati produce consumo superfluo e senza limiti, decadimento della qualità
della vita, danni ambientali e quant’altro.
Il messaggio keynesiano, secondo Minsky, può essere così riassunto: “un ampio
settore pubblico, finanziato parzialmente ricorrendo a deficit di bilancio, è
in grado di raggiungere e mantenere una condizione assai prossima al pieno
impiego” (cit., pag.205). Di fondamentale importanza, per Minsky, è anche il
supporto al consumo, attraverso politiche orientate ad una distribuzione più
equa dei redditi: “secondo Keynes, per mantenere la piena occupazione era
necessario socializzare gli investimenti e far slittare verso l’alto la
funzione del consumo” (cit., pag.207). Piena occupazione ed equa distribuzione
dei redditi erano, infatti, i due obiettivi prioritari delle politiche
keynesiane.
Anche Lester C.Thurow sostiene la necessità
dell'intervento dello Stato per garantire il pieno impiego, perché l'iniziativa
privata da sola non è in grado di raggiungere questo obiettivo (La società a
somma zero, pag.281); ma per lo Stato è più facile costruire programmi di
assistenza piuttosto che programmi di occupazione.
Il ruolo attivo dello Stato nell'economia è fondamentale anche per il benessere
della classe media: essa infatti beneficia della spesa pubblica, sia quella
diretta che quella indiretta (pag.232).
Per quanto riguarda il dibattito sulle regolamentazioni, Thurow osserva
che:
- spesso le regolamentazioni hanno per oggetto sovvenzioni per colmare perdite
in certi settori utilizzando profitti da altri settori (pag.192): le spese di
trasporto nei centri meno popolati vengono finanziate da quelli più popolati,
le telefonate aziendali e interurbane finanziano quelle private e urbane, ecc;
- il dibattito sulla regolamentazione non discrimina la destra dalla sinistra,
perché entrambe cambiano posizione a seconda della materia in discussione
(pag.196);
- leggi e regolamenti possono essere utilizzati sia per favorire che per
bloccare lo sviluppo economico (pag.198);
- ogni nuova regolamentazione produce altre regolamentazioni: una legislazione
che protegge un gruppo può danneggiarne altri e richiedere nuova legislazione,
"se si protegge l'acciaio, molto probabilmente si dovrà proteggere
l'industria automobilistica" (pag.198).
I principali strumenti a disposizione di coloro che sono preposti alla
regolamentazione sono due: norme che influenzano le produzioni e le quantità
(norme q), oppure norme che cercano di influenzare i prezzi con tasse o
sussidi (norme p); scrive Thurow: "in generale si è fatto troppo
affidamento sulle norme di tipo q, e non abbastanza su quelle di tipo p.
Con le norme di tipo p il legislatore cerca di trarre vantaggio dagli
incentivi di mercato, invece di controbatterli come nel caso di norme di tipo q"
Fred Hirsch (I limiti sociali allo sviluppo,
op. cit.) evidenzia come molti beni siano sociali: la soddisfazione che se ne
può ricavare dipende anche dal consumo altrui (pag.11).
Maggiore è la ricchezza ottenibile da tutti (economia materiale o ricchezza
democratica) maggiore è la lotta per la ricchezza ottenibile soltanto da
alcuni (economia posizionale o ricchezza oligarchica, pag.35): si
tratta di beni scarsi nella loro produzione o soggetti a congestione nel loro
uso (pagg.37-38). Il prezzo dei beni posizionali è soggetto ad aumenti sia sul
lato offerta che su quello domanda; la domanda in eccesso di beni posizionali
provoca affollamento, che può essere risolto o mediante selezione (ostacoli)
oppure a mezzo asta (es. tassazione). Se rimane irrisolta, tale domanda produce
congestione, e quindi riduzione di attrattiva per il bene stesso: il processo
di scavalcamento che ne consegue crea spreco sociale (pagg.40-49). Secondo
Hirsch l'inflazione di titoli scolastici allunga il processo di selezione e
produce spreco sociale sia perché richiede maggiori risorse sia perché produce
frustrazione (vi è un deficit di prestazione, pag.61). La concorrenza
materiale è un gioco a somma positiva, quella posizionale è invece un gioco a
somma zero: "si allunga la gara per un premio che resta invariato"
(pag.75). Allungare il percorso per risolvere la maggiore concorrenza sui beni
posizionali è poi un gioco a somma negativa (pag.177).
Il reddito relativo è ciò che determina la possibilità di consumare beni posizionali
(pag.110). Poste più piccole, secondo Hirsch, riducono gli ostacoli (che sono
sprechi sociali) e la concorrenza posizionale (pag.188); soddisfazione nel
lavoro ed alta remunerazione spesso si accompagnano, occorrerebbe collocare
parte dei beni posizionali fuori dal mercato (pagg.190-191), "far
retrocedere i limiti di quanto si può ottenere individualmente" (piani
regolatori, ecc., pag.196).
Vi sono limiti non solo nella produzione ma anche nell'assorbimento
(deterioramento della qualità per congestione sociale): i limiti allo
sviluppo non sono solo materiali (come evidenzia, ad esempio, il Club di Roma)
ma anche sociali (pag.12). Esiste un problema di addizione: nessuno vede
meglio se tutti stanno in punta di piedi (pag.13); la crescita, l'opulenza genera
congestione e quindi frustrazione (vi è un paradosso dell'opulenza,
pag.16) e le soluzioni non possono essere individuali (interesse personale) ma
solo collettive (principi sociali, pagg.19-22).
I limiti fisici (limiti di produzione) possono essere superati grazie al
progresso tecnologico, quelli sociali no (limiti di consumo, pag.30).
La scarsità sociale può essere diretta, quando "la soddisfazione deriva
dalla scarsità stessa" (cit., pag.31) o incidentale, che Hirsch distingue
ulteriormente in congestione sociale (di occasioni, di leadership, di
mode) e congestione fisica (di traffico). In un contesto di
distribuzione disuguale, la scarsità causa aumento di prezzi, in un contesto di
distribuzione uguale è causa di razionamento (pag.34).
La concorrenza per i beni posizionali in una società povera è minore (pag.74);
in una società ricca deteriora l'ambiente sociale, ma non significa di per sé
che vi sia cattiva allocazione, se ci sono modi alternativi per soddisfare la
domanda; la deviazione dei segnali è tale in questo caso da rendere
fuorviante la domanda individuale: se ciascuno potesse vedere i risultati delle
scelte collettive agirebbe infatti in modo diverso (pag.62). La felicità,
osserva Hirsch, non aumenta con l'incrementarsi dei redditi, mentre aumentano i
bisogni (pag.120).
L'attività economica nazionale viene misurata "senza badare ai suoi
scopi" (pag.66): il consumo difensivo è una risposta alla riduzione
del benessere, è motivato dalla necessità di proteggere la propria posizione
(pagg.71-72). Oltre alla pressione sullo spazio geografico e su quello sociale,
vi è anche pressione sul tempo: il tempo tende individualmente a diventare più
scarso rispetto a quantità maggiori di beni materiali a disposizione, che
offrono modi alternativi di impiegarlo; i beni di consumo ad elevata intensità
di tempo tendono perciò ad essere sostituiti con altri beni e servizi che
risparmiano tempo, aumentano i consumi intermedi che permettono altri
consumi (es. i servizi domestici). La concorrenza posizionale ha un costo anche
in termini di tempo, i rapporti familiari e di amicizia richiedono tempo e
tendono ad essere economizzati (pagg.81-86).
La produttività personale nei servizi, osserva Hirsch, non è misurabile
oggettivamente, occorre effettuare una selezione del capitale umano
(pagg.53-54).
Il calcolo individualistico e l'aumento della mobilità erodono la socievolezza
e la rendono un bene più pubblico che privato (pag.88 e 91).
La fiducia si riduce col maggiore uso di contratti formali, norme convenzionali
vengono così "privatizzate" (pag.96); il mercato è inefficiente
nell'erogazione collettiva di norme sociali e riesce a soddisfare solo domande
commercializzabili (deviazione della merce: "i bar sono fatti per
la birra e non per la conversazione", pag.98), e lo fa mediante
l'estensione di barriere e mezzi di esclusione: diritti di proprietà, leggi
restrittive, cancelli; ciò avviene paradossalmente in nome di maggiore libertà
(pag.100).
Riducendosi i vincoli tradizionali e religiosi che erano a fondamento dell'individualismo
delle origini ("virtù borghese", pag.143), il dovere di sostenere una
società giusta diventa il fondamento dell'obbligo politico (pag.139). La
coesione sociale è necessaria per l'efficienza del mercato, e ciò che conta per
la coesione sociale è il comportamento altruistico (come se), non le
motivazioni o i valori sottostanti (religiosi, ecc., pag.145-149);
l'alternativa è infatti la coazione. Altruismo e scambio per Hirsch "si
sorreggono a vicenda" (pag.153); il comportamento solo individualistico
ostacola la soddisfazione delle preferenze individuali (dilemma fra bisogni
individuali e bisogni sociali, pagg.157 e 185): il comportamento razionale
individuale può produrre irrazionalità sociale, vi è incongruenza fra
motivazione individuale e risultato sociale, e indeterminatezza dei costi per
l'individuo (pagg.101, 117, 128, 156).
I limiti sociali allo sviluppo sono determinati dalla scarsità e dall'esigenza
di moralità sociale piuttosto che individuale (pag.125 e 132).
L'ugualitarismo dinamico fa sì che i beni di lusso di una generazione,
che sono in condizione di disuguaglianza statica per quella generazione,
siano resi disponibili o addirittura divengano bisogni per le generazioni
successive (pag.171). L'uguaglianza economica, a differenza di quella politica,
legale, sociale, è ambigua (chi, cosa, quando, pag.179).
Il processo di crescita delude le sue promesse, in quanto porta alla scarsità
sociale: è il cosiddetto paradosso dell'opulenza; inoltre nel settore
posizionale non livella verso l'alto (pagg.180-181).
Per Ivan Illich (Descolarizzare la società,
op.cit.) sono istituzioni manipolatrici la scuola, le forze armate, le
prigioni, i manicomi, gli ospizi, gli orfanotrofi (pagg.84-86); sono invece
istituzioni conviviali i servizi postali, telefonici, dell'acqua (pag.87), le
strade aperte a tutti (pag.91); il sistema autostradale secondo Illich è invece
soltanto un accessorio delle auto private (pagg.91-92). L'assistenza sanitaria,
il commercio, l'amministrazione del personale e la vita politica sono
istituzioni che convergono "all'estremità manipolatrice del nostro
spettro" (pag.96), la quale trascende le tradizionali distinzioni fra
destra e sinistra (pag.85).
Illich propone di rilasciare ad ogni cittadino, fin dalla nascita, una carta
di credito educativo (pag.30); la riforma dell'istruzione deve innanzitutto
restituire l'iniziativa dell'apprendimento "al discente o al suo tutore
più immediato" (pag.34) e togliere l'obbligo di frequenza.
Le leggi devono estendere a tutti la libertà accademica (pag.135); Illich
individua quattro procedimenti per accedere alle risorse didattiche (pag.119):
a) servizi per la consultazione di oggetti didattici (con bibliotecari, guide
di museo, ecc., pag.127);
b) centrali delle capacità (dimostratori, banca per gli scambi di
capacità; pagg.132-136);
c) assortimento degli eguali (pagg.131, 138-139, 144);
d) servizi per la consultazione di educatori (pag.141).
Obiettivi sono:
- liberare l'accesso alle cose,
- liberare la trasmissione delle capacità,
- liberare le risorse critiche e creative,
- liberare l'individuo dalla necessità di adattarsi ai servizi offerti dai
professionisti (pag.154).
Eliminando le restrizioni all'insegnamento, secondo Illich spariranno anche
quelle all'apprendimento, attraverso "liberi centri di preparazione
tecnica aperti a tutti" (pag.135).
Lewis Mumford (La città nella storia
,op.cit.) osservava già nel 1961 come ieri la città fosse un mondo, e che oggi
il mondo è diventato una città. La vita umana è caratterizzata da movimento e
da stanziamento; la città è "emergente" nella comunità
paleo-neolitica: secondo Lloyd Morgan e William Morton Wheeler, osserva
Mumford, l'evoluzione emergente si verifica quando l'introduzione di un
fattore nuovo non aumenta solo la massa esistente, ma provoca un mutamento
radicale; le potenzialità diventano ora visibili e non avrebbero potuto essere
individuale nella fase preemergente.
Megalopoli sta diventando rapidamente una forma universale e l'economia
dominante è un'economia metropolitana in cui nessuna iniziativa è efficace
senza stretti legami con la grande città; i criteri del mercato e della
fabbrica vengono estesi alle altre istituzioni della metropoli, diventa
un'esigenza urbana fondamentale avere la più grande università, il più grande
ospedale, la più grande banca, ecc. Benché in espansione dinamica, questo
sistema diventa sempre più rigido e sempre meno capace di affrontare situazioni
nuove, anche se Mumford affermava (all'epoca) che la cultura moderna è ormai
cultura mondiale, con maggiori potenzialità rispetto a qualsiasi civiltà
precedente.
I fenomeni di agglomerazione e congestione sono provocati; le reti ferroviarie,
per esempio, furono progettate in modo da costringere passeggeri e merci a
raggiungere la metropoli prima di ogni altra località. La metropoli, precisa
l'Autore, è una città storica cresciuta eccessivamente, è una entità, mentre la
conurbazione, al contrario, è una non-entità, è una
"città-regione".
La forma della metropoli è l'informità, la sua meta è l'espansione senza meta;
attività umane spontanee come le chiacchiere quotidiane vengono sostituite da
qualche dozzina di professionisti che interpretano sui giornali o per tv tutto
ciò che accade: nel mondo metropolitano le masse vivono per interposte persone
come lettori, spettatori, ascoltatori, osservatori passivi. I problemi della
metropoli sono riflessi di una civiltà in espansione con mezzi scientifici e
fini vuoti, primitivi e irrazionali; l'assoggettamento alla macchina travolge
le salvaguardie della vita e la stessa legge della conservazione, come accade
negli incidenti automobilistici, o col potere nucleare.
Oggi non c'è più bisogno di vivere in un grosso centro per partecipare ad una
particolare attività: la città invisibile fa sì che molte funzioni
originarie della città siano state trasposte in modo da poter essere
trasportate con rapidità, riprodotte con mezzi meccanici, diffuse
elettronicamente e distribuite in tutto il mondo; ciò renderà possibile
l'esistenza su vasta scala di associazioni interculturali e la nuova
città-regione, visibile e invisibile, ne diverrà lo strumento principale.
Galbraith (L’età dell’incertezza, op.cit.)
osserva in proposito che la città post-industriale, o metropoli,
comprende varie città al suo interno:
- la città politica, estensione della dimora di un governante,
caratterizzata da stile unitario, simmetria, monumenti eretti al dispotismo di
tempi andati e che oggi richiamano turisti;
- la città mercantile, caratterizzata da unitarietà di gusto e
sensibilità allo stile dominante nella propria epoca (il prestigio del mercante
era proporzionale alla qualità ed allo stile della propria casa);
- la città industriale, di stile non unitario (eredità estetica del
capitalismo liberale), brutta ma funzionale per economicità di costi, migliore
in Europa che negli Stati Uniti; sua variante è la città aziendale,
sgraziata ed economica, progettata, impiantata ed amministrata dall'industria
stessa.
- Infine il campo o "bivacco", quartieri periferici dove
abitare, oasi divise secondo varie categorie classiste.
Due, secondo Galbraith, sono le immagini di come si crede debba essere una
città:
- la città politica, ritenendo che il governo abbia uno speciale diritto
alla grandiosità architettonica ed urbana (la moderna capitale pianificata:
Washington, Nuova Delhi, Camberra, Brasilia, Islamabad, ecc.);
- la città mercantile, il cui splendore deriva dall'eleganza dei
principali negozi, vie di traffico e quartieri; i centri acquisti si
distinguono non per la loro funzionalità ma per dimensioni, sfarzo, visibile
costosità.
La crescita urbana crea un nuovo conflitto, fra la vecchia forza-lavoro (ora
benestante) e i nuovi immigrati (poveri); la xenofobia razziale aumenta in
proporzione inversa alla ricchezza degli appartenenti alla razza.
L'economia privata capitalistica, osserva ancora Galbraith, dà prestazioni che
sono:
- eccellenti per i beni che causano problemi alla città (automobili, beni di
consumo, rifiuti, ecc.);
- pessime per i beni che risolvono i problemi della città (edilizia, servizi
sanitari, trasporti efficienti) e che richiedono invece imprese socializzate.
Il reddito viene impiegato nella città politica più per opere pubbliche, mentre
nella città industriale più per opere private: perciò in quest'ultima troviamo
case pulite e strade sporche, maggiore ricchezza personale e meno polizia per
proteggerla, più televisori e meno scuole, e così via. Dalla città industriale
consegue un capitalismo efficiente, che però necessita di un aggravio di lavori
pubblici necessari e produce rifiuti ed inquinamento.
Nel lungo capitolo sulle politiche pubbliche
vanno incluse anche le politiche di livello locale o territoriale: il riformismo
nel territorio è un elemento fondamentale di progresso, anche a livello
macro, e spesso produce risultati che sono di gran lunga superiori rispetto
alle attività di riforma condotte a livello centrale del cosiddetto
"Stato-nazione". I soggetti di quello che potremmo anche chiamare il riformismo
delle comunità locali sono, principalmente, le amministrazioni pubbliche
locali, che per conseguire i loro obiettivi devono operare sempre più di
concerto con gli altri attori presenti sul territorio: imprese economiche,
rappresentanze di cittadini, associazioni, ecc.
Nel libro Spazio Tempo Territorio (op.cit.) i ricercatori del CDS hanno
evidenziato alcuni importanti elementi di questo riformismo delle (e nelle)
comunità locali.
Le politiche pubbliche a livello locale devono infatti misurarsi con temi quali
lo spazio, il tempo, il territorio, l'economia, l'innovazione;
temi peraltro tutti sempre mutevoli ma le cui connessioni si rivelano decisive
per conseguire gli obiettivi, anch'essi interrelati, della crescita, del
benessere e della coesione sociale.
Gli Autori elencano, in proposito, alcuni comportamenti poco virtuosi delle
amministrazioni locali, che in prima istanza ci fanno capire cosa il riformismo
locale non deve essere (cit., pagg.44, 63):
- navigare a vista, lavorando solo sul brevissimo termine;
- permangono le sindromi di nanismo e di campanilismo, quando ormai le
politiche di sviluppo attraversano i confini amministrativi degli enti locali;
- la fantasia al potere crea progetti spesso dissociati dalla realtà,
che però bruciano risorse finanziarie importanti che avrebbero potuto essere
impiegate diversamente;
- le città moderne sono i risultati di un "bricolage" di progetti
diversi fra loro non coordinati e non pianificati, talvolta derivanti da politiche
opportunistiche che colgono singole occasioni dall'esterno (fondi pubblici,
iniziative importanti in campo sportivo, artistico, politico, ecc.).
Invece l'approccio metodologico più corretto per una migliore programmazione
delle politiche pubbliche deve partire dalle domande piuttosto che dalle
risposte, e le soluzioni vanno sempre cercate ponendosi orizzonti vasti
temporalmente (di lungo periodo, nonostante le scadenze elettorali siano più
ravvicinate), vasti spazialmente e con
approcci interdisciplinari che prevedano anche la partecipazione dei cittadini,
individuando gli elementi di forza e quelli di debolezza di un territorio:
"nessun progetto può svilupparsi senza l'apporto determinante della
comunità locale e, quindi, ritorniamo infine al tema della democrazia (...)
senza per questo rinunciare ad indicare sentieri di sviluppo (anche
alternativi), 'menù ' su cui i cittadini possano esprimersi e proporre"
(cit., pag.52).
Un piano strategico coinvolge un territorio e individua linee
strategiche articolate in obiettivi ed azioni puntuali, raggruppate sulla base
del tipo di governance: interna, esterna, istituzionale (pag.70).
Dove maggiormente si creano rapporti fra istituzioni, politica, forze sociali,
è l'urbanistica, i piani urbani; la "questione infrastrutturale"
genera ansia nelle comunità locali, per le attese e le incertezze (pag.88). La saturazione
delle infrastrutture, cioè di quei sistemi che includono "strutture in
grado di connettere altre strutture" (pag.62), è un tema centrale, ed è
anche un fenomeno misurabile fisicamente: viviamo oggi esperienze di
saturazione "insediativa, industriale, demografica, ambientale, logistica,
ecc." (cit., pagg.91 e 60).
Altro argomento centrale, osservano gli Autori del CDS, è quello delle fonti di
finanziamento e del project financing: ai cittadini interessa infatti l'accesso
ai servizi pubblici, e l'accesso con standard di qualità, piuttosto che possedere
la proprietà delle infrastrutture materiali; peraltro, osservano, "non
sempre l'opera più conveniente è quella con il costo di costruzione minore,
quanto piuttosto quella con il rapporto utilità/costo globale migliore"
(cit., pag.80). Il costo di un'opera pubblica non è infatti costituito soltanto
dalla sua costruzione, ma anche dai costi successivi di gestione e di
manutenzione, che vanno rapportati al grado di apprezzamento da parte degli
utenti.
Entriamo così nel campo del rapporto pubblico-privato, in cui ognuno deve
specializzarsi in ciò che gli è proprio: programmazione e controllo per il
pubblico, realizzazione e gestione per il privato. Vi sono opere calde
in cui ciò è facilmente attuabile, perché individuano un mercato quantificabile
in termini di numero di utenti, e vi sono opere fredde, come la sanità e
le carceri, in cui è più difficile e dove occorre individuare nuovi meccanismi
(pag.81).
Strumenti importanti ed innovativi sono il controllo di gestione, il bilancio
sociale, piani d'azione locali, la finanza strategica, la "visione
dell'opera pubblica come funzione e non come asset" (cit., pag.79). Ogni
opera va valutata infatti per il suo valore funzionale, cioè per le
risposte che da ai bisogni degli utenti, e per la sua efficienza o economicità:
la spesa pubblica risponde quindi ad un criterio misto di efficienza e di
efficacia, "che si traduce nell'ottenere il massimo dei benefici sociali
con il minimo investimento compatibile" (cit., pag.83).
Le politiche pubbliche locali in Italia hanno passato le fasi delle politiche
infrastrutturali dagli anni Sessanta, delle politiche di riequilibrio delle
aree forti a quelle deboli negli anni Settanta, della ricerca successiva di
soluzioni policentriche, in cui ogni territorio si qualificasse autonomamente
per le proprie peculiarità, in un quadro comune "di sistema".
Anche l'informazione geologica diventa un elemento fondamentale per far
conoscere alle amministrazioni pubbliche il loro territorio, al fine di evitare
modifiche ambientali dannose e per ottenere uno "sviluppo
sostenibile": sostenibilità tecnica-territoriale, economico-finanziaria,
amministrativa-gestionale (pagg.128-130).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Autori vari, SPAZIO TEMPO TERRITORIO. Annuario
di politiche urbane (ed. CDS, Ferrara 2005)
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- Bruno Dente (a cura di), LE POLITICHE PUBBLICHE IN ITALIA (ed. il Mulino,
Bologna 1990)
- Maurice Duverger, I SISTEMI POLITICI (1955/ed. Laterza, Bari 1978)
- John Maynard Keynes, ESORTAZIONI E PROFEZIE, il Saggiatore, Milano 2011
- John Maynard Keynes, TEORIA GENERALE DELL’OCCUPAZIONE, DELL’INTERESSE E DELLA
MONETA, Utet, Torino 2005
- John Kenneth Galbraith, L'ETÀ DELL'INCERTEZZA (Milano 1977)
- Fred Hirsch, I LIMITI SOCIALI ALLO SVILUPPO (1976/Ed. Bompiani, Milano 1981)
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- Yves Meny e Jean-Claude Thoenig, LE POLITICHE PUBBLICHE (ed. il Mulino,
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- Hyman P. Minsky, KEYNES E L’INSTABILITA’ DEL CAPITALISMO (ed. Bollati
Boringhieri, Torino 1981 e 2009)
- Lewis Mumford, LA CITTÀ NELLA STORIA (The City in History, 1961)
- Lester C. Thurow, LA SOCIETÀ A SOMMA ZERO (ed. Il Mulino, Bologna 1981)
8- RIFORMISMO E SOCIALISMO
8-1 SOCIALISMO RIFORMISTA, SOCIALISMO MASSIMALISTA
Abbiamo visto come per Bobbio il contributo più
importante dato alla teoria politica dal socialismo (riformista e
rivoluzionario) fosse una teoria del partito (Quale
socialismo?, cit., pag.8), e come anche per Marx il problema non fosse come
si governa, bensì chi governa (borghesia o proletariato).
Per Marx ed Engels, osserva ancora Bobbio, il problema del buon governo si
risolveva con l'eliminazione dello Stato e la fine della politica (pag.38);
Marx aveva una concezione strumentale dello Stato, originale perché realistica
e nello stesso tempo rivoluzionaria (storicamente, infatti, i realisti erano di
solito dei conservatori, pag.39).
Contrariamente ad autori come Hobbes ed Hegel, Marx considerava lo Stato non
come il superamento dello stato di natura, bensì come la sua perpetuazione
(pag.40).
Per quanto riguarda il problema dell'estinzione dello Stato, poi, è del tutto
inattuabile in quanto connesso al problema dell'estinzione del sistema degli
stati, ed è in netta contraddizione rispetto alla evoluzione storica del
modello socialista, caratterizzato dalla involuzione democratica al suo interno
e dallo statalismo (pag.16).
Un altro luogo comune del marxismo, osserva Bobbio, è che la quantità a lungo
andare diventa qualità: ma la qualità può essere scadente! (pag.84); leggere
solo Marx o alcuni scrittori autorizzati, secondo Bobbio, è stato un modo per
liberarsi dalla fatica di pensare (pag.28), ma gli intellettuali sono responsabili
delle teorie che propongono (pagg.90-91), ed obiettivo prioritario del
riformismo e dei riformisti, al contrario, è proprio che la qualità non sia
scadente, dentro e fuori lo stato, i suoi confini e le sue istituzioni che,
pertanto, diventano per i riformisti oggetto di trasformazione ma non di soppressione.
Gran parte dell'analisi nel libro Quale socialismo? viene dedicata al
concetto di democrazia, proprio perché il rapporto fra socialismo e democrazia
è fondamentale, e viene inteso come rapporto mezzo-fine: il socialismo deve
essere raggiunto solo attraverso la democrazia (pag.104); ma si potrebbe anche
sostenere il contrario, "e cioè che il socialismo è il mezzo e la
democrazia è il fine, come chi dicesse che la democrazia reale o integrale può
essere realizzata soltanto attraverso una riforma socialista della
società" (pag.104). Tuttavia, il significato prevalente di democrazia nel
binomio democrazia-socialismo è quello di democrazia come metodo, come via
(pag.104); sono quindi fondamentali, da questo punto di vista, gli aspetti
formali della democrazia, l'importanza della democrazia formale rispetto
alla democrazia sostanziale (pag.97).
Non c'è fine totalmente indifferente al mezzo, non c'è mezzo che non incida sul
fine; scrive Bobbio: "quando si contrappone la via democratica verso il
socialismo alla via non democratica, ciò che cambia è soltanto il giudizio sul
mezzo o anche la visione del fine?" (pag.106).
La storia del riformismo è legata a quella del
socialismo: il riformismo nasce come espressione democratica del socialismo,
come revisione del massimalismo rivoluzionario: il periodo storico compreso tra
la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, osserva Massimo L.Salvadori (Riforme
e rivoluzione nella storia contemporanea, op. cit.), è caratterizzato in
Germania dalla forte crescita elettorale del partito socialdemocratico e dallo
sviluppo dei sindacati; furono questi ultimi le roccaforti del riformismo e del
revisionismo. Al centro del progetto politico socialdemocratico vi era il modo
di produzione capitalistico, le cui contraddizioni lo portavano verso una
trasformazione che all'epoca appariva come inevitabile (cit., pagg. 65-74).
Il progetto riformista, osserva Alberto Benzoni (Riformisti e
riformismi, cit.), è un progetto illuminista: intende regolare i
cambiamenti "in una visione coerente e in una prospettiva razionale"
(cit., pag.116); efficacia ed efficienza, gradualità e moderazione sono
elementi caratteristici di ogni politica riformista, ma il riformismo della
sinistra, osserva ancora Benzoni, si pone come prioritario l'obiettivo di
creare una società più giusta.
Norberto Bobbio, sempre in Quale socialismo?
(op. cit.), osserva come il significato di socialismo non sia univoco: "il
socialismo è come la felicità: tutti lo vogliono perché ognuno lo può foggiare
secondo i propri desideri" (cit., pag.105); e il massimo punto d'arrivo
della socialdemocrazia, conclude Bobbio, è stato finora il welfare state
(pag.18).
Secondo Martin Buber (Sentieri in utopia, op.cit.), il socialismo è
sempre qualcosa di relativo in rapporto alle condizioni date, "è il
divenire della comunità nel genere umano" (cit., pag.71), è la trasformazione
della società in comunità (pag.81). Non possiamo sapere come sarà il
socialismo nel futuro, ma dobbiamo sapere come vogliamo che si presenti: le
politiche socialiste sono sempre orientate verso il decentramento, il
federalismo e l'autonomia, con la consapevolezza che in taluni momenti è
necessaria la direzione centralizzata, ma mai viceversa (pag.129); l'ideale
cooperativo poi, secondo Buber è fondamentale per realizzare relazioni sociali
di coesione, ma per realizzare cooperazione e mutualità, osserva, non serve
cambiare il sistema di proprietà o introdurre dall'esterno leggi ed istituzioni
(pag.97).
Francesco Saverio Merlino
(cfr. Maria Rosaria Manieri, La fondazione etica del socialismo,
op.cit.) anticipò di decenni la critica al marxismo, la cui teoria oscillava
fra l'utopia (teoria critica) e la metafisica (teoria scientifica
predittiva).
Le regole sociali sono relative e non assolute, non sono teoremi matematici e
l'applicazione di una di esse viene modificata e limitata dall'azione di altre;
la ragione politica è pertanto autonoma da qualsiasi legge predittiva, dalla
cosiddetta previsione morfologica della storia, e le scelte di campo sono
possibili solo in base a giudizi di valore fondati moralmente, in cui la
responsabilità e il desiderio degli individui sono fondamentali.
Solo le motivazioni etiche possono indurre all'azione, la domanda da porsi non
è se ma come attuare il socialismo: il metodo è quello positivista,
che richiede esperienza e procede con intendimenti pratici, cautamente, caso
per caso (cit., pagg.14-16). Guarda caso, proprio col metodo riformista.
Ma gli argomenti più importanti contro le tesi
deterministiche della storia, e che quindi confutano anche le leggi dialettiche
che secondo il marxismo regolano i modi di produzione materiale, sono stati
analizzati da Karl Popper nel libro Miseria dello storicismo
(op.cit.); il marxismo, osserva Popper, chiama leggi quelle che, in
realtà, sono solo tendenze: mentre una legge presenta caratteri di
generalità e di universalità, la tendenza si riferisce a situazioni particolari
derivanti da un complesso di cause che non garantiscono il persistere regolare
dei fenomeni in questione. Mentre una legge è stabile, una tendenza può durare
a lungo e poi, all'improvviso, mutare (cit., pag.56): le tendenze sono infatti
questioni statistiche, le leggi sono fatti scientifici e sono oggetto di
scoperta.
Il fatto che la storia umana sia caratterizzata non da leggi ma da tendenze,
osserva Popper, è strettamente legato al fatto che la storia stessa è
fortemente influenzata da ciò che chiamiamo conoscenza: il corso degli
eventi storici non è prevedibile perché non si può prevedere lo sviluppo futuro
della conoscenza scientifica e tecnologica; scrive Popper: "nessun
predittore scientifico - scienziato o macchina calcolatrice che sia - può
predire, con metodo scientifico, i suoi risultati futuri" (cit.,
pag.14).
Queste semplici osservazioni tolgono qualsiasi valore alla teoria del
materialismo dialettico, e con essa alla teoria del socialismo scientifico; in
un'epoca ricca di mutamenti, tecnologici e politici, servono dunque approcci
differenti, quali possono essere l’artificalismo ed il contrattualismo,
che liberano l'agire umano dalle leggi eterne della storia, dal determinismo o
da quant’altro.
La prospettiva artificialista consente di progettare l'assetto fondamentale di
istituzioni giuste, mentre il contrattualismo le pone in un contesto
democratico di scelta. L’opzione riformista, poi, è tipicamente costruttiva,
caratterizzata dalla combinazione di elementi quali la progettualità, la
partecipazione, la discussione critica.
Ludwig von Mises, in Socialismo (op.cit.)
osserva come le idee socialiste abbiano dominato il XX secolo, e come il
moderno liberalismo sia in realtà socialismo moderato (cit., pag.45); entrambi,
liberalismo e socialismo, hanno lo scopo comune di perseguire l'interesse
pubblico, ma solo il socialismo vuole abolire l'anarchia della produzione come
mezzo per raggiungere questo scopo (pagg.77-78)
L'attività economica, prosegue Mises, necessita del calcolo economico: solo una
società stazionaria, basata sulla semplice ripetizione degli eventi economici,
può fare a meno del calcolo, che è invece fondamentale per la dinamica
economica; ora, osserva Mises, l'economia socialista non può funzionare perché
in essa è impossibile il calcolo economico, che necessita di prezzi determinati
da scambi e quindi dal libero mercato: tutte le utopie socialiste descrivono
infatti situazioni statiche (cit., pag.192). Ma nel mondo reale non
esiste uno "stato stazionario": accadono mutamenti nella natura
esterna, dipendenti o meno dalle azioni umane, mutamenti nella popolazione,
nelle tecniche di produzione e dell'economia.
Il socialismo non può essere allora una teoria della produzione, ma solo della
distribuzione (pag.180 e seg.): distribuzione eguale, distribuzione secondo i
servizi resi, distribuzione secondo i bisogni, distribuzione secondo il merito,
o con combinazioni diverse di ciascuno di questi principi.
Una società socialista, osserva ancora Mises, non risolve i problemi delle
razze e delle nazionalità; inoltre il lavoro è penoso anche in un'economia
socialista, e la divisione del lavoro non si può ridurre (cit., pagg.201, 341 e
seg.); l'economia socialista può risparmiare le spese della pubblicità ma ha
bisogno di un apparato burocratico più costoso e con più potere (pagg.215-221),
e la funzione economica dell'imprenditore non si può eliminare (pag.248).
Mises esamina forme particolari di socialismo (pagg.273-305): statalista,
municipale, militarista, teocratico, corporativo; sono sistemi
"pseudosocialisti" il solidarismo, il sindacalismo, i movimenti di
riforma del diritto di proprietà e di partecipazione agli utili delle imprese.
Il comunismo predicato dai Padri della Chiesa è sempre solo un comunismo di
consumo, il Cristianesimo è stato utilizzato talvolta a favore, talvolta contro
il socialismo, ma ha fini ultraterreni e non di riforma sociale (pagg.461-469).
Talune idee socialiste, osserva Mises riferendosi in particolare all’esperienza
marxista, si fondano sul risentimento e comportano elementi di
distruttivismo, di demagogia, di fatalismo (pagg.482-503); la dialettica
marxista è "feticismo delle parole": parole-feticcio sono quelle di
rivoluzione, classe, dittatura del proletariato, ecc. (cit. pag.104). Ma i
concetti di lavoro, capitale, classe, sono concetti astratti, la distinzione
fra ricchi e poveri è molto più utile di quella fra lavoratori ed imprenditori
(cit., pag.392); la società è un mezzo per permettere agli individui di
perseguire i propri fini, la stessa divisione del lavoro è nata con
l'abolizione della schiavitù e non vi è omogeneità nel lavoro, nè interessi
comuni.
Joseph A. Schumpeter, in Capitalismo, socialismo,
democrazia, (op.cit.) osserva che si può essere socialisti senza essere
marxisti, mentre non è sufficiente essere marxisti per essere socialisti
(pag.55, nota). La desiderabilità del socialismo è separata e indipendente
dalla teoria dell’autodistruzione del capitalismo (che peraltro non è
avvenuta); il marxismo, secondo Schumpeter, va interpretato in termini di religione,
predica nella forma dell’analisi.
Da un punto di vista logico, il modello socialista appare costruito su di un
livello più alto di razionalità, derivante oltre che dalla eliminazione di
incertezze e della classe oziosa, anche dalla maggiore coordinazione tra
settori (con la conseguente eliminazione dei cicli economici), dalla
eliminazione della lotta fra pubblico e privato (con l’eliminazione della
tassazione e della disoccupazione), dalla evidenza dei valori economici dei
processi, depurati dai profitti. Nella pratica, tuttavia, l’organizzazione
socialista si configura come un gigantesco apparato burocratico che limita o
addirittura soffoca l’iniziativa, generando umiliazione, impotenza, disciplina
autoritaria (cit., pagg.198-207 e 287).
Inoltre, mentre la società mercantile si caratterizza per l’automatismo
distributivo, la distribuzione in una società socialista è un atto politico che
dal punto di vista economico è del tutto arbitrario.
Il processo economico però, osserva Schumpeter, tende a socializzarsi,
attraverso la meccanizzazione, la pianificazione, la spersonalizzazione; al
termine di questa “socializzazione preparatoria” basterebbe un semplice
emendamento costituzionale: è la cosiddetta socializzazione in stato di
maturità che Schumpeter distingue dall’adozione prematura dei principi
socialisti o socializzazione in stato d’immaturità (pagg.212, 215 e seguenti).
Una visione per certi versi analoga la troviamo anche in Galbraith (cfr. Il
nuovo stato industriale, op.cit.).
8-2 IL REVISIONISMO SOCIALISTA
Il primo revisionismo socialista nacque nella
Germania meridionale per volontà del socialdemocratico Georg von Vollmar, che
sosteneva l'appoggio parlamentare al liberalismo (Riforme e
rivoluzione nella storia contemporanea, op.cit., pag.81); nel 1898
comparve il libro di Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti
della socialdemocrazia, in cui il fine era considerato "nulla" ed
il movimento "tutto", ed in cui la democrazia era il contenuto di un
socialismo da conseguire attraverso "un processo evolutivo coscientemente
diretto" (cit., pag.83); per fare ciò, il partito riformistico
democratico-socialista doveva in primo luogo emanciparsi dalla fraseologia
superata del socialismo scientifico.
Kautsky e Rosa Luxemburg replicheranno a Bernstein polemizzando sull'efficacia
del revisionismo: per la Luxemburg ciò che divide riformisti e rivoluzionari
non è cosa fare ma come farlo (cit., pag.92), per Kautsky la
democrazia, pur necessaria, non è sufficiente ed individua due strategie
politiche alternative per la classe operaia, ovvero l'annientamento
dell'avversario (scontro frontale) ed il suo logoramento (cit., pag.102). La
dialettica tra riforme e rivoluzione nella sinistra anticapitalistica, osserva
Riccardo Lombardi (cit., pag.311), riguarda il modo di passare al socialismo,
per via pacifica oppure violenta, mentre nella sinistra riformista,
socialdemocratica, le riforme sono concepite come riforme del
capitalismo, quindi non riforme per sopprimere il sistema ma favorevoli ad
esso; le riforme graduali inoltre richiedono tempi adeguati, e sono concepibili
solo in un quadro democratico.
La Costituzione italiana, osserva ancora Lombardi, è di contenuto socialista
nella parte indicativa, liberale in quella normativa (cit., pag.316).
Di fronte all'impossibilità di attuare un movimento rivoluzionario nei loro
paesi, gli intellettuali di sinistra in Francia ed in Italia divennero
rivoluzionari verso il Terzo Mondo, "con una specie di transfert della
loro tensione rivoluzionaria" (Lombardi, cit., pag.318); l'attenzione era
rivolta talvolta al momento istituzionale, altre volte a quello strutturale:
in realtà, in Italia non vi furono nè riforme nè rivoluzioni (cit.,
pagg.321-324).
Un esempio di revisionismo socialista fu
l’esperienza del socialismo fabiano; la Società Fabiana
venne fondata nel 1884 (Sidney e Beatrice Webb, Bernard Shaw) come principale
organizzazione del movimento socialista britannico per compiere ricerche e
svolgere propaganda educativa: la Società Fabiana è costituita da
socialisti. Perciò si propone l'istituzione di una società in cui siano
garantite uguali possibilità per tutti, e la supremazia economica e i privilegi
individuali e di classe siano aboliti per mezzo della proprietà collettiva e
del controllo democratico delle risorse economiche della comunità. Essa cerca
di raggiungere i suoi scopi servendosi dei metodi di democrazia politica
(G.D.H. Cole, Il socialismo fabiano , op.cit.). Cole
osserva come il socialismo sia strettamente connesso alla democrazia ed alla
libertà: la vita pubblica dovrebbe essere organizzata in modo tale da
facilitare la partecipazione attiva al maggior numero di persone, la società
non deve limitarsi a tollerare la varietà ma anzi deve incoraggiarla; lo Stato
è un mezzo per promuovere una vita buona.
Professare per convinzione il socialismo vuol dire avere una sensibilità più
sottile dell'ordinario: vi è la consapevolezza che di qualsiasi paese ci si
senta cittadini, la sorte di esso è legata al destino di tutto il mondo; e
tuttavia è soprattutto attraverso quello che facciamo nel nostro paese che
possiamo sperare di influire sul mondo.
La società dovrebbe offrire a tutti i suoi membri una decente base comune di
vita, i figli non devono pagare gli errori dei genitori, tutti gli uomini e
tutte le donne dovrebbero avere uguali possibilità di sviluppare ciò che di
buono vi è in loro, di essere ragionevolmente felici e di rendere piacevole la
vita in comune.
Nel regime capitalistico, gli individui restano disoccupati anche quando
meriterebbero di essere impiegati da un punto di vista sociale; nella scuola,
l'educazione andrebbe estesa anche oltre l'adolescenza e connessa alla vita
generale della comunità.
I piccoli e grandi Stati non possono vivere uno accanto all'altro in rapporto
di vera uguaglianza sia politica che economica, ed è impossibile restare
disarmati per lungo tempo; l'unico modo per attuare un vero internazionalismo e
garantirsi contro le guerre, secondo Cole, è la creazione di uno Stato
internazionale cui vanno affidati gli strumenti essenziali del controllo
economico.
Il "popolo" in una società differenziata non ha un unico indirizzo di
pensiero ma molti modi di pensare contrastanti; gli atti di governo non possono
soddisfare chiunque, non vi può essere una maggioranza coerente che sia
soddisfatta di tutti gli atti del governo. La "voce del popolo" non è
necessariamente la voce della democrazia, anche la voce della maggioranza non è
necessariamente la voce democratica.
La democrazia non è un modo formale di votare ma lo spirito che pervade una
società: nessuna comunità può essere assolutamente democratica, nessuna può
essere totalmente priva di elementi democratici. La concessione di privilegi è
uno dei mezzi per combattere lo spirito democratico, la società con maggiori
differenze sociali è anche quella che offre un maggior numero di privilegi; è
inoltre impossibile che possano convivere un sistema politico libero ed un
sistema economico servile.
La nuova società deve essere fondata su piccole democrazie di vicini e su
piccole democrazie di lavoratori; per Cole bisogna essere democratici nelle
piccole cose, altrimenti nelle grandi cose la democrazia rischia di essere una
parola vuota. I compromessi sono giustificabili solo su questioni di secondo
piano.
Nel saggio L'uomo secondo Marx
(cit.) Fromm compie un’analisi del pensiero di Marx, depurandolo degli elementi
massimalisti e deterministici e riconducendolo alla tradizione umanistica:
Fromm evidenzia come per Marx l'uomo realizzi se stesso nel processo
produttivo, e riesca a sviluppare le proprie potenzialità (concetto
questo che viene derivato da Hegel e Spinoza) solo se è indipendente e libero
(libero di, precisa Fromm, cit. pag.115).
La società non ha come fine la produzione di cose utili, lo scopo del
socialismo è l'emancipazione dell'uomo, lo sviluppo delle personalità
individuali, l'autorealizzazione.
Autorealizzazione e lavoro, per Marx, sono concetti strettamente connessi,
capitale e lavoro sono categorie antropologiche oltre che economiche: il
capitale rappresenta il passato (in quanto è ciò che viene accumulato), il
lavoro è il presente, è un'attività, non è una merce ma un fine in sè, è
"espressione significativa dell'energia umana" (cit. pag.118).
Fromm osserva come Marx critichi il capitalismo non tanto per l'ingiustizia
distributiva della ricchezza, quanto per aver trasformato il lavoro in attività
alienata, forzata, priva di significato: il problema centrale non è perciò una
migliore remunerazione, bensì la trasformazione del lavoro in libero e
produttivo; la critica all'economia capitalistica non è al suo metodo di
distribuzione ma al suo metodo di produzione (cit., pag.123).
L'alienazione è la negazione della produttività, il socialismo è
emancipazione dall'alienazione; la storia dell'uomo, per Marx come per Hegel, è
la storia della sua alienazione, "l'esistenza dell'uomo è alienata dalla
sua essenza" (cit., pag.121), perché egli non è ciò che potrebbe e dovrebbe
essere. A Fromm sfuggono però le implicazioni totalitarie di questa analisi,
anzi ne trae la conclusione opposta, quella di un "contrasto fra la
concezione di Marx e il totalitarismo comunista" (cit., pag.126); il
fanatismo è per Fromm paragonabile a "ghiaccio che brucia" (cit.,
pag.131 nota).
Marx sbagliò però nel credere che fosse la classe operaia la più alienata:
l'alienazione, osserva Fromm, colpisce la maggior parte della popolazione, gli
impiegati e i dirigenti ancor più che gli operai; oggetti e circostanze da noi
stessi creati sono diventati nostri padroni, primi fra tutti i sistemi
burocratici e le armi nucleari (cit., pag.129).
Hegel, Marx, Goethe e il pensiero Zen hanno in comune l'idea che l'uomo possa
superare la scissione soggetto-oggetto (cit., pag.130 nota): c'è da
chiedersi oggi quale sia il valore concettuale di questa distinzione, o
dell'altra ricorrente fra essenza ed esistenza che Fromm
individua, oltre che in Marx ed Hegel, anche in Spinoza e Goethe (cit.,
pagg.109-110); concetti forse obsoleti, che comunque non riducono il valore di
una analisi, quella di Fromm, che risulta nel suo complesso interessante ed
attuale.
Carlo Rosselli (Socialismo
liberale, op. cit.) osserva come inizialmente i revisionisti non
fossero in contrapposizione a Marx il quale peraltro, osserva Rosselli,
"non si esaurisce nel marxismo e per molti lati anzi lo confuta"
(cit., pag.23); ma il marxismo è un sistema dogmatico che non può ammettere la
critica, e pertanto non può essere principio guida del movimento socialista
("si può essere marxisti senza essere socialisti", pag.55).
Per i marxisti il socialismo è la conclusione, per i revisionisti la premessa
che conduce infine al liberalismo.
Il materialismo storico diventa solo una lezione di realismo storico e induce
ad un rispetto eccessivo dell'esistente con la rassegnazione che ne consegue.
Marx assume la natura, l'ambiente, i caratteri antropologici come costanti e si
concentra sulla trasformazione dei modi di produzione, che sono in realtà solo
"un anello della catena deterministica" (cit., pag.8); inoltre il
fattore volontà umana toglie significato ad ogni teoria predittiva.
Peraltro, osserva Rosselli anticipando Popper, nessuno è in grado di conoscere
gli sviluppi futuri della tecnica e quindi del sistema produttivo (pag.64).
Rosselli distingue tre fasi nella storia del marxismo, quella religiosa, quella
critica e quella del suo superamento (cit., pag.16); il movimento sindacale,
ottimista, pratico e riformista, è in contrasto con un programma finalistico,
pessimistico, rivoluzionario, catastrofico e messianico quale è il marxismo.
La propaganda marxista ha costruito due miti: la necessità del comunismo e la
sua produttività (cit., pag.65); ma la critica è più facile della
ricostruzione, e solo la non-cultura può essere borghese o proletaria (cit.,
pag.87 e pag.131). Inoltre, il marxismo non è in grado di comprendere i piccoli
problemi dei singoli settori economici.
Il socialismo non si può decretare dall'alto: un partito socialista, osserva
Rosselli, deve essere la "sintesi federativa di tutte le forze che si
battono per la causa della libertà e del lavoro" (cit., pag.144); le
posizioni socialista e liberale, inizialmente antitetiche, sono andate via via
avvicinandosi perché sono entrambe visioni unilaterali che possono
completarsi a vicenda (pag.4).
Il socialismo è un programma di vita sempre in corso di attivazione, un limite
ideale che si realizza solo in parte. Per i socialisti il fine ultimo è
l'individuo, cellula della società, i fini della società sono i fini degli
individui, rivoluzione sociale e rivoluzione morale devono accompagnarsi (cit.,
pagg.83, 86, 110).
Per il socialismo liberale sono sullo stesso piano la giustizia sociale
e la libertà, la vita associata e quella individuale; il socialismo è una
filosofia di libertà (cit., pagg.88-89).
Per la teoria liberale la libertà è il fine supremo ed anche il mezzo supremo
(metodo democratico, pag.119), la libertà non è un dato di natura ma un
divenire: liberali non si nasce ma lo si diventa (pag.89); mentre per i
marxisti, osserva Rosselli (pag.115), la libertà ha un valore solo storico e
relativo.
Il socialismo porta il principio di libertà alle sue conseguenze estreme,
"è la libertà che si fa per la povera gente" (cit., pag.90),
autonomia economica, libertà di fatto e non solo di diritto; il liberalismo è
"forza morale ispiratrice", il socialismo "forza pratica
realizzatrice" (cit., pag.92), e da questione di giustizia diventa
sempre più questione di capacità, una virtù pedagogica
(pagg.96-100).
Senza autonomia individuale non può esserci socialismo, che è prima rivoluzione
morale e poi materiale; il socialismo senza democrazia è la negazione dei fini
stessi del socialismo, che è infatti l'erede del liberalismo, e la libertà
"è il più efficace mezzo e ultimo fine del socialismo" (cit.,
pag.144).
Il rapporto tra libertà ed eguaglianza è in
effetti quanto di più complesso vi sia nella teoria politica: sembra davvero
difficile poter coniugare libertà ed eguaglianza, innanzitutto perché è
complesso il rapporto fra i due termini, e poi perché sono complesse e
molteplici le definizioni che si possono dare sia della libertà che
dell'eguaglianza.
Alcuni importanti teorici politici hanno tentato la "quadratura del
cerchio": Carlo Rosselli, con la sua idea di Socialismo liberale,
ha proposto un percorso possibile per coniugare libertà ed eguaglianza; John
Rawls, uno dei più importanti filosofi politici del secolo appena passato, nel
libro Una Teoria della Giustizia ha proposto una scala di principi in
base ai quali poter costruire una società giusta: una società è giusta, secondo
Rawls, quando le sue istituzioni fondamentali si reggono sui due principi di
libertà ed eguaglianza, quest'ultimo riformulato da Rawls come "principio
di differenza", e con la precisazione importante che una società è giusta
quando, a parità di libertà (ad eguale libertà), riesce a favorire i
meno avvantaggiati (ed è tanto più giusta quanto più riesce a favorire gli
individui meno avvantaggiati).
Una cosa è certa: sistemi sociali fondati soltanto sulla libertà (libertà
assoluta) producono tensioni sociali, instabilità, anarchia, oltre naturalmente
ad ineguaglianze; per contro, sistemi sociali fondati sulla sola eguaglianza
producono tirannie, totalitarismi, violazioni dei diritti dell'uomo. Coniugare
libertà ed eguaglianza significa allora creare "condizioni di mezzo",
quel giusto mix che permette l'esistenza e la crescita della democrazia
(democrazia politica ma anche sociale ed economica) la quale, secondo Norberto
Bobbio, è insieme la condizione e la conseguenza del giusto rapporto fra
libertà ed eguaglianza.
Cosa potrebbe allora significare il termine "libertà eguale"? L'idea
di fondo potrebbe essere quella di definire, o ridefinire, la libertà a
partire dall'eguaglianza: ma cosa intendiamo precisamente per libertà? e
cosa per eguaglianza?
Isahia Berlin ed Erich Fromm ci propongono l'idea di una libertà positiva,
libertà di fare, come alternativa alla libertà negativa, che è libertà
da vincoli, assenza di regole, anarchia. A mio avviso, una definizione
esaustiva di libertà la propone Ralf Dahrendorf in un libro scritto alla fine
degli anni Settanta, La libertà che cambia (cit.); un individuo è tanto
più libero quanto più dispone di:
- chances (possibilità);
- diritti;
- legature (rapporti sociali).
I tre elementi o fattori (chances, diritti, legature) non sono alternativi;
l'uomo è tanto più libero quanto più può disporre e di chances, e
di diritti, e di legami sociali. Questa definizione di libertà ci fa
riflettere: un individuo con molte chances, ad esempio molto ricco, ma privo di
legature, di legami sociali autentici, può considerarsi più libero di chi ha
meno ricchezze ma è ben inserito socialmente? E a cosa servono i diritti, se le
chances, le possibilità di fare sono minime?
E l'eguaglianza? Il termine è ancora più complesso: eguaglianza di opportunità
o eguaglianza nei risultati? e poi, eguaglianza rispetto a che cosa? Giovanni
Sartori individua una progressione storica delle eguaglianze (al plurale), che
parte dall'eguaglianza giuridico-politica (a ciascuno gli stessi diritti
legali e politici), progredendo poi con l'eguaglianza sociale (a
ciascuno lo stesso status), l'eguaglianza di opportunità di accesso (a
ciascuno secondo i propri meriti), l'eguaglianza di opportunità di partenza
(a ciascuno risorse materiali iniziali adeguate), infine l'eguaglianza
economica (a ciascuno secondo i propri bisogni). Il paradosso che rileva
Sartori è che, per ottenere uguali esiti, occorre che gli individui vengano
trattati in modo ineguale; viceversa, essere trattati in modo eguale (con
uguali opportunità) comporta esiti diseguali, cioè risultati differenti da
individuo ad individuo. Ha ragione allora Rawls a riformulare il principio di
uguaglianza in principio di differenza?
Personalmente ritengo che ogni idea politica, inclusa quella della libertà
eguale, debba essere messa alla prova dei fatti: le idee senza conseguenze
pratiche sono idee che non servono a nulla e a nessuno; dobbiamo allora
sforzarci di compiere un passaggio successivo, che è ancora più complesso di
quello che abbiamo tentato di fare in queste poche righe: occorre tradurre le
parole in cose, le idee in fatti, le teorie politiche in linee di azione
politica. Si tratta quindi di chiarire quali politiche conseguano dalle nostre
teorie, quali azioni occorre intraprendere partendo dai nostri principi di
"libertà eguale", ad esempio in ambiti quali:
- l'ambiente (con le sue dimensioni locale, nazionale, globale);
- le autonomie (anche queste variamente intese);
- il lavoro, le discriminazioni, l'etica degli affari, il welfare state, ecc.;
- i diritti (politici, economici, sociali), la bioetica, l'attenzione alle
generazioni future;
- le politiche pubbliche variamente intese (sanità, scuola, ecc., in ambito
locale, nazionale, globale).
Non possiamo ovviamente affrontare questi temi, o parte di essi, in poche
righe; sono stati scritti molti libri, sia sulle teorie che sulle pratiche: non
c'è (quasi) più nulla di nuovo da inventare, quello che spesso manca è invece
lo spirito di applicazione da parte dei politici, a tutti i livelli, quello
spirito di umiltà che li induca ad approfondire maggiormente idee e politiche,
magari sfruttando strutture organizzate che in Europa, e soprattutto nei
partiti di tradizione socialdemocratica, sono ben presenti da decenni ma che
invece mancano sostanzialmente nel nostro Paese: associazioni e fondazioni che
possano colmare queste lacune e far sì che in Italia le politiche riformiste
siano costruite in modo organico e non siano volta per volta improvvisate da leaders
politici che troppo spesso si trovano nella infelice condizione di dover
inseguire i problemi, magari con la scadenza elettorale alle porte.
La Carta dell’associazione “Libertà Eguale”
(cit.) evidenzia come la globalizzazione, l'economia globale e l'aspra
competizione che ne deriva, da un lato costituiscano un rischio enorme di
esclusione per gli individui, ma dall'altro offrano anche enormi potenzialità
di inclusione e di eguaglianza, grazie in particolare all'innovazione
tecnologica e telematica. Pertanto, gli strumenti e le risorse per affermare la
crescente libertà degli individui possono essere trovati all'interno del
processo stesso di globalizzazione e non contro di esso.
La nuova sinistra si pone allora come obiettivo (come fine) la progressiva estensione
ed affermazione della libertà eguale attraverso (come mezzo)
l'estensione della democrazia sia nelle sue istituzioni tradizionali che in
quelle da costruire; pace, sviluppo, eguaglianza sono conseguenti a questo
processo.
La nuova sinistra, che è liberalsocialista, si contrappone dunque alla vecchia
sinistra per alcuni elementi qualificanti:
a) la definizione di strategie inclusive (la vecchia sinistra puntava invece
alla sopravvivenza assistita degli esclusi);
b) la coordinazione delle politiche su scala planetaria (la vecchia sinistra
ragionava in termini di nazione e di classe);
c) favorire l'associazionismo civile e le risorse culturali, economiche,
relazionali dei singoli individui (la vecchia sinistra cercava invece di
organizzare i diseguali costruendo gerarchie di partito e di sindacato);
d) il benessere, in regime di risorse scarse, è misurato in termini di beni
individuali e in quote di beni collettivi;
e) la rappresentanza è dei cittadini produttori e consumatori (non solo quindi
della classe dei produttori), ed in particolare "della multiformità dei
lavori nella società post-fordista".
La ripresa riformista, pertanto, si caratterizza per far convergere
riforme e politiche sociali e fiscali verso alcune priorità ben definite:
- liberalizzazione regolata;
- riforma radicale del welfare;
- riforma federale della pubblica amministrazione;
- promozione dello sviluppo (al contrario della vecchia sinistra che puntava
invece alla sola redistribuzione delle risorse) da realizzare con
"politiche per una ripresa della crescita, per combattere la
disoccupazione e la perdita di competitività ";
- innovazione informatica e delle comunicazioni, formazione.
Una identità riformista, infine, deve fungere da collante per coalizioni
di centro-sinistra.
La libertà eguale, osserva Franco Sbarberi (L’utopia della libertà eguale, op. cit.), è libertà
condivisa, libertà media ed il suo più importante teorico italiano fu
Carlo Rosselli, poi seguito dagli intellettuali del Partito d'Azione: Guido
Calogero, Piero Calamandrei, Norberto Bobbio, Aldo Capitini (pagg.12-13 e 162).
In questa prospettiva, la libertà è il fine, mentre la giustizia
economico-sociale è un mezzo (pag.125); a livello internazionale, i suoi
pensatori contemporanei di maggiore spessore sono Rawls, Dahrendorf, Walzer,
Sen, Dworkin, Ackerman, Held (pag.14).
Il Partito d'Azione, osserva però Sbarberi, fu un movimento politico presbite,
troppo proiettato al futuro e troppo poco al presente (cit., pag.140 e 160
nota); proponeva una repubblica presidenziale di tipo americano ed autogoverno
locale: uno stato federale nazionale caratterizzato dall'idea della
discontinuità dello stato, ma anche il federalismo europeo (cit., pagg.136,
141, 148). Proponeva altresì autogestione e democrazia economica, l'indipendenza
della Corte Costituzionale dai poteri esecutivo e legislativo, un esercito
europeo (pagg.17, 130, 132 nota).
Il socialismo liberale rimane ancora oggi la formula programmatica più efficace
per correggere le distorsioni del mercato, e si contrappone a tutti coloro (la
"destra") che vogliono invece l'esaltazione del mercato (pag.21).
Liberi non si nasce, lo si diventa: è l'albero delle libertà (Rosselli,
Dewey, Bobbio, pagg.59-60 e 165-180), e lo si diventa in primo luogo acquisendo
autonomia economica (emancipazione dal bisogno, pagg.73-74) e difendendo i
valori della democrazia, che è una lotta per e non contro
qualcosa o qualcuno (pagg.77 e 164).
La sintesi tra liberalismo e socialismo produrrà l'idea di una "terza
via" (il liberalsocialismo di Guido Calogero, pagg.100, 105 e seguenti);
la versione giuridica del liberalsocialismo produrrà l'idea dei diritti sociali
che devono integrare i diritti di libertà, la versione economica introdurrà
l'idea dell'economia a due settori, pubblico e privato, col doppio ruolo
esercitato dallo Stato democratico: ruolo protettivo e ruolo propositivo
(pagg.151-152).
Le libertà individuali sono diritti sovraordinati e
"supercostituzionali", e per Calamandrei occorre combattere la
"tirannia della maggioranza" individuando un modello costituzionale
garantista che faccia da cornice giuridica ad una concezione insieme
conflittuale e partecipativa della democrazia (pagg.152-153 e 181); il progetto
federalista degli azionisti naufragò però di fronte alla indisponibilità dei
partiti di massa, e peraltro già nei decenni precedenti Togliatti criticò
aspramente Rosselli (pagg.70 e 159). D'altro canto, per gli azionisti era
incomprensibile la riduzione marxista della persona a solo lavoro, come pure
l'idea che la libertà sia un obiettivo transitorio (pagg.72, 111, 174, 186):
l'eguaglianza fra gli uomini è un nostro dovere e non una loro natura, la
giustizia deve fare sintesi fra libertà ed eguaglianza laddove prima era
giustizia come libertà (pensiero liberale) e giustizia come eguaglianza
(pensiero socialista).
Individualismo ed olismo sono entrambi aberrazioni, lo Stato democratico è la
forma di regime che consente la realizzazione del liberalsocialismo, una
"rivoluzione democratica" (pagg.181 e 176-178).
8-4 IL SOCIALISMO RIFORMISTA ITALIANO
Il riformismo socialista italiano, osserva Ugo Intini (Il “Miracolo Riformista”, cit.), nasce con la creazione delle associazioni volontarie, di cui la più importante è il sindacato; obiettivo centrale del riformismo socialista è quello di trasformare i valori liberali in valori di massa: la battaglia di libertà coincide con la battaglia sociale, dall’estensione del diritto di voto alla lotta all’analfabetismo ai diritti delle donne. Nascono le figure del sindacalista socialista, del sindaco socialista, del maestro socialista (raffigurato nel libro Il cuore di De Amicis); agli inizi del Novecento vengono concepite fondamentali politiche sociali che oggi ci appaiono normali, ma che a quel tempo erano del tutto innovative, dalle mense popolari all’edilizia popolare, dalle aziende municipalizzate agli ospizi, dalla refezione scolastica alle campagne di vaccinazione e prevenzione sanitaria, dalla riforma agraria al sentimento europeista; i socialisti furono decisivi nel determinare la vittoria repubblicana sulla monarchia nel referendum del 1946, nell’imporre la scuola media obbligatoria nel 1963; la nazionalizzazione dell’energia elettrica nel 1962 fu una riforma fondamentale per lo sviluppo industriale italiano, come pure passaggi importanti furono la previdenza sociale nel 1969, lo Statuto dei lavoratori nel 1970, le prime elezioni regionali che si tennero sempre nel 1970, il servizio sanitario nazionale nel 1978. L’utilizzo del referendum popolare porterà gli italiani ad esprimersi a favore del divorzio, dell’aborto, della responsabilità civile dei magistrati, e contro il nucleare. Furono i socialisti ad abolire le case chiuse, il delitto d’onore, la censura, a presentare una legge contro la droga, ed invece a promuovere lo sviluppo della rete autostradale e della televisione a colori. Sandro Pertini, presidente della Repubblica, incarnerà nella Resistenza al fascismo i valori nazionali fondamentali, mentre Craxi recuperà i valori del Risorgimento e la figura di Garibaldi. La presidenza del Consiglio a guida socialista si caratterizzò per quel “decisionismo” che servì ad abbattere l’inflazione, a cancellare gli automatismi della scala mobile, ad autorizzare l’installazione degli euromissili e però anche a scontrarsi con gli americani nella vicenda di Sigonella, ad istituire un ministero per l’ecologia, a condurre una politica estera autonoma in particolare verso il Medio Oriente ed i diritti dei palestinesi.
Norberto Bobbio criticherà l’attenzione che il
governo a guida socialista dava all’epoca al tema della modernizzazione del
Paese, rispetto a quello classico del socialismo, che è la giustizia sociale (Le
mie critiche al Psi, cit.); ma il socialismo riformista, osserva Intini, è
insieme antico e moderno, i suoi valori hanno radici ottocentesche ma non sono
obbligati in costruzioni teoriche, non producono scuole propagandistiche come
il marx-leninismo, e sono perciò adattabili ad un mondo che cambia (cit.,
pag.73); non vi è perciò incoerenza fra i suoi valori e la spinta alla
modernizzazione.
In Italia peraltro, osserva ancora Intini, vi è un eccesso di cultura
letteraria e giuridica rispetto a quella tecnica e scientifica, specie nel
Mezzogiorno, che priva il nostro Paese di dirigenti necessari al suo sviluppo e
nel contempo non risolve i problemi della nostra giustizia piuttosto che del
nostro cinema.
Luciano Pellicani evidenzia anche il paradosso in cui si trovano tutti i
partiti socialisti moderni: “proprio perché la loro azione riformatrice ha
avuto successo, la loro agenda politica si è svuotata” (Lettera
aperta a Norberto Bobbio, cit., pag.3), rendendo così necessaria ogni volta
la ridefinizione dei contesti su cui attivare un’azione riformatrice.
8-5 IL SOCIALISMO MASSIMALISTA ITALIANO
Il “miracolo riformista” italiano fu sempre
osteggiato dai comunisti, potente forza massimalista della sinistra italiana,
che arriveranno addirittura ad equiparare socialismo democratico e fascismo,
riunendoli entrambi nella formula staliniana del “socialfascismo” (Intini,
cit., pag.13). In realtà, osserva Intini, per decenni il Pci incarnò in Italia
posizioni conservatrici, un conservatorismo di sinistra espresso in
affermazioni massimaliste che lo porteranno ad essere antieuropeista, contrario
alla riforma Brodolini che istituì la previdenza sociale, contrario allo stesso
Statuto dei lavoratori, interessato sempre unicamente ai rapporti economici fra
le classi, il resto essendo solo “sovrastruttura”.
In particolare, osserva ancora Intini, l’autoritarismo in Italia si è radicato
grazie a tre tradizioni culturali: l’ideale hegeliano dello Stato etico che ha
portato al fascismo, il marxismo leninismo, l’integralismo cattolico; la
convergenza di queste tradizioni autoritarie ha spesso condizionato la storia
italiana, ed in parte spiega, secondo Intini, “la fragilità del socialismo
liberale e della liberaldemocrazia, il ritardo delle modernizzazioni nel
costume del nostro Paese” (cit., pag.44).
La diversità comunista era caratterizzata anche
politicamente da una “retorica del pessimismo”, catastrofista e fatalista,
giustificata dalla stessa ideologia marxista che prevedeva il crollo del
sistema e quindi l’inutilità delle riforme, che anzi erano considerate
controproducenti perché ritardavano la catastrofe finale; tale diversità
comunista è stata la premessa della anomalia italiana nel panorama democratico
occidentale, una anomalia basata più sul diritto di veto (e sul voto segreto)
che sul diritto di voto (e sul voto palese). La storia ha poi dimostrato che le
teorie scientifiche del sociale, come il marxismo, sono in realtà transitorie
mentre “i valori socialisti sono permanenti” (Intini, cit., pag.73).
La mobilitazione comunista contro Craxi, primo presidente del Consiglio
socialista, non trova riscontro nei suoi predecessori non socialisti, e
testimonia il clima del tempo, in un Paese fortemente condizionato da due
potenti forze regolatrici o “fabbriche del consenso”: la Chiesa cattolica da
una parte ed il Pci dall'altra (Intini, pagg.46, 50 e seguenti).
Luciano Pellicani (La vittoria del socialismo liberale, cit.) evidenzia
in proposito come furono "le dure repliche della storia" e non gli
argomenti dei riformisti a far cambiare idee ai comunisti italiani, nei quali
continuò peraltro a mantenersi la distinzione fra comunismo storico e comunismo
ideale, che continuarono a considerare cose diverse; in Italia la
democrazia era bloccata, perché assediata sia da destra che da sinistra, e
rendeva impossibile ai socialisti vincere senza i comunisti e, nel contempo,
impossibile governare con i comunisti.
Un’analisi approfondita delle vicende italiane a partire dal dopoguerra la
troviamo nel libro Menscevichi. I riformisti nella storia dell’Italia
repubblicana di Luigi Covatta (op.cit.), che sottolinea il carattere
paradossale della storia italiana, caratterizzata da una sequenza di cambiamenti
senza riforme, fuori da ogni disegno razionale capace di governarne gli
esiti.
Il primo cambiamento fondamentale, osserva Covatta, fu quello
politico-istituzionale del dopoguerra, " 'la Repubblica dei partiti', che
per cinquant'anni avrebbe governato, ma non guidato l'Italia"
(cit.pag.16), cui seguì il rapido cambiamento economico, quello "sviluppo
senza guida" che caratterizzò il periodo di maggiori cambiamenti del
nostro Paese e che era basato su un sistema di "Welfare all'italiana",
una sorta di "catto-keynesismo" dove l'industria di Stato cercò di
colmare le lacune del debole capitalismo privato italiano; il dossettismo fu,
in quel contesto ed in quel periodo storico, l'esperienza riformista
maggiormente significativa ancorché priva di un soggetto politico che lo fosse
esplicitamente (op. cit., pagg.45 e seguenti).
La mancanza di una regia politica, del soggetto riformista, comportò
conseguenze negative che ancora oggi stiamo pagando: “perché, miracolo o no,
gli anni cinquanta furono anni che non interruppero l’emigrazione,
determinarono la devastazione del territorio, non migliorarono la qualità della
vita civile” (cit., pag.56).
Scelte riformiste fondamentali furono il piano Marshall (che era però una
scelta esogena) e l'opzione liberoscambista cui fecero seguito la
nazionalizzazione dell'industria elettrica e la realizzazione della scuola
media unica (pag.55, pagg.63 e seguenti).
Il cambiamento successivo, a partire dagli anni sessanta, fu di natura etica e
culminò nel 1970 con la legge sul divorzio ma anche, nello stesso anno, con lo Statuto
dei lavoratori che più di altri dimostrò la debolezza dei meccanismi
applicativi delle grandi riforme, proprio per l'assenza di un soggetto politico
chiaramente riformista (pag.99). I riformisti italiani, osserva Covatta, erano
dispersi, faticavano a riconoscersi, e spesso erano "fuori dalle
trincee" dei partiti politici tradizionali (pag.81 e 99, nota); l’ambiente
stesso, in Italia, era “irrespirabile” per il riformismo: “Corporations
e corporazioni, infatti, si sono mostrate perfettamente in grado sia di
impedire il microriformismo, sia di vanificare il macroriformismo” (cit.,
pag.260).
L'ultimo cambiamento del secolo scorso, negli anni ottanta, fu invece di natura
estetica, riguardò i veicoli della produzione culturale ed i modi di
esprimersi, con effetti che furono rilevanti sulla percezione stessa della
realtà e sull'immaginario collettivo; ma fu anch'esso un "ennesimo
cambiamento senza riforma" (cit., pag,.106) che tra l’altro dimostrò
quanto fosse debole il sistema accademico-editoriale su cui aveva investito la
sinistra fin dal dopoguerra: "la presunta egemonia culturale della
sinistra è stata a lungo, in realtà, piuttosto una egemonia culturale sulla
sinistra esercitata da ceti elitari e autoreferenziali" (cit., pag.107).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
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"LIBERTÀ EGUALE" (Comitato promotore, 2000)
- Alberto Benzoni, RIFORMISTI E RIFORMISMI (in MondOperaio, novembre-dicembre
2005)
- Isaiah Berlin, DUE CONCETTI DI LIBERTÀ (in Quattro saggi sulla libertà,
Milano 1989)
- Norberto Bobbio, QUALE SOCIALISMO? (ed.Einaudi, Torino 1970)
- Norberto Bobbio, LE MIE CRITICHE AL PSI (in MondOperaio, 12/1989)
- Martin Buber, SENTIERI IN UTOPIA (ed. Comunità, Milano 1981)
- G.D.H. Cole, IL SOCIALISMO FABIANO (Fabian Socialism)
- Luigi Covatta, MENSCEVICHI. I riformisti nella storia dell’Italia
repubblicana (ed.Marsilio, Venezia 2005)
- Ralf Dahrendorf, LA LIBERTÀ CHE CAMBIA, (ed. Laterza, Bari 1994)
- Erich Fromm, L'UOMO SECONDO MARX (Marx's concept of man, in Alienazione
e sociologia, ed. Franco Angeli, Milano 1973)
- Erich Fromm, FUGA DALLA LIBERTÀ (Escape from Freedom, 1941/ed.
Comunità) - Ugo Intini, IL “MIRACOLO RIFORMISTA”, in L’Albero Socialista. Un
secolo di riformismo e di progressi (supplemento di Argomenti Socialisti,
1991)
- Maria Rosaria Manieri, LA FONDAZIONE ETICA DEL SOCIALISMO. F.S.Merlino
(ed.Dedalo, Bari 1983)
- Luciano Pellicani, LA VITTORIA DEL SOCIALISMO LIBERALE (in MondOperaio,
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- Luciano Pellicani, LETTERA APERTA A NORBERTO BOBBIO (in MondOperaio, 12/1989)
- Karl R. Popper, MISERIA DELLO STORICISMO (ed.Feltrinelli, Milano 1975)
- Guido Quazza (a cura di), RIFORME E RIVOLUZIONE NELLA STORIA CONTEMPORANEA
(ed. Einaudi, Torino 1977)
- John Rawls, UNA TEORIA DELLA GIUSTIZIA (ed.Feltrinelli, Milano 1982)
- Carlo Rosselli, SOCIALISMO LIBERALE (ed. Einaudi, Torino 1979)
- Franco Sbarberi, L'UTOPIA DELLA LIBERTÀ EGUALE. Il liberalismo sociale da
Rosselli a Bobbio (ed. Bollati Boringhieri, Torino 1999)
- Joseph A. Schumpeter, CAPITALISMO, SOCIALISMO, DEMOCRAZIA (1954/ ed.Etas
libri, Milano 1977)
- Ludwig von Mises, SOCIALISMO (ed. Rusconi, Milano 1989)
9- I NEMICI DEL RIFORMISMO
9-1 IL RIFORMISMO E I SUOI NEMICI
Il riformismo, osserva Luciano Pellicani (Riformismo,
in Mondoperaio, cit.), ha nemici sui due fronti: chi difende ad oltranza
l'ordine esistente e chi vuol fare tabula rasa; per entrambi i gruppi di
nemici il riformismo è sinonimo di opportunismo, errore, deviazione,
tradimento.
Secondo Pellicani, il rivoluzionarismo, dal Terrore giacobino in poi,
sostiene l'idea che il progresso dell'umanità passa solo "attraverso la
politica della tabula rasa"; in una fase ulteriore, poi, il
"proletariato interno" fu sostituito dal "proletariato esterno"
(pagg.167-168).
Chi sono, dunque, i nemici del riformismo ?
Storicamente, il riformismo si è sempre definito in negativo come
contrapposizione al massimalismo: il riformismo è una soluzione di cambiamento
graduale della società, laddove il massimalismo vuole tutto e subito; il
riformismo intende inoltre cambiare in meglio la società esistente, mentre il
massimalismo la vuole abbattere con la violenza.
Ai nostri giorni, però, mantenere questa contrapposizione ristretta è
semplificare eccessivamente il quadro dei nemici del riformismo, che è molto
più variegato.
Distinguiamo due categorie di nemici; anzitutto, i nemici d’idee che, in
estrema sintesi, possiamo individuare nel conservatorismo, nel populismo,
nel qualunquismo, nel movimentismo, nel radicalismo.
Ma i veri nemici del riformismo sono i nemici pubblici, od hostis nel
senso di Carl Schmitt, storicamente e nei fatti stiamo parlando di altri e ben
più temibili fenomeni generati dall’umanità nel corso della sua storia; ci
riferiamo, in particolare, al già citato massimalismo, ai fondamentalismi,
agli autoritarismi ed al totalitarismo.
Contro questi nemici lo scontro è totale, nel senso schmittiano della piena
contrapposizione politica; non ci sono mediazioni possibili, nessun
compromesso, nessun dialogo.
Nel libro L’età dei diritti (op. cit.)
Bobbio osserva come lo stato liberale abbia portato alla costituzionalizzazione
del diritto di resistenza, attraverso la separazione dei poteri e la
subordinazione di ogni potere statale al diritto (cit., pag.165).
Legittimità ed obbligo politico sono problemi intimamente connessi:
"l'obbedienza è dovuta soltanto al comando del potere legittimo" (Stato,
governo, società, cit., pag.81). Bobbio distingue i limiti del
potere politico, che sono giuridici, dai limiti al potere politico, che
derivano dalla presenza più o meno forte del non-Stato (cit., pag.113); il costituzionalismo
è la teoria dei limiti del potere, che sono interni (rapporti fra governanti e
governati) ed esterni (rapporti fra gli Stati). Lo Stato universale, se
esistesse, avrebbe solo limiti interni (cit., pag.95).
Le forme di governo possono essere autocratiche o democratiche, a
seconda che l'ordinamento giuridico venga creato e modificato dall'alto o dal
basso; la rivoluzione copernicana, osserva Bobbio, è il riconoscimento dei
diritti dell'uomo e del cittadino (cit., pag.108). Diritti che, evidentemente,
sono a fondamento di qualsiasi azione che possa definirsi riformista.
Nello stato totale invece, osserva ancora Norberto Bobbio (Il futuro della
democrazia, op. cit.), la politica è tutto ma non è di tutti, nello stato
democratico e liberale la politica non è tutto ma è di tutti (pag.68);
l'antitesi dello stato liberale è lo stato paternalistico, l'antitesi dello
stato democratico è lo stato assoluto: tant'è che, ad esempio, Rousseau,
scrittore democratico, non si può annoverare fra gli scrittori liberali (cit.,
pag.116). Sono nemici del riformismo tanto lo stato paternalistico quanto lo
stato assoluto; ma anche il neo-liberalismo che auspica uno stato insieme
minimo (nell’antitesi stato minimo/stato massimo) e forte (nell’antitesi stato
debole/stato forte, cit. pag.122). Il socialismo liberale, osserva Bobbio,
parte invece dalla stessa concezione individualistica ma costruisce un diverso
progetto di contratto sociale che include principi di giustizia distributiva
(cit., pag.124).
Le distanze incolmabili che separano il riformismo dai suoi nemici, sono
riassunte da Bobbio in un passaggio del suo Profilo ideologico del Novecento
italiano (op.cit.), in cui l'elemento centrale che emerge è il rapporto fra
riformismo e democrazia (il riformismo come forza viva e vitale della
democrazia) e, viceversa, l'elemento antidemocratico che è sempre presente nei
nemici del riformismo e che ha trovato nel nazionalismo il suo momento di
massima espressione ideologica. Scrive Bobbio:
"Tra l'antidemocrazia dei conservatori e quella degli eversori vi era
una differenza non soltanto di accento ma anche di sostanza: gli uni credevano
nel metodo della libertà, gli altri solo in quello della forza. Costoro erano
insieme conservatori (nel loro odio furibondo per il socialismo e nella difesa
ad oltranza della classe borghese) e sovversivi (nella esaltazione della guerra
e nella predicazione della violenza). Come tali erano l'antitesi del socialismo
riformista che era progressista e pacifista e credeva nel progresso sociale
attraverso l'esercizio del metodo democratico. Naturalmente erano ferocemente
antipositivisti, e guardavano con l'occhio del conservatore a Pareto, con
quello del sovversivo a Sorel. Il luogo di confluenza di tutte le tendenze del
conservatorimo eversivo fu il nazionalismo" (cit., pag.54).
Il populismo è il "pifferaio
dell'antipolitica" (Amato, cit., prefazione pag.VII); il termine,
osservano Meny e Surel (Populismo e democrazia,
op.cit.), è ambiguo, non è riconducibile ad alcun sistema di pensiero nè alla
distinzione destra/sinistra, ed è strettamente correlato alle istituzioni
democratiche, di cui accetta i valori ma ne critica le realizzazioni pratiche,
i partiti ed i loro esponenti politici, "in una sorta di gioco al rialzo
delle aspettative democratiche" (cit., pag.35).
La democrazia, osservano i due autori, si caratterizza per la tensione continua
fra due componenti fondamentali, il costituzionalismo che deriva dalla
tradizione liberale e che, aggiungiamo noi, ispira le politiche genuinamente
riformiste, e l'elemento popolare/populista, che risale addirittura al pensiero
greco: il demos greco era peraltro molto ristretto, escludeva donne,
stranieri, schiavi (cit., pag.21).
Il termine "popolo" può avere un significato positivo (popolare)
oppure negativo (populista), il populismo seduce, corrompe, manipola le
opinioni, provoca; al contrario, la giurisdizione (corte costituzionale, regole
elettorali, procedure) ed il moltiplicarsi di autorità autonome di regolazione
(agenzie, banche centrali, "governance" multilivello come l'Unione
Europea) limitano l'elemento popolare estendendo e rafforzando nel contempo le
garanzie per i cittadini, l'espansione dei diritti ma anche del mercato e
riducono i margini di azione dei politici, che sempre meno riescono ad essere i
"signori degli orologi" (cit., pag.55); la democrazia contemporanea
si caratterizza perciò per un paradosso, cresce da un lato la responsabilità politica
mentre dall'altro si riduce il campo della politica: "piove, governo
ladro!" (cit., pag.56).
I movimenti populisti, a cominciare dagli Stati Uniti (Jackson, il People’s
Party, ecc., pag.177), riusciranno tuttavia ad influenzare i sistemi politici sin
dalla fine dell'Ottocento, inserendo nelle costituzioni degli stati elementi di
democrazia diretta, elezioni primarie, referendum, iniziative popolari, il
sistema del city-manager, ecc. La democrazia populista rigetta i vincoli ed i
poteri bilanciati del liberalismo e del riformismo, ma non riesce a produrre
storicamente nulla di positivo (peronismo, terrore giacobino, ecc., pag.60).
Il movimento populista contesta il sistema monetario, rifiuta le divisioni (in
particolare quella fra destra e sinistra), si caratterizza spesso per un
linguaggio reazionario e xenofobo, è contro la globalizzazione, contro le
elites al potere di cui sottolinea la distanza dal popolo, è contrario al
sistema elettorale rappresentativo, alle cui elezioni però partecipa ugualmente.
Il populismo si alimenta della debolezza dei partiti politici, della
personalizzazione della politica (ha bisogno di capi carismatici), dello
sviluppo dei media ed in particolare della "videopolitica", e
raccoglie le frustrazioni derivanti soprattutto dai problemi della
disoccupazione e dell'immigrazione (cit., pagg.85-97).
Il leader populista conta più del partito, anche a livello locale, i media si
sostituiscono ai partiti come strumenti di selezione dei politici e di
mobilitazione dell'opinione pubblica; frasi brevi, contenuti vaghi, slogan
semplici e ripetuti, manicheismo, provocazioni caratterizzano ormai
indifferentemente sia i discorsi dei politici che quelli dei populisti, sempre
più vincolati al mezzo televisivo che richiede emozioni, colpi ad effetto,
ragionamenti brevi. Il populismo, identificando il leader col popolo, rischia
in realtà di cancellare quest'ultimo, e di farlo in nome del popolo stesso
(cit., pag.119).
Contrariamente al principio del mandato imperativo, osservano ancora Meny e Surel,
la rappresentanza politica in Occidente funziona nella misura in cui ispira
fiducia: sono motivi di delusione l'incapacità dei governanti, le promesse non
mantenute, le violazioni etiche (cit., pag.147 e seguenti); l'isolamento
sociale e l'insicurezza, ancor più che la variabile solo economica, generano risentimento
e consenso ai movimenti ed ai partiti populisti.
Il populismo divide i rappresentanti dai rappresentati: elites contro popolo,
grandi contro piccoli, i politici diventano "classe politica" e
"politicanti" (cit., pag.159). Il populismo non conosce moderazione,
è intransigente, radicale, antisistema ma anche semplicistico, retorico e
preconcetto, non ha un corpo dottrinale coerente, è anti-intellettuale e spesso
anche antiscientifico, in quanto basato su pregiudizi; il "popolo"
diventa una sorta di frontiera che esclude sia gli stranieri che gli organismi
sovranazionali, è una comunità particolare il più delle volte neppure reale ma
immaginata solo in astratto, lo stesso termine "popolo" è polisemico:
popolo-sovrano, popolo-classe, popolo-nazione (cit., pagg.172-173 e 257).
È più facile allora definire il populismo in negativo, come negazione di
qualcosa ed esclusione di qualcuno, piuttosto che in positivo, per quello che
propone; il populismo si contrappone al contrattualismo, al costituzionalismo,
al liberalismo, alla divisione dei poteri, e naturalmente anche al riformismo;
ha rapporti stretti sia con la destra che con la sinistra: esistono partiti
populisti antistatali, partiti di sola protesta che esaltano la "funzione
tribunizia", partiti nazionalisti, tutti comunque caratterizzati dalla
forte presenza di leaders carismatici che ne condizionano esistenza e futuro, e
da pochi temi centrali fra cui spiccano, come si è detto, quelli dell'immigrazione,
dell'insicurezza, della globalizzazione intesa come minaccia (pagg.246, 255 e
seg.).
Strettamente collegata ai movimenti populisti e
più in generale di protesta è la folla che, secondo Gustave Le Bon (Psicologia
delle folle, op.cit.), è tale non solo per la vicinanza spaziale degli
individui (bastano pochi individui per fare una folla), ma per una sorta di
unità mentale, un'anima collettiva che annulla le personalità coscienti (folla
psicologica, pag.46 e seguenti); essa è in primo luogo una forza distruttiva,
un elemento di disordine. L'azione inconscia delle folle riesce a sostituirsi
all'attività cosciente degli individui, scompaiono spirito critico e facoltà di
osservazione (pagg.29, 36, 67).
Sono caratteri delle folle (cit.,pag.52 e seguenti): omogeneità, mediocrità,
potenza (distruttiva), irresponsabilità, suggestionabilità, interesse
collettivo, annullamento della personalità cosciente, impulsività,
immaginazione deformante (allucinazioni collettive, pag.65 e 72-73),
intolleranza, impunità, abnegazione, idee semplici e traducibili in immagini,
generalizzazioni, giudizi imposti e mai discussi, predominio dell'irreale sul
reale (immaginazione popolare, pagg.95-96; illusioni, pag.144), trasformazione
delle simpatie/antipatie in adorazione/odio e quindi idolatria, fanatismo,
culto (pag.100 e seg.). In nessun'altra epoca, osservava Le Bon alla fine
dell'Ottocento, le folle "innalzarono tante statue ed altari, come
nell'ultimo secolo" (pag.103).
Gli oratori che vogliono sedurre una folla devono "esagerare, affermare,
ripetere e mai tentare di dimostrare alcunchè con il ragionamento"
(pag.76): non contano i fatti ma come vengono presentati (pag.98); sono i
cambiamenti nelle opinioni quelli più importanti, e per quanto riguarda queste
ed i sentimenti, le differenze di intelligenza non contano: il potere delle
parole dipende dalle immagini che evocano e non dal loro significato reale, che
peraltro cambia da epoca ad epoca e da popolo a popolo (pagg.31-32, 51, 135,
147 e seg.).
Opinioni e credenze sono determinate da fattori remoti quali razza, tradizioni,
tempo, istituzioni, educazione (pag.111 e seg.) e da fattori immediati
(affermazione, ripetizione, contagio, prestigio, pagg.163-167 e seg.). La
storia umana è caratterizzata dalla creazione di tradizioni (civiltà) e dalla
loro distruzione (progresso); ogni popolo è "un organismo creato dal
passato" (pag.113) e l'educazione è il solo mezzo di intervento
disponibile. L'arte di governo, secondo Le Bon, "consiste soprattutto nel
sapiente uso delle parole" (pag.140 e 238).
Giurie ed assemblee parlamentari possono prendere decisioni che i loro singoli
membri disapproverebbero se fossero soli (pag.56 e pag.239); le folle hanno
bisogno di capi, dotati di carisma, uomini d'azione e di prestigio più che di
pensiero (pag.152 e seg., pagg.175-176). Le Bon individua folle omogenee
(sette, caste, classi) ed eterogenee (anonime e non anonime), folle criminali,
folle elettorali: il dominio delle folle porta al ritorno della barbarie
(pag.196 e seg.).
Le opinioni sono momentanee e mutevoli, le credenze permanenti e durevoli: la stampa
aiuta a far conoscere opinioni diverse, e quindi a combattere la tirannia delle
folle (pagg.178-187 e seg.).
Lo scopo dei rivoluzionari professionisti,
osserva Tomas Maldonado (La speranza progettuale, op.cit.), è
solitamente quello di prendere il potere, non quello di fare le rivoluzioni: i
loro discorsi sono espressivi, pro-gestuali, non operativi, non progettuali; i
rivoltosi di tutti i tempi (anabattisti, millenaristi, mistici, anarchici,
ecc.) amano le rivolte più che il mondo a cui esse potrebbero dare origine
(pag.111). Essi estetizzano la politica: "per il piacere, senza
dubbio disintossicante, di una 'tragischer Monat' (Munster 1532), di una
'semana tragica’ (Barcellona 1909), o di una 'semaine de Mai’ (Parigi 1968),
essere disposti a compromettere la realizzabilità di un'azione sicuramente meno
turbolenta, ma probabilmente molto più efficace" (cit., pag.112).
Ma il dissenso, quando rinuncia alla speranza, quando è sprovvisto di
progetti, non solo non è pericoloso per le forze del consenso, ma può anzi
divenirne una forma più sottile (pag.66).
L'incontro fra il nichilismo culturale ed il nichilismo politico
dà origine al nichilismo progettuale; scrive Maldonado: "la storia
della crudeltà (o della crudeltà nella storia) ci insegna che quando, per cause
oggettive o soggettive, la condanna non è stata possibile, si è giunti prima o
poi all'applauso, quasi sempre attraverso una fase transitoria di
indifferenza" (pag.44). Ridere, in questo contesto, "può anche essere
un rifiuto a pensare (...) Ad Auschwitz si è arrivati a poco a poco: la beffa
sui suicidi degli ebrei era il passo che preparava la beffa sull'omicidio
diretto contro gli ebrei" (pagg.44-45).
Luciano Pellicani, nel saggio Mondolfo e la rivoluzione russa (in L’umanesimo
socialista di Rodolfo Mondolfo, cit., pagg.19-25), dimostra come il
marxismo generi fisiologicamente il potere totale e come il comunismo,
sopprimendo il mercato, cancelli ogni forma di pluralismo; scrive Pellicani:
"il problema del passaggio dal pluralismo liberal-democratico al
pluralismo socialista può essere risolto solo a condizione di socializzare i
mezzi di produzione senza abolire il mercato", dando vita ad una forma di socialismo
autogestionario come fu indicato da Proudhon, ma anche da Merlino,
Bernstein, Rosselli.
Jean-Jacques Rousseau, scrittore democratico, è
tuttavia considerato uno dei padri spirituali dei moderni totalitarismi: ne Il
contratto sociale egli osserva infatti che il corpo sociale forzerà ad
essere libero chi si rifiuta di obbedire alla volontà generale, la quale
è inalienabile e indivisibile, e tende all'uguaglianza (cit., pagg.67-74); la
volontà generale si distingue dalla volontà di tutti, che è una somma di
volontà particolari, richiede l’eliminazione delle società particolari ed è
quindi totalitaria (cit., pagg.159-160).
Secondo Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo, op. cit.), gli
elementi fondanti del totalitarismo sono il terrore, l'ideologia,
la superfluità , l'estraniazione; la legalità è ciò che
caratterizza le monarchie e le repubbliche, l'illegalità è ciò che caratterizza
invece le tirannidi, il terrore, il totalitarismo.
Il terrore si manifesta nel regime totalitario soltanto dopo l’eliminazione dei
nemici reali, quando comincia la caccia ai cosiddetti nemici oggettivi:
"qualsiasi delitto costruito dai governanti per via di ragionamento deve
essere punito, a prescindere dal fatto che sia stato o no realmente
commesso" (cit., pag.585). I nemici vengono individuati ideologicamente
come portatori di tendenze: "a causa della loro capacità di pensare
gli uomini sono sospetti per definizione" (cit., pag.589).
Amnesty International, nel libro Omicidi politici governativi
(op.cit.) descrive il potere della morte dei Khmer Rossi in Cambogia in questi
termini:
"Risulta da tali testimonianze che le
uccisioni non erano semplicemente un atto di vendetta portato a termine nel
momento caldo della vittoria, ma l'attuazione di direttive del governo
centrale. (...) Le uccisioni nei confronti degli ex ufficiali e funzionari di
Lon Nol riguardarono anche le loro famiglie. Venivano giustiziati mogli e figli
allo scopo di evitare che potessero diventare oppositori del nuovo governo.
Alle uccisioni di ex membri della precedente amministrazione seguirono presto
le esecuzioni dei membri della 'borghesia’ e dell' 'intellighenzia’. Le
considerazioni che erano alla base di questa pratica sono riflesse in un
documento emesso dall'Ufficio Esecutivo del Comitato di Partito per la Regione
Orientale:
'Dobbiamo accrescere la vigilanza rivoluzionaria rispetto a quegli elementi che
hanno servito la macchina amministrativa sotto il regime precedente, quali
tecnici, professori, medici, ingegneri e altro personale tecnico. La linea del
nostro Partito è quella di non impiegare queste persone in nessun ruolo. Se
corriamo appresso a questa tecnologia, sentiremo che loro sono sottomessi e che
noi li utilizziamo, ma ciò può creare la possibilità ai nemici di infiltrarsi
nelle nostre fila più profondamente con ogni anno che passa e questo è un
processo pericoloso.'
In linea con questo orientamento, gli intellettuali, spesso identificati
rozzamente con tutti quelli che portavano occhiali, venivano individuati in
vista di un trattamento particolarmente duro e in molte regioni del paese
venivano giustiziati in maniera sommaria. Molti rifugiati hanno riferito che,
dall'inizio del 1976, intellettuali, studenti, insegnanti, spesso descritti dai
Khmer Rossi come 'i privi di valore’, scomparivano dal posto di lavoro e si
presumeva che fossero uccisi. Un ex quadro dei Khmer Rossi ha richiamato come,
nella provincia di Kompong Cham, si decise ‘di arrestare ”i privi di valore”, e
cioè gli intellettuali, gli insegnanti e gli studenti che avessero superato la settima
classe. il paese doveva eliminarli. Era questa la decisione del Comitato
Centrale, così come era stata una sua decisione quella di eliminare i soldati
nel 1975 e 1976'."
All'interno del sistema industriale sovietico, osserva Galbraith ne Il potere militare negli Stati Uniti (cit.), una burocrazia militare-industriale era intenta a perpetuarsi e ad accrescere il proprio potere; ma una burocrazia di questo tipo ha bisogno di persone istruite, con la conseguenza di generare al proprio interno individui che le faranno resistenza. Inoltre la burocrazia, osserva ancora Galbraith, si rivela incapace di reagire agli attacchi dopo i guai causati, come fu negli Stati Uniti dopo i disastri della Baia dei Porci e del Vietnam: l'esercizio del potere non può essere difeso e, al momento della resa dei conti, i burocrati come pure i dittatori, i monarchi, gli zar, i grandi capitalisti, i capi sindacali, sono tutti ugualmente incapaci di difendersi.
Hannah Arendt individua come nemici del
totalitarismo la spontaneità, l'imprevedibilità delle azioni e dei
comportamenti individuali, la libertà d'iniziativa (intellettuale, artistica,
ecc.), le relazioni sociali quali la famiglia, gli amici, ecc.
Il dominio totale è possibile teoricamente solo su scala mondiale, ma contiene in
sè sempre gli elementi della propria distruzione in quanto si basa sullo
sradicamento, sulla superfluità, sull'isolamento e sull’estraniazione: il nuovo
inizio, fuori dalle logiche totalitarie, è in realtà "garantito da ogni
nuova nascita" (cit., pag.656).
9-5 UTOPIA CONTRO RIFORMISMO ?
Le utopie, scrive Bronislaw Baczko, sono immagini-guida,
idee-forza, talvolta verità premature, utili a mobilitare energie
collettive e ad orientarne le speranze (L'utopia, cit.,
Prefazione pag.XI e pagg.3-4).
Ci sono sei modi, osserva Baczko, di "parlare al futuro": utopia,
profezia, divinazione, previsione, futurologia, fantascienza; le utopie sono
dunque modalità in cui si esplica l’immaginazione sociale, ma esprimono anche
ossessioni, attese e rivolte di una certa epoca, ciò che in essa viene
considerato possibile o impossibile: eu-topos ovvero regione della
felicità e della perfezione, ou-topos ovvero regione che non esiste in
alcun luogo (pag.9).
Il vero politico è colui che sposta i limiti del possibile: l'immaginazione è
fondamentale per l'uomo sociale, gli permette di uscire dalla propria limitata
individualità ed ha reso possibili le istituzioni sociali stesse (pagg.85-94).
L'idea di storia-progresso diventa la promessa dell'utopia, l'età
dell'oro è davanti a noi e non dietro di noi: esistono utopie della città,
della sessualità, del sistema carcerario, della festa, che sconfinano in
progetti di riforma, in politica, nella scienza: una realtà dell'immaginario
(cit. pag.457).
Secondo Martin Buber, alla base delle utopie vi è il desiderio di giustizia contrapposto al dolore e alla critica per la situazione presente (Sentieri in utopia, cit., pag.16); l'utopia può essere sociale ma anche tecnica, può contenere proclami ed appelli e talvolta ha assunto il carattere della profezia apocalittica come il marxismo. Le rivoluzioni però, osserva Buber, ottengono risultati opposti a quelli desiderati e permettono la nascita non del nuovo ma solo di ciò che è già stato concepito nella società prerivoluzionaria, e che la storia recente ha mostrato in tutta la sua drammaticità. Peraltro, osserva ancora Buber, "non è lecito definire utopistico qualcosa in cui non abbiamo ancora messo alla prova la nostra forza" (pag.15).
Herman Kahn e Anthony J.Wiener, nel libro L'anno 2000 (op.cit.), hanno evidenziato come congetture
sistematiche intorno al futuro possano essere costruite proiettando
variabili-chiave quali la popolazione, il grado di istruzione, il pnl, la forza
militare, le fonti di energia, ecc.
Le proiezioni permettono di descrivere un "mondo standard" e
"variabili tipiche", le sequenze ipotetiche di eventi (processi
causali e decisioni) possono determinare diversi scenari, futuri
alternativi possono essere costruiti per discutere altri scenari o
confrontare alternative politiche.
Un problema della speculazione di lungo periodo è però che nessun evento è più
probabile di numerosi altri eventi possibili, e che in ogni momento possono
manifestarsi spostamenti o anche punti di svolta, il ritmo delle innovazioni
può non modificarsi ma anche subire accelerazioni o saturazioni; ogni studio
sul futuro lontano è così destinato ad una veloce obsolescenza: il film 2001-Odissea
nello spazio mostrava uno scenario di inizio secolo profondamente diverso
da quanto è effettivamente successo proprio nell'anno 2001, caratterizzato non
da esplorazioni spaziali ma, purtroppo, da un tragico 11 settembre all’insegna
di un fondamentalismo religioso che si pensava fosse tramontato da secoli.
La storia, osservano gli Autori, non si può ripetere ma può parafrasarsi.
L'idea del futuro migliore del passato, l’idea di progresso, ma anche le
eresie utopistiche e l’idea di paradiso in terra, è un’idea dominante in
Occidente e si è diffusa nel mondo intero proprio per l'influenza della cultura
occidentale; il punto finale è la conclusione di un processo teleologico basato
sia su tendenze attuali che sulla convinzione della sua raggiungibilità
attraverso la programmazione o l'ingegneria sociale. Il riformismo è pertanto,
in massima parte, e sicuramente in quella parte che più ci interessa (il riformismo
democratico), un prodotto della cultura politica occidentale.
Questo fatto va tenuto ben presente, perché spiega le difficoltà che incontra
l’applicazione di questo metodo politico a paesi di cultura diversa da quella
occidentale: la sua esportazione, come pure l’esportazione della democrazia,
non è così semplice e, soprattutto, può riuscire solo in un arco temporale
sufficientemente ampio; la democrazia, e il riformismo democratico, non si
possono imporre per decreto.
James Meade propone una Agathotopia come "un
buon posto dove vivere" (Agathotopia, op.cit.,
pag.7), in alternativa all'utopia che, al contrario, propone istituzioni
perfette per cittadini perfetti.
L'economia di Agathotopia non è pianificata ma fondata sul metodo della partnership
(cfr. anche l'Introduzione di Edwin Morley-Fletcher, pagg.IX-X), metodo
che viene considerato come una possibile soluzione del problema distributivo
che il socialismo della pianificazione ha posto, ma che non è riuscito a
risolvere.
Meade immagina la cooperazione tra lavoro e capitale, immagina certificati
azionari del capitale, capital share certificates equivalenti ad azioni
liberamente negoziabili, e certificati azionari del lavoro, labour share
certificate vincolati allo status di socio lavoratore, con un
consiglio d'amministrazione paritario, un presidente con voto decisivo, la
condivisione del rischio d'impresa diffuso ma moderato da una "rete di
sicurezza", il superamento del principio della parità di salario a parità
di lavoro o principio di differenziazione (pagg.62 e seg.).
In Agathotopia il cittadino potrebbe disporre di più fonti di reddito: salario
fisso, partecipazione al profitto d'impresa, dividendo sociale derivante
dall'attivo del bilancio pubblico, reddito derivante dalle proprietà equamente
distribuite fra pubblico e privato (cit., pagg.66 e 91). Il sistema fiscale
grava sul reddito speso, incentivando profitti ed investimenti, ma anche su
eredità e donazioni; i diritti ereditari sono infatti per Meade un residuo
feudale (introduzione, pag.XXI).
Le rivoluzioni moderne, osserva in proposito Salvatore Veca, "generano
Stato": alla teoria della monarchia assoluta del XVII secolo è seguita la
teoria del partito unico del XX secolo; alla nozione di società perfetta
occorre invece sostituire quella di società migliore (Crisi della democrazia
e neocontrattualismo, cit., pagg.40-51).
Interessante è poi il tema che potremmo chiamare
impropriamente dell’utopia spaziale, che rientra a pieno titolo nella
storia del riformismo del XX secolo grazie soprattutto alla Nuova Frontiera
di Kennedy, che fu all’epoca il tentativo di spostare la competizione fra Stati
Uniti ed Unione Sovietica dal campo dell’escalation militare a quello
dell’esplorazione spaziale; dopo il crollo del comunismo, la “gara” per la
conquista del cosmo è venuta meno, ma è iniziata una nuova collaborazione
internazionale che, sia pure su scala più modesta e silenziosa, sta portando
avanti alcuni progetti di esplorazione e di sperimentazione nello spazio.
Negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo le prospettive della
colonizzazione extra terrestre apparivano invece assai più imponenti rispetto
ad oggi e, per certi aspetti, anche decisive per le sorti stesse dell’umanità;
in un libro del 1976, Colonie umane nello spazio
(op.cit.), Gerard K.O’Neill evidenziava come le limitate dimensioni della Terra
creano quattro problemi principali: la scarsità di energia (con conseguente
riduzione della libertà di movimento, povertà, inquinamento), la scarsità di
cibo, la scarsità di spazio vitale, la crescita della popolazione con tutti i
mali connessi al numero (criminalità, corruzione, sporcizia, malattie,
alienazione, cit. pag.49). Piccoli programmi di aiuto sono inutili, il non fare
è un'azione che condanna alla fame milioni di individui, e secondo O’Neill
occorre invece affrontare su larga scala povertà ed ignoranza, con un programma
di sviluppo che si può realizzare pienamente solo fuori dalla Terra (pag.40).
Gli obiettivi della colonizzazione dello spazio sono strettamente connessi
all'aumento della popolazione mondiale, che solo in questo modo non avrebbe
bisogno di essere regolamentata aumentando la libertà e le opzioni per ogni
essere umano "senza guerre, fame, dittature o costrizioni" (cit.,
pag.42); nel contempo, l'umanizzazione dello spazio consentirebbe l'accesso a
energia illimitata e a basso costo, territori illimitati, risorse materiali
"disponibili senza rubare o uccidere o inquinare" (cit., pag.43).
L'emigrazione nello spazio non deve essere però un viaggio di sola andata: deve
poter valere infatti l’ "opzione del ritorno a volontà " (cit.,
pag.54).
O’Neill esclude la colonizzazione di altre superfici planetarie, soprattutto a
causa degli svantaggi gravitazionali (pag.47); la notte lunare e la sua gravità
rappresentano ostacoli all'insediamento (pag.149), inoltre sulla Luna mancano
alcuni materiali che sono invece presenti in quantità negli asteroidi
(pag.197). Le radiazioni solari possono poi fornire tutta l'energia necessaria:
"l'energia nucleare sulla Terra non può competere con l'energia solare
nello spazio" (pag.65).
Un forte tasso di sviluppo industriale per lungo tempo che non danneggi
l'ambiente richiede infatti energia solare illimitata, risorse quasi illimitate
(dagli asteroidi), delle localizzazioni nello spazio che siano vicine alla
Terra. I processi industriali sono avvantaggiati dalla gravità zero; la
rotazione simula la gravità, O’Neill evidenzia (nel 1976) che sono già
disponibili tecnologie per realizzare habitat grandi come metà Svizzera, con
aree per l'industria, per l'agricoltura, per il soggiorno e la ricreazione
(pagg.74-79).
Nello spazio è possibile un'agricoltura intensiva biologica, libera da
parassiti (pagg.60 e 81), caratterizzata da doppia semina (sovrapposizione di
due cicli di crescita), da raccolti multipli (piante a stelo alto con piante
basse), da un clima stabile e temperature ideali che consentono di realizzare
più raccolti l'anno.
Le guerre territoriali sulla Terra sono impensabili nelle comunità spaziali; in
un habitat spaziale, inoltre, molti pericoli tipici della Terra non esistono:
terremoti, vulcani, cicloni, uragani, tifoni, incidenti automobilistici, atti
terroristici (pagg.121-122).
La colonizzazione dello spazio interplanetario rende "immortali" in
senso fisico, perché rende indipendenti da possibili catastrofi terrestri
(pag.204); inoltre, ognuno avrà la sensazione dell'importanza del proprio
lavoro, non vi sarà disoccupazione, gli ambienti dovranno essere confortevoli
(pag.233). In una certa fase della crescita, "gli scambi fra le isole
nello spazio cominceranno a dominare sull'economia 'coloniale’ degli scambi con
la Terra" (pag.242); il "commercio estero" garantirà nel lungo
termine il successo economico delle comunità spaziali (pag.261).
A lungo termine, infatti, l'industria di base sulla Terra non potrà competere
con quella nello spazio, O’Neill immagina "una Terra non industriale con
una popolazione di circa un miliardo di abitanti" in cui l'industria
principale sarebbe proprio il turismo dallo spazio (pag.276).
Con la crescente automazione della produzione, nello spazio l'uomo potrà
intervenire solo in campi dove servono creatività ed immaginazione:
"architettura del terreno, degli edifici e forse nuove specialità
artistiche come progettazione del tempo ed ecologia creativa" (pag.267).
Le comunità spaziali avranno una densità di popolazione decrescente,
l’abbondanza di energia e di materie prime, economie senza inflazione, una
durata della vita più lunga per l'ottimizzazione di atmosfera, temperatura,
radiazione solare e minore rischio di morti accidentali; gli anziani e coloro
che sulla Terra sono costretti a letto avrebbero libertà di movimento in zone a
gravità vicina allo zero (pagg.270-271).
Per innescare il processo produttivo nello spazio occorreranno comunità
spaziali abbastanza grandi (nell’ordine delle migliaia di persone, pag.124):
"costruire industrie nello spazio a partire da materiali terrestri sarebbe
assurdo" (pag.141); sulla Terra siamo infatti "svantaggiati
gravitazionalmente" (pag.158).
L'umanizzazione dello spazio, osserva ancora O’Neill, è opposta allo spirito
delle utopie classiche, caratterizzate da costrizione interna e libertà da
interferenze esterne; i viaggi saranno più frequenti di quanto lo siano oggi
sulla stessa Terra perché il loro costo sarà molto più basso, non vi saranno
restrizioni tecnologiche: "l'umanizzazione dello spazio non è un tema
utopistico" (pagg.245-247), sebbene ciascuna comunità spaziale potrà
diventare un laboratorio sociale indipendente.
La libertà di avere tanti figli, di comunicare, di viaggiare, di scegliere
l'impiego: nello spazio sarebbero associate ad una crescita delle superfici
anzichè ad un maggiore affollamento, le risorse che possono essere recuperate
dagli asteroidi sono infatti enormi e permettono la costruzione di territori
con superfici migliaia di volte superiori a quella della Terra (pagg.258-259).
L'umanizzazione dello spazio, conclude O’Neill, è "un'avventura ancora più
affascinante delle grandi esplorazioni del passato" (pag.307).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
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principes du droit politique, ed. Bur Rizzoli, Milano 1991)
10- RIFORMISMO E CASI CRITICI
10-1 RIFORMISMO E “CASI CRITICI”
Sebastiano Maffettore, nel libro Il valore
della vita (op.cit.) osserva che il progresso scientifico e tecnologico
aumenta il controllo sociale sui momenti di inizio e di fine della vita e con
ciò aumenta le responsabilità umane introducendo decisioni di merito che
richiedono di giustificare scelte drammatiche che in epoche passate non
costituivano materia di decisione alcuna. Una caratteristica comune dei dilemmi
morali è infatti la difficoltà di costruire argomenti decisivi e conclusivi.
La bioetica confronta diritti morali contrapposti (del feto e della madre,
della ricerca libera e della tutela del patrimonio genetico) e presuppone
l'argomento politico perché le decisioni che ne derivano producono effetti socialmente
rilevanti.
Maffettone distingue la micro-bioetica, che comprende l’etica medica, la
discussione sui casi controversi, sulla ricerca, ecc., dalla macro-bioetica,
che si occupa invece di questioni di giustizia distributiva applicata alla
sanità (cit., pag.173).
In bioetica contano gli argomenti e non l'autorità da cui promanano (pag.278),
e talvolta il metodo migliore per decidere è votare (pag.314).
Il pluralismo culturale è infatti inevitabile, è oggi implausibile una morale
universalistica come voleva l'Illuminismo, giustificabile solo razionalmente;
il problema è stabilire un minimo di etica comune fra stranieri morali,
constatato che non esistono argomenti morali vincenti in modo definitivo.
Giustificare significa allora dare buone ragioni, difendibili con argomenti
plausibili e capaci di influenzare la volontà (pag.156).
La soluzione dei casi critici dipende dalla nostra idea di valore della vita
(pag.29), idea che è una creazione umana, non appartiene al mondo naturale e
può essere intesa in due modi: come autorealizzazione, o come rispetto
(pag.129).
Diamo un valore economico alla vita allorchè decidiamo di destinare risorse a
certi settori della sanità piuttosto che ad altri; valutazioni analoghe vengono
prese dagli assicuratori in sede di risarcimento danni, o quando si decide di
viaggiare in modo più o meno sicuro (pag.94).
Secondo Maffettone, la qualità della vita è un elemento fondamentale
rispetto al suo valore: salute, beni primari, relazione con gli altri, stato
mentale dignitoso.
Per porsi il problema della difesa della vita non umana occorre prima chiedersi
chi è soggetto morale e perché: le varie posizioni sulla vita possono essere
antropocentriche o biocentriche, ed entrambe possono essere radicali o moderate
(pag.83); si va dall’estremo dell’ottimismo tecnologico secondo cui
scienza e tecnologia nel tempo trovano rimedi anche ai loro stessi guasti,
all’estremo opposto del biocentrismo radicale caratterizzato da atteggiamenti
fondamentalisti e che è incompatibile con l'etica pubblica.
Il costruttivismo, osserva ancora Maffettone, "fa dipendere una
visione della realtà da una procedura di costruzione" (cit., pag.84) e si
pone come intermedio fra realismo e idealismo; le teorie consequenzialiste,
fra cui vi è l'utilitarismo, sono invece teleologiche: l'obbligo e il giusto
dipendono da ciò che è buono, solitamente definito come valore non morale o
extramorale (pag.140); il comunitarismo (Sandel, MacIntyre, Walzer,
Taylor) sostiene invece che i giudizi morali sono concepibili solo da partecipanti
e non da osservatori (pag.194).
L'etica individuale può prevedere linee di condotta ottimali, l'etica
pubblica richiede invece soluzioni intermedie di decenza morale
(pag.142); inoltre, i giudizi etici dipendono dal contesto sociale, vi è una
sorta di relativismo etico in cui sono importanti l'accordo semantico
(intendersi sul significato delle parole), la massima informazione fattuale, la
ricerca di controesempi.
L'etica pubblica liberale considera fondamentali l'autonomia, cioè far
valere le proprie scelte e visioni considerando quelle altrui, l'integrità,
ovvero la coerenza nel tempo, e la beneficenza utilitarista, ovvero
l’attenzione per il benessere altrui.
Il liberale è un non fondamentalista perché prende sul serio le opinioni
altrui; lo stato liberale è neutrale perché permette la convivenza di
differenti visioni del mondo e concezioni morali e, precisa Maffettone, è
"una conseguenza del pluralismo delle concezioni del bene nell'ambito di
una concezione liberale della giustizia" (pag.187). L'ipotesi empirica di
base è che istituzioni giuste generino fiducia e stabilità.
10-2 PRINCIPI MORALI IN CAMPO BIOETICO PER IL RIFORMISMO
Anche Guy Durant osserva che la
bioetica è un luogo politico (La bioetica, op.cit., pag.29).
Durant distingue i principi dalle regole: i primi (i principi) sono pochi e
indeterminati, le seconde (le regole) sono invece molteplici, variabili e
precise.
Sono principi di base della riflessione bioetica (pag.42 e seguenti):
a) il rispetto per la vita, che è l'unico principio che conta dal punto
di vista vitalistico: tutti gli altri punti di vista parlano infatti di qualità
della vita;
b) il principio di autodeterminazione, fondato sull'autonomia della
persona: questo principio richiede che il consenso debba sempre essere
libero e informato, tranne che in casi ben individuati (il consenso del malato
non è sufficiente ad esempio per legalizzare l'eutanasia).
Sono regole classiche della riflessione bioetica:
a) il precetto non uccidere, che però può ammettere importanti
eccezioni che sono oggetto di controversie morali: legittima difesa, pena
di morte, guerra giusta;
b) la responsabilità etica di promuovere la salute: in positivo, con
alimentazione corretta, riposo sufficiente, cure non onerose; ma anche in
negativo escludendo il ricorso a mezzi straordinari, fisicamente umilianti,
psicologicamente dolorosi, dal rischio o dal costo eccessivo: i mezzi devono
essere infatti proporzionati in relazione al soggetto, ai progressi
della medicina, alla situazione sociale;
c) l’integrità fisica: è però giustificato sacrificare un organo per
salvarne la persona;
d) un atto a duplice effetto (uno positivo e l'altro negativo) è da
considerarsi morale se l'atto in questione è buono o almeno indifferente, se
l'intenzione di chi agisce è rivolta al solo effetto positivo, se l'effetto
positivo discende dall'atto e non dall'effetto negativo (altrimenti il fine
giustificherebbe i mezzi), e se la ragione per compiere l'atto è proporzionata
al rischio (non esistono altri mezzi).
Durant elenca anche alcuni principi derivanti dalla tradizione ippocratica:
a) il principio del beneficio: primum non nuocere, il passo
successivo è il dovere di fare del bene al malato;
b) il principio di benevolenza o empatia, che comporta confidenzialità
(fiducia) e segreto medico.
Vi sono poi alcuni nuovi principi, anch’essi importanti per la
riflessione bioetica:
a) l'universalizzazione: tale è la teoria kantiana nonchè regola aurea
delle religioni, che stabilisce di non fare agli altri quel che non vorresti
fosse fatto a te;
a) l'utilitarismo;
c) l'uguaglianza: l'età del paziente, i suoi mezzi economici, la sua
origine razziale, la sua religione non devono essere ad esempio condizioni di
discriminazione;
d) giustizia ed equità: favorire i più svantaggiati (l'uguaglianza
delle opportunità di Rawls) con la garanzia di accesso ai servizi. Durant
osserva in particolare come la teoria della giustizia di Rawls si proponga di
"trovare un equilibrio armonico fra l'uguaglianza di fondo degli esseri
umani e le differenze di fatto esistenti fra di loro" (cit., pag.90).
La definizione di vita umana è ambigua, si parla infatti di vita umana
biologica ma anche di vita umana personale, come pure il momento della sua
origine; il problema di decidere quando applicare il termine persona (ad
embrioni, feti, neonati malformati, disabili psichici, pazienti in coma) ha un
profilo filosofico ("sono effettivamente delle persone?") ma ha anche
un profilo giuridico: "bisogna riconoscere loro dei diritti? diritti
identici a quelli degli altri?" (cit., pag.82).
Inoltre, per la riflessione bioetica è importante sapere che:
a) anche esseri umani non riconosciuti come persone possono venir rispettati;
b) in circostanze determinate, trattamenti ritenuti inutili possono essere
interrotti anche ad una persona umana pienamente riconosciuta.
Secondo Durant non è comunque lecito moralmente fare tutto quello che è
possibile tecnicamente e la legislazione, per essere efficace, "dovrebbe
avere respiro internazionale" (cit., pag.98).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Guy Durand, LA BIOETICA (ed. Mondadori, Milano
1996)
- Sebastiano Maffettone, IL VALORE DELLA VITA, (ed. Mondadori, Milano 1998)
11 RIFORMISMO E PROGRESSO MORALE
11-1 ESISTE UN “PROGRESSO MORALE”?
Esiste un progresso morale? La domanda non
è futile, e neppure fuori luogo per l’argomento che stiamo trattando in questa
sede: l’idea stessa di riformismo presuppone quella di un miglioramento
graduale, non solo sul lato del benessere materiale, ma anche su quello dei
principi morali.
Il corso degli eventi, osserva Bertrand Russell (Autorità e individuo,
op.cit.) è imprevedibile a causa delle nuove conoscenze: nessuno avrebbe
mai potuto prevedere prima la Chiesa Cattolica o l'Unione Sovietica: "ogni
profezia relativa all'avvenire dell'umanità dev'essere trattata solo come un'ipotesi"
(cit., pag.42). Eppure per Russell un progresso morale esiste, inizia con la
universalizzazione della morale, che prima era solo tribale, e si manifesta nei
confronti della schiavitù, dei prigionieri di guerra, dei padri e mariti, delle
razze (pag.51). La tecnica moderna ha reso possibile lo stato totalitario, dove
i "novatori morali" non possono esistere: i regimi totalitari sono
infatti fatali al progresso morale, che è invece protesta e tentativo di
accrescere la solidarietà, e che sono possibili solo in un contesto
democratico.
La morale personale e quella civica, osserva ancora Russell, sono entrambe
necessarie: "senza una morale civica le comunità periscono; senza una
morale personale, la loro sopravvivenza non ha alcun valore" (pag.119). La
sfera dell'azione individuale non è eticamente inferiore rispetto a quella
pubblica; vi è una eccellenza privata, e le migliori attività umane sono
personali, non sociali: profeti, poeti, scienziati sono uomini solitari
(pag.122).
Per Russell, in cultura una condizione di progresso è la diversità, la
concorrenza non deve essere economica e militare ma intellettuale e culturale
(pag.116), va combattuto ogni regno scolastico dell'autorità (pag.104).
Robert J. Forbes (L'uomo fa il mondo,
op.cit.) osserva come la storia dell'uomo e della sua conquista della natura
sia una storia di invenzioni e di scoperte più che di azioni politiche
(pag.15), ed è una storia ascendente: qualsiasi invenzione parte dalle
conoscenze già acquisite, l'inventore è ricco di immaginazione, riesce a
precedere i suoi contemporanei ma solo di poco perché legato al loro stesso
passato ed al loro stesso presente (pag.17).
La storia delle invenzioni dimostra inoltre l'identità dell'umanità, nessun
gruppo o nazione possiede infatti la chiave della conoscenza; lo sviluppo
scientifico implica la fraternità internazionale del pensiero scientifico
(pag.372): nessuna scoperta può rimanere a lungo segreta, i limiti geografici e
politici sono stati superati, "l'aeroplano, il telefono, il telegrafo e la
radio hanno istituito possibilità di comunicazioni molto più ampie di quelle
consentite dalla parola scritta" (pag.373, e noi potremmo aggiungere oggi
che Internet le ha ulteriormente amplificate). Il progresso della scienza è
legato ad altri aspetti dell'attività umana: "ciascuna generazione si
trova di fronte a una nuova serie di problemi, caratteristici del suo tempo,
cui può trovare risposta solo elaborando una scienza e una tecnica sue
proprie" (pag.374). Valori spirituali e progresso materiale devono perciò
necessariamente svilupparsi insieme.
Per Forbes, tre fenomeni caratterizzano la storia dell’umanità dal XIX secolo:
la progressiva concentrazione delle popolazioni nelle città, lo sviluppo di
regioni industriali (e l'espansione della siderurgia), l'espansione del
commercio mondiale (pag.304).
Lo sviluppo della tecnica e la produzione standardizzata hanno avuto
conseguenze dirette sul nostro livello di vita; scrive Forbes:
"l'americano del 1776 disponeva dell'aiuto di un servitore per due
settimane all'anno, mentre oggi è padrone di sessanta schiavi" (pag.362);
la maggiore energia prodotta viene utilizzata principalmente per riscaldamento,
illuminazione, trasporto, alimentazione, elettrodomestici: i più poveri di oggi
non muterebbero le loro condizioni materiali di vita coi più ricchi del XVIII
secolo (pag.362).
I progressi in passato avvenivano per tentativi ed errori, la ricerca
scientifica produce ora risultati che derivano invece da lavoro sistematico,
specializzato, collettivo, nella sfera universitaria: "la chiave del
progresso umano sta nella cooperazione invece che nella competizione"
(pagg.363-374).
L'equivoco tecnocratico, osserva Lester R.Brown (I limiti alla
popolazione mondiale, op.cit.), assimila invece il progresso materiale a
quello morale.
Secondo Claude Lévi-Strauss (Razza e Storia,
op.cit.), l'umanità non evolve a senso unico, anche quando la sua storia appare
stazionaria o regressiva potrebbero esservi grandi trasformazioni in corso da
un altro punto di vista: il progresso è infatti un concetto sempre
predeterminato dal gusto e dal giudizio dell'osservatore.
La civiltà mondiale è oggi un fatto unico nella storia umana, ma l'adesione al
genere di vita occidentale non è stata spontanea perché gli occidentali hanno
imposto ovunque soldati, missionari, piantagioni, banche e il proprio modo di
esistenza; la civiltà occidentale si caratterizza per fenomeni compensatori:
cerca di accrescere la quantità di energia procapite, ma genera disuguaglianze;
cerca di proteggere e prolungare la vita umana, ma contempla la guerra.
Le forme di storia più cumulative, osserva Lévi-Strauss, sono quelle prodotte
non da culture isolate ma da relazioni fra culture, attuate con i mezzi più
diversi: influenze, scambi commerciali, migrazioni, guerre.
L'Europa rinascimentale fu il luogo di incontro delle influenze più diverse:
greca, romana, germanica, anglosassone, araba, cinese; le civiltà precolombiane
erano caratterizzate da stupefacenti progressi ma avevano molte lacune, gli
antichi messicani conoscevano la ruota ma non il carro: la più grande tara che
possa affliggere un gruppo umano è quella di essere solo.
La nozione di civiltà mondiale, secondo Lévi-Strauss, è povera,
schematica, di modesto contenuto intellettuale ed affettivo; essa non può
essere che una coalizione di culture, ciascuna con la propria originalità. La diversificazione,
in forme variabili e su piani diversi, permette quello stato di equilibrio da
cui dipendono la sopravvivenza culturale e biologica dell'umanità; il progresso
non è perciò "somiglianza migliorata" ma implica avventure, rotture,
scandali.
Karl Lowith, in Significato e fine della storia,
argomenta l'impossibilità di una filosofia della storia, o storicismo;
l'idea che la storia universale possa essere interpretata alla luce di un
principio, ed abbia un significato ultimo, è di derivazione teologica (cit.,
pag.21). Voltaire introduce l'idea di progresso moderato, condizionato
dal prevalere o meno della ragione (pag.133); Hegel, invece, fu un
"profeta alla rovescia" che vedeva il compimento della storia nel suo
mondo di allora, ancora circoscritto alla vecchia Europa (pag.80).
Le filosofie della storia, osserva Bobbio nel libro Il problema della guerra
e le vie della pace, (op.cit.) nascono con le catastrofi dell'umanità, fra
le quali la guerra ha "un posto preminente" (pag.31); è lo spettro
della guerra atomica a togliere significato alla storia ed alle filosofie della
storia, ed inoltre smentisce tutte le teorie del progresso (pagg. 32-40 e 77).
L'immagine più appropriata della condizione umana è perciò per Bobbio quella
del labirinto, la cui unica lezione è quella della strada bloccata:
la storia non si fa con i se, le sue vie sono obbligate
(pagg.31-34).
Storicamente, nei rapporti internazionali prevale la coppia guerra-disordine,
in quelli nazionali pace-ordine (pag.123); tuttavia, nella visione
globale della storia, la pace ha un valore superiore alla guerra: "nella
sua necessità la guerra è pur sempre un male, nella sua insufficienza la pace è
pur sempre un bene" (pag.135).
La politica viene definita da Kant (Per la pace perpetua, op.cit.) dottrina
pratica del diritto e la morale dottrina teoretica del diritto
(pag.123): ne deriva la figura del politico morale, mentre è invece da
escludere quella del moralista politico, che costruisce una morale
"a partire dagli interessi dell'uomo di Stato" (pag.127).
John C. Harsanyi osserva invece come per gli utilitaristi la moralità non sia
il valore più alto della vita umana (come per Kant) ma solo un mezzo per
realizzare altri fini (L’utilitarismo, op.cit., pag.103): la grande
fedeltà a valori morali si sposa spesso col fanatismo morale, una società sana
ha invece bisogno di motivazioni altruistiche ed egoistiche, opportunamente
equilibrate (pag.131).
Il codice morale utilitarista dà uguale peso a priori agli interessi
legittimi di ogni persona, giudicandone l'importanza con criteri simili a quelli
del senso comune, evitando di applicare regole di priorità rigide, artificiali:
regole meccaniche e semplicistiche infatti non possono tener conto della
complessità dei dilemmi morali, e spesso portano a scegliere soluzioni
sbagliate e discriminatorie (pagg.127-133).
Le regole morali possono essere interpretate allora come imperativi ipotetici
(pag.68), e la scala (micro e macro situazioni), secondo Harsanyi, non è una
variabile importante in etica (pag.134).
11-2 IL PROGRESSO MORALE COME PREMESSA DEL RIFORMISMO
Giuliano Pontara, in Crisi della democrazia e
neocontrattualismo (op.cit.), individua alcune preferenze fondamentali:
ad essere in vita, a non soffrire, a formarsi autonomamente le preferenze, da
cui discendono per ciascuno i diritti alla vita, alla salute,
all'autonomia (pagg.108-112). Nello stesso volume, Norberto Bobbio
evidenzia come gli argomenti a difesa dei diritti fondamentali siano
condizionati storicamente e pertanto non si può escludere una "evoluzione
etica dell'umanità " (pag.117).
L'espressione diritti umani , osserva Sebastiano Maffettone, ha
sostituito quelle precedenti dei diritti naturali sottolineando così la
loro storicità e la loro non assolutezza (Il valore della vita, op.cit.,
pag.87).
La storia della tolleranza, in particolare, è la storia della lotta contro
l'autoritarismo e il totalitarismo, è la storia della conquista della libertà e
del diritto di autodeterminazione degli individui e dei popoli.
La democrazia e la pace presuppongono una tolleranza forte (positiva) ed
una intolleranza debole (negativa); l'autoritarismo, il totalitarismo e
la guerra impongono, al contrario, condizioni di intolleranza forte. La
realtà delle democrazie capitalistiche, secondo Bobbio, sembra invece essere
quella di un eccesso di tolleranza in senso negativo, un eccesso di lasciar
fare, di indifferenza o neutralità nei confronti delle tesi e delle ragioni
addotte dall'avversario.
Si pone allora il problema del rapporto tolleranza/intolleranza, che non è mai
un "gioco a somma zero", verso l'intolleranza altrui: è
giustificabile un atteggiamento di tolleranza nei confronti degli intolleranti
?
Non esiste un criterio definitivo, sostiene Bobbio, per stabilire a priori se
l'atteggiamento nei confronti dell'intollerante debba essere di tolleranza
oppure di intolleranza: soluzioni storiche favoriscono ora l'una ora
l'altra soluzione.
Il problema della tolleranza o intolleranza verso l'errore (e l'errante)
è un problema di giustificazione: si tratta di enumerare le buone ragioni
della tolleranza e di contrapporle alle cattive ragioni
dell'intolleranza; il problema della tolleranza o intolleranza verso il diverso
è, al contrario, un problema di discriminazione. L'intolleranza verso l'errore
è questione di scetticismo, l'intolleranza verso il diverso è questione
di fanatismo.
Le nostre convinzioni di base, osserva Adam
Seligman ne L’idea di società civile, derivano dalle rivoluzioni
settecentesche; tra esse, vi è l'idea di società civile che armonizza bene
sociale e interesse individuale, altrimenti conflittuali (cit., pagg.7-11).
Sono rapporti problematici, e non coincidenti (pag.42), quelli fra
pubblico/privato, individuale/sociale, interesse del singolo/etica pubblica,
"passioni individuali e questioni pubbliche" (pag.15).
Nella seconda metà dell'Ottocento l'attenzione si focalizza sull'idea di
cittadinanza; in Europa il movimento socialista è il più importante tentativo
"di allargare la base di appartenenza e di partecipazione alla società
" (pag.118), l'esclusione più che la disuguaglianza economica è alla
radice dello sviluppo dei movimenti socialisti europei.
La società civile veniva vista talora come un'illusione che mascherava
l'esclusione, in altri casi come un modello non attuato. Negli Stati Uniti,
poi, il cambiamento veniva elaborato dai movimenti sociali, non dai partiti
politici (pag.127); i movimenti ecologisti e femministi hanno per oggetto
richieste che prima erano considerate "di natura non politica"
(pag.19).
I concetti di società civile e di cittadinanza sono complementari: la
cittadinanza ha diverse dimensioni analitiche (aspetti politici, civili,
sociali, pag.129), una interpretazione più ampia (estensione ed
universalizzazione della cittadinanza, pag.141) riconosce i diritti sociali (la
solidarietà comune) in aggiunta ai diritti individuali, civili e politici.
Dai diritti del cittadino si è poi passati ai diritti umani; alcuni diritti non
sono diritti civili (come il diritto alla riproduzione, a indossare una
pelliccia, a portare armi da guerra) ma "passioni e interessi privati
proiettati in ambito pubblico sotto forma di diritti" (pag.152): il
privato si sostituisce al pubblico e diviene oggetto di interesse pubblico,
azione e pensiero politico fanno diventare di interesse pubblico le questioni
private e personali, l'esagerazione del privato è concomitante alla
svalutazione dell'ambito pubblico (pag.157).
Seligman evidenzia l'importanza della fiducia precontrattuale nella
società, che si basa sull'idea di individuo morale della tradizione liberale e
che precede e l'idea dei diritti, e l'idea di promessa ed i suoi derivati
contemporanei (pagg.194-207); la società civile propone la nozione di
personalità legale ed etica su cui si fonda una concezione moderna della
fiducia nella società. L'idea classica di società civile comportava una società
ridotta, la fiducia era assicurata dalla conoscenza personale (pagg.200-208).
Le persone sono cittadini di stati nazionali e non del mondo; le politiche di
immigrazione ed i rapporti economici, legali e politici fra gli stati
influenzano la vita dei cittadini di ciascun stato (pag.213). Il bene sociale
si può far risalire alle tradizioni delle singole comunità umane (posizione
comunitaria), oppure ad un'idea di diritti o di giustizia (posizione
universalista): l'idea di solidarietà universale è una contraddizione nei
termini, la solidarietà è sempre solidarietà con (qualcosa o qualcuno),
diversa da altre; giustizia e solidarietà sono in conflitto: "fiducia e
reciprocità comune, per avere un significato, in un certo senso devono sempre
avere in sé una componente di esclusione (se non una componente
particolaristica)" (pag.217). Il problema fondamentale della cittadinanza
moderna, e della società civile, è la sintesi fra interesse privato e bene
pubblico, fra giustizia e solidarietà.
L'espressione società civile ha un diverso significato nell'Europa
dell'Est e dell'Ovest, e l'esistenza moderna in generale si caratterizza per
contraddizioni e tensione fra interessi particolari e interessi universali, fra
individualismo e comunità (pag.228).
11-3 UN SISTEMA DI VALORI PER IL RIFORMISMO
Secondo Bertrand Russell (Autorità e individuo,
op.cit.) politica, economia, organizzazione sociale sono solo mezzi per rendere
buona la vita degli individui: "una società buona è un mezzo per una vita
buona di coloro che la compongono, e non è qualcosa che abbia, per proprio
conto, una sua specie separata di eccellenza" (pag.126).
Per Russell gli scopi primari del governo sono tre (pag.94):
- sicurezza (sicurezza medica, protezione contro lo Stato stesso e
contro Stati ostili), per raggiungere la quale è necessario un unico governo
mondiale il cui solo scopo è quello di impedire la guerra (pagg.95-106);
- giustizia (democrazia politica, eguaglianza economica);
- conservazione (delle risorse naturali).
La sicurezza è un fine negativo, dovuto alla paura, il fine positivo è ispirato
invece dalla speranza; a sicurezza e giustizia vanno posti dei limiti:
"c'è giustizia dove tutti sono egualmente poveri, così come là dove tutti
sono egualmente ricchi, ma sarebbe vano rendere più poveri i ricchi, ove questo
non servisse a rendere più ricchi i poveri" (pag.98).
I problemi vanno frazionati e vanno affrontati quelli non troppo grandi per noi
(il decentramento è necessario, pag.130); Russell propone una devoluzione dei
poteri dello Stato ad organismi geografici, industriali, culturali con propria
autonomia finanziaria: devoluzione dal governo mondiale ai governi nazionali e da
questi ad organismi inferiori (pagg.105 e 116).
Il conflitto fra l'interesse generale e l'interesse del singolo settore di una
società è inevitabile; l'opinione della maggioranza o del governo non sono
infallibili (pagg.71 e 82).
La concrorrenza va regolata: perché nella concorrenza non regolata il perdente
subisce un disastro (fallimento, fame, guerra, morte), mentre in quella
regolata (come nelle competizioni sportive) subisce soltanto una "perdita
di gloria" (pag.75).
La felicità, osserva ancora Russell, non comporta la eliminazione di
ogni pericolo, una vita tranquilla è infatti una vita noiosa; il riformatore
sociale deve cercare mezzi di sicurezza e combinarli con forme di avventura
compatibili col vivere civile: ogni individuo ha bisogno di gloria, i
sogni ad occhi aperti vi sopperiscono ma, se mai si scollegano dalla realtà,
possono produrre squilibri mentali (pagg.19-22).
L'iniziativa individuale può produrre innovatori ma anche criminali; vi è,
secondo Russell, un problema di equilibrio: "troppa poca libertà porta al
ristagno e troppa libertà porta al caos" (pag.46). Per individui
eccezionali vi sono oggi quattro carriere: politica, industria, scienza,
crimine; nell'antichità vi erano anche l'arte e le riforme religiose e morali,
l'artista oggi è onorato ma anche isolato, l'arte non è parte integrante della
nostra vita comunitaria (pagg.48-52).
I grandi profeti, i grandi poeti, i grandi pittori, i grandi compositori sono
emersi da folle di profeti, poeti, pittori, compositori minori che esistevano nel
loro tempo in comunità più piccole rispetto alla nostra epoca, in cui l'uomo
impiega il proprio lavoro per produrre cose utili piuttosto che opere d'arte:
"tutto è organizzato, nulla è spontaneo" (pag.62); oggi siamo attivi
in cose irrilevanti, osserva Russell, e passivi in quelle importanti:
"alcune delle società ingiuste del passato davano a una minoranza delle
opportunità che, se non stiamo attenti, la nuova società che cerchiamo di
costruire potrà non dare a nessuno" (pag.82).
Il lavoro non deve essere infatti solo un mezzo per ottenere un salario
(pag.84), le cose utili sono mezzi per altre cose che hanno valore intrinseco e
non perché sono utili (pag.122).
Artisti e scrittori possono ancora sviluppare iniziative individuali, gli
scienziati invece hanno bisogno oggi di organizzazioni, l'elemento fondamentale
sono perciò le condizioni che determinano chi ha accesso ai mezzi per fare
ricerca (pag.103).
Se il fine è molto desiderato, possono esserlo anche i mezzi per raggiungerlo,
qualora non siano molto distanti dal fine (pag.65); la previdenza (fare oggi
per il domani) caratterizza lo sviluppo mentale, ma i fini contano più dei
mezzi per raggiungerli (pagg.123-124).
La comunità secondo Tonnies (Comunità e
società, op.cit.) è un rapporto reciproco sentito dai partecipanti,
fondato su di una convivenza durevole, intima ed esclusiva.
La vita comunitaria è sentita (implica comprensione, consensus),
durevole, intima (confidenziale), esclusiva; al contrario, la vita
societaria è razionale, passeggera, apparente (come tipo di legame),
pubblica.
Sono forme primitive di comunità:
- il rapporto madre-bambino;
- il rapporto uomo-donna;
- il rapporto tra fratelli.
Delle tre forme primitive di comunità, le prime due sono più istintive, la
terza più umana.
I rapporti di affermazione reciproca, se positivi, danno origine ad
associazioni: la comunità è un'associazione organica (sentita dai
partecipanti), la società è un'associazione meccanica, artificiale e recente.
Tonnies distingue comunità di lingua, di costume, di fede; società di profitto,
di viaggi, di scienze.
La società è il pubblico, il mondo: "in una comunità con i suoi una
persona si trova dalla nascita, legata ad essi nel bene e nel male, mentre si
va in società come in terra straniera" (pag.45). La società implica
delimitazione dei campi di attività e prestazioni reciproche di pari entità
(concetti di scambio e valore).
La comunità è caratterizzata dal diritto familiare, la società dal diritto
delle obbligazioni (pag.229). In società gli individui rimangono "separati
nonostante tutti i legami" (pag.83).
Il potere nella società è a vantaggio di chi lo detiene, nella comunità
è finalizzato all'educazione ed all'insegnamento (pag.62).
La volontà comunitaria implica comprensione (consensus,
che ha natura singola) e concordia (unità di cuore, che ha natura
complessiva). La comprensione deriva dalla conoscenza reciproca che a sua volta
richiede partecipazione e quindi vita comune, e richiede anche somiglianza
(linguaggio).
Sono leggi fondamentali della comunità:
- l'assuefazione (parenti, coniugi, vicini, amici);
- la comprensione;
- la vita comune (concordia).
La comprensione è tacita, "la concordia non può venire costruita"
(pag.65).
La comunità è unità nel differente (pag.61), in essa le diseguaglianze
reali non possono però essere troppo accentuate.
L'amicizia si fonda su un modo di pensare concorde e dalla comunanza di arti e
professioni; i compagni d'arte sono compagni di fede e cooperano ad una
stessa opera (pag.58). I rapporti di amicizia sono i meno istintivi e i meno
condizionati dall'abitudine.
L'uomo si lega con le proprie opere, con il territorio, con la casa (pag.67):
possesso e godimento reciproco di beni comuni caratterizzano la vita
comunitaria (pag.66).
Le trasformazioni, osserva Salvatore Veca,
toccano sia gli interessi che le identità degli individui, e la
politica come discorso è cosa diversa dalla politica come provvedimento
(La politica, perché? op.cit., pagg.157-159).
Le "cerchie di cittadinanza" sono a geometria variabile: italiani,
europei, lombardi; l'inclusione richiede la condivisione di valori comuni, il
comunitarismo di destra è escludente, quello di sinistra includente e si basa
sul principio dell'eguaglianza delle opportunità che richiede interventi
laddove vi siano persone che siano svantaggiate od escluse senza che ne siano
individualmente responsabili.
Il pluralismo (stili ed opzioni di vita) è un valore che arricchisce le società
(pagg.161-164).
La filosofia politica, osserva ancora Veca, è un prolungamento del senso
comune: il problema saliente è quello della giustificazione (La
filosofia politica, op.cit., pag.24); gli argomenti e le teorie filosofiche
sono risposte costruttive alle sfide dell'incertezza, il cui migliore esito
consiste spesso nel suggerire modi alternativi di guardare le cose
(pagg.22-23).
Nelle democrazie costituzionali, in particolare, il problema filosofico
ricorrente consiste nella definizione e ridefinizione dei limiti della politica
e dei confini di ciò che volta per volta è pubblico (pag.14).
Le principali soluzioni al problema dell'incertezza sono:
- l'orientamento nella controversia (la domanda-chiave è: perché le
istituzioni?);
- la riconciliazione (la storia ragionata);
- la costruzione di utopie ragionevoli (riforma sociale).
Pochi sono in grado di dar vita ad una politica, tutti sono in grado di
giudicarla; è la lezione che ci deriva dalla orazione di Pericle: la
discussione non è un ostacolo per l'azione politica, ma è la premessa
indispensabile per agire con saggezza (pag.32). La condivisione, infatti, è fondamentale
per ridurre l'incertezza (pag.107).
La teoria politica, osserva Veca, può essere (pag.26):
- filosofia, ovvero teoria politica normativa o prescrittiva di valori o teoria
del dover essere: tali sono il contrattualismo, il liberalismo, il comunitarismo,
in generale tutte le teorie della giustizia (pag.36 e 67);
- scienza, ovvero teoria politica positiva o esplicativa o descrittiva di
fatti;
- teoria morale, comprensiva, che valuta ogni tipo di azione o scelta ed
include tutto ciò che per noi ha valore (pag.41): tale è ad esempio
l'utilitarismo.
Dal punto di vista metodologico, le principali teorie politiche sono
l'utilitarismo, il contrattualismo, il pluralismo, il libertarismo, il
comunitarismo, e possono essere:
a) teleologiche (utilitarismo): è giusto ciò che massimizza il bene, il bene ha
la priorità sul giusto (pag.41); ovvero deontologiche (contrattualismo,
liberalismo): queste sono basate sulla definizione preventiva del giusto,
indipendentemente dal bene (pag.52).
b) consequenzialiste (utilitarismo, contrattualismo) in cui la valutazione è su
stati del mondo che sono conseguenze attese di scelte o di azioni; ovvero
anticonsequenzialiste (libertarismo): i diritti in questo caso vengono intesi
come vincoli collaterali alle azioni, queste ultime vengono valutate in base
alla loro coerenza ex ante rispetto al principio di libertà negativa e senza
badare alle loro conseguenze sugli stati del mondo (pag.42 e 73).
c) monistiche (utilitarismo, libertarismo), quando vi è un solo criterio di
giustificazione; ovvero non monistiche: tale è il contrattualismo, che
riconosce il pluralismo dei valori, libertà ed equità distributiva i cui
principi vengono ordinati in base ad una regola di priorità (pag.41 e 55).
d) ad approccio aggregativo (utilitarismo): conta l'ammontare di utilità totale
piuttosto che la sua distribuzione (pag.42); ovvero ad approccio distributivo
(contrattualismo).
e) basate sulla procedura maggioritaria di scelta collettiva (utilitarismo):
l'esito sarà quello che soddisfa interessi, preferenze, desideri più intensi
(pag.42); ovvero basate sulla procedura di scelta unanime (contrattualismo,
libertarismo): "giusto è ciò che deve poter essere ragionevolmente
accettato o ragionevolmente non rifiutato da chiunque" (pag.56, tale
procedura assume che vi sia potere di veto da parte di ciascuno).
f) welfaristiche o benesseriste (utilitarimo): ciò che conta sono le
conseguenze valutate in base all'utilità generata; ovvero non welfaristiche:
tale è per Veca il contrattualismo rawlsiano, che riguarda una classe
particolare di risorse, i beni sociali primari (pag.42 e 56).
g) le teorie politiche possono essere basate su criteri esterni di valutazione,
che assumono un punto di vista appunto esterno (o archimedeo) rispetto al
sistema sociale in questione (tali sono l’utilitarismo ed il contrattualismo); ovvero possono essere
basate su criteri interni di valutazione (il pluralismo di Walzer), soggette
però a critiche perché i criteri di giustificazione che dipendono dalle
pratiche sociali finiscono per essere criteri di legittimazione di queste
ultime (pag.83 e 91). La valutazione, poi, può essere ex ante: ad esempio, il
mercato viene giustificato perché garantisce eguali libertà negative; oppure ex
post: sempre nell'esempio del mercato, questo viene valutato in base alle
conseguenze che produce (benessere, efficienza, pag.79).
h) infine, possono essere impersonali (utilitarismo, libertarismo,
contrattualismo ideale di Rawls): il velo di ignoranza impone di valutare in
modo impersonale i principi di giustizia (pag.63); oppure della contrattazione
(contrattualismo reale); oppure storiche.
I conflitti possono essere distributivi (utilitarismo, contrattualismo,
libertarismo) laddove vi è incertezza non degli attori e delle loro identità ma
degli interessi (vantaggi e svantaggi); oppure possono essere per il
riconoscimento (comunitarismo) se vi è incertezza dell'identità collettiva, la
quale è un presupposto per avere certi interessi e preferenze (pagg.107-109).
Da Aristotele (Etica Nicomachea) distinguiamo fra giustizia come rispetto della
legge e giustizia come equità (pag.115); la giustizia come equità, a partire da
Aristotele, può essere distributiva (o retributiva o rettificatrice), ovvero
commutativa (tutela delle eguali libertà individuali). Ne derivano due concezioni
fra loro antagonistiche dei compiti dello Stato: Stato sociale in un caso,
Stato protettivo (soltanto) nell'altro. Anche le interferenze ammesse possono
essere graduate per intensità: i sistemi democratici si caratterizzano per
eguali diritti ma diseguaglianza di redditi e ricchezze (pag.16).
Le principali domande o questioni filosofiche sull'eguaglianza sono:
eguaglianza di che cosa? (risultati, opportunità, risorse, benessere, capacità,
pag.19); ma, ancor prima, perché l'eguaglianza?
Utilitarismo, contrattualismo e libertarismo, osserva Veca, "rispondono in
modi diversi alla stessa domanda: eguaglianza di che cosa?" (pag.81); nel
rispondere a questa domanda, per l'utilitarismo sono prioritarie le preferenze
(benessere), per il libertarismo è prioritaria la libertà negativa (società),
per il contrattualismo sono prioritari i diritti (equità). In particolare,
l'egualitarismo democratico, dopo Rawls, è stato riformulato in un caso come
egualitarismo delle risorse (Dworkin), in un altro caso come egualitarismo
delle capacità (Sen, pag.80).
Occorre inoltre distinguere fra un concetto di giustizia e più concezioni della
stessa quali, ad esempio, l'utilitarismo o la teoria della giustizia come
equità; l'oggetto di una teoria della giustizia, precisa Veca, "coincide
con l'assetto delle istituzioni fondamentali di una società" (pag.50).
Domande o questioni filosofiche cruciali sono: perché le istituzioni? perché
dobbiamo obbedire? Questa, osserva Veca, era la domanda centrale per Hobbes; il
quesito filosofico diventa invece oggi quali istituzioni e non più, come per
Hobbes, istituzioni si oppure no (pagg.23-25); la filosofia politica ci
fornisce criteri di giudizio politico, e cioè criteri per valutare sia le
istituzioni che i provvedimenti politici, "tanto la politica quanto le
politiche" (pag.35).
Se la pratica riformista è complessa, il quadro teorico che le sta alle spalle
lo è ancora di più: dall'analisi di Veca, qui riportata in forma molto
schematica, emerge quindi un quadro teorico variegato che impedisce di
ricondurre il riformismo nell’ambito di un'unica categoria concettuale; le
teorie politiche che stanno a monte degli interventi di riforma possono essere
tanto il contrattualismo, quanto il pluralismo, il comunitarismo ed il
liberalismo; non possiamo escludere a priori neppure il libertarismo e
l'utilitarismo, mentre dal punto di vista metodologico il riformismo è in
massima parte (sebbene non esclusivamente) fondato su teorie deontologiche,
consequenzialiste, non monistiche, ad approccio distributivo, welfaristiche,
basate su procedure di scelta collettiva e sulla contrattazione. Queste
categorie non sono però esclusive nell'approccio riformista, che è vario; e la
varietà concettuale, occorre sottolinearlo nuovamente, non è affatto un limite
dell'azione riformista: in realtà, è la sua forza.
11-4 UNA PROPOSTA DI “DEONTOLOGIA POLITICA”
Quello che propongo in questa sede è un doppio
decalogo di principi cui, a mio avviso, dovrebbe attenersi ogni "attore
politico" che riveste cariche elettive ed incarichi decisionali pubblici.
L'ordine in cui vengono proposti i principi identifica l'importanza dei primi
rispetto agli ultimi ed una sorta di priorità nella loro applicazione, pur
ritenendo che tutti i principi in questione siano altrettanto necessari ad un
corretto, positivo e proficuo svolgimento dell'attività politica.
Si tratta inoltre di principi che interessano il modo di svolgere l'attività
politica da parte di "attori politici" ben identificati, non perciò
il metodo di scelta degli attori stessi, ovvero la legge elettorale: oggetto di
questo doppio decalogo è perciò la "fase due" dell'attività politica
in una democrazia, quella appunto che si svolge dopo il voto degli elettori,
dopo la "fase uno" che si può identificare con la campagna elettorale
e con le regole del voto. La "fase due" interessa perciò solo i
comportamenti ed il modo di operare degli eletti, non quello degli elettori.
L'inosservanza dei principi del "non fare" (il primo decalogo
proposto) produce come conseguenza più probabile l'allontanamento dei cittadini
dalla politica (e quindi l'astensionismo elettorale nella "fase uno")
ovvero, nei casi più gravi, rivolte e rivoluzioni. L'osservanza dei principi
del "fare" produce al contrario l'avvicinamento dei cittadini alla politica,
la loro partecipazione, il loro maggiore coinvolgimento nelle scelte
collettive.
Il presente doppio decalogo è naturalmente parziale e suscettibile di
correzioni ed integrazioni perché, abbiamo visto, il riformismo non è un
sistema concettuale chiuso, e proprio in ciò sta la sua forza; per un
approfondimento ulteriore di alcuni principi qui esposti si rinvia, tra gli
altri, al libro Il Futuro Della Democrazia di Norberto Bobbio (op.cit.).
I) DIECI PRINCIPI DEL "NON FARE"
1) Non usare e promuovere l'uso della violenza, quale che sia: rientra pertanto in questo principio anche il dibattito sulla pena di morte e sulla guerra giusta.
2) Non violare i diritti umani; questo principio va considerato insieme al primo principio del "fare" indicato più avanti.
3) Non discriminare per sesso, lingua, religione, costumi, colore della pelle, età e quant’altro; considerare ogni individuo come fine in sé e non come mezzo per realizzare altri fini (principio kantiano).
4) Non utilizzare il potere politico per favorire interessi personali, familiari, amicali. Verrebbe da dire: non raccomandare.
5) Divieto del mandato imperativo; questo principio del "non fare" va visto unitamente al principio del "fare" proposto più avanti, sempre al punto 5.
6) Non avere bisogno della politica per vivere; strettamente connesso a questo principio è anche il successivo:
7) Non rubare: il principio è ovvio, la sua realizzazione meno, soprattutto perché la politica ha dei costi, al di là dell'onestà/disonestà dei suoi attori, e sono perciò necessarie regole chiare e soprattutto efficaci sulle modalità di finanziamento della stessa (finanziamento pubblico e/o finanziamenti privati).
8) Non rinnovare la propria carica pubblica, quale che sia, per più di due, tre mandati elettorali. La figura del parlamentare "da una vita", del sindaco o dell'assessore o del consigliere "sempre lui" contribuisce all'idea collettiva della politica governata da una "classe" di politicanti, in qualche modo privilegiati, fomenta spinte populiste e frena le potenzialità innovative che possono derivare dal ricambio personale oltre che generazionale. Moltiplicare le esperienze politiche è inoltre utile a ciascun attore politico. Corollario necessario di questo principio è il divieto di cumulo delle cariche: la stessa persona non dovrebbe ricoprire contemporaneamente i ruoli di sindaco (magari di una grande città) e di parlamentare, chi è seduto nel Parlamento nazionale non dovrebbe sedere anche nel Parlamento europeo, ecc.
9) Non formulare false promesse: non c'è nulla di più deleterio per l'immagine politica delle "false promesse"; eppure basta leggere gli ultimi dieci, venti, trenta, quarant'anni di cronaca politica (sia quelle locali che quella nazionale) per rendersi conto di quante e quali siano e siano state le "promesse non mantenute".
10) Non intendere la politica solo come reazione o contrapposizione alle idee, opinioni, decisioni, azioni altrui: questo principio negativo (non fare) implica pertanto la necessità di formulare principi positivi di proposta politica, ovvero di "fare" in propositivo e non solo di "protestare".
II) DIECI PRINCIPI DEL "FARE"
1) Agire per realizzare gli ideali sanciti nella "Dichiarazione Universale dei Diritti dell'Uomo" (Onu, 10 dicembre 1948).
2) Intendere la politica come attività di riforma e non altro: tra il fare ed il non fare è meglio fare; il "non fare" è per definizione la linea politica dei conservatori, sia di destra che di sinistra, ed è incompatibile con la visione riformista della politica.
3) Privilegiare il soddisfacimento dei bisogni dei meno avvantaggiati (principio di differenza di Rawls).
4) Promuovere la libertà individuale e pari opportunità di accesso a diritti e risorse (principio della "libertà eguale").
5) Informare periodicamente i cittadini (ed i propri elettori) sul proprio lavoro svolto e sui risultati raggiunti e da raggiungere: non è bello il comportamento di quegli eletti che, non solo non si curano mai del loro collegio elettorale, ma neppure si fanno vivi nello stesso durante lo svolgimento della legislatura; non vi è nulla di più deleterio per l'immagine politica che essere fisicamente presenti soltanto durante le campagne elettorali.
6) Agire con prospettiva universalistica (Kant) avendo riguardo non solo alla situazione presente ma anche alle generazioni future.
7) Valutare le conseguenze delle proprie azioni e decisioni.
8) Dare ascolto agli specialisti (la democrazia moderna è più efficace se stemperata con un pò di meritocrazia), tenendo però presente che la decisione finale è sempre politica (Kennedy insegna).
9) Rendere pubbliche tutte le proprie decisioni, scelte ed azioni politiche: la segretezza è nemica della democrazia.
10) Agire per ridurre l'incertezza.
Le più significative fonti di incertezza, oggi, sono costituite da:
a) emergenze ambientali (rischi ecologici);
b) malasanità (rischio salute);
c) sicurezza personale (rischio criminalità);
d) sicurezza del posto di lavoro (rischio disoccupazione);
e) sicurezza previdenziale (rischio pensioni);
f) variabilità dei prezzi (rischio inflazione);
g) variabilità dei tassi d'interesse (rischio usura);
h) oscillazioni e perdite nei mercati (rischi patrimoniali);
i) variabilità dei cambi valutari (rischio svalutazione).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Autori vari, LA POLITICA, PERCHE? Riflessioni
sull'agire politico (Donzelli editore, Roma 2001)
- Amnesty International, L'INTOLLERANZA. Uguali e diversi nella storia,
a cura di Pier Cesare Bori (ed.Il Mulino, Bologna 1986)
- Antonella Besussi, LA SOCIETÀ MIGLIORE (ed. il Saggiatore, Milano 1992)
- Norberto Bobbio, Giuliano Pontara, Salvatore Veca, CRISI DELLA DEMOCRAZIA E
NEOCONTRATTUALISMO (ed. Editori Riuniti, Roma 1984)
- Norberto Bobbio, IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA (ed Einaudi, Torino 1984)
- Norberto Bobbio, IL PROBLEMA DELLA GUERRA E LE VIE DELLA PACE (1979/ed. il
Mulino, Bologna 1984)
- Robert J. Forbes, L'UOMO FA IL MONDO (ed. Einaudi, Torino 1960)
- John C. Harsanyi, L'UTILITARISMO, (ed. il Saggiatore, Milano 1988)
- Claude Lévi-Strauss, RAZZA E STORIA (1952)
- Karl Lowith, SIGNIFICATO E FINE DELLA STORIA (1949/edizioni di Comunità,
Milano 1979)
- Sebastiano Maffettone, IL VALORE DELLA VITA, (ed. Mondadori, Milano 1998)
- Bertrand Russell, AUTORITÀ E INDIVIDUO (1949/ed. Longanesi, Milano 1980)
- Adam Seligman, L'IDEA DI SOCIETÀ CIVILE (ed. Garzanti, Milano 1993)
- Ferdinand Tonnies, COMUNITÀ E SOCIETÀ (ed. Comunità, Milano 1979)
- Salvatore Veca, LA FILOSOFIA POLITICA (Editori Laterza, Bari 1998)
12- RIFORMISMO E DEMOCRAZIA
Il riformismo è il sale della democrazia: la
democrazia ha bisogno del riformismo per essere vitale, il riformismo ha
bisogno della democrazia per esistere.
Può esistere la democrazia senza riformismo? La risposta a questa domanda è
affermativa: la democrazia non ha bisogno del riformismo, ma il riformismo
serve alla democrazia, le è utile perché le consente di crescere in termini di consenso;
una democrazia senza riformismo è un sistema in qualche modo monco, inefficace:
perde interesse, e quindi perde elettori e partecipazione, cresce l’area del
non-voto e insieme anche quella del disinteresse, del disimpegno se non del
rifiuto con tutti i rischi connessi (populismo, ecc.).
Può esistere riformismo senza democrazia? La risposta è negativa : no, non può
esistere riformismo senza democrazia; esperimenti di riformismo senza
democrazia si sono risolti o in fallimenti, oppure nel crollo del sistema
politico autoritario nel cui contesto sono stati tentati: il più grande esempio
di riformismo senza democrazia del Novecento è stato la Perestroika di
Gorbaciov, che ha portato al crollo del comunismo in Europa e al dissolvimento
dell’Unione Sovietica.
Norberto Bobbio, in Crisi della democrazia e neocontrattualismo (cit.,
pagg.11-18), osserva come secondo i pensatori classici, da Machiavelli ad
Hobbes a Marx, il potere politico si fondi in ultima istanza sull'uso della
forza fisica; lo stato di diritto prevede norme generali e astratte che
stabiliscono chi, quando, come (con quali procedure) ed in
quale misura (con che proporzione fra delitto e castigo) utilizzare la
forza, che è quindi sia legittima che legale. Col metodo democratico, perciò,
non conta più la forza fisica ma la forza di persuasione, che si manifesta col
dibattito e col voto.
12-2 RIFORMISMO NELLA DEMOCRAZIA
La definizione minima di democrazia, sempre
secondo Bobbio (Il futuro della democrazia, cit.), è quella di un
insieme di regole primarie, che stabiliscano chi può prendere
decisioni collettive e attraverso quali procedure (pag.4); la regola
della maggioranza è la regola fondamentale della democrazia, l'unanimità è
consentita solo nei due casi estremi della decisione molto grave (diritto di
veto) oppure di scarsa importanza (consenso tacito). Le norme costituzionali,
osserva, non sono le regole del gioco, bensì quelle preliminari che consentono
il gioco, mentre stato e mercato sono in primo luogo forme di regolazione
sociale (pagg.6 e 121).
Molte regole del gioco politico sono costitutive: si vota perché esiste una
legge elettorale, così come per i giochi; al contrario, altri comportamenti
come il nutrirsi, l'accoppiarsi, il passeggiare, ecc., sono 'regolantì nel
senso che non richiedono regole che li precedono.
Condizioni preliminari per il buon funzionamento di un sistema democratico sono
i principi della libertà di associazione e della libertà di opinione, la cui
maggiore o minore limitazione determina il grado di democraticità di un sistema
politico (pag.63).
Veto e disobbedienza civile non sono diritti garantiti ma rapporti di forza
(pag.73).
Per governo della legge, sempre secondo
Bobbio, si intendono (pag.154):
- il governo secondo leggi (sub lege);
- il governo mediante leggi (per leges).
Questo per quanto concerne la forma; il contenuto delle leggi può poi essere
egualitario o inegualitario.
Nel governo non delle leggi ma degli uomini prevale la giustizia caso per caso,
che è tipica delle società di diseguali (moglie-marito, figli-padre,
schiavi-padrone), e gli uomini vengono prima delle leggi (il grande
legislatore, il fondatore di stati, il capo carismatico di Weber,
pagg.163-165); il governo degli uomini surroga il governo delle leggi in epoche
di crisi, è strettamente connesso allo stato d'eccezione che in genere è
determinato da una crisi esterna (pag.167). Il potere tirannico, che è extra
legem (illegale), non sempre è eccezionale mentre il potere eccezionale non
sempre è corrotto (pagg.158 e 168). La democrazia è invece "il governo
delle leggi per eccellenza" (pag.170).
Henry Summer Maine, osserva Bobbio, identifica le società arcaiche come società
di status e le società evolute come società di contractus; gran
parte delle decisioni collettive nelle società poliarchiche vengono prese per
mezzo di negoziati che si concludono con accordi, il contratto sociale è uno
strumento di governo e non più solo un'ipotesi razionale: "la vita
politica si svolge attraverso conflitti non mai definitivamente risolti, la cui
risoluzione avviene attraverso accordi momentanei, tregue, e quei trattati di
pace più duraturi che sono le costituzioni" (pag.128).
In democrazia i partiti sono necessari, e la logica privatistica dell'accordo è
alla base dei loro rapporti; abbiamo pertanto (pagg.132-134):
- un diritto privato pattizio;
- un diritto costituzionale pattizio;
- un diritto internazionale pattizio.
Gli accordi che derivano da rapporti di tipo contrattuale sono però labili e
generano instabilità (pag.145). Il divieto di mandato imperativo diviene nei
fatti impraticabile, e Bobbio distingue il grande mercato (accordi fra partiti)
dal piccolo mercato (cittadini elettori clientes dei partiti): nel voto
di scambio si stabilisce un rapporto di do ut des fra elettore ed eletto
(pagg.126-136).
La democrazia, scrive Bobbio in Quale
socialismo? (op.cit.), è una pratica: "un insieme di regole (le
cosiddette regole del gioco) che consentono la più ampia e più sicura
partecipazione della maggior parte dei cittadini, sia in forma diretta sia in
forma indiretta, alle decisioni politiche, cioè alle decisioni che interessano
tutta la collettività " (cit., pag.42).
In quanto metodo, la democrazia così definita ha un valore
strumentale o estrinseco (pag.81).
Ma la democrazia moderna presenta alcuni paradossi:
- si richiede sempre più democrazia in condizioni sempre più sfavorevoli
(pag.46): la democrazia assembleare è ingannevole in quanto ratifica decisioni
prese da esecutivi la cui investitura è carismatica; non bisogna confondere
infatti il governo del popolo con il governo per il popolo
(pag.71);
- più democrazia finora ha sempre voluto dire più burocrazia (pagg.46-47);
- tecnocrazia (governo dei competenti) e democrazia (governo di tutti) sono
incompatibili; scrive Bobbio: "il protagonista della società industriale è
lo scienziato, lo specialista, l'esperto; il protagonista della società
democratica è il cittadino qualunque, l'uomo della strada (...) la democrazia
si regge sull'idea-limite che tutti possano decidere di tutto" (pag.49);
- la politica è azione e non strumento od opinione, il processo democratico
contrasta con la società di massa, caratterizzata invece da conformismo
generalizzato e da manifestazioni di massa (pagg.50-52).
Il potere autocratico è molto più diffuso del potere democratico, anche
nelle società democratiche: è significativo, sottolinea Bobbio, "che le
richieste di maggiore democrazia che oggi vengono fatte dai più diversi
movimenti vadano tutte nel senso di promuovere l'occupazione di spazi riservati
sinora all'esercizio di un potere autocratico" (pag.100).
I giudizi assiologicamente positivi sul metodo democratico possono essere
ricondotti, secondo Bobbio, a tre prospettive fondamentali (pag.77):
- la prospettiva etica presuppone la libertà positiva o libertà come
autonomia, che è insieme un valore ultimo (indeducibile) ed un valore-limite
in quanto la sua realizzazione concreta è sempre inadeguata (pag.78); secondo
l' argomento etico la democrazia è l'attuazione politica del valore supremo
della libertà.
- La prospettiva politica argomenta invece che la democrazia è il più
importante rimedio all'abuso di potere, ed il potere politico, chiarisce
Bobbio, "è il massimo potere (...) di cui un uomo, o un gruppo, possa
disporre in una determinata società" (pag.78); secondo l' argomento
politico la democrazia è quindi una difesa da abusi e prevaricazioni,
perché in essa legislatore e destinatario coincidono (pag.137).
- La prospettiva utilitaristica, infine, si basa sulla considerazione
che i diretti interessati siano i migliori interpreti dell'interesse
collettivo, ed è la prospettiva più contestata: "è sin troppo facile
obiettare infatti che il singolo non vede al di là del proprio naso, e che
l'interesse collettivo non è mai la somma degli interessi individuali (posto
che questa somma si possa fare)" (cit., pag.79).
Il problema della partecipazione è essenzialmente un problema di forme
(pag.19); i "vizi congeniti" ad ogni forma di partecipazione
democratica sono la partecipazione manchevole o apatia politica, e la partecipazione
distorta o manipolazione del consenso (pag.102).
La democrazia è sovversiva (pag.53): "se l'emancipazione politica non è
sufficiente, è pur sempre necessaria (...) non vi può essere emancipazione
umana che non passi attraverso l'emancipazione politica. La quale richiede lo
sviluppo, l'estensione, il rafforzamento di tutte le istituzioni da cui è nata
la democrazia moderna" (pag.65).
Secondo Bobbio, i momenti di statu nascenti rientrano nella categoria
dello stato di necessità o di emergenza, per la quale il metodo democratico non
vale (pag.74).
Nel libro Stato, governo, società (cit.) Bobbio propone varie
distinzioni nel concetto di democrazia (pag.127):
- democrazia degli antichi e democrazia dei moderni; quest'ultima implica
l'associazionismo, ovvero la funzione pubblica riconosciuta dei partiti
politici (pag.143);
- democrazia rappresentativa e democrazia diretta;
- democrazia politica e democrazia sociale;
- democrazia formale e democrazia sostanziale.
Inoltre: forme buone e cattive di governo; forme di governo determinate dal
numero dei governanti; deliberazioni prese a maggioranza (che sono a somma
zero), deliberazioni prese attraverso accordi (che sono a somma positiva,
pag.109).
Lo sviluppo della democrazia oggi è la sua estensione alla sfera sociale ed
alle sue forme di potere ascendente, dalla scuola alla fabbrica (padre/figlio,
coniuge, imprenditore/dipendente, insegnante/studente, genitore/studente,
medico/malato, ufficiale/soldato, amministratore/amministrato): "può
benissimo darsi uno Stato democratico in una società in cui la maggior parte
delle sue istituzioni, dalla famiglia alla scuola, dall'impresa ai servizi
pubblici, non sono governate democraticamente" (pag.148). Indice di
sviluppo democratico è il numero di sedi in cui si esercita il diritto di voto,
oltre a quelle politiche: dove si vota piuttosto che chi vota.
John Dunn, nel libro La teoria politica di
fronte al futuro (op.cit.), rileva come da un lato la democrazia abbia
radici esili, dall'altro come tutti oggi, in teoria, siamo democratici:
"la teoria democratica è il gergo ufficiale del mondo moderno"
(pag.27); la virtù (e l'ipocrisia che l'accompagna) di uno stato moderno è
quella di essere democratico.
Mentre in passato la democrazia era una forma molto particolare di regime (nel
XVIII secolo il termine democrazia era utilizzato come antitesi ad
aristocrazia), oggi costituisce le buone intenzioni dei governanti ed è
un riconoscimento simbolico all'ideale dell'eguaglianza politica (pagg.19-29);
la democrazia diretta è oggi impossibile, la collina di Atene è stata
sostituita dai dibattiti nei mass media (pagg.31-32).
La democrazia in senso forte è un modello astratto, un nome di ciò che vorremmo
ma che non possiamo avere: i cittadini ateniesi (una minoranza) avevano
l'eguale diritto ad essere ascoltati dall'assemblea sovrana prima di prendere
decisioni pubbliche, le democrazie capitalistiche sono invece "strumenti
imperfetti per scongiurare sorti peggiori" (pag.45).
Siamo tutti democratici, oggi che non possiamo più organizzare democraticamente
la vita sociale per la sua complessità (pag.53); qualsiasi distribuzione
politica (decentramento, ecc.) è oggi a somma zero (pag.107). Inoltre, il
facile eudemonismo delle società capitalistiche avanzate non si può estendere
alla totalità del mondo senza una radicale riorganizzazione e senza modificare
il concetto di felicità che esse incoraggiano (pag.187).
Il potere, secondo Dunn, non è altro che "la facoltà di scegliere cosa
fare" (pag.178), che è anche una definizione possibile di libertà umana:
gli esseri umani sono soggetti liberi, soggetti fallibili e perciò anche
moralmente fallibili; pertanto non vi sono certezze sul futuro, anche morale,
della nostra specie (pag.179). La ragione deve esercitare l'egemonia sulle
passioni, ma non ci sono meccanismi automatici che possano liberare la storia
umana dal rischio morale, "il potere non può essere messo al riparo,
isolato dalla facoltà di nuocere" (pag.183).
Il presente, osserva ancora Dunn, è il tempo politico meno significativo
eppure è di grande motivazione politica (pag.107).
L'antitesi al liberalismo non è il socialismo ma sono il conservatorismo e
l'autocrazia; il metodo di analisi del liberalismo è l'individualismo
(individualismo metodologico) in cui l'individuo ha una connotazione positiva
(identità), mentre per l'individualista è negativa perché disconosce gli
interessi altrui (pagg.55-62).
Dunn giudica positivamente la teoria economica marxista, anche se non può
essere ragionevolmente separata dalla sua teoria teleologica, che è sbagliata e
che oltretutto tenta di mettere insieme, nella rivoluzione, giustizia e
violenza (l'assassinio di massa è necessario quando l'utopia non si realizza,
pag.145). Inoltre, la teoria marxista gioca sull'equivoco, non spiega come
possano essere compatibili nello stato post-rivoluzionario la democrazia
solidarista e la repressione centralizzata (pag.162).
Siamo collettivamente incapaci di realizzare un modo di produzione alternativo
a quello capitalistico (pag.146); inoltre oggi viviamo in una comunità mondiale
e non serve costruire un'isola morale in un oceano immorale: "il problema
centrale per la specie è una versione grandiosa e sconcertante del dilemma del
prigioniero" (pag.155).
Non abbiamo ancora concepito un modo, come specie, di trascendere gli
stati-nazione; il nazionalismo oggi è solo un costume ed è uno scandalo
morale perché la cultura etica ufficiale del mondo è universalistica
(pagg.97-108).
In parte il sentimento nazionalista è assimilabile alla preferenza di sè (solo
noi possiamo tifare per noi stessi), il processo di liberazione nazionale è
servito per la stessa nascita socio-culturale delle nazioni (pagg.111-117); noi
oggi pensiamo la politica in termini di allocazione (produzione e
distribuzione) e non di violenza, il nostro è un nazionalismo
economico: siamo tutti nazionalisti, il nazionalismo è un adattamento alla
praticabilità (pagg.118-133). Dunn distingue il nazionalismo culturale
all'interno ed all'esterno: il nazionalismo è morale quando protegge gli interessi
e la cultura locale, è immorale quando li impone ad altri fuori dai confini
(pagg.124-130).
C.B.Machperson, in La vita e i tempi della
democrazia liberale (cit.), individua un doppio significato della parola liberale:
1) libertà del più forte secondo le reogle del mercato ("liberale"
come "capitalista");
2) eguale libertà di ciascuno per sviluppare le proprie capacità (liberali
etici).
La democrazia liberale tenta di conciliare i due significati, che però sono in
contrasto fra di loro; la democrazia stessa viene intesa talvolta come procedura
(per scegliere governi, fare leggi e prendere decisioni politiche), talvolta
come una qualità, come un tipo di società e di relazioni sociali (democrazia
partecipativa). Machperson distingue anche la democrazia utopistica,
adattata ad una società senza classi (in Rousseau, Thomas More, Winstanley,
pag.12 e seg.) dalla democrazia liberale, sorta a partire dal XIX
secolo; e diversamente dalle teorie democratiche anteriori al XIX secolo, le
teorie liberal-democratiche sottintendono il rapporto di tipo capitalistico, e
quindi la divisione in classi della società. Fino al XIX secolo, peraltro, le
donne erano escluse dalla società civile e dall'idea stessa di classe sociale.
Machperson individua tre modelli consecutivi di democrazia liberale, cui
aggiunge un quarto modello "di prospettiva" (pag.23 e seg.).
- Il modello di democrazia protettiva (Jeremy Bentham, James Mill) fu
caratterizzato dall'estensione del diritto di voto come garanzia contro
l'oppressione dei governanti e dalla subordinazione delle rivendicazioni di
eguaglianza a quelle di sicurezza (della proprietà); l'altalena di Mill
sulla discrepanza fra il principio del suffragio universale e quello
dell'esclusione dal voto (di donne, poveri, ecc.) è discusso a pag.43 del libro
di Machperson: le sole giustificazioni della democrazia furono in questo
modello la protezione degli individui e la promozione della produzione
capitalistica.
- Il modello di democrazia di sviluppo fu introdotto da John Stuart Mill
a seguito dell'attivismo crescente della classe lavoratrice e prevedeva come
obiettivo della democrazia il miglioramento dell'umanità, un modello morale
secondo cui la società democratica è insieme mezzo e risultato di un progresso
verso una società più libera e più giusta (pagg.47-49). L'uomo non è solo un
consumatore ed un appropriatore, ma ha proprie capacità che solo la democrazia
gli consente di sviluppare (confronto democrazia-totalitarismo, pag.50). Perciò
la società esistente non andava accettata come tale, e Mill auspicò lo sviluppo
di cooperative di produttori ma propose anche un sistema di voto plurimo
che dava pesi politici diversi a cittadini diversi, per impedire una
legislazione classista (pagg.59-61).
La funzione pratica di un sistema partitico, osserva Machperson, è anche quella
di ridurre il conflitto fra classi sociali, sia nel bipartitismo come nel
pluripartitismo, attraverso la ricerca di compromessi da parte del governo sui
conflitti d'interesse nel paese (pag.67; partito come mediatore fra interessi
opposti, pag.70). Il modello di democrazia di sviluppo fu ulteriormente
sviluppato da Dewey, con una visione umanistica (democrazia come modo di vita)
e pragmatica (pag.77).
- Il modello di democrazia d'equilibrio o di "equilibrio elitario
pluralistico" (pag.79) descrive il processo democratico come un equilibrio
fra domanda ed offerta di beni politici; formulata nel 1942 da Joseph
Schumpeter, considera la democrazia come un meccanismo di mercato di
competizione fra elites, senza contenuti morali (votanti=consumatori,
politici=imprenditori), un mercato politico (uomo politico=uomo
economico) il cui successo deriva dalla sua natura "mercantile" (mano
invisibile, pag.84).
Il sistema mercantile politico, osserva Machperson, produce un equilibrio di disuguaglianza
ed una sovranità del consumatore che è illusoria; inoltre, poichè il potere
d'acquisto politico è dato dal denaro, la disuguaglianza economica e sociale
crea sovranità non democratiche ed apatia politica. Tale sistema è inoltre
oligopolistico, essendo costituito da due o pochi partiti che possono in tal
modo creare la propria domanda (pagg.88-91).
- Il modello di democrazia partecipativa nasce negli anni Sessanta dalla
constatazione che vi è uno stretto collegamento fra ingiustizia sociale e bassa
partecipazione. Una maggiore partecipazione comporta un problema di dimensioni,
la formulazione di domande non incongruenti, il ruolo dell'iniziativa popolare;
un sistema fondato sui referendum non è una vera democrazia, che ha bisogno
invece di politici eletti e responsabili (pagg.96-99).
I movimenti svolgono un ruolo importante nel favorire la partecipazione attiva
(pag.105); la democrazia partecipativa si configurerebbe come un sistema
piramidale alla cui base vi sarebbe la democrazia diretta ed ai livelli
superiori quella delegata. Tale sistema però, osserva Machperson, non
eliminerebbe differenze di potere e sarebbe incompatibile con l'apatia
politica (pag.114).
Occorre allora combinare il sistema piramidale con quello partitico
competitivo, individuando forme di partecipazione piramidale all'interno dei
partiti (pagg.115-116).
Il capitalismo ai tempi di Marx e di Mill, osserva infine Machperson, godeva i
vantaggi dell'espansione interna e del colonialismo, inflazione e
disoccupazione non potevano coesistere (pag.108).
Machperson individua alcuni modelli di democrazia liberale, che sono sia
esplicativi che giustificativi (propugnativi) ed in successione storica,
ciascuno dei quali è in parte in sovrapposizione rispetto ai precedenti (modelli
consecutivi rilevanti, pag.4 e seguenti); a pag.85 e seguenti del libro ne
esamina le caratteristiche in relazione alla adeguatezza descrittiva,
cioè al realismo di ciascun modello, esplicativa (capacità di dimostrare
perché il sistema funziona e perché funziona bene), giustificativa del
modello come migliore rispetto ai precedenti.
12-3 DEMOCRAZIA, MERCATO, ORGANIZZAZIONI
Nel libro Il nuovo stato industriale
(cit.) Galbraith evidenzia come gli sforzi di un singolo per conservare il
controllo sui meccanismi decisionali possono facilmente compromettere la
qualità delle decisioni, perché un'autorità esterna (lo Stato, ma anche gli
azionisti) è arbitraria in quanto imperfettamente informata; si assiste
perciò al processo di logoramento del potere degli azionisti, che passa
attraverso la sempre maggiore concessione di deleghe.
Le decisioni che riguardano tecnologia e pianificazione sono complesse: vengono
così sottratte agli individui e localizzate all'interno della tecnostruttura;
in questo modo, viene esclusa ogni influenza da parte di estranei.
Il potere passa dall'imprenditore (società imprenditoriali) alla
tecnostruttura (società mature); l'individualismo dichiarato dal
dirigente di una società è rituale, perché incompatibile con la tecnostruttura:
spesso risultati che appartengono alle organizzazioni vengono accreditati a
singoli individui, unicamente perché gli individui nella nostra cultura hanno
una importanza maggiore delle organizzazioni; un test infallibile: osserviamo
cosa succede al singolo quando lascia l'organizzazione o si ritira.
Il rapporto fra la società genericamente intesa ed una organizzazione deve
essere conforme al rapporto di quell'organizzazione con l'individuo; è il
cosiddetto principio di conformità: gli obiettivi della società,
dell'organizzazione e dell'individuo devono essere conformi tra loro, e pure
conformi tra loro devono essere i motivi che spingono a perseguire tali
obiettivi; gli obiettivi della società tenderanno ad essere quelli della
s.p.a., e quelli della s.p.a. tenderanno a coincidere con quelli dei membri
della tecnostruttura.
Entrando in un gruppo, l'individuo è attratto e condizionato dagli obiettivi di
questo, rinuncia al perseguimento di gran parte dei propri scopi in cambio di
un'influenza anche limitata sul potere dell'organizzazione.
Al di sotto di un minimo livello di reddito, la motivazione pecuniaria sarà
intensa, al di sopra l'incremento nel reddito non modificherà l'impegno: altri
obiettivi divengono più importanti.
La s.p.a. matura può essere rappresentata con una serie di cerchi
concentrici: ciascuna fascia rappresenta un gruppo all'interno
dell'organizzazione con un proprio sistema motivazionale e chi fa parte dei
cerchi più interni coltiva l'illusione che il proprio sia l'unico mondo che
conta; l'universo coincide con i propri orizzonti.
Gli uomini hanno la capacità di attribuire nobili finalità sociali a ciò che
favorisce i loro interessi personali. La convinzione che l'incremento della
produzione sia un utile fine sociale è quasi unanime, e deriva dal fatto che la
tecnostruttura è impegnata soprattutto:
- nella produzione di beni;
- nel controllo della domanda specifica (sia per quanto riguarda il suo volume
globale, sia per quanto concerne la sua distribuzione tra i singoli beni
finali);
- nel "virtuosismo tecnologico" (innovazioni tecniche, reali o
simulate).
La regolazione della domanda aggregata dipende dalla dimensione adeguata della
spesa pubblica: la politica fiscale keynesiana è un appoggio al sistema
industriale. Inoltre, la grande impresa dipende dallo Stato per il fattore istruzione.
La tecnologia implica la necessità di un controllo sulle vendite e sulle
forniture, e quindi la sostituzione del mercato con la pianificazione.
La pianificazione consiste nel prevedere le operazioni da compiere dall'inizio
della produzione al suo termine, e nel predisporre lo svolgimento di tali
operazioni prevedendo ed avendo una strategia per fronteggiare qualsiasi evento
fuori programma. Il nemico del mercato è l'ingegnere, non l'ideologia.
L'apparato della pianificazione socialista e la grande s.p.a. sono due
adattamenti alle stesse necessità della società contemporanea. La
pianificazione efficace richiede grandi dimensioni, la scala di attività delle
maggiori s.p.a. si avvicina a quella di un governo.
Pianificare significa porre i meccanismi del processo produttivo al di sopra
della libera espressione dell'individuo.
Con la guerra fredda la pianificazione ha acquistato connotazioni ideologiche:
si è così negato di fare qualsiasi pianificazione, contribuendo a nascondere a
coloro che sono controllati il fatto stesso del controllo.
Nella nostra cultura, l'individuo ha un posto più importante del gruppo; in
realtà, osserva Galbraith, l'organizzazione è divenuta un nuovo
fattore della produzione; attraverso l'organizzazione, la società economica
è riuscita ad esprimere personalità di gruppo che, per i propri fini, sono di
gran lunga superiori ad un essere umano, ed in più godono del vantaggio della
"immortalità ".
Per pianificare è necessaria una grande varietà di informazioni, e la reale
conquista della scienza e della tecnologia moderne è riuscire a coordinare,
grazie ad un'adeguata organizzazione, persone normali istruite a fondo in un
settore particolare: il mercato è in notevole misura una istituzione che non
richiede un grande uso dell'intelligenza.
La pianificazione non contiene meccanismi equilibratori fra domanda ed offerta,
perché dipende da decisioni deliberate del pianificatore; ciò crea problemi:
- di surplus o di deficit;
- di immagazzinaggio e di eliminazione delle eccedenze;
- di contesa per l'offerta insufficiente.
La pianificazione industriale è necessaria ma difficile; una soluzione può
essere quella di riversare sullo Stato i rischi più gravi: lo Stato può
accollarsi i costi dello sviluppo e della ricerca, ed anche garantire un
mercato al prodotto.
Per alcuni aspetti rilevanti, la grande impresa contemporanea è un braccio
dello Stato e lo Stato, in importanti settori, è uno strumento del sistema
industriale; la linea di demarcazione fra pubblico e privato è indistinta e in
buona misura immaginaria.
La grande impresa dipende dallo Stato per alcuni elementi essenziali per la
pianificazione industriale:
- formazione di personale specializzato;
- regolazione della domanda aggregata;
- stabilità dei prezzi e dei salari.
Attraverso commesse tecniche o militari, lo Stato finanzia la maggior parte
degli impieghi di capitali della grande impresa nei settori tecnologicamente
più avanzati; l'impresa concorre al processo collegiale di formazione delle
decisioni per la difesa, la politica estera, ecc.: ciascuna organizzazione
costituisce una estensione dell'altra.
Il sistema industriale richiede un tipo di individuo che spende il proprio
reddito in modo predeterminabile e che lavora in modo predeterminabile perché
ha bisogno di comprare sempre di più: se, dopo essersi procurati quanto basta,
si dovesse smettere di lavorare, il sistema non potrebbe più contare tra i suoi
obiettivi lo sviluppo.
Ma obiettivo primario dell'impresa è proprio la realizzazione del massimo
saggio di sviluppo, che viene misurato dal fatturato. L'obiettivo
sociale diviene perciò lo sviluppo economico, ed il successo della nazione
viene misurato dall'incremento annuo del prodotto nazionale lordo: l'obiettivo
della tecnostruttura riceve quindi una forte giustificazione sociale ed i suoi
membri possono ritenere di essere al servizio di un fine che li trascende.
Il singolo è al servizio del sistema industriale perché consuma i suoi
prodotti; la produzione ed il consumo di beni sono la misura fondamentale della
realizzazione sociale, ed i bisogni del lavoratore sono mantenuti leggermente
in eccesso rispetto al suo reddito.
Se si riconoscerà che la grande impresa è un prolungamento dello Stato, essa
sarà più decisamente al servizio di obiettivi sociali. La libertà in questo
contesto consiste nell'accordare al lavoratore un ampio insieme di opzioni:
- tra lavoro e merci da una parte e tempo libero dall'altra;
- maggiore flessibilità nella settimana lavorativa e riconoscimento che si
tratta di una unità di tempo inadeguata per organizzare un uso efficiente del
tempo libero che richiederebbe invece:
a) alcuni mesi di ferie retribuite;
b) prolungati periodi di assenza dal lavoro (astensione dal lavoro come
alternativa al guadagno).
12-4 RIFORMISMO PER LA DEMOCRAZIA
Secondo Norberto Bobbio sono promesse non
mantenute della democrazia, ovvero non la degenerazione ma un divario fra
democrazia reale e democrazia ideale (Il futuro della democrazia, cit.,
Premessa VIII e pagg.10-18):
- il permanere di oligarchie;
- la rivincita degli interessi;
- la partecipazione interrotta (spazio limitato);
- i cittadini non educati e l'apatia politica;
- la soppressione dei corpi intermedi (società centrifuga);
Le promesse non mantenute trovano a monte ostacoli non previsti dal progetto
politico democratico (pagg.22-24):
a) tecnocrazia, che è antitetica alla democrazia;
b) processo di burocratizzazione;
c) scarso rendimento: domande facili, risposte difficili.
La sopravvivenza di poteri invisibili, invece, corrompe la democrazia, la
pubblicità è una forma di controllo (pag.17): la democrazia è "governo del
potere pubblico in pubblico" (pag.76) dove pubblico è contrapposto sia a
privato che a segreto; ed il potere vicino (locale) è il più visibile (pag.80).
L'essere in trasformazione è lo stato naturale di ogni sistema democratico:
"la democrazia è dinamica, il dispotismo è statico" (Premessa VII);
la democrazia implica il dissenso, il consenso essendo richiesto soltanto sulle
regole della competizione (pag.51).
Fra gli insuccessi della democrazia rientrano temi quali (pag.75):
- la teoria delle élites;
- il divario fra democrazia formale e sostanziale;
- il malgoverno, vale a dire non la forma di governo ma il modo
di governare: governo degli uomini o governo delle leggi, governo per il bene
comune distinto dal governo per il bene proprio, governo secondo leggi distinto
dal governo arbitrario (pagg.148-151);
- il potere invisibile, che occulta e che si occulta (pag.86).
Le storie dei regimi autocratici e delle congiure (contropotere invisibile)
sono parallele; nella ragion di stato il tema del ‘mendacio’, simulare ciò che
non è e dissimulare ciò che è, è un tema obbligato. Inoltre, il segreto può
essere tecnico (la decisione non è da tutti) o politico (la decisione
non è per tutti, pagg.88-94).
La coppia comando-obbedienza è caratteristica del rapporto asimmetrico di
potere, la cui raffigurazione perfetta è il Panopticon di Bentham (pag.90).
Ogni problema relativo alla sfera politica può essere esaminato dal punto di
vista di chi governa (ex parte principis) o dal punto di vista di chi è
governato (ex parte populi, pag.95). Il potere può essere diviso
(pag.96):
- verticalmente od orizzontalmente (distinzioni classiche);
- in profondità (emergente, semisommerso, sommerso).
Il governo dell'economia è in gran parte potere invisibile (pag.97). Infatti le
nostre società sono policratiche e non monocratiche, oltre allo Stato ci sono
altri centri di potere (pag.47). All'argomento del male minore (meglio una
cattiva democrazia di una buona dittatura) si contrappongono i fenomeni di
reflusso dalla politica (pagg.65-70):
- il distacco (non tutto è politica);
- la rinuncia, ovvero la politica non è di tutti: teoria conservatrice
delle élites, teoria rivoluzionaria del partito-avanguardia;
- il rifiuto, che può essere particolaristico (gli uomini hanno solo
interessi), o etico-religioso (il volto demoniaco del potere).
L'apatia politica non minaccia i regimi democratici, l'astensionismo preoccupa
infatti solo se va a vantaggio del partito avverso (pag.61 e 139).
L'ingovernabilità, osserva ancora Bobbio in Crisi della democrazia e
neocontrattualismo (op.cit.), è difetto di potere, ed è il problema opposto
a quello dell'abuso (pag.22). Vi sono rapporti privati che si sono estesi a
quello pubblico: dal contratto, che richiede una transazione fra
interessi diversi, al rapporto di clientela (pag.24 e seg.).
Il potere occulto è tipico delle ideologie, e va sconfitto dalla critica
pubblica o demistificazione (pag.31). La crisi della democrazia comporta
ingovernabilità, privatizzazione del pubblico, potere invisibile; la crisi
dello stato di diritto comporta scandali e sottogoverno (pag.32).
Le difficoltà che incontra un partito riformista
a fare le riforme in un contesto politico di coalizione fra forze di tradizione
culturale diversa sono state altresì discusse da Luciano Cavalli in un
interessante intervento su MondOperaio (La grande riforma e i suoi nemici,
cit.), in cui sosteneva che solo una repubblica presidenziale o
semipresidenziale, il modello della “democrazia con un leader”, può conferire
al presidente i poteri per governare effettivamente; laddove il governo è di
coalizione fra più partiti, le difficoltà a raggiungere un compromesso sono
tali da far sì che vinca l’alternativa, cioè l’arte del “non governo”,
l’inazione, che è esattamente l’opposto del riformismo.
Addirittura, sottolinea Cavalli, la storia del primo Novecento ha dimostrato
che le democrazie parlamentari sono state deboli, al punto da essere
soccombenti al nazifascismo la cui sconfitta fu possibile grazie a Stati Uniti
e Gran Bretagna, entrambe democrazie presidenziali, sia pure di tipo
differente.
La democrazia presidenziale non va confusa con la cosiddetta democrazia
plebiscitaria; il presidente moderno, osserva Cavalli in proposto, “è un
presidente plebiscitario ma solo nel senso originario, che ricopre la sua
carica per deliberazione popolare, o, se preferite, ex voluntate populi”
(cit., pag.10). I plebisciti fatti per legittimare molti dittatori (Hitler,
Mussolini, Napoleone), in realtà, furono fatti dopo che le dittature erano già
nate, ed erano nate dalla crisi di democrazie parlamentari. Le grandi riforme,
inoltre, richiedono la ratifica popolare, plebiscitaria nel senso originario
del termine, sotto forma di approvazione da parte di un referendum popolare.
12-5 RIFORMISMO SENZA DEMOCRAZIA?
Dopo avere ripetutamente affermato nel corso di
questo libro che il riformismo è strettamente connesso alla democrazia, che non
vi può essere riformismo senza democrazia, perché parlare ora del riformismo senza
democrazia?
Per due motivi: innanzitutto perché vi sono stati casi storici di tentativi di
riforma slegati dalla democrazia, che ovviamente hanno dato risultati diversi
da quelli attesi, e sui quali occorre meditare; ed inoltre perché vi è ancora
chi pensa, nonostante tutto, che il legame fra democrazia e riformismo non sia
poi così stretto, che si possano ancora oggi concepire riforme senza
democrazia. Questa posizione è diffusa, nonostante le dure repliche della
storia, e consiste nel pensare che regimi autoritari possano riformarsi senza
per questo rinunciare all’autoritarismo che li contraddistingue.
Albert O. Hirschman, in Come
far passare le riforme, osserva che la rivoluzione dall'alto
consiste nel dare qualcosa per non perdere tutto (cit., pag.194); eppure, la
più importante riforma che ha interessato un regime autoritario nel Novecento,
vale a dire la perestrojka di Gorbaciov, ha prodotto come risultato finale il
crollo del regime stesso, non la riforma del comunismo bensì la sua fine, non
una trasformazione ma un epilogo.
Intini, ne Il “Miracolo Riformista” (cit., pag.52) rileva una
connessione fra la vittoria della perestrojka in Unione Sovietica e la fermezza
occidentale contro la politica intimidatoria del brezhnevismo, fermezza
culminata con l’installazione degli euromissili; in ogni caso, la fine del
comunismo ha aperto nuovi scenari a livello planetario che, a dispetto della
indiscutibile incertezza che hanno creato, hanno comunque dato origine ad un
mondo che, nonostante sia ancora pieno di problemi, diseguaglianze, povertà e
conflitti, tuttavia globalmente è più sicuro rispetto ai decenni di guerra
fredda che hanno caratterizzato quasi tutta la seconda metà del secolo scorso
(e la prima metà sappiamo bene come si è svolta).
Resta da vedere come evolverà nel futuro la situazione politica in Cina, dove
la dittatura comunista sembra riuscire a convivere con forme di liberismo
economico apparentemente incompatibili con quel sistema politico. Potremmo
comunque dire che oggi, grazie anche alla perestrojka di Gorbaciov, la specie
umana è più sicura di quanto non lo fosse trent'anni fa, sebbene la percezione
che il singolo individuo abbia è quella di maggiore incertezza ed insicurezza,
per sè e per chi gli sta accanto: ma sono proprio questi gli argomenti centrali
per il riformismo e per le sue politiche.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Norberto Bobbio, Giuliano Pontara, Salvatore
Veca, CRISI DELLA DEMOCRAZIA E NEOCONTRATTUALISMO (ed. Editori Riuniti, Roma
1984)
- Norberto Bobbio, IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA (ed. Einaudi, Torino 1984)
- Norberto Bobbio, QUALE SOCIALISMO? (ed.Einaudi, Torino 1970)
- Norberto Bobbio, STATO, GOVERNO, SOCIETÀ (ed.Einaudi, Torino 1985)
- Luciano Cavalli, LA GRANDE RIFORMA E I SUOI NEMICI (in MondOperaio,
giugno-luglio 1991)
- John Dunn, LA TEORIA POLITICA DI FRONTE AL FUTURO (ed. Feltrinelli, Milano
1983)
- John Kenneth Galbraith, IL NUOVO STATO INDUSTRIALE
- Albert O. Hirschman, COME FAR PASSARE LE RIFORME (ed. il Mulino, Bologna
1990)
- Ugo Intini, IL “MIRACOLO RIFORMISTA”, in L’Albero Socialista. Un secolo di
riformismo e di progressi (supplemento di Argomenti Socialisti,
1991)
- C.B.Machperson, LA VITA E I TEMPI DELLA DEMOCRAZIA LIBERALE (ed. il
Saggiatore, Milano 1980)
13- RIFORMISMO E LIBERTÀ
13-1 RIFORMISMO, SOCIALISMO, LIBERALISMO
Le posizioni socialista e liberale, osserva Carlo
Rosselli in Socialismo liberale, erano inizialmente antitetiche ma sono
andate via via avvicinandosi perché sono entrambe visioni unilaterali
che possono completarsi a vicenda (cit., pag.4).
Il socialismo è un programma di vita sempre in corso di attivazione, un limite
ideale che si realizza solo in parte (pagg.86 e 110). Per i socialisti il fine
ultimo è l'individuo, cellula della società, i fini della società sono i fini
degli individui, rivoluzione sociale e rivoluzione morale devono accompagnarsi
(pag.83).
Per il socialismo liberale sono sullo stesso piano la giustizia sociale
e la libertà, la vita associata e quella individuale; il socialismo è una
filosofia di libertà (pagg.88-89).
Per la teoria liberale la libertà è il fine supremo ed anche il mezzo supremo,
attraverso il metodo democratico; non è un dato di natura ma un divenire:
liberali non si nasce ma lo si diventa (pag.89). Mentre per i marxisti, osserva
Rosselli, la libertà ha un valore solo storico e relativo (pag.115).
Il socialismo porta il principio di libertà alle sue conseguenze estreme,
"è la libertà che si fa per la povera gente" (pag.90), autonomia
economica, libertà di fatto e non solo di diritto. Il liberalismo è "forza
morale ispiratrice", il socialismo "forza pratica realizzatrice"
(pag.92), e da questione di giustizia diventa sempre più questione di
capacità, una virtù pedagogica (pagg.96-100).
Senza autonomia individuale non può esserci socialismo (pag.116); il socialismo
è prima rivoluzione morale e poi materiale, ed il socialismo senza democrazia è
la negazione dei fini stessi del socialismo (pagg.143-144, nota).
Il socialismo, conclude Rosselli, è l'erede del liberalismo e la libertà
"è il più efficace mezzo e ultimo fine del socialismo" (pag.144).
13-2 RIFORMISMO E CONCEZIONI DELLA LIBERTÀ
Le questioni centrali della politica, osserva
Isaiah Berlin (Due concetti di libertà, cit.), sono l'obbedienza e la
coercizione, "costringere un uomo vuol dire privarlo della libertà
" (pag.188); la libertà di alcuni dipende dalle limitazioni di altri, e se
gli altri sono molti esseri umani, il sistema è ingiusto e immorale. Il potere
delle idee è tale che i concetti filosofici possono arrivare a distruggere
civiltà, idee politiche e forze sociali hanno bisogno le une delle altre
(pagg.186-187).
Non vi è connessione logica necessaria fra la libertà (grado di interferenza
del governo sull'individuo) e la democrazia (chi governa). Soltanto se non si
raggiunge un obiettivo perché ostacolati da altri, si può parlare di mancanza
di libertà politica, la libertà è tanto più grande quanto maggiore è l'area di
non-interferenza (pagg.189-196).
Berlin introduce il concetto di uguaglianza della libertà: non fare
agli altri ciò che non vorrei fosse fatto a me (pag.192); la libertà,
inoltre, non è il solo fine dell'uomo, in certe situazioni "le scarpe
valgono di più delle opere di Shakespeare" (pag.191).
La libertà da ha per obiettivo (negativo) l'eliminazione delle
interferenze; ma l'evidenza storica dimostra che l'argomento di John Stuart
Mill secondo cui la libertà è condizione necessaria per lo sviluppo non è
sempre vero (pagg.194-195). La libertà negativa implica un'idea di
individuo oggetto, per cui si decide: è l'idea che spesso caratterizza il riformatore
sociale, che individua traguardi per gli individui che questi ultimi non
riescono a vedere, trattati come oggetti privi di volontà propria (pag.203).
La libertà positiva implica invece un'idea di individuo soggetto,
agente, che decide: autonomia (agire) contro eteronomia (subire).
Un modo per eliminare gli ostacoli dal cammino è quello di abbandonare il
cammino; è la teoria dell'uva acerba secondo cui non si può volere ciò
che non si è sicuri di ottenere: la libertà negativa (libertà tout court secondo
Jonh Stuart Mill) non è capacità di fare ciò che si desidera, perché basta
limitare i desideri (voglio ciò che posso fare) per sentirsi liberi
(pagg.197-205). Rousseau e la Rivoluzione Francese, secondo Berlin, forniscono
esempi di libertà positiva.
Il problema della libertà negativa non è chi esercita l'autorità ma quanta
autorità esercita, la causa più importante dell'oppressione è l'accumulazione
del potere. Il dittatore, ma anche il prepotente e l'inquisitore, partono dal
presupposto che gli uomini non sono in grado di sapere cosa è meglio per loro;
per Constant, Mill, Tocqueville, in una società libera non ci sono poteri
assoluti ma solo diritti assoluti (pagg.216-230).
Secondo Berlin, se vi è accordo sui fini, le questioni relative ai mezzi non
sono politiche e possono essere risolte da esperti (pag.185). La morale non può
essere oggetto di conoscenza specialistica e perciò non vi possono essere
esperti in materia: gli uomini diventano liberi non quando gli si impone di
agire in certi modi, ma quando acquisiscono la consapevolezza del perché devono
agire in quei modi; nella società ideale, che è "costituita da esseri
pienamente responsabili" (pag.214), non c'è bisogno di regole e la libertà
(l'autonomia) coincide con la legge (l'autorità).
I desideri di libertà e di giustizia sono entrambi fondamentali, bisogna vivere
secondo i propri desideri ma anche rifiutare per gli altri trattamenti
indecentemente disuguali, perché, osserva Berlin, "che non si possa avere
tutto è una verità necessaria e non contingente" (pag.234).
Per Ralf Dahrendorf il concetto di felicità è
astorico, è uno stato dello spirito (La libertà che cambia,
op.cit., pag.30). La funzione del benessere è descrittiva e comparativa, non
valuta la desiderabilità di determinate condizioni di vita; più adeguato è
allora il concetto di libertà, la quale, data l'incertezza della condizione
umana, "non è uno stato di cose ma una massima dell'agire" (pag.50);
il suo compito è lo stesso in tutti i tempi, ampliare le opportunità di vita, cercare
nuove possibilità. Il concetto attivo di libertà intende il liberalismo come filosofia
della trasformazione (pagg.27-51).
La libertà riguarda le chances di vita, che sono opportunità,
possibilità; le chances di vita sono un concetto sociale, storico, strutturale
(riguarda modelli di organizzazione sociale), teorico (trascende sia le società
esistenti che il loro potenziale noto). La libertà è un concetto normativo, le
chances di vita sono una categoria analitica (pag.38 e 209) e sono funzione di
due elementi, opzioni e legature (pag.41); inoltre, secondo
Dahrendorf, se libertà "significa certamente ampliamento delle possibilità
di vita, non è però vero l'inverso" (pag.209). Le chances di vita di
epoche differenti sono confrontabili (pag.202).
Le opzioni sono costituite da diritti positivi e da disponibilità
di beni (Prefazione, pag.V), e sono possibilità di scelta,
"alternative di azione nelle strutture sociali" (pag.41). Divisione
del lavoro, diritti civili e crescita economica hanno esteso e moltiplicato le
opzioni (pag.46).
Le sole opzioni, la semplice possibilità di scelta è al di là del bene e del
male, denota assenza di morale se è priva di coordinate, di una posizione
determinata (pag.151).
Le opzioni possono essere classificate nelle dimensioni di spazio e di tempo:
"l'indipendenza dal tempo e la libertà di movimento nello spazio, quindi
le chances di mobilità, sono due immagini fondamentali delle opzioni sociali;
non a caso entrambe vengono frequentemente identificate con il concetto di ' libertà
' " (pag.193).
Il suffragio universale, il diritto di muoversi anche oltre confine sono
chances di vita, anche per chi rimane tutta la vita nello stesso luogo
(pag.40).
Sono strumenti di opzioni sociali il denaro, il potere e il diritto; il potere
è controllo sulle chances di vita altrui, che però spesso limita le opzioni di
chi lo esercita (pag.193).
Le legature sono invece appartenenze, relazioni, legami sociali
intensi e spesso emozionali (antenati, patria, comunità, chiesa), mentre per le
opzioni sono rilevanti scopo ed orizzonte dell'agire. Le società premoderne
erano caratterizzate da relazioni senza scelte, le società moderne hanno
allargato le possibilità di scelta ma lacerando le legature esistenti:
"mobilità significa che la famiglia e il villaggio non sono più comunità
per destino, ma diventano sempre di più comunità d'elezione" (pagg.42-43).
I concetti di legature e società civile sono associati: "una società
civile offre ai propri cittadini una home, oltre ai diritti che loro
spettano" (prefazione, VIII). L'anomia è mancanza di legami, rapporti,
legature (pagg.207-208).
Anche le legature sono classificabili a partire dalle dimensioni dello spazio e
del tempo (pag.191): spazio in generale (natura), spazio via via più
circoscritto (nazione, regione, provincia, comune), spazio sociale (comunità,
famiglia), tempo in generale (vita), tempo via via più limitato (storia,
generazione, durata di una vita), tempo sociale: "l'importanza dell'età
della vita umana si trasforma nel corso della storia" (p.192).
Decisive sono l'intensità e la qualità delle legature, piuttosto che il loro
numero: la qualità differenzia, ad esempio, il credente dal fanatico (pag.192).
L'ampliamento delle chances di vita richiede la crescita delle opzioni (che
sono volute) e delle legature (che sono date), ed un equilibrio ottimale fra
esse: il rapporto fra opzioni e legature non deve essere un gioco a somma zero
(pagg.45-46 e 193). Sarebbe inoltre interessante, osserva Dahrendorf, compiere
una analisi dei diversi rapporti fra opzioni grandi o piccole da una parte e
legature forti o deboli dall'altra (pag.200).
Il termine welfare, ed ancor più well-being indica benessere, che
include anche aspetti non materiali, che sono appunto le legature; l'azione
governativa non può creare le legature, ma può distruggerle (Prefazione, VIII).
A proposito della flessibilità del lavoro e del conseguente sradicamento, e
dell'esistenza di imprese altamente competitive circondate da povertà e
disoccupazione, Dahrendorf si chiede se sia davvero questo l'obiettivo supremo
della nostra economia politica (Prefazione, VII).
Le chances di vita hanno tre categorie evolutive, tutte quantificabili: la loro
formazione, il loro sviluppo, la loro diffusione vale a dire l'estensione a più
individui, e quindi la domanda di uguaglianza (pag.216); molto è evoluzione, il
nuovo (la nascita) è raro (pag.197). L'emergere delle chances di vita è perciò
un processo chiave: la storia è aperta (pag.196).
Nuove chances di vita si manifestano inizialmente in ambiti ristretti, per pochi,
la loro espansione per tutti è un processo importante della storia: il suo
senso consisterebbe allora proprio nel creare più chances di vita per più
uomini, ovvero le più grandi chances di vita del più grande numero di
individui (pagg.17 e 165).
Progresso significa, per le chances di vita:
- crescita delle esigenze umane, con nuove forme che emergono
inaspettatamente (pag.115);
- crescita delle capacità umane di soddisfarle.
Il conflitto è un elemento dinamico del progresso: "sembra che ci sia un
perenne antagonismo tra ciò che è e ciò che potrebbe essere, tra istituzioni
sociali e forze sociali" (pag.143); le leggi non hanno perciò valore
incondizionato (pag.178).
Le rivoluzioni, osserva ancora Dahrendorf, sono molto meno frequenti delle
situazioni rivoluzionarie (pag.144); perché queste ultime divengano rivoluzioni
è indispensabile la speranza, che è prefigurazione, immagine del futuro ma è
anche generalmente utopistica: "chi rinuncia alla speranza ha accettato le
condizioni in cui vive" (pag.107). La speranza a sua volta è stimolata
dalla disuguaglianza; scrive Dahrendorf: "oggi la speranza scaturisce
dalla diversificazione degli uomini e non dalla loro uniformità, e la libertà
scaturisce dalla disuguaglianza e non dall'uguaglianza" (pag.114).
Le idee sono efficaci per il cambiamento soltanto in circostanze determinate,
sono condizione necessaria mentre condizione sufficiente sono i rapporti
sociali; devono esserci le idee e le condizioni mature: "l'agire
senza idee è privo di significato e le idee senza azione sono irrilevanti"
(pag.116).
Dahrendorf definisce le società come insiemi di strutture (regole) e processi
(pag.158); le regole di associazioni, club, organizzazioni sono arbitrarie, ma
sono norme e leggi in quanto sono "riproduzioni del patto sociale
applicate a quantità limitate di posizioni sociali" (pag.133). L'attività
politica non è rappresentativa ma legittimativa, il buon politico è sempre
attento sia agli obiettivi che al consenso (pagg.129-130).
Gruppi, organizzazioni, istituzioni, per il liberalismo non sono fini in sè ma
mezzi per lo sviluppo dell'individuo, che è l'unico che conta: l'ipotesi
gnoseologica di fondo è l'incertezza (pag.56); se l'uguaglianza minaccia la
libertà, quest'ultima diviene prioritaria.
La partecipazione di tutti a tutto produce immobilità totale, "una
mescolanza di permanente discussione teorica e altrettanto permanente
inattività pratica" (pag.103): innovazione e partecipazione sono termini
tra loro contraddittori.
Per definire l'identità sono necessari sia lo spazio sociale (società) che il
tempo sociale (storia); la storia, per Dahrendorf, è il processo originato
"da un numero teoricamente incalcolabile di invenzioni dell'umanità "
(pag.11); una società perde infatti la libertà non solo eliminando oppositori
ed innovatori, "ma anche cessando di stimolare arte e scienza"
(pag.215). Invenzioni e conoscenza scientifica rispondono a regole che sono
arbitrarie; oggi viviamo un eccesso di informazione: "è come se dinanzi a
robusti alberi fossimo praticamente impossibilitati a vedere la foresta"
(pag.135).
La qualità caratteristica dell'esistenza umana è data dalle sue potenzialità
creative, dalla capacità di introdurre il non esistente; il concetto è quello
di emergence, ossia l'innovazione, l'emergere ed il formarsi del nuovo:
si tratta di un concetto vuoto, in quanto rimanda al contenuto di quanto viene
creato o scoperto (pag.16), e non è nè la combinazione degli stessi elementi nè
il dispiegarsi di premesse già esistenti, entrambe versioni del ‘niente di
nuovo sotto il sole’. I viaggi spaziali non sono lo sviluppo conseguente del
carro e dei cavalli, la storia umana è un processo aperto, domani possono
avvenire cose che oggi neppure pensiamo (emergent innovations,
pagg.10-15).
Il progresso è possibile, anzi è probabile ma è precario, non necessario
(pag.26). Il potenziale degli uomini è la loro musicalità, vale a dire
"la loro capacità di vivere in maniera complessa" (pag.23).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Isaiah Berlin, DUE CONCETTI DI LIBERTÀ (in Quattro
saggi sulla libertà, Milano 1989)
- Ralf Dahrendorf, LA LIBERTÀ CHE CAMBIA, (ed. Laterza, Bari 1994)
- Carlo Rosselli, SOCIALISMO LIBERALE (ed. Einaudi, Torino 1979)
14- RIFORMISMO E TEORIE DELLA GIUSTIZIA
14-1 LA GIUSTIZIA SOCIALE COME PRINCIPIO FONDAMENTALE DEL RIFORMISMO
Nel 1971 John Rawls pubblica A Theory of
Justice (Una teoria della giustizia, cit.), un libro giudicato da
più parti come uno dei più importanti lavori filosofici del XX secolo.
L'intento dell'Autore è delineare i principi fondamentali di una società giusta,
ovvero di una società bene-ordinata nella quale i benefici e gli oneri
siano distribuiti equamente fra gli individui e nella quale ciascuno vorrebbe
vivere, nell'ipotesi che gli fosse accordata una simile possibilità di scelta.
La giustizia è infatti, secondo Rawls, il primo requisito delle istituzioni
sociali e delle leggi (pag.21); la concezione della giustizia è però solo una
parte di un più complesso sistema etico, che comprende anche altre relazioni
morali, con le persone e con la natura (pag.32 e pag.418).
Una società bene-ordinata implica una concezione pubblica di
giustizia: i principi di giustizia devono essere pubblici (ciascuno
ne è a conoscenza, pag.31), generali, universali, definitivi
e devono imporre un ordinamento transitivo alle pretese in conflitto
(pagg.121-124); ciò che è giusto o ingiusto non è posto in discussione dopo la
scelta iniziale (pag.22). Altri problemi sociali fondamentali, evidenzia Rawls,
sono la coordinazione, l'efficienza (pag.71), la stabilità
relativa (pag.23 e 406) e sono tutti influenzati dalla concezione della
giustizia; una società e le sue strutture possono essere infatti
giuste/ingiuste ma anche efficienti/inefficienti, liberali/illiberali, ecc.: è
l'ideale sociale che li riunisce tutti sullo sfondo di una visione del
mondo (pagg.24-26).
Lo stratagemma che Rawls impiega per individuare i principi fondamentali che
regolano una società giusta è astratto, ma convincente: supponete, egli
argomenta, di non conoscere la vostra posizione nella società, di non sapere, cioè,
se siete operai o imprenditori, ricchi o poveri, intelligenti o stupidi, sani o
malati; non sapete neppure se siete uomini o donne, padri o figli oppure nonni.
Non sapete nulla, cioè, della vostra situazione particolare ma siete a
conoscenza solo di fatti generali, e cioè dei vari principi che possono
regolare una qualsiasi società: principi di utilità, efficienza, egoismo,
libertà, eguaglianza, ecc. Quali principi scegliereste per regolare la società
nella quale vorreste vivere?
La decisione, intesa come scelta razionale, dovrebbe essere presa in quella che
Rawls chiama la posizione originaria, una sequenza di accordi
ipotetici (pagg.29-32 e 132-133) nella quale ciascun individuo deve
compiere la scelta dei principi fondamentali sulla base di una restrizione
dell'informazione, cioè di una limitazione in ciò che egli può o non può
conoscere; egli decide perciò sotto un velo di ignoranza o di
equiprobabilità (pagg.28, 125, 140, 150-152) perché ignora il proprio status
sociale e i ruoli che occupa nella società (non sa chi è, che mestiere fa, che
titoli di studio possiede, quanto denaro ha: non sa nulla di sè), in condizioni
di obiettività ovvero di condivisione dei punti di vista (pag.422) e di contemporaneità,
cioè considera i suoi genitori, nonni, bisnonni, figli, nipoti e pronipoti come
se fossero suoi contemporanei, e quindi rinuncia a principi che potrebbero in
qualche modo favorire la sua particolare generazione, anche perché non sa quale
questa sia, nel senso che potrebbe egli stesso essere un "nonno" o un
"pronipote"; ed, infine, è indifferente alle situazioni particolari
degli altri, non soffre di invidia (pag.131 e 434).
Quali principi scegliereste voi, con un simile vuoto di memoria? Potreste
essere la persona più ricca del mondo, e allora scegliereste quei principi che
possono tutelarvi al meglio con le vostre ricchezze, ma se foste la più povera?
Potreste essere un genio, ma se foste uno stupido? Potreste essere sano, ma se
foste malato? Potreste vivere oggi in Occidente e così approfittare della
grande ricchezza a vostra disposizione, ma se doveste ancora nascere e
scoprire, una volta giunto al mondo, che il vostro bisnonno vi ha già consumato
tutto, esaurendo le risorse energetiche, inquinando l'ambiente, ecc.?
Per scegliere correttamente i principi di una società giusta, secondo Rawls, è
allora necessario porsi dal punto di vista della persona meno avvantaggiata,
dal punto di vista di chi ha meno, piuttosto che da quello di chi, per fortuna
(provenendo da una famiglia e da una società già ricche), o per natura
(talento, efficienza, salute, ecc.), o per altre cause ancora (disonestà), ha
avuto di più (pag.30).
Esiste un criterio di scelta che ci permette di raggiungere l'obiettivo: è la
regola del maximin , o del maximum minimorum (pag.138); essa
consiste nell'ottenere il maggior risultato utile dalla peggiore situazione
possibile. Ora, secondo Rawls, esistono due soli principi che possono condurre
ad un simile risultato, e cioè il principio di libertà e quello di uguaglianza,
opportunamente riformulato.
Il primo principio di una società giusta, sostiene allora Rawls, è quello che
prescrive la più ampia libertà per tutti: "Ogni persona ha un eguale
diritto al più ampio sistema totale di eguali libertà fondamentali
compatibilmente con un simile sistema di libertà per tutti" (cit.,
pag.255). Limitazioni al principio di libertà sono consentite, date le
particolari situazioni storico-sociali che possono verificarsi in ogni società
reale, a patto che non colpiscano particolari gruppi o settori della società:
ammettere che alcune persone possano avere maggiori libertà di altre
significherebbe, infatti, giustificare una società divisa in liberi e meno
liberi, cioè una società schiavista, razzista o etnocentrica, che non sarebbe
certamente una società giusta. Nella posizione originaria, osserva infatti
Rawls, le dottrine razziste non solo sono ingiuste, ma sono anche irrazionali
(pag.135).
Le varie forme di libertà (politica, religiosa, ecc.) hanno, nella teoria di
Rawls, la priorità assoluta rispetto ad ogni altro principio morale: non
sono perciò ammesse riduzioni di libertà in cambio di una maggiore uguaglianza,
o di maggiore efficienza economica, neppure in cambio di maggiore benessere.
L'equa libertà è , secondo Rawls, il bene più prezioso di una società giusta, e
non è perciò mercanteggiabile, quale che sia il corrispettivo offerto; il
valore della libertà, però, non è uguale per tutti (pag.178).
Dopo il principio di libertà, Rawls pone quello di uguaglianza, che riformula
come principio di differenza: esso stabilisce che sono ammesse solo
quelle disuguaglianze che si risolvono a favore dei meno avvantaggiati.
Supponiamo, ad esempio, di trovarci in una società nella quale vige
un'eguaglianza sociale perfetta: tutti hanno le stesse mansioni lavorative e
tutti sono retribuiti in modo eguale; alcuni, però, sono più dotati di altri e,
in una società diversa, potrebbero guadagnare di più facendo un lavoro diverso.
In quest'ultima società, nella quale esiste disuguaglianza di mansioni e di
retribuzioni (vi sono ingegneri ed operai, stipendi e salari), la quantità
totale di beni prodotti è maggiore e la fatica di produrli minore, grazie a
nuove tecniche (divisione del lavoro, automazione, economie di scala, ecc.).
Risultato: nella società disuguale gli ingegneri guadagnano di più degli
operai, ma gli operai guadagnano anch'essi di più, e lavorano di meno, degli
operai nella società perfettamente egualitaria; si tratta, perciò, di una
disuguaglianza che torna a loro vantaggio e che quindi è giustificabile,
può dunque esistere in una società giusta.
Rawls prescrive poi che l'equa opportunità di accedere alle varie cariche
sociali sia prioritaria rispetto alle ineguaglianze consentite dalla società, e
che violazioni nell'eguaglianza di opportunità sono ammesse soltanto se
accrescono le opportunità di coloro che ne hanno di meno. Concezione generale
della società giusta è dunque che "tutti i beni sociali principali -
libertà e opportunità, reddito e ricchezza, e le basi per il rispetto di sè -
devono essere distribuiti in modo eguale, a meno che una distribuzione ineguale
di uno o più di questi beni non vada a vantaggio dei meno avvantaggiati"
(pagg.255-256).
I beni sociali principali sono una premessa alla scelta dei principi di
giustizia (pag.357), e consistono nel rispetto di sè (pag.362), in
"diritti e libertà, opportunità e poteri, reddito e ricchezza"
(pag.91); gli individui sono cittadini collocati a diversi livelli di benessere
(pag.94), i gruppi meno favoriti si collocano sotto la media nella disponibilità
dei beni sociali primari.
Chi ha diritto ad una giustizia eguale sono le persone morali,
definite a pag.412 come dotate di senso di giustizia e di una propria
concezione del bene che viene espressa da ciascuno con un proprio piano
razionale di vita (pag.456); gli esseri umani sono disuguali (pag.414),
l'educazione morale "è educazione all'autonomia" (pag.421),
libertà/autonomia e obiettività/ragione sono compatibili fra loro, il
"fine" è lo sviluppo delle potenzialità di ciascun individuo
(p.427).
La distribuzione di reddito e ricchezza determinata da abilità e talenti, come
avviene nella concezione liberale, è moralmente arbitraria; l'eguaglianza
democratica combina invece il principio dell'equa eguaglianza di opportunità
col principio di differenza, facendo preferire le soluzioni che migliorano chi
sta peggio (pagg.76-77). I principi di differenza e di efficienza sono
compatibili fra loro: far stare meglio chi sta peggio senza far stare peggio
gli altri; la giustizia ha comunque la priorità rispetto all'efficienza
(pagg.80-81). Il principio di differenza lessicale è analizzato a pag.83
del libro e rende superflui i confronti interpersonali, in quanto bastano i
giudizi ordinali (pag.90); il principio di perfezione è discusso a
pag.272 e seguenti.
Le ineguaglianze immeritate (per doti naturali o posizioni sociali, sesso,
razza, cultura) devono essere compensate (principio di riparazione,
pagg.96-97), l'arbitrarietà delle distribuzioni naturali non è giusta nè
ingiusta, ma lo diviene quando viene incorporata nella struttura fondamentale
della società; le maggiori capacità sono doti sociali utilizzabili per
il vantaggio comune, il principio di differenza incorpora la diversità e il
merito (pagg.99-103).
Riepilogando (pagg.101-102):
libertà = primo principio di giustizia
eguaglianza = equa opportunità
fraternità = principio di differenza
Le dottrine filosofiche e religiose, le arti e le
scienze sono al di fuori delle competenze di uno Stato, definite da una
costituzione giusta (pagg.184-185); la libertà di coscienza è imprescrittibile
e, se la costituzione è sicura e non vi sono rischi considerevoli, secondo
Rawls non si può negare la libertà agli intolleranti in quanto, per un
principio psicologico, chi beneficia di una costituzione giusta tenderà col tempo
ad esservi fedele (pagg.189-190 e 404-410). Il principio di libertà
"conduce a quello di responsabilità " (pag.208; il problema del free-rider
e delle esternalità è analizzato a pagg.228-229 del libro, gli
intolleranti come free-riders a pag.322, il sistema di mercato a pagg.231-232,
le convinzioni della maggioranza a pag.370).
I principi di giustizia sono incondizionati e si distinguono dagli atti
leciti, che siamo liberi di compiere oppure no (anche qui, lo schema è a
pag.104 del libro); fra questi ultimi vi sono le azioni supererogatorie
che possono comportare un costo personale considerevole: atti di eroismo,
sacrificio, benevolenza, pietà, amore per l'umanità (pagg.110, 168, 390 e
seg.).
Le circostanze di giustizia sono le "condizioni di sfondo"
(pag.118) che rendono necessari principi di giustizia e che Rawls distingue in:
- oggettive: vicinanza spaziale e temporale, scarsità moderata di risorse;
- soggettive: piani di vita individuali che originano scopi diversi e pretese
conflittuali (pag.166), disinteresse reciproco, circostanze di paura reciproca
(pag.282); il disinteresse reciproco evita che nella posizione originaria i
principi di giustizia dipendano da condizioni forti come legami estesi,
sentimenti, desideri e convinzioni (pag.120 e 301).
La società giusta non necessita di notevoli ricchezze (pag.246), il diritto
penale in essa è superfluo (pag.265); le società reali sono quasi-giuste
(pag.320).
I principi di giustizia scelti nella posizione originaria corrispondono al
nostro senso di giustizia, ai nostri giudizi ponderati (equilibrio
riflessivo, pag.56); concezioni alternative fra loro sono basate su equità,
utilità, perfezione: la giustizia come equità, secondo Rawls, "ci avvicina
a un ideale filosofico" (pag.57).
La poca giustizia sociale esistente, osserva
Giuliano Pontara in Crisi della democrazia e neocontrattualismo (cit.,
pag.84), si fonda sulla forza e non sul rispetto volontario e collettivo dei
principi di giustizia di Rawls: le parti, secondo Pontara, si accorderebbero
per una federazione mondiale, la socializzazione dei grandi mezzi di
produzione, la pianificazione dello sfruttamento delle risorse naturali
("un assetto socialista", pag.85) ed una tassazione internazionale
progressiva.
Una teoria della giustizia nazionale ed il solo principio di libertà a livello
internazionale costituiscono un dualismo non giustificabile: i due principi di
giustizia di Rawls (libertà e differenza) andrebbero applicati prima al livello
internazionale e poi a quello nazionale, prevedendo la non giustificabilità
della guerra giusta, come peraltro già accade per la violenza a livello
nazionale (pagg.94-98 e 101).
Salvatore Veca, nel libro La
filosofia politica, evidenzia come le ineguaglianze possano essere locali,
della polis, entro una società particolare; ovvero globali, della
cosmopolis, fra società differenti ma interdipendenti: in queste ultime,
osserva Veca, "i poteri della politica domestica sono poteri di fare meno
cose, decrescono; si può manovrare solo entro vincoli internazionali
crescenti" (pag.21); la scena delle relazioni internazionali è infatti
caratterizzata dalla oscillazione ciclica del pendolo Hobbes-Kant fra guerra
e pace.
Le ineguaglianze possono derivare dalla sorte, da differenti dotazioni
naturali iniziali (differenti talenti naturali), ovvero da differenti dotazioni
sociali (nessuno può scegliere dove nascere, pag.4); ma possono derivare
anche da azioni deliberate, le quali a loro volta vanno distinte fra
azioni che non sembrano sbagliate (ineguaglianze come risultati), e
quelle che invece percepiamo come sbagliate, come nei casi di discriminazione
razziale o sessuale o religiosa.
La prima causa di agiatezza o povertà, osserva Herbert A. Simon (La ragione
nelle vicende umane, op.cit.), è essere nati nel tempo e luogo giusti (o
sbagliati), e dalla famiglia giusta (o sbagliata, pag.117).
Le interferenze da parte dello Stato, in questi casi di ineguaglianze,
secondo Veca potranno essere:
- per ineguaglianze derivanti da diverse dotazioni naturali, o l'eguaglianza
di opportunità, che però genera risultati ineguali, o la discriminazione
alla rovescia;
- per ineguaglianze derivanti da diverse dotazioni sociali, o interferenze
sugli effetti (con la diversa fornitura di beni pubblici), o interferenze
sulle cause (ne è un esempio la tassazione); queste ultime, seguendo Nozick
(pag.76), possono essere ulteriormente distinguibili fra forme di giustizia nell'acquisizione
dei beni, e forme di giustizia nel trasferimento dei beni e delle
proprietà.
Per Anthony Giddens (La terza via,
op.cit.), la società inclusiva (il cui schema è a pag.106 del libro)
richiede uguaglianza, opportunità di accesso al lavoro e all'istruzione
(pag.104), coinvolgimento nello spazio pubblico: "la nuova politica
definisce l'uguaglianza come inclusione e la disuguaglianza come esclusione"
(pag.104); l'esclusione è sia quella dei meno privilegiati, sia
l'autoesclusione dei più privilegiati, e fra le due vi è un nesso di causalità
(pag.105). Un esempio di società non inclusiva è quella che emargina gli
anziani (pag.119); altri esempi sono connessi al concetto di declino civico
(pagg.83-89-99).
L'idea di uguaglianza o giustizia sociale, scrive Giddens, "è alla base
della concezione della sinistra (...) schierarsi a sinistra significa credere
in una politica di emancipazione" (pag.52); anche se tale idea può poi
essere interpretata in modi diversi: "uguaglianza è un concetto relativo.
Dobbiamo chiederci: uguaglianza tra chi, di cosa e in qual misura?"
(pag.52).
14-2 CONIUGARE EQUITÀ CON EFFICIENZA
Arthur M. Okun (Eguaglianza ed efficienza,
op.cit.) evidenzia come le ragioni etiche a favore del mercato siano poco
convincenti, mentre quelle fondate sull'efficienza sono del tutto persuasive:
l'efficienza di un sistema di mercato è superiore a quella di un sistema
pianificato, nel quale valgono i comandamenti dei funzionari pubblici (non
sperimentare, non rischiare, non essere flessibile, ciò che viene dato non sarà
più tolto, ecc.).
Nel contesto di un'economia di mercato, però, Okun ritiene fondamentale la
definizione di linee di compromesso fra eguaglianza ed efficienza: la
redistribuzione dei redditi, egli osserva, può avvenire efficacemente soltanto
con una politica fiscale fortemente progressiva accompagnata da un corretto
indirizzo delle spese statali (privilegiare le spese sociali su quelle
militari, ecc.); la pianificazione economica, la confisca delle ricchezze sono
invece inapplicabili perché del tutto inefficienti.
I redditi prelevati con la tassazione progressiva devono andare a vantaggio dei
meno avvantaggiati: anziani, poveri, madri con figli a carico, ecc; strumenti
differenziati di redistribuzione possono essere gli aiuti diretti in denaro,
l'assistenza medica gratuita, i buoni pasto, le detrazioni per la casa, i
finanziamenti all'istruzione, la previdenza sociale, le opportunità di
occupazione.
Nel trasferire risorse dai più avvantaggiati ai meno avvantaggiati una parte di
queste va perduta: è la metafora del secchio bucato, che illustra le
inefficienze del percorso di redistribuzione dei redditi, inefficienze dovute a
costi amministrativi, minor impegno dei più ricchi, perdite socioeconomiche,
distorsioni nel risparmio e nell'investimento.
Chi dà priorità all'efficienza sull'eguaglianza, osserva Okun, è disposto ad
affrontare solo perdite lievi; chi dà priorità all'eguaglianza sull'efficienza
è disposto a sostenere anche forti perdite. Per Okun è fondamentale la ricerca
di un compromesso: il secchio è bucato, cioè parzialmente inefficiente
nell'equalizzare i redditi, ma alla fine riesce ad ottenere risultati
insieme più equi e più efficienti, perché maggiore eguaglianza alla fine
produce maggiore efficienza, anche se inizialmente il perseguimento di
politiche egualitarie avviene a spese dell'efficienza. La strategia che propone
è dunque indiretta (nel senso di Simon ed Elster, cfr.): un passo indietro oggi
nell'efficienza a favore di maggiore eguaglianza consentirà domani di fare due
passi in avanti in termini sia di efficienza che di eguaglianza.
Allen Buchanan, in Etica, efficienza, mercato
(op. cit.), evidenzia come l'analisi economica valuti il mercato solo in base
alla sua efficienza, mentre gli studiosi di etica lo giudicano per il suo
successo o fallimento nel soddisfare esigenze di giustizia. Giudizi morali e
giudizi di efficienza possono procedere su binari diversi, situazioni
efficienti o Pareto superiori possono essere moralmente inferiori, e
viceversa; dati empirici controversi e non del tutto disponibili possono essere
all'origine di controversie pro o contro il mercato ed impedire la definizione
di giudizi condivisi: le categorie distinte degli "economisti" e dei
"filosofi", non tenendo conto delle analisi altrui, producono infatti
soluzioni imparziali e verità incomplete, perché gli economisti trascurano le
questioni etiche, mentre gli studiosi di etica trascurano le considerazioni di
efficienza.
Argomenti di efficienza a favore del mercato sono la tesi del mercato
ideale (ottimo paretiano), l'assunzione che il mercato reale si avvicina
sufficientemente all'efficienza del mercato ideale, le tesi dell'efficienza
diacronica del mercato e della sua efficienza produttiva.
Argomenti di efficienza contro il mercato criticano le varie forme di
inefficienza (allontanamento del sistema reale dal modello ideale), i problemi
del free-rider e dell'assicurazione (in particolare in connessione alla
fornitura di beni pubblici), il problema dell'incongruenza fra preferenze
rilevate nel mercato e benessere individuale.
Argomenti morali a favore del mercato sono basati sul merito, sul
vantaggio reciproco, sull'utilitarismo dell'atto e della regola, sui diritti
morali libertari e sulla libertà.
Argomenti morali contro il mercato si basano anch'essi su considerazioni
di libertà, sull'ineguaglianza, sullo sfruttamento, sul parassitismo, sulle
varie forme di alienazione, sulla tendenza espansionistica del mercato.
L'onere della prova della dimostrazione dell'efficienza di economie alternative
a quella di mercato spetta a chi le sostiene ma, evidenzia Buchanan, tale prova
non può essere ottenuta in assenza di teorie sufficientemente elaborate di sistemi
non di mercato, e pertanto il sistema di mercato, dal punto di vista
dell'efficienza, è superiore agli altri sistemi.
Dal punto di vista morale, invece, l'argomento più importante contro il mercato
è, secondo Buchanan, quello della sua tendenza espansionistica
(pagg.140-141): istituzioni giuridiche, rapporti di amicizia, relazioni
sessuali, comportamenti che vengono sempre più assimilati a transazioni di
mercato; se tutti i rapporti interpersonali divengono rapporti di mercato la
vita umana ne esce impoverita: la critica decisiva al mercato è pertanto quella
della sua invadenza, e quindi dei suoi limiti, che non vanno confusi
però con i limiti del benessere.
Secondo Lester C.Thurow (La società a somma
zero, op.cit.) le questioni distributive sono ineludibili dove ci sono da
distribuire non solo guadagni, ma anche perdite, come avviene in tutti i giochi
a somma zero, dove le perdite sono esattamente uguali alle vincite:
"tutti gli eventi sportivi sono giochi a somma zero. Per ogni vincitore
c'è un perdente e può esistere un vincitore solo se esiste uno sconfitto. Ciò
che il giocatore vincente guadagna deve essere perso dal giocatore
sconfitto" (pag.29).
La distribuzione delle perdite può essere assoluta o relativa: anche
redditi che aumentano meno rapidamente di altri, od anche in misura inferiore
alle aspettative, possono determinare la percezione di una maggiore povertà,
pur in presenza di redditi che, in termini assoluti, sono in crescita.
Il paradigma del gioco a somma zero si determina quando la società affronta il
problema delle differenze di reddito fra gruppi diversi: ricchi/poveri,
bianchi/neri, uomini/donne, agricoltori/popolazioni urbane. In tutti questi
casi, l'aumento del reddito per un gruppo significa diminuzione di reddito per
qualche altro gruppo, e "la crescita economica per tutti non può risolvere
il problema poichè la richiesta non è per avere di più, bensì per raggiungere
l'eguaglianza" (pag.262). Anche se, ribadisce Thurow, la nostra società
non crede nell'eguaglianza assoluta e, inoltre, nelle discussioni il concetto
di ineguaglianza viene spesso ridotto, in quanto si tende a considerare più il
reddito che la ricchezza, e quindi i ricchi sembrano meno ricchi di quanto sono
nella realtà (pag.234).
La competitività è crescente nei giochi a somma zero, ed una società
caratterizzata da una struttura complessiva a pura somma zero, secondo Thurow,
accrescerebbe la competitività fra gli individui: se la torta economica non si
può ingrossare, le nostre energie devono essere utilizzate per dividerla,
perciò i giochi a somma zero sono sempre caratterizzati da attività fra le più
competitive (giochi sportivi, gioco d'azzardo).
Lo sviluppo economico è stato usato storicamente per evitare di
affrontare questioni distributive, e cioè per evitare l'adozione di criteri di
equità nelle decisioni pubbliche. Queste ultime, però, sono altamente
controverse proprio a causa della relatività della distribuzione delle perdite,
e sono pertanto di difficile soluzione: "Il caso non si pone in termini di
noi contro loro, ma noi contro di noi in un gioco a
somma zero" (pag.38).
Solo ad una condizione possiamo immaginare una società a crescita zero
pacifica, caratterizzata cioè da assenza di competizione: "una
pacifica società a crescita zero potrebbe essere raggiunta solo se si potessero
saziare i bisogni" (pag.169); Thurow osserva che tale condizione, pur
essendo conseguibile da un punto di vista logico (possiamo immaginare una
cultura in cui i bisogni sono saziati), nella realtà non è raggiungibile:
"la richiesta di un livello di vita crescente è virtualmente
universale" (pag.169).
Le conseguenze politiche dei giochi a somma zero consistono nella sostanziale paralisi
dei processi decisionali nelle democrazie: i ritardi e le incertezze
rappresentano costi, e ritardare un programma vuol dire spesso affossarlo
(pag.31).
Il processo politico non è infatti in grado di produrre decisioni quando queste
provocano perdite per qualcuno; se si cerca una soluzione senza costi, il
problema diventa insolubile (pag.113 e 291).
La paralisi dei processi decisionali è acuita, nei sistemi democratici, dal
fatto che i rappresentanti politici vengono eletti con un mandato limitato nel
tempo (quattro-sei anni) mentre la soluzione dei problemi richiede spesso
"lunghi periodi durante i quali i costi crescono mentre i benefici seguono
molto più tardi" (pag.34).
L'incoerenza nel comportamento degli individui, quando questi si trovano
coinvolti in giochi a somma zero, è evidente in alcuni casi paradigmatici:
energia, poteri coercitivi dello Stato, inflazione, processi di
disinvestimento, esaurimento delle risorse naturali, lavoro, norme e
regolamenti, richieste di redistribuzione.
Thurow osserva come la percezione che ciascun individuo ha del proprio status
economico, di ciò che può chiedere e di ciò che può dare, dipenda dalla posizione
relativa che egli occupa nel sistema economico stesso: "non esiste un
livello minimo del tenore di vita in senso assoluto che renda soddisfatta la
gente" (pag.38).
La posizione relativa è tale sia in senso storico che geografico: "Il
povero negli Stati Uniti potrebbe essere ricco in India, ma egli vive in realtà
negli Stati Uniti e si sente povero. La classe media può avere frutta fresca e
verdure che il più ricco dei re non poteva avere nel Medio Evo, ma essa si sente
oggetto di privazioni rispetto alla classe medio-superiore che può godere di
quelle cose che ad essa non sono permesse" (pag.38).
È proprio a causa della posizione relativa di ciascuno che l'adozione di
criteri di equità diventa necessaria ogni volta che vengono prese decisioni
pubbliche, e cioè decisioni in materia di abolizione o introduzione di imposte,
espansione o contrazione della spesa pubblica, estensione o riduzione di
normativa.
Le richieste di redistribuzione, secondo Thurow, determinano incoerenze di
comportamento: poichè la nostra è una società di gruppi piuttosto che di
individui, ne consegue che le richieste di redistribuzione non hanno tanto per
oggetto il divario fra ricchi e poveri, quanto la distinzione etnica o il
sesso; per sapere se una società offre uguali opportunità, occorre infatti
analizzare i dati economici relativi ai gruppi: "L'economia tratterà i
diversi individui in maniera diseguale a prescindere da ciò che facciamo. Solo
i gruppi sociali possono essere trattati con equità" (pag.250); e nella lotteria
economica, per ottenere una rapida ricchezza il talento imprenditoriale è
condizione necessaria ma non sufficiente (pagg.221, 245, 249).
Tutti i programmi di aiuto economico alle minoranze, osserva Thurow, finiscono
per danneggiare la maggioranza: "Se le donne e le minoranze avessero un
maggior numero dei posti di lavoro migliori, i bianchi maschi ne subirebbero le
conseguenze" (pag.262). Le differenze di retribuzione fra i coniugi
determinano conseguenze paradossali ed una argomentazione quanto meno
singolare, peraltro confutata dal principio di differenza di Rawls:
secondo Thurow, le donne che lavorano "contribuiscono all'eguaglianza
poichè i loro guadagni sono molto più equamente distribuiti di quelli dei loro
mariti" (pag.225).
In questo ragionamento troviamo un principio fortemente contestato dai
riformisti, per i quali non è da ricercare l'eguaglianza ad ogni costo, bensì
condizioni di maggiore equità al più alto livello di benessere possibile:
l'eguaglianza fra poveri tutti egualmente in miseria, non interessa ai
riformisti, per i quali è fondamentale non il livellamento economico degli
individui, ma lo sviluppo delle loro potenzialità in condizioni di benessere
diffuso.
Il governo, si chiede ancora Thurow, dovrebbe astenersi dal formulare programmi
per aumentare il reddito a certi gruppi, per esempio gli agricoltori. Thurow
evidenzia come il medesimo argomento si applichi non solo ai gruppi economici,
ma anche a gruppi che si distinguono fra loro per collocazione geografica o
addirittura per la religione; la mobilità diviene allora una sorta di
test per determinare la legittimità di un gruppo mentre, osserva Thurow,
"quasi nessuno sarebbe disposto ad obbligare gli individui a cambiare la
loro religione per assicurarsi un eguale trattamento economico" (pag.254).
I concetti di efficienza e giustizia sono antagonistici, ciò che è
efficiente per l'economia in generale è di solito ingiusto per singoli
individui; l'efficienza implica ingiustizia verso gli individui, e poichè
vorremmo sia l'efficienza che la giustizia, ci troviamo di fronte ad un
dilemma, che possiamo trovare nelle diverse politiche pubbliche: "la
stessa gente che si oppone ai programmi speciali per i neri, sostiene i
programmi speciali per il settore tessile" (pag.254).
Porre fine ad una discriminazione non significa automaticamente creare eguali
possibilità; infatti, secondo Thurow, sono diverse le cose che si possono fare
se si vuole avere una gara equilibrata:
1) bisogna fermare la corsa e ripartire di nuovo;
2) bisogna obbligare gli avvantaggiati a portare un handicap finchè non vengono
raggiunti, ovvero
3) bisogna dare un aiuto extra agli svantaggiati fino al ricongiungimento
(pag.261).
Per applicare il primo punto, occorre una rivoluzione; rimangono le altre due
possibilità, ma bisogna tener conto che se discriminiamo a favore di qualcuno,
in realtà discriminiamo anche a sfavore di qualcun altro, con conseguente
pericolo di paralisi delle decisioni politiche.
Le decisioni di equità possono essere esplicite o implicite: in quest'ultimo
caso, si tratta di decisioni non discusse ma comunque incluse in politiche di
prelievo o di spesa, e nei regolamenti; il problema di determinare un gioco
economico giusto è reso più complesso dal fatto che, osserva Thurow, le economie
di mercato possono esistere "con o senza la schiavitù, con o senza la
proprietà pubblica, con o senza discriminazioni economiche. Com'è costituito un
‘giusto’ gioco economico? Lasciamo alle scelte dei consumatori la
determinazione del valore economico di una compagnia operistica o creiamo noi
stessi, per mezzo delle istituzioni educative, una domanda pubblica di
rappresentazioni liriche?" (pag.270). Ed ancora, si chiede Thurow
riferendosi alle norme sull'eredità, che differenza c'è fra chi eredita una forte
somma e chi, col proprio talento (sportivo o altro) riesce a guadagnare
facilmente un reddito analogo ?
Si possono costruire molti giochi equi, a seconda del tipo di distribuzione che
adottiamo; scrive Thurow: "combinando semi di soja, lardo, succo d'arancio
e fegato di manzo (commestibili, poco costosi, nutrienti, ma poco gustosi) si
riesce a comporre (...) una dieta migliore, dal punto di vista medico, di
quelle che adottiamo noi attualmente. Ma siamo disposti a costringere la gente
ad adottarla? E, ancora, quanto spazio abitativo per persona è necessario per
vivere fino alla vecchiaia? La risposta: molto poco. Siamo disposti allora ad
ignorare le esigenze abitative dei poveri?" (pag.273).
Il problema è che quando le esigenze vengono ridefinite come necessità, il
concetto di necessità perde di concretezza: "le esigenze diventano
necessità ogni qualvolta la maggioranza della popolazione in una società le
ritiene davvero necessità. Tutte le cose a cui ci siamo abituati e che sono
disponibili a tutti, diventano necessità. Le necessità così definite crescono
parallelamente al reddito medio" (pag.274).
Altro problema di difficile soluzione, sottolinea Thurow, è quello di definire
gli eguali, in presenza di costi diversi in situazioni diverse e di
gratificazioni diverse (reddito, stima, condizione sociale, potere): come deve
essere intesa la proporzionalità ? Thurow osserva che sta meglio chi realizza
risultati positivi all'interno del proprio gruppo piuttosto che in rapporto
all'intera popolazione: torniamo all'analisi sui gruppi appena discussa.
Thurow analizza poi alcune incoerenze di comportamento:
- nel settore dell'energia e in settori analoghi dell'industria: "tutti
vogliono l'energia, ma nessuno vuole un impianto di produzione vicino alla
propria casa" (pag.34);
- nel rapporto coi poteri coercitivi dello Stato: siamo favorevoli quando
vengono usati per aumentare il nostro tenore di vita, non quando limitano le
nostre azioni per aumentare il reddito di altri (pag.45);
- nei nostri atteggiamenti verso l'inflazione: "ognuno vuole un governo
che blocchi l'inflazione, inflazionando però il proprio reddito e deflazionando
quello altrui" (pag.70); ne deriva che non può esistere una politica dei
redditi volontaria, perché sono troppo grandi gli incentivi a non cooperare: il
problema, scrive Thurow, "assomiglia ad una partita di football (...) per
vedere meglio alcuni si alzano in piedi, ma se ognuno si alza nessuno vede
meglio ed in più, ora, tutti sono scomodi perché nessuno può rimettersi a
sedere. Solo l'azione collettiva può tenere tutti seduti; le decisioni
individuali portano ognuno a stare in piedi" (pag.102). Inoltre,
l'inflazione trasforma problemi individuali in apparenti problemi sociali,
perché fa aumentare la maggior parte dei redditi monetari e così crea
l'illusione che, senza inflazione, il proprio standard di vita sarebbe
cresciuto (pag.80).
Vi sono incoerenze di comportamento anche nei processi di disinvestimento:
vengono adottati sistemi di protezione (norme, sussidi, artifici vari) che
hanno lo scopo di evitare ai soggetti coinvolti di sostenere il peso economico
del disinvestimento. Ma un maggiore potere d'acquisto reale, sottolinea Thurow,
non è possibile se la produttività non aumenta, e per far aumentare la
produttività occorrono interventi che pongono tutti questioni distributive a
somma zero: serve che nuove conoscenze (ricerca scientifica e studi
ingegneristici) assumano rilevanza per l'economia, che si realizzino
investimenti, ma anche disinvestimenti che sono condizione necessaria per spostare
lavoro e capitale in settori nuovi (pagg.115-118 e 149). Però siamo riluttanti
a disinvestire per ragioni morali che riguardano gli individui piuttosto che le
aziende, anche se nei fatti concreti vi sono più programmi di protezione per le
istituzioni che per le persone (giustificati, osserva Thurow, in nome della
protezione degli individui, pag.121).
Vi sono poi incoerenze di comportamento nell'atteggiamento verso il lavoro:
questo produce, oltre al reddito monetario, anche altri benefici (amicizie,
prestigio, realizzazione, fama, potere, pagg.168-169); una società a crescita
economica zero non riesce a creare nuove occasioni di prestigio, fama, fortuna,
essendo necessario lo sviluppo economico: per ciascuno che raggiunge uno degli
obiettivi, qualcun altro deve essere rimosso. Questo argomento non è però
sempre vero nelle grandi organizzazioni: possiamo immaginare che anche in una
società a somma zero sia comunque plausibile la moltiplicazione delle cariche
in assenza di sviluppo economico; enti ed aziende, se si frantumano,
moltiplicano i consigli di amministrazione e più soggetti vi possono accedere,
sebbene i risultati complessivi per il sistema economico saranno alla fine
negativi: si vedano, a tale proposito, i paradossi analizzati da Laurence J.
Peter nel suo libro La Ricetta di Peter (cit.).
Infine, Thurow analizza le incoerenze nel diffondersi di norme e regolamenti:
la sicurezza per un individuo, grazie all'applicazione di norme protettive,
comporta la mancanza di occasioni per un altro, in termini di mancata
competizione, "e così normalmente si finisce col prescrivere la
concorrenza agli altri e la sicurezza per noi stessi. Quando ci si comporta
così, tuttavia, si va a finire in un'economia piena di norme che impediscono lo
sviluppo veloce di cui abbiamo bisogno" (pag.180); la deregolamentazione,
infatti, implica sempre delle perdite economiche per qualcuno.
Una economia non regolata però, secondo Thurow, non esiste: "tutti i
sistemi economici sono identificabili da un insieme di leggi e di regolamenti.
La civiltà è infatti un accordo fondato su una serie di regole di
comportamento. Una economia senza regole sarebbe una economia anarchica dove il
libero scambio sarebbe impossibile. La superiorità fisica sarebbe l'esclusivo
mezzo per condurre le transazioni economiche. Tutti vorrebbero prevalere su
tutti gli altri" (pag.184).
I diritti di proprietà, ad esempio, non sono così intuitivamente ovvi come
appaiono, scrive Thurow: "se il vicino getta i suoi rifiuti nel mio
giardino ho il diritto di chiamare la polizia e chiedere il rimborso dei danni.
Se il vicino getta i suoi rifiuti nell'aria (bruciandoli), curiosamente non ho
il diritto di chiamare la polizia, nè di richiedere i danni. Ho diritti di
proprietà sulla terra, ma non sull'aria e ciò sebbene l'aria pulita sia più
vitale alla mia esistenza della terra" (pag.185). Solo con l'aumento della
popolazione e dell'industrializzazione, l'aria pulita acquista valore; allo
stesso modo, non ha senso occuparsi dei diritti di proprietà sul fondo marino o
su altri pianeti, se non si dispone di una tecnologia che li renda
appropriabili. Dobbiamo inoltre tenere conto che vi sono due mercati di
capitali: quello reale, che riguarda investimenti in impianti e macchinari, e
quello finanziario che si occupa della compravendita di diritti di proprietà.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Norberto Bobbio, Giuliano Pontara, Salvatore
Veca, CRISI DELLA DEMOCRAZIA E NEOCONTRATTUALISMO (ed. Editori Riuniti, Roma
1984)
- Allen Buchanan, ETICA, EFFICIENZA, MERCATO (ed.Liguori, Napoli 1992)
- Anthony Giddens, LA TERZA VIA. Manifesto per la rifondazione della
socialdemocrazia (ed. il Saggiatore, Milano 1999)
- Arthur M. Okun, EGUAGLIANZA ED EFFICIENZA. Il grande tradeoff
(ed.Liguori, Napoli 1990)
- Laurence J. Peter, LA RICETTA DI PETER (ed. Bompiani, Milano 1973)
- John Rawls, UNA TEORIA DELLA GIUSTIZIA (ed.Feltrinelli, Milano 1982)
- Lester C. Thurow, LA SOCIETÀ A SOMMA ZERO (ed. Il Mulino, Bologna 1981)
- Salvatore Veca, LA FILOSOFIA POLITICA (Editori Laterza, Bari 1998)
15- RIFORMISMO, INDIVIDUALISMO, CONTRATTUALISMO
Per Norberto Bobbio (Il futuro della
democrazia, op.cit.), lo stato liberale si caratterizza come stato
laico, per via del processo di emancipazione del potere politico dal potere
religioso; e come stato del libero mercato, per via del processo di
emancipazione del potere economico dal potere politico.
Diritti civili, libertà economica, concezione negativa dello stato, concezione
individualistica della società e della storia: il punto di partenza è
"l'individuo singolo con le sue passioni (da indirizzare o da
domare), coi suoi interessi (da regolare e coordinare), coi suoi bisogni
(da soddisfare o reprimere)" (pag.123).
Dalla limitatezza delle risorse nasce il problema della coesistenza delle
libertà, cioè della applicazione del postulato della libertà individuale ai
casi concreti: in questa applicazione, lo stato-benessere è "una soluzione
di compromesso" (pag.114).
Anthony Giddens (La Terza via, op.cit.)
osserva come il neoliberismo (la nuova destra) si caratterizzi per una teoria
globalizzante dei mercati ed una concezione realista delle relazioni
internazionali. Ma, secondo Giddens, "la devozione al libero mercato, da
una parte, e alla famiglia tradizionale e alla nazione, dall'altra, è
contraddittoria. (...) non c'è niente di più distruttivo per la tradizione
della 'rivoluzione permanentè operata dalle forze di mercato" (pagg.30-31).
Il neoliberismo ha due filoni (pag.23), uno conservatore, che è
libertario sulle sole questioni economiche, ed uno propriamente libertario,
che lo è cioè sia sulle questioni economiche che sulle questioni morali, quali
la libertà sessuale, la depenalizzazione delle droghe, ecc.
15-2 RIFORMISMO, INDIVIDUALISMO, UTILITARISMO
Norberto Bobbio, ne L’età dei diritti
(op.cit.), osserva come il punto di vista tradizionale attribuiva agli
individui non diritti ma obblighi (i Dieci comandamenti, le Dodici tavole,
pag.115); la funzione primaria della legge, osserva Bobbio, è quella di
"comprimere non di liberare, di restringere non di allargare gli spazi di
libertà, di raddrizzare l'albero storto, non di lasciarlo crescere
selvaggiamente" (pag.55). Eppure diritti e doveri sono termini
strettamente connessi; la grande svolta inizia dapprima con la concezione
cristiana della vita, che implica la fratellanza di tutti gli uomini in quanto
figli di Dio; poi il giusnaturalismo secolarizza l'etica cristiana e propone la
concezione individualistica (pag.57): il punto di partenza comune è che
l'uomo ha diritti naturali che precedono le istituzioni; lo stato liberale e di
diritto abbandona l'idea che sia suo compito provvedere alla felicità degli
individui, idea che fu invece dello stato paternalistico, assoluto,
eudemonologico (pag.97 e 123).
La concezione individualistica della società è alla base del concetto di
democrazia: la società democratica è una somma di individui per i quali vale il
principio di maggioranza come regola fondamentale di decisione; la sovranità
non è del popolo ma dei cittadini, la base filosofica della democrazia è
l'individualismo: una testa un voto (pagg.60, 116, 129).
Il comportamento quotidiano degli individui,
osserva John C.Harsanyi (L’utilitarismo, op.cit.) è regolato dalle preferenze
(Prefazione, VII), che distinge in:
- preferenze personali, soggettive, che sono particolaristiche: gli
interessi propri, della propria famiglia e degli amici intimi hanno un peso
molto maggiore di quelli degli estranei;
- preferenze morali, etiche, che sono universalistiche: gli interessi
propri e quelli altrui hanno lo stesso peso.
Gli individui sono guidati nelle loro decisioni e nei loro giudizi di valore
sia da preferenze personali, più o meno egoistiche, che da preferenze morali;
le preferenze personali sono le preferenze di un individuo in condizioni
normali, le preferenze morali si manifestano, magari di rado, quando
l'individuo si impone atteggiamenti imparziali e impersonali, cioè morali
(pag.35). Accade così che una distribuzione non egualitaria può essere
disapprovata da un individuo (preferenze etiche) ed insieme preferita
soggettivamente ad una più egualitaria (pag.147, nota).
La funzione di benessere sociale esprime le preferenze morali di un dato individuo,
la funzione di utilità quelle personali; una funzione di utilità è ordinale se
consente di confrontare livelli di utilità, è cardinale se consente il
confronto anche delle differenze di utilità (una funzione di utilità cardinale,
osserva Harsanyi, è anche ordinale, pag.40): noi tutti tentiamo di fare
confronti interpersonali di utilità per "empatia immaginativa",
confronti che si basano sul postulato di similarità della natura umana
per cui, pur tenendo conto di tutte le differenze biologiche, sociali,
educative e culturali, le reazioni psicologiche e il comportamento delle
persone saranno simili in situazioni simili (pagg.43-44).
Le decisioni sociali e quelle morali individuali coincidono solo in un caso
speciale, precisa Harsanyi, e cioè quando vengono affidate ad un funzionario;
vi è qui però il pericolo di abusi politici (pag.52). L'utilitarismo offre
allora un criterio pratico per risolvere i nostri dilemmi morali, utilizzando
un solo postulato morale che è la massimizzazione dell'utilità sociale
(pag.70).
L'utilità sociale viene definita in termini di preferenze dei singoli, è la
media aritmetica di tutte le utilità individuali e segue il principio biblico e
kantiano secondo cui dobbiamo trattare gli altri secondo i loro bisogni e le
loro preferenze, aiutarli in ciò che essi vogliono, non in ciò che noi
possiamo volere per loro o che pensiamo possa essere ‘bene’ per loro, sempre
che le loro preferenze siano informate e non siano spurie o esterne
(pagg.69-70). Le preferenze male informate sono basate infatti su false
credenze, ed un caso speciale di preferenze male informate sono le preferenze
spurie, che sono basate sull'autoinganno; una preferenza spuria può divenire
genuina: "una persona può da principio seguire i concerti per far colpo e
finire per apprezzarli veramente" (pag.60). La tendenza all'autoinganno è
l'ostacolo principale ai confronti interpersonali di utilità nell'arte, nella
letteratura, nella politica.
Harsanyi distingue le preferenze personali di un individuo (come vuole che lo
si tratti) dalle preferenze esterne (come vuole che gli altri vengano
trattati): la moralità utilitarista chiede a ciascuno di rispettare le
preferenze esterne relativamente a se stessi. Per costruire la funzione di
utilità sociale, vanno trascurate sia le preferenze esterne malevole che quelle
benevole, altrimenti verrebbe violato il principio del pari peso degli
interessi degli individui, principio che è fondamentale nella moralità
utilitarista (pag.64).
Le preferenze possono essere accettate oppure si può cercare di cambiarle:
secondo Harsanyi, le preferenze implicite o esplicite che cerchiamo di cambiare
hanno la precedenza sulle altre; le preferenze antisociali, in particolare,
sono basate su invidia, risentimento, sadismo, malvagità: e poichè la base
dell'utilitarismo è la benevolenza, la richiesta altrui di soddisfare
preferenze antisociali può far rivendicare lo status di obiettore di coscienza
(pagg.62-63).
Le azioni altruistiche e le preferenze trascendenti, cioè quelle preferenze che
non sappiamo se si realizzeranno e comunque non saremo presenti in quel
momento, sono esempi di comportamenti che vanno oltre l'utilitarismo
edonistico, cioè oltre la ricerca del piacere e l'eliminazione del dolore
(pag.57).
I doveri morali in una società ideale indicati dalla filosofia morale sono
diversi da quelli indicati in una società lungi dall'essere ideale (ad esempio
una società di imbroglioni, pag.87); la società può comprendere agenti
utilitaristi ma anche agenti che seguono altri codici morali, ideologie
politiche, religiose, tradizioni, o che non seguono alcun codice morale.
L'utilitarismo delle regole sostiene che il criterio utilitarista non va
applicato ai singoli atti, alle singole azioni individuali ma alla regola
morale che li governa; la regola moralmente corretta darà "la
massima utilità sociale a lungo andare se tutti vi si conformano nel tipo di
situazione considerato" (pag.72): l'utilitarismo delle regole vincola gli
agenti a seguire la stessa strategia (pag.82).
Kant negava eccezioni alle regole morali fondamentali, l'utilitarismo delle
regole impone di identificarle sempre per massimizzare l'utilità sociale;
viceversa, in una società modellata sull'utilitarismo degli atti ciascuno si
sottrarrebbe ai propri obblighi se tale comportamento facesse aumentare anche
di poco l'utilità sociale (pag.101).
L'esproprio è giustificato dall'utilitarismo degli atti se i sacrifici di
alcuni sono inferiori anche di poco ai benefici tratti dagli altri, mentre per
la moralità di senso comune la differenza deve essere molto significativa ed in
certi casi giustificata da situazioni di emergenza; l'utilitarismo delle regole
si schiera dalla parte della moralità tradizionale, come nel caso in cui nel
destinare risorse si debba scegliere fra l'educazione dei propri figli e bisogni
urgenti di bambini meno abbienti (pagg.96-97).
L'approccio contrattualista, secondo Harsanyi è invece circolare: il contratto
sociale (che tra l'altro è ipotetico) si basa sulla regola morale secondo la
quale i contratti vanno rispettati, che però non si può giustificare a partire
dal contratto sociale ipotetico (pag.102).
Uguaglianza, giustizia, equità "non sempre possono essere il criterio
decisivo per prendere decisoni politiche" (pag.108); il principio di
maximin porta a decisioni pratiche spesso inaccettabili, mentre il principio
di massimizzazione dell'utilità prevista viene proposto dalla scuola
bayesiana come "regola di decisione appropriata in condizioni di
incertezza" (pag.111).
Anche le conseguenze morali del principio di differenza di Rawls sono spesso
inaccettabili, in quanto impone sempre la priorità degli interessi
dell'individuo più svantaggiato, anche in circostanze estreme; Harsanyi,
seguendo la tradizione utilitarista, propone invece una teoria basata sul principio
dell'utilità media (pagg.114-118).
Il principio morale che assegna lo stesso peso ‘a priori’ agli interessi di
ciascun individuo, giustifica infatti l'assunzione di equiprobabilità; al
contrario, "l'uso del maximin nella posizione originaria equivale ad
assegnare probabilità unitaria (o quasi) all'eventualità di occupare il posto
dell'individuo che sta peggio nella società " (pag.121): il rovesciamento
dell'argomento di Rawls, secondo Harsanyi, lo renderebbe quindi più
convincente.
Amartya Sen, nel libro Il tenore di vita
(op.cit.), distingue tre concetti diversi fra di loro, anche se interrelati:
- agency achievement, cioè i risultati di un'azione, ad esempio la lotta
per una causa, l'azione per solidarietà o, all'opposto, per senso del dovere,
(pag.74);
- personal well-being, cioè il benessere personale;
- standard of living, cioè il tenore di vita.
La valutazione del successo dell'azione è più ampia della valutazione del
benessere, che a sua volta è più ampia della valutazione del tenore di vita; il
concetto di benessere è perciò più ampio di quello di tenore di vita: ad
esempio, la sofferenza per il dolore altrui riduce il mio benessere ma non il
mio tenore di vita (pagg.70-72).
Sen distingue due approcci di valutazione: l'autovalutazione del proprio
tenore di vita rispetto a quello altrui (pag.79), e la valutazione standard,
che richiede uniformità di giudizi circa il valore di una cosa che,
precisa Sen, a volte può essere debole (l'apprezzamento si verifica solo
in alcuni casi) o negativo (il valore si migliora con la sua riduzione,
pag.33 nota).
L'utilità può essere essa stessa un oggetto di valore, oltre che un
metodo di valutazione, ma nessuna sua interpretazione serve per definire il
tenore di vita: nè provare piacere, nè realizzare desideri, nè l'atto di scelta
(pagg.38 e 49).
Il desiderio di una cosa è una conseguenza della sua valutazione; la
mancanza di desiderio verso ciò che va oltre i nostri mezzi implica mancanza
non di apprezzamento ma di speranza, e quindi la paura della delusione:
"il perdente viene a patti con le disuguaglianze sociali adeguando i
desideri alle possibilità di realizzazione" (pag.44). I confronti
interpersonali di desideri sono pertanto fuorvianti, ma anche le scelte
evidenziano una complessità motivazionale: alla loro origine vi può essere il
perseguimento del proprio benessere ma anche quello di qualcun altro,
l'orgoglio nazionale, ecc. (pag.48).
Agiatezza, stare bene, vivere la vita desiderata, avere molto: sono tutte
visioni differenti del concetto di tenore di vita, la cui pluralità
costitutiva lo rende un paniere di più attributi, talvolta alternativi fra loro
(pagg.30-31); essere agiati e stare bene, osserva Sen, non sono infatti la
stessa cosa (pag.52).
Il tenore di vita non riguarda i mezzi posseduti ma la vita che si conduce, è
un problema non di opulenza, di merci, di utilità, ma di funzionamenti (functionings)
e di capacità (capabilities, pag.53). Il nutrimento è influenzato
da molti fattori, sociali, individuali, climatici (pag.52 e 114, nota); il
prezzo dei beni è influenzato dai tassi di cambio delle valute e può essere più
alto nei paesi ricchi, l'analisi della "soglia di povertà " basata
sul reddito può essere molto fuorviante (pagg.57 e 115). Gli indicatori sociali
utilizzano indici costruiti sul possesso di merci piuttosto che sui funzionamenti
e le capacità degli individui, mentre sono questi che determinano la qualità
della vita che si conduce (pagg.68-69).
I funzionamenti sono conseguimenti, aspetti delle condizioni di vita quali, ad
esempio, la durata della vita, l'alfabetizzazione, la nutrizione, la morbilità,
le discriminazioni sessuali, la mobilità, la partecipazione alla vita
comunitaria, il rispetto di sè, ed altri meno rilevanti (pagg.85, 97, 106). I
funzionamenti perfezionati includono la disponibilità di opzioni
alternative; ad esempio, scegliere di digiunare (pag.88 e 113).
Le capacità sono "abilità di conseguire", libertà positive,
opzioni, opportunità di scelta: conta il numero ma anche la qualità delle
alternative, osserva Sen, che possono essere aumentate in modo banale o in una
gamma al cui interno vi è una libertà di scelta molto particolare: come
scegliere fra opzioni quali brutto, terribile, raccapricciante (pagg.87 nota e
102). Inoltre, più libertà di conseguire risultati non garantisce di per sè
risultati maggiori; la libertà di benessere (disponibilità per tutti di
beni primari, ad esempio per intervento dello Stato) può non produrre il
conseguimento del benessere, se qualcuno non accetta: ad uguali livelli di
benessere possono corrispondere capacità diverse (pagg.103-105 e 122).
15-3 IL CONTRATTUALISMO COME METAMETODO DEL RIFORMISMO
Se il riformismo è il metodo politico per eccellenza per cambiare il mondo, il suo "metametodo", ciò che sta sopra, a monte del riformismo, ritengo possa essere individuato nel contrattualismo. Per Kant (Lo stato di diritto, op.cit.) il patto di fondazione di una costituzione civile è il patto sociale, che prevede il rapporto fra uomini liberi che vivono sotto leggi coattive; i principi dello stato civile o stato giuridico, riferiti al singolo individuo, sono: libertà (da accordare con la libertà altrui secondo una legge universale), uguaglianza (ognuno ha diritti coattivi verso gli altri membri del corpo comune), indipendenza; il contratto originario richiede libertà esterna, uguaglianza fra i contraenti, unità del volere di tutti (indipendenza). La ricerca della felicità è il fine comune a tutti gli uomini, ma nessuno può costringermi ad essere felice a modo suo, e quindi il governo paternalistico è incompatibile con la libertà; non esiste infatti alcun principio valido universalmente per legiferare sulla felicità, ognuno pertanto deve essere messo in condizioni di libertà per cercare la propria felicità senza violare la libertà generale, in conformità alle leggi. Perciò il riformismo ha come primo obiettivo non la ricerca della felicità ma la lotta contro la sofferenza in tutte le sue forme.
Secondo James Buchanan (I limiti della libertà,
op.cit.) l'anarchia ordinata è preferibile ad un sistema costituzionale
formale, ed una società è tanto più coesa quante più attività sono soggette a
controlli informali anzichè formali (pag.229).
L'anarchia funziona però solo se gli individui accettano la regola minima della
reciproca tolleranza (pagg.37-38): la comunicazione, ad esempio, presuppone
l'accettazione comune della regola secondo cui si parla uno per volta; gli
individui di solito camminano sui marciapiedi delle città e rispettano le file
ai supermercati, nelle banche, negli aeroporti. Formalizzazione,
implementazione e coercizione diventano necessarie quando gli individui non si
conformano alle regole in modo implicito; in effetti, gli equilibri in regime
di anarchia sono fragili e presuppongono sistemi strettamente non-conflittuali
(pag.39 e pag.227).
Eppure buona parte della vita sociale quotidiana si svolge come anarchia
regolata e presuppone il concetto di autogoverno che è fondamentale
se si vuole analizzare il governo di un sistema collettivo di individui;
l'equilibrio naturale anarchico si basa sull'adattamento spontaneo e non
richiede la negoziazione di contratti fra individui (pagg.63, 129, 188).
Crusoe razionale costruisce ed usa una sveglia, che diventa per lui il
governante; l'uomo fa le leggi, decide liberamente di imporre vincoli al
proprio comportamento, e in ciò si differenza dagli altri animali: è il
paradosso dell'essere governato (pag.189 e pag.210).
Si esamini anche il caso delle abitudini alimentari: il risultato
(indesiderabile) dell'obesità consegue ad una sequenza temporale di decisioni
sull'alimentazione ciascuna delle quali appare come razionale; la dieta diventa
allora la costituzione alimentare, un insieme di norme che l'individuo sceglie
per raggiungere lo scopo che si propone (pagg.280-282). La selezione delle
regole e l'azione entro le regole selezionate costituiscono due fasi di
interazione sociale (pag.29).
Possiamo interpretare lo Stato, definito da Buchanan come l'agenzia collettiva
della comunità (pag.146) in due ruoli separati:
- nella fase costituzionale, lo Stato è l'agenzia esterna alle parti contraenti
che garantisce la conformità; è lo Stato legale o protettivo caratterizzato da
principi di neutralità e con compiti coercitivi puramente scientifici (pagg.147
e 192). Si tratta di un mix costituzionale, caratterizzato dall'interdipendenza
di vari elementi; il contratto costituzione deve infatti (pag.152-153):
a) prevedere limiti al comportamento di ciascun individuo in riferimento alla
posizione degli altri individui, o contratto di disarmo;
b) definire i diritti positivi relativi alle dotazioni di risorse;
c) rendere espliciti termini e condizioni dell'obbligo di osservanza.
- Nel contratto post-costituzionale, lo Stato è l'agenzia attraverso cui gli
individui si assicurano beni pubblici; nello stato produttivo i risultati non
sono ‘scientifici’ come nello stato protettivo, in quanto non consistono in
scelte fra alternative come ‘vero o falso’, ma comportano l'applicazione di
criteri misti di efficienza e di equità (pagg.147, 195, 222).
Lo status quo costituzionale definisce ciò che esiste, è l'insieme di tutte le
norme e di tutte le istituzioni vigenti in quel momento (pagg.162 e 174); ciò
che conta in esso non è la stabilità ma la prevedibilità, che è
indispensabile affinchè gli individui possano avere aspettative su cui basarsi
per i loro progetti. Ogni proposta di cambiamento coinvolge lo status quo come
punto di partenza necessario; la domanda che ci si deve porre quando si valuta
una proposta di cambiamento socio-politico è: "come possiamo arrivare lì
partendo da qui?" (cit., pag.164).
L'effettivo status quo costituzionale è dinamico, il contratto costituzionale è
in formazione continua, nuove leggi spostano attività umane dal dominio
dell'anarchia al loro dominio (pag.211).
I diritti di ciascun individuo consistono in aspettative sul comportamento di
altri individui (pag.179), la definizione di diritti individuali è la
conseguenza di conflitti interpersonali, attuali o potenziali; non è la
scarsità che genera conflitti sociali ma la vicinanza fra gli individui:
l'assenza di conflitto sarebbe possibile solo isolando gli individui fra loro
(pag.69).
Concettualmente, la persona si può collocare lungo uno spettro: ad un estremo
non ha alcun diritto, è in condizione di totale schiavitù, all'estremo opposto
è in condizione di dominio assoluto, può fare tutto nei limiti della natura
fisica (pagg.46-47).
Le leggi, le regole di comportamento, i diritti di proprietà emergono dagli
interessi e non dagli ideali degli uomini, e non è necessaria alcuna
presunzione di uguaglianza in una qualche posizione originaria: "si può
prevedere la nascita di una struttura di diritti sanciti dalla legge anche tra
uomini che non sono uguali" (cit., pag.124); il dilemma del prigioniero
dimostra che tutti i soggetti accresceranno la propria utilità se si mantengono
fedeli alla "legge", anche se ciascuno di essi può ricavare vantaggi
ad infrangerla (pag.75).
La possibilità di cambiare la struttura dell'ordine sociale diventa evidente
storicamente allorchè il contratto sociale di tipo hobbesiano, "tra uomini
schiavi e un padrone sovrano" (pag.277), diventa contratto sociale tra
uomini indipendenti (Althusius, Spinoza, Locke, ma soprattutto Rousseau): nel
momento in cui uomini indipendenti si contrappongono allo Stato, viene
garantita la possibilità della rivoluzione (pagg.277 e 308-312); si ha la rivoluzione
costituzionale quando i cambiamenti strutturali sono accettati da tutti i
membri della comunità, altrimenti si hanno rivoluzioni non costituzionali che,
come le controrivoluzioni, richiamano sequenze di giochi le cui somme sono zero
o negative.
Il tentativo di descrivere i contenuti del miglioramento indipendentemente
dall'accordo (attuale o potenziale) è fonte di arroganza intellettuale e
morale; infatti deve intendersi buono, secondo Buchanan, solo "ciò che
risulta dall'accordo tra uomini liberi, a prescindere dalla valutazione
intrinseca del risultato stesso" (cit., pag.309).
I costi sociali, oltre ai costi diretti di ogni singolo progetto, comprendono
anche gli effetti esterni, o di spillover (pag.286). Congestione ed
inquinamento sono riconducibili al modello anarchico di Hobbes: gli individui
entrano in conflitto per utilizzare risorse scarse con risultati che nessuno
desidera; la rivoluzione costituzionale implica allora accordi reciproci per
limitare comportamenti che sono necessari per realizzare obiettivi abbastanza
efficienti. Il dilemma è prevedibile: "a mano a mano che cresce la
popolazione, che la tecnologia si sviluppa e che la domanda varia nel tempo,
devono anche aver luogo dei veri e propri cambiamenti costituzionali" (cit.,
pag.331).
L'inquinamento non è solo ambientale, può essere anche comportamentale: violare
la legge stabilita è creare male pubblico allo stesso modo che inquinare
l'ambiente naturale. Il deterioramento della qualità dell'ambiente è poi un
risultato aggregato, che nessun individuo potrebbe desiderare singolarmente; ma
anche il ladro impone diseconomie a tutti i membri della società, perché
occorrerà rafforzare i servizi di polizia, e dunque finanziarli, e quindi i
premi assicurativi aumenteranno, ecc. (pagg.233-236).
Creando male pubblico, il singolo individuo erode il capitale pubblico
esistente, che viene convertito in reddito goduto privatamente; questa erosione
individuale riduce la stabilità delle interazioni sociali, per i contemporanei
ma anche per i posteri (pag.240). Pure l'erosione dell'ordinamento giuridico è
distruzione di capitale pubblico: "una decisione di violare la legge
comporta uno scambio tra perdita futura e guadagno attuale" (pag.257), ed
i regimi democratici tenderanno ad essere reattivi piuttosto che strategici nei
processi decisionali (pag.248 e 274).
Finora l'attività di governo, o politica, è stata l'equivalente sociale del
filo di ferro, ovvero una risposta politica pragmatica o incrementale ai
problemi (pagg.313-315), ed il progresso sociale è stato misurato con la
quantità di legislazione; ma non sempre le riparazioni col fil di ferro
funzionano e talvolta sono necessari cambiamenti più radicali. Il principio del
laissez-faire proposto da Adam Smith era una rivoluzione costituzionale e consisteva
in un'anarchia ordinata, mentre i critici socialisti, e la dottrina marxista,
non sono riusciti ad offrire un principio organizzativo alternativo.
La decisione maggioritaria soddisfa preferenze mediane (pag.272); scrive
Buchanan: "qualsiasi quantità di legge scelta collettivamente lascerà un
gran numero di persone in posizioni non preferite perché riterranno la legge
troppo restrittiva o troppo permissiva" (pag.220). Man mano che aumenta la
complessità del bilancio, poi, cresce la delusione verso l'attività pubblica
anche se le singole funzioni sono efficienti.
In gruppi di dimensioni modeste, il meccanismo politico ha analogie con lo
scambio volontario: l'influenza del singolo sulle decisioni del gruppo è
maggiore, ed è pure maggiore la libertà di emigrazione. Viceversa, nelle
comunità con molti membri non solo aumenta il pericolo della violazione
individuale dei diritti, ma aumenta anche il rischio che l'attività coercitiva
possa non voler punire di fatto i trasgressori. Nei gruppi con grandi numeri,
ciascun individuo considera il comportamento degli altri individui come parte
del suo ambiente naturale, ed agisce consapevolmente come se il suo
comportamento non influisse su quelli altrui; ogni individuo ha perciò un
incentivo razionale all'inosservanza. Tra l'altro, i vincoli legali imposti al
comportamento individuale sono soggetti a variazioni col cambiare dei gusti
(preferenze), della tecnologia e delle risorse.
Bilanci sempre crescenti ed interpretazione sempre più irresponsabile della
legge: il risultato finale è il Leviatano nell'accezione moderna del termine,
una rete burocratica impersonale che imprigiona l'uomo e che lui stesso
riconosce di avere creato (pagg.142-143, 166, 204, 212, 242, 278 e 304).
Una parte del compenso percepito per le cariche politiche, osserva ancora
Buchanan, è reddito politico che consiste nella possibilità di scegliere
alternative od opzioni che massimizzano la propria utilità personale e non
quella dei propri elettori (pag.293). L'espansione dei bilanci pubblici è una
tendenza unilaterale, e con la crescita del settore pubblico cresce il potere
politico dei burocrati in quanto votanti. Gli interessi dei produttori tendono
a dominare su quelli dei consumatori, ed anche gli interessi dei burocrati
pubblici, in quanto produttori, tendono a dominare su quelli dei cittadini ed
utenti, attraverso l'ampliamento del proprio ente di appartenenza, e la
massimizzazione della propria utilità personale (pagg.299-300); esiste perciò
un margine di discrezionalità nell'esercizio dell'autorità da parte degli
amministratori che i poteri legislativo ed esecutivo non potranno mai
controllare pienamente se non a costi proibitivi.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Norberto Bobbio, IL FUTURO DELLA DEMOCRAZIA
(ed. Einaudi, Torino 1984)
- Norberto Bobbio, L’ETÀ DEI DIRITTI (ed.Einaudi, Torino 1990)
- James Buchanan, I LIMITI DELLA LIBERTÀ (ed. Rusconi, Milano 1998)
- Anthony Giddens, LA TERZA VIA. Manifesto per la rifondazione della
socialdemocrazia (Milano 1999)
- John C. Harsanyi, L'UTILITARISMO, (ed. il Saggiatore, Milano 1988)
- Immanuel Kant, LO STATO DI DIRITTO - Amartya Sen, IL TENORE DI VITA. Tra
benessere e libertà (ed.Marsilio, Venezia 1993)
16- RIFORMISMO, DIRITTI, GUERRE GIUSTE E INGIUSTE
16-1 DIRITTI PER L'AZIONE RIFORMISTA
Analizzeremo ora brevemente alcuni argomenti sui
diritti e sulle guerre: argomenti tutt'altro che inattuali, visto il perdurare
del terrorismo internazionale e le forme di reazione ad esso. Per argomentare
temi così attuali, possiamo iniziare la nostra trattazione leggendo come questi
stessi argomenti sono stati affrontati "in altri tempi": secondo
Kant, ad esempio, i diritti vengono conferiti unicamente dalla giustizia, la
quale deve essere pubblicamente notificabile: "tutte le azioni che
concernono il diritto di altri uomini, e la cui massima non è compatibile con
la pubblicità, sono ingiuste" (Per la pace perpetua, op.cit.,
pag.149). Si tratta di un principio negativo, in quanto il principio della
pubblicità è soltanto un mezzo, sia pure certo, indimostrabile, facile da
applicare.
Alla migliore costituzione possibile secondo leggi giuridiche ci si può
avvicinare solo per gradi, con correzioni successive, "mediante un
infinito processo di avvicinamento" (pag.163).
Herbert L.A. Hart, ne Il concetto di diritto (op.cit.), considera il
diritto come una importante sfera della vita sociale, un campo (quello delle
norme giuridiche) che si affianca agli altri importanti campi della vita
sociale, che sono quelli della morale e dell'abitudine: il diritto è
storicamente determinato ed è in costante rapporto di interazione con gli altri
campi del sociale.
Trattando le norme giuridiche, Hart le confronta con le regole dei giochi
sportivi: la società, egli osserva, è un sistema di regole, delle quali una
parte, variabile da società a società e da epoca ad epoca, costituisce diritto.
La giustizia, precisa Hart, è una parte della morale che si occupa di come
vengono trattate classi di individui piuttosto che la loro condotta
individuale; la giustizia è la virtù più pubblica e più giuridica, ma i suoi
principi "non esauriscono il concetto di morale: e non tutte le critiche
del diritto svolte su basi morali sono svolte in nome della giustizia"
(pag.196).
Hart distingue il concetto di diritto dai diritti particolari, che determinano
forme di ordinamento giuridico condizionate storicamente: rispetto
all'ordinamento giuridico, egli individua pertanto le posizioni interne
all'ordinamento, che sono quelle del soggetto di diritto, ed esterne che sono
invece quelle dell'osservatore non partecipante che "guarda" le
regole giuridiche del gioco sociale, ma al momento non è soggetto ad esse
perché proviene da un altro ordinamento, dallo stato di natura, o da un altro
pianeta (pagg.106-107).
Per Bobbio (L’età dei diritti, op. cit.) i
diritti dell'uomo, la concezione individualistica, la democrazia, la stessa
pace sono tutti termini strettamente connessi; un salutare esercizio, secondo
Bobbio, è "leggere la Dichiarazione universale e poi guardarsi
attorno" (pag.44).
I diritti umani possono essere rivendicati (aspirazioni ideali), ovvero
anche riconosciuti e protetti (pag.XX): i problemi fondamentali sono
pertanto la loro giustificazione (l'analisi dei fondamenti) e la loro
protezione (mezzi, garanzie, condizioni). Però dopo la Dichiarazione
universale del 1948, scrive Bobbio, "il problema di fondo relativo ai
diritti dell'uomo è oggi non tanto quello di giustificarli, quanto
quello di proteggerli. È un problema non filosofico ma politico"
(cit., pag.16).
Sono pertanto due le concezioni fondamentali della società: la concezione organica
e quella individualista, dove i cittadini non più sudditi acquistano
diritti, la quale "procede lentamente dal riconoscimento dei diritti del
cittadino di un singolo stato al riconoscimento dei diritti del cittadino del
mondo, di cui è stata la prima annunciatrice la Dichiarazione universale dei
diritti dell'uomo; dal diritto interno dei singoli stati, attraverso il
diritto fra gli stati, al diritto cosmopolitico" (pag.XII).
Bobbio distingue l'individualismo metodologico, per il quale contano le
azioni degli individui, l'individualismo ontologico, che attribuisce
autonomia e pari dignità degli individui, e l'individualismo etico, che
si traduce nel concetto di persona morale (pag.60).
Bobbio descrive i diritti dell'uomo come:
- prodotti non della natura ma della civiltà umana (pag.26);
- mutevoli o storicamente relativi (costituiscono una classe variabile,
pag.9);
- eterogenei; sono tre i modi possibili di fondare i valori (pag.19):
dedurli dalla natura umana, considerarli verità di per se stesse evidenti,
oppure attraverso la prova del consenso;
- antinomici, in particolare nel contrasto fra diritti di libertà e
diritti sociali: "le società reali, che abbiamo dinnanzi agli occhi, nella
misura in cui sono più libere sono meno giuste e nella misura in cui sono più
giuste sono meno libere" (pag.41);
- universali, attraverso uno sviluppo in tre fasi: prima le teorie
filosofiche (giusnaturalismo), poi sistemi di diritti positivi in singoli Stati
(Dichiarazione dei diritti degli Stati americani e Rivoluzione francese),
infine la Dichiarazione universale del 1948 (pagg.22 e seguenti); scrive
Bobbio: "è avvenuto storicamente il passaggio da un sistema di diritti in
senso debole, in quanto erano inseriti in codici di norme naturali o morali, a
un sistema di diritti in senso forte, come sono i sistemi giuridici degli stati
nazionali. E oggi attraverso le varie carte dei diritti in sede internazionale
è avvenuto il passaggio inverso da un sistema più forte come quello nazionale
non dispotico a un sistema più debole come quello internazionale" (cit.,
pag.85).
I diritti dell'uomo possono essere così storicamente classificati:
Diritti della prima generazione (pag.70, pag.127): diritti individuali
che consistono in libertà ed implicano un non fare dello Stato;
Diritti della seconda generazione o diritti sociali, che non
rispondono come i primi a minacce alla libertà dell'individuo ma che offrono
rimedi alla sua indigenza, che sono antinomici rispetto ai diritti
individuali e consistono in poteri in quanto richiedono un fare
positivo dello Stato: i tre diritti sociali fondamentali sono il diritto
al lavoro (pag.43), il diritto all'istruzione, il diritto alla
salute (pag.13 e 41-43).
Diritti della terza generazione quali sono i diritti ambientali (pag.XV).
Diritti della quarta generazione (bioetica).
Assistiamo a processi di trasformazione dei diritti dell'uomo, caratterizzati
dall'aumento crescente delle pretese e da difficoltà crescenti nel soddisfarle
(pag.62 e 64); in particolare assistiamo a processi di universalizzazione
(valgono i diritti fondamentali per ogni individuo, pag.215), a processi di internazionalizzazione
(a partire dalla Dichiarazione universale del 1948), a processi di moltiplicazione
per specificazione dei soggetti titolari di diritti (pagg.63-69-70-78). La
specificazione si è verificata rispetto al genere (uomini, donne), rispetto
alle varie fasi della vita (diritti dell'infanzia e della vecchiaia), tra stati
normali e stati eccezionali dell'esistenza (diritti speciali ai malati, agli
handicappati, ai malati di mente, ecc.).
Assistiamo anche a processi di generalizzazione (ad esempio del diritto
di voto, pag.72), ed a processi di estensione dei diritti (alle
generazioni future, agli animali).
Alla filosofia della storia, intesa come storia profetica
(pagg.47-48-147), Bobbio contrappone una prospettiva di ambiguità della storia
umana (pagg.50-251); mentre il progresso scientifico e tecnico è continuo e
inarrestabile, il progresso morale è problematico (pagg.50-51). Si veda ad
esempio il dibattito sulla pena di morte, che è strettamente connesso al
dibattito sul diritto alla vita il quale si esplica in almeno quattro forme
diverse (pagg.196-214):
- il diritto a non essere uccisi (cui corrisponde il dovere di non uccidere);
- il diritto a nascere (cui corrisponde il dovere di non abortire);
- il diritto a non essere lasciati morire (cui corrisponde il dovere di
soccorrere chi è in pericolo di vita);
- il diritto alla sopravvivenza (cui corrisponde il dovere di offrire i mezzi
minimi di sostentamento a chi ne è privo).
Scrive Bobbio: "tradotti in termini normativi, questi quattro doveri
presuppongono quattro imperativi di cui i primi due negativi (o comando di non
fare), gli altri due positivi (o comando di fare)" (cit., pag.214).
Secondo Amnesty International (Diritti senza pace, op.cit.) sono diritti
umani inderogabili, vale a dire super-diritti, core rights o minimum
humanitarian standards, la cui violazione costituisce crimine sottoposto a
giurisdizione universale (pagg.77-78 e 82 nota):
"il diritto alla vita in alcune sue declinazioni, il diritto a
non subire torture nè punizioni o trattamenti disumani e degradanti, il diritto
a non essere sottoposti a regime di schiavitù o servitù, il diritto a
non essere imprigionato per non essere in grado di adempiere ad un'obbligazione
contrattuale, il principio di irretroattività della legge penale, il
diritto a veder riconosciuta la propria personalità giuridica, il diritto
alla libertà di pensiero, coscienza e religione" (pag.76, vedere anche
i contenuti della citata Dichiarazione universale dei diritti umani del
1948).
Si tratta di diritti essenziali, interrelati, non divisibili, meritevoli di
tutela (pag.88).
Il rapporto verticale Stato-individuo comporta per lo Stato alcuni doveri
negativi di garanzia (non uccidere, non torturare, non discriminare, ecc.)
ed altri doveri positivi (diritti per i cittadini); doveri secondari
positivi sono poi necessari per garantire i diritti umani, del cui rispetto lo
Stato è responsabile sia direttamente, che indirettamente per le violazioni
altrui (pag.13): si tratta di interventi che richiedono risorse umane ed
economiche ingenti, ad esempio per approntare la riforma delle procedure penali
e dell'odinamento giudiziario.
I fondamenti della società
acquisitiva, osserva Richard Tawney (op. cit.), sono nei diritti e non
nelle funzioni; i diritti sono "innati, ereditabili, intoccabili e
insindacabili, anteriori e indipendenti da ogni servizio o funzione"
(pag.76).
Il privilegio, secondo Tawney, è un diritto cui non corrisponde alcuna
funzione; la proprietà e la direzione delle imprese sono diritti che hanno una
validità intinseca non riconducibile a funzioni di interesse collettivo. I
diritti economici sono pertanto anteriori ed indipendenti da ogni funzione
sociale, si pongono al di sopra di ogni giudizio umano e non dipendono
dall'adempimento o meno delle funzioni (pagg.79-81).
Se, al contrario, il criterio-guida diventa la realizzazione di uno scopo
sociale, sia per il commercio che per l'industria, la proprietà economica viene
declassata, non è più un diritto assoluto ma contingente e revocabile nel caso
le funzioni non venissero adempiute (pag.80).
La società funzionale, secondo Tawney, si caratterizza allora per:
1) acquisizione di ricchezza nel rispetto degli obblighi sociali;
2) proporzione fra remunerazioni e servizi resi;
3) conta non ciò che ciascuno possiede, ma ciò che può fare, creare, realizzare
(pag.82).
La felicità è una condizione individuale e non può essere l'obiettivo della
società.
Nelle società acquisitive il fine diventa quello di promuovere
l'acquisizione illimitata di ricchezza individuale, la visione di una
espansione infinita anche per il debole, illuso di poter anch'egli un giorno
essere forte: l'individuo diventa "centro dell'universo e i principi
morali si dissolvono in una scelta delle convenienze" (pag.83).
Ciò conduce ad una semplificazione dei problemi delle comunità complesse,
perché non è necessario distinguere fra tipi diversi di attività economica, la
cupidigia, il parassitismo, ecc., in quanto tutte le attività economiche
vengono considerate allo stesso livello e non si ritiene di dover intervenire
nei confronti dell'eccesso, del difetto, dello spreco e del superfluo (pag.84).
16-2 LA DEMOCRAZIA COME PRESUPPOSTO DELLA PACE
Norberto Bobbio ne Il futuro della democrazia
(op.cit.) osserva come nessuna guerra sia mai scoppiata finora tra regimi
democratici: la pace perpetua di Kant è dunque possibile, a patto che tutti
gli stati assumano la forma di governo democratica (pag.26).
Sono infatti valori della democrazia la tolleranza, la nonviolenza, la
fratellanza, le rivoluzioni silenziose, il rinnovamento graduale, il libero
dibattito.
La seconda guerra mondiale, osserva Galbraith ne L’età dell’incertezza
(op.cit.), fu in realtà l'ultima battaglia della grande guerra; le guerre hanno
motivazioni quali l'imperativo territoriale (in società prevalentemente
agricole), la paura di essere invasi (è lo spirito delle crociate: meglio
combattere oggi qui che domani in casa nostra), la non intelligenza dei governanti
(frequente, osserva, nel potere ereditario).
I privilegiati rischieranno sempre la loro distruzione piuttosto che rinunciare
ad una parte dei loro privilegi materiali. Lo spirito rivoluzionario si
sviluppa in assenza di riforme, e Galbraith individua tre condizioni per una
rivoluzione:
a) leaders risoluti che hanno tutto da guadagnare e niente da perdere;
b) capi disciplinati che eseguono e accettano gli ordini senza discutere;
c) l'altra parte in causa deve essere debole: così è stato per l'indipendenza
del Sud America dalla Spagna, per la rivoluzione francese, quella russa, quella
cinese.
La primissima manifestazione di una società senza classi, secondo Galbraith, è
la scomparsa della classe dei domestici. Potere e reddito scorrono nello stesso
asse ma in direzioni opposte: il potere scende dalle classi superiori a quelle
medie fino alle inferiori, mentre il reddito sale dalle inferiori alle
superiori; il prestigio nel secolo XIX (e la relativa scalata sociale) partiva
dalla ricchezza industriale per arrivare a quella terriera fino alla nobiltà;
il prestigio nel XX secolo (e la scalata sociale) parte invece dalla ricchezza
materiale passando per le professioni di attori, artisti, giornalisti fino ad
arrivare ai politici.
La democrazia, osserva ancora Bertrand Russell nel libro Il potere
(op.cit.), da un lato è incapace di prendere decisioni rapide o con conoscenze
specifiche, dall'altro è però la migliore forma di governo per prevenire la
guerra civile in quanto "impone l'accettazione del compromesso"
(pag.140).
Russell distingue il desiderio del potere come mezzo per soddisfare altri
desideri dal desiderio del potere come fine in sè (pag.189): quest'ultimo non
può essere benefico; inoltre, i mezzi impiegati non devono avere conseguenze
secondarie negative tali da annullare la bontà del fine perseguito. Anche le opportunità
possono avere aspetti positivi (professioni costruttive) o negativi
(opportunità per i delinquenti, i dittatori, pagg.191-192).
Il bene e il male, osserva Russell, sono negli individui e non nelle comunità;
lo scopo ultimo del potere dovrebbe essere la collaborazione sociale fra tutti
gli esseri umani (pag.195). La democrazia è in grado di domare il potere: i
suoi meriti non sono positivi, "non garantisce un buon governo"
(pag.198) ma negativi, in quanto previene certi mali.
L’opinione di Russell, in effetti, non può essere del tutto condivisa: la
democrazia senza riformismo, infatti, può non garantire un buon governo, mentre
lo scopo del riformismo è proprio quello di realizzare una democrazia
governante.
16-3 CI SONO GUERRE GIUSTIFICABILI PER I RIFORMISTI?
In un'epoca storica in cui le democrazie sono
"superpotenti", sia dal lato economico che da quello militare,
possono esistere guerre giuste per i riformisti?
L'idea di sovranità nazionale, scrive Peter Singer in One World
(op.cit.), è stata messa in discussione dalla comune dipendenza da un'unica
economia mondiale, da un'unica atmosfera, ma anche da tecnologie che consentono
più facilmente il genocidio e da sistemi di comunicazione che ne danno notizia
in modi e tempi impensabili fino ad un secolo fa.
Il genocidio, osserva Singer, è un evento tutt'altro che eccezionale nella
storia umana: solo nel Novecento abbiamo avuto notizia di misfatti quali il
massacro degli armeni da parte dei turchi fra il 1915 ed il 1917, lo
stalinismo, il nazismo, i massacri in Cambogia, Ruanda, Bosnia, Kosovo, Timor
Est (cit., pag.129). La prevenzione attraverso politiche contro la povertà,
l'ingiustizia, lo sfruttamento e per una migliore istruzione è necessaria ma
non sufficiente, occorre perseguire questi crimini con una legislazione
internazionale che riconosca la responsabilità penale internazionale per
crimini contro l'umanità, come è stato fatto col Tribunale penale internazionale
istituito a Roma nel 1998 (pagg.142-143); qualora, però, anche questa
legislazione fallisca, in caso di genocidio bisogna poter intervenire
militarmente.
Occorre allora individuare quali criteri possano giustificare un'azione
militare: una prima risposta potrebbe essere che l'autorità deve essere in capo
alle Nazioni Unite, che però non sono un modello di democrazia, sia perché il
Consiglio di Sicurezza ha poteri di veto, sia perché la stessa Assemblea
generale rappresenta i governi (molti dei quali sono dittature) e non i
cittadini del mondo (pagg.163-166).
Per quanto riguarda i criteri che giustificano in sè l'opzione militare, poi,
l'argomento consequenzialista sembra poterci indurre ad utilizzare
qualsiasi mezzo per prevenire tragedie come il genocidio; tuttavia, in una
prospettiva a lungo termine, l'etica consequenzialista "dovrebbe difendere
la supremazia del diritto internazionale, a causa delle sue potenzialità di
ridurre le probabilità di guerra" (cit., pag.149).
L'argomento utilitaristico indica la guerra come ultima risorsa, cui far
ricorso solo quando non è possibile prevenire altrimenti perdite di vite e
sofferenze ancora maggiori di quelle causate dalla guerra, che deve avere
peraltro buone probabilità di successo; tale argomento "suggerisce di non
intervenire quando è probabile che i costi dell'intervento risultino superiori
ai benefici ottenibili" (cit., pag.156).
L'argomento politico secondo cui la democrazia come forma di governo
sarebbe in grado di prevenire i genicidi non è, secondo Singer, del tutto
convincente: "la democrazia nel senso del governo della maggioranza, non
offre la garanzia che i diritti umani vengano rispettati" (cit., pag.154).
Certamente sono molto più efficaci le procedure palesi di discussione pubblica,
e le informazioni tempestive e complete che possono arrivare dai mezzi di
comunicazione di massa.
Vi è poi un argomento giuridico contro l'intervento militare, in quanto
distrugge lo Stato-nazione creando condizioni di anarchia e situazioni in cui
il potere viene controllato dal crimine organizzato. Contro l'argomento del
relativismo morale, Singer osserva poi che vi è almeno una "regola
aurea" molto vicina all'universalità perché riscontrabile in diverse
culture e religioni, che è quella della reciprocità: "tratta gli
altri come vorresti che gli altri trattassero te" (cit., pag.159).
In realtà questa è, secondo Singer, la regola fondamentale dell'etica, un'etica
comune costituita da principi molto generici che però ci permette di
distinguere i governanti democratici e di autorità tradizionale dai governanti
che mantengono il potere grazie a misure repressive; scrive Singer in
proposito: "il fatto che un regime non sia democratico non implica che si
debba realizzare qualche forma di intervento; se il regime non sta attuando un
genocidio o altri crimini contro l'umanità, la questione dell'intervento non si
pone" (cit., pag.161).
I limiti alla sovranità sono pertanto i limiti alla volontà ed alla capacità
dello Stato di proteggere la propria popolazione: uno Stato che non può o non
vuole assumersi la responsabilità di proteggere le popolazioni che vivono nel
proprio territorio, giustifica l'intervento militare esterno, che diventa a
questo punto necessario per fermare le atrocità.
L'uso della forza come mezzo decisivo della politica,
osserva Max Weber ne La politica come professione (op.cit.), deve essere
giustificato rispetto ai fini voluti, ai quali peraltro si sommano gli effetti
collaterali che contribuiscono a rendere irrazionale il mondo; dal bene,
conclude Weber, non consegue necessariamente il bene (pagg.77-78).
Norberto Bobbio osserva in proposito come sia difficile distinguere una guerra
giusta da una ingiusta, in quanto la sua giustificazione dipende da osservatori
che sono anche parti in causa: "una volta accettata la violenza come
metodo di lotta politica, era difficile nel caso concreto distinguere la
violenza giusta da quella ingiusta, per la semplice ragione che per ognuna
delle parti la causa giusta era la propria" (Profilo ideologico del
Novecento italiano, cit., pag.66).
I termini di una opposizione, osserva ancora Bobbio nel libro Il problema
della guerra e le vie della pace (op.cit.), possono essere definiti, l'uno
o entrambi, sia positivamente che negativamente, cioè indipendentemente ovvero
in dipendenza l'uno dell'altro; qualora uno sia definito in negativo rispetto
all'altro, questo si dice termine debole, l'altro termine forte
perché più rilevante (pag.122): pace è definita negativamente come assenza di
guerra, piacere come assenza di dolore, disordine come mancanza di ordine.
La scelta razionale fra mezzi diversi per raggiungere uno stesso fine, osserva
ancora Bobbio, deve considerare due requisiti, l'attuabilità, cioè la
possibilità in rapporto alla complessità, e l'efficacia, cioè il potere
del mezzo in rapporto alla profondità (pag.90).
Lo stesso precetto non uccidere aveva in origine la funzione di impedire
la disgregazione del gruppo, piuttosto che quella di proteggere il singolo;
scrive Bobbio: "ne è la miglior prova il fatto che questo precetto, considerato
giustamente come uno dei capisaldi della morale, vale solo all'interno del
gruppo, non vale nei riguardi dei membri degli altri gruppi" (Il futuro
della democrazia, op.cit., pag.55).
La tolleranza nel significato storico si riferisce al problema di credenze
o opinioni diverse, cioè di verità anche contrapposte; oggi il concetto viene
esteso al problema della convivenza con i diversi, minoranze etniche,
linguistiche, razziali, omosessuali, pazzi, handicappati (pag.235). Anche la
tolleranza ha due significati, uno positivo ed uno negativo, e così pure il suo
opposto, l'intolleranza (pag.245).
Secondo Bobbio, la tolleranza deve essere estesa a tutti tranne che agli
intolleranti, valutando però la possibilità di educare l'intollerante al
rispetto altrui; scrive Bobbio: "meglio una libertà sempre in pericolo ma
espansiva che una libertà protetta ma incapace di svilupparsi. Solo una libertà
in pericolo è capace di rinnovarsi. Una libertà incapace di rinnovarsi si
trasforma presto o tardi in una nuova schiavitù " (cit., pag.250).
Nell'atteggiamento di fronte alla guerra (compresa la guerra atomica), nel
libro Il problema della guerra e le vie della pace Bobbio distingue i realisti,
i fanatici, i fatalisti, i nichilisti e i mistici
(pagg.43-45): per i fatalisti la guerra non appare diversa da altri eventi
catastrofici naturali, e talvolta viene giustificata come castigo divino; la
tentazione di uccidere aumenta con la sicurezza di non essere uccisi, la morte
di persone a noi lontane ci è indifferente emotivamente (pagg.8-16).
Bobbio individua quattro tipi di guerre: fra stati, interna (civile), coloniale
(imperialistica), di liberazione (pag.125). Distingue il giudizio di
legittimità (giudizio etico sul giusto titolo: giusta causa della guerra)
dal giudizio di legalità (giudizio giuridico sulla conduzione della
guerra: ius belli): una guerra può pertanto essere legittima e legale,
legittima e illegale, illegittima e legale, illegittima ed illegale; il diritto
internazionale infatti non regola le cause di una guerra ma solo la sua
condotta (con armi convenzionali). La guerra atomica è sia illegittima
che illegale, non rispetta alcun limite previsto dallo ius belli, non
rispetta le persone (i civili), le cose (gli obiettivi non militari), i mezzi
(le armi micidiali), i luoghi (le zone di guerra; pagg.64-65).
Pace, secondo Bobbio, ha un significato descrittivo, come "stato di
cose", ed uno emotivo, come valore.
In positivo, la pace consegue ad un accordo fra stati (diritto
internazionale); mentre in negativo, nella sua definizione generica, pace è un
termine alternativo a guerra, fra la pace in senso positivo e la guerra vi può
essere una zona intermedia in cui sono possibili tregue ed armistizi. Anche il
concetto teologico-filosofico di pace è positivo, ma valutativo in quanto
comporta una definizione persuasiva: la pace giusta, come dovrebbe
essere; al contrario, la definizione tecnico-giuridica del diritto
internazionale è avalutativa, è una definizione lessicale
(pagg.126-127).
Il pacifismo passivo nel XIX secolo considerava la guerra destinata a
scomparire con l'evoluzione del regime politico, come per Kant, o con
l'evoluzione di quello economico come per il positivismo evoluzionistico o il
materialismo storico; comunismo, anarchia, pacifismo, rispondono alla stessa logica
di rovesciamento dialettico: della proprietà, dello stato, della guerra
(pag.112).
Il pacifismo attivo del XX secolo cerca invece rimedio alla guerra nei
mezzi (col disarmo), nelle istituzioni (col pacifismo giuridico), negli uomini
(con la liberazione dalla guerra per via morale, scientifica, religiosa). Il
pacifismo attivo perciò si distingue in:
- pacifismo strumentale, che agisce sui mezzi: in negativo distruggendo
le armi (disarmo), in positivo sostituendole con mezzi non violenti
(teoria e pratica della non violenza);
- pacifismo finalistico, che agisce sugli uomini: attraverso la
persausione, la conversione, l'obiezione di coscienza; oppure attraverso
terapie di guarigione da quella che viene considerata una malattia
(pagg.88-89);
- pacifismo istituzionale, che agisce sulle istituzioni: può essere giuridico,
istituendo lo stato mondiale federale (pag.143); sociale, istituendo al
contrario la soppressione dello stato col socialismo (pagg.83-86 e pag.145); democratico
come nella concezione illuministica: la causa delle guerre sono i dispotismi
(pag.144).
A seconda delle giustificazioni date, le teorie sulla guerra possono essere
bellicistiche, dottrine della guerra giusta, pacifistiche (pacifismo attivo);
la teoria della guerra giusta è intermedia e la considera come una procedura
giudiziaria caratterizzata da un processo di cognizione e da uno di
esecuzione; il problema, osserva Bobbio, è però la certezza ed imparzialità del
giudizio, perché chi decide è parte in causa: la guerra è giusta da entrambe le
parti, dà ragione a chi vince e non fa vincere chi ha ragione. La guerra,
secondo Bobbio, non è perciò assimilabile ad una procedura giudiziaria ma
piuttosto ad una rivoluzione (pagg.58-60).
L'etica della politica continua ad essere un'etica della potenza, manca in
particolare una coscienza atomica; l'atomica non ha portato infatti la
fine della guerra ma la sua sospensione: nel XIX secolo la fine della
guerra era legata alla sua non necessità, nel XX secolo alla sua possibilità;
senza dissuasione, la guerra torna ad essere possibile (pag.55 e 97).
Alcune teorie considerano la pace come bene insufficiente (pace
ingiusta) e la guerra come male necessario ("il fine buono
giustifica anche il mezzo cattivo", pag.134); quest'ultima, osserva
Bobbio, è strettamente connessa alle teorie del progresso e la pace è
solo una condizione per realizzare altri valori superiori: giustizia, libertà
(Kant, pag.40), benessere (pag.135). La vita, si chiede allora Bobbio, è il
massimo dei beni?
Quando la guerra diventa un mezzo per difendere un valore supremo più importante
della vita, diventa un male minore e talvolta necessario, e quindi appare
giusta; la guerra in questo caso appare un male minore anche ai disperati,
occorre pertanto eliminare quelle situazioni "che possono essere
considerate mali peggiori della peggiore guerra" (cit., pag.48).
La guerra come male necessario è strettamente legata all'idea di progresso, un
progresso che diventa raggiungibile con la guerra; in effetti, osserva Bobbio,
molte conquiste del progresso umano sono state ottenute utilizzando la
violenza, che però può trovare giustificazione solo come extrema ratio,
esercitata in casi estremi da un potere legittimo e per ragioni giuste
(pagg.71, 149-155). Bobbio concentra la sua attenzione sui mezzi alternativi,
la cui ricerca deve accompagnare ogni condanna della violenza affinchè questa
non sia sterile: il metodo democratico è stato finora il tentativo più
riuscito di sostituire mezzi non violenti alla violenza nel risolvere le
controversie (pagg.157-159).
Per gli obiettori di coscienza la guerra è un male assoluto, ma il miglior
metodo nonviolento, ripete Bobbio, è pur sempre la democrazia: col voto il
vinto di oggi può essere il vincitore di domani (pagg.22-27).
Bobbio distingue due tecniche efficaci di non violenza collettiva: il
boicottaggio del potere economico e la disobbedienza civile verso il potere
politico; le varie alternative di non violenza (superstato, metodo democratico,
non violenza collettiva) sono però tutte parziali: non basta quindi condannare
la violenza, se non si inventano nuove istituzioni e nuovi strumenti che la
rendano inutile, controproducente, troppo costosa (pagg.160-161).
Sempre nel libro Il problema della guerra e le vie della pace, Bobbio
definisce il diritto come "l'insieme di regole per l'ordinamento pacifico
di un gruppo" (pag.101): l'obiettivo minimo e comune ad ogni ordinamento
giuridico è la pace, che è come un argine che canalizza i poteri di un gruppo
sociale, la cui diga è la Costituzione (pag.111).
Il rapporto fra guerra e diritto si può considerare in quattro
modi (pag.99):
- guerra come antitesi al diritto (stato di natura hobbesiano);
- guerra come mezzo per realizzare il diritto (inteso come diritto
soggettivo, giusta pretesa);
- guerra come oggetto del diritto (ius belli);
- guerra come fonte di diritto (guerra come rivoluzione internazionale,
rivoluzione interna come guerra civile, pag.107).
Anche la forza rispetto al diritto può essere in antitesi, mezzo per
realizzare il diritto, oggetto del diritto (diritto di guerra), fonte di
diritto (teoria della guerra giusta, pag.104). La teoria della guerra giusta
stabiliva i criteri di legittimità, di giustificazione: difesa, punizione,
riparazione di un torto; oltre a ciò, però, una guerra per essere giusta doveva
anche essere legale, nelle regole della sua condotta (pag.103). La teoria della
guerra giusta è soggetta però a due critiche: il giudizio è affidato alle
stesse parti in causa e la violenza non garantisce di per sè la vittoria a chi
ha ragione. Perciò, osserva Bobbio, mentre con una procedura giudiziaria vince
chi ha ragione, con la guerra ha ragione chi vince (pagg.105 e 133).
Inoltre le teorie che giustificano la guerra non reggono di fronte alla
prospettiva della guerra atomica la quale, essendo incontrollabile, è
l'antitesi del diritto (pagg.41 e 112). La strategia nucleare impedisce la
guerra di difesa come risposta all'attacco altrui perché in questo caso non vi
può essere eguaglianza fra delitto e castigo ma solo "delitto
impunito", che come tale è ingiustificabile (pag.62); la guerra atomica è pertanto
un male assoluto, nel senso di Hobbes (pag.131).
Secondo Amnesty International, la Banca Mondiale
e il Fondo Monetario Internazionale possono incidere profondamente, vincolando
gli aiuti al rispetto dei diritti umani da parte dei governi assistiti (Diritti
senza pace, op.cit., pag.56).
La fine della guerra fredda ha segnato infatti una escalation di conflitti
locali, regionali, etnici o religiosi con un crescendo di abusi e di
conseguenti flussi migratori di rifugiati , che in massima parte hanno interessato
paesi già poveri del Terzo Mondo (pagg.29-30, pag.42 e seg.); l'elenco dei
paesi è molto lungo: Ruanda, Mozambico, El Salvador, Cambogia, Sahara
Occidentale, Algeria, Somalia, Guatemala, Bosnia Herzegovina, Haiti, Liberia,
ecc. In questo contesto, le Nazioni Unite si sono trovate ad organizzare non
più solo tradizionali operazioni di interposizione, di peace-keeping
(Namibia 1978, Sudafrica 1992), ma anche di peace-building, cioè di
sostegno alla ricostruzione anche in collaborazione con ONG, e con tutti i
problemi organizzativi del caso, come nella "sindrome armena" dovuta
ad eccesso di assistenza (pag.121 nota); in qualche caso, si è trattato anche
di operazioni di peace-making, azioni dirette delle Nazioni Unite per
imporre la pace.
L'istituzione del Tribunale Penale Internazionale Permanente segna l'inizio del
sopravvento del diritto delle genti sul diritto interno degli Stati
leviatani ("caso Pinochet", pag.17): un Tribunale Penale
Internazionale fu istituito inizialmente dal Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite per processare i responsabili del genocidio in Ruanda (1994), la
Conferenza Diplomatica di Roma nel 1998 lo istituì in forma permanente
(pagg.49-50). Le sentenze di giudici nazionali e internazionali in tema di
diritti umani hanno effetti di deterrenza e di prevenzione, facendo venir meno
l'immunità per i mandanti delle violazioni (pag.94 e pag.97, nota).
Ma il genocidio perpetrato in Ruanda è anche l'esempio di come il rifiuto o il
ritardo nell'intervento, anche armato, di Stati terzi in paesi che violano in
modo massiccio i diritti umani può causare disastri; le responsabilità per gli
abusi di massa, osserva poi Amnesty International, vanno condivise anche dai
governi coinvolti indirettamente, attraverso la vendita di armi (pagg.51-55).
I macro-obiettivi politici del movimento per i diritti umani sono la democrazia,
che è l'obiettivo primario dei movimenti per il rispetto dei diritti civili e
politici, ed il progresso economico-sociale attraverso sindacati,
associazioni ambientaliste, ONG per la cooperazione e lo sviluppo (pag.90):
"nulla è più politico (...) dell'impegno per la tutela dei diritti
umani" (cit., pag.8).
Secondo Heilbroner (La prospettiva dell'uomo,
op.cit.), le guerre su piccola scala continueranno a verificarsi col permanere
degli stati-nazione, la cui esistenza viene giustificata proprio dalle costanti
minacce di guerra, in un circolo vizioso che risulta acuito
dall'emergere di "governi di ferro" nei paesi sottosviluppati.
Solo l'azione politica può risolvere le crisi generate dall'ambiente sociale e
naturale, ma i comportamenti politici delle nazioni sono in larga misura
proiezioni dei comportamenti dei singoli leaders, le cui idiosincrasie non si
possono prevedere.
Kant, ne La pace perpetua (op.cit.), osservava come la guerra non possa
mai essere guerra di sterminio: "nessuno Stato in guerra con un altro deve
permettersi comportamenti ostili che, nella pace futura, renderebbero
impossibile la fiducia reciproca" (pag.61).
Per Kant la guerra punitiva non esiste, così come non esiste una guerra giusta,
che presupporrebbe con ciò già la sentenza di un giudice: la guerra è solo il
triste mezzo con cui si possono affermare i propri diritti nello stato di
natura, non essendovi in quello stato alcun tribunale in grado di giudicare in
base al diritto (pag.61).
Lo stato di natura è infatti, per Kant, uno stato di guerra, lo stato di pace
deve essere istituito e non può consistere in semplice assenza di ostilità; lo
stato di natura è caratterizzato invece da tendenze egoistiche, vi può essere
soltanto un diritto privato (pag.153).
Nessuno Stato può ingerirsi con la forza nella costituzione e nel governo di
altri Stati (pag.59), neppure nella situazione palese di violazione dei diritti
all'interno di quei paesi; la tesi è singolare: l'intervento è invece
giustificato nel solo caso in cui lo Stato si divida in due, una delle quali
pretende di dominare il tutto.
D'altro canto, secondo Kant, uno Stato non deve contrarre debiti pubblici nei
suoi affari esterni (pag.57), la bancarotta di uno Stato lede infatti i diritti
degli altri Stati che vengono coinvolti nel disastro.
Secondo Kant gli eserciti permanenti col tempo devono scomparire del tutto
(pag.55): si tratta di una tesi interessante, in controtendenza rispetto alle
politiche dei nostri giorni che sono volte, al contrario, all'introduzione di
eserciti permanenti ed all'abolizione della leva. Gli eserciti permanenti,
sostiene infatti Kant, producono una corsa senza fine agli armamenti e sono
essi stessi causa di guerre aggressive; occorre invece favorire esercitazioni
militari volontarie e periodiche dei cittadini ad autotutela da aggressioni
esterne (pag.55).
Ne Lo stato di diritto Kant osserva che l'insurrezione armata non è mai
giustificata, perché rende incerta ogni costituzione giuridica e fa precipitare
ad una condizione di stato di natura, ex-lege in cui ogni diritto cessa di
avere effetto; l'insurrezione, infatti, non cambia la costituzione civile ma la
dissolve. Il cambiamento della costituzione può dunque avvenire solo via riforma,
non via rivoluzione; una volontà suprema che volesse avere il diritto di
sostituire la forza alla legislazione, distruggerebbe se stessa.
Gandhi, osserva Giuliano Pontara nella sua Introduzione
alla "Teoria e pratica della non-violenza", non rifiuta i conflitti
ma solo l'uso della violenza per la loro risoluzione (pag.XXVI): la
non-violenza è un freno volontario alla capacità di colpire, serve pertanto
molto più coraggio per esercitare la non-violenza che per usare le armi
(pagg.XXIV-XXV); la dottrina di Gandhi implica la partecipazione attiva alla
vita politica, diversamente dalla non-violenza di Tolstoj che, osserva Pontara,
è una posizione meramente rinunciataria (la lotta politica è per Tolstoj il
campo della violenza e dell'immoralità, pag.XXXIX).
Gandhi distingue la non-violenza come convinzione (rifiuto morale della
violenza, non-violenza forte), la non-violenza come scelta tattica
(resistenza passiva, non-violenza debole), e la non-violenza del
codardo; quest'ultima non è giustificabile nei casi dell'autodifesa e della
protezione degli indifesi (pagg.XXII-XXIV).
L'azione non-violenta varia al variare delle situazioni (pag.XCIV e
seguenti), di fondamentale importanza è la capacità dell'agire non-violento di persuadere
l'oppositore; la non-violenza forte comporta la capacità di sopportare
sacrifici, di saper soffrire, e gradualità dei mezzi (pagg.CVIII-CXV).
Vi sono situazioni in cui per la dottrina gandhiana è lecito uccidere: per
fermare l'altrui follia omicida, e nel caso dell'eutanasia (pag.XXX e XLVII);
un contrasto fra doveri può portare il non-violento a violare in certe
situazioni la norma della non-violenza: la decisione morale è, in ultima
analisi, prodotta dalla coscienza individuale, che può essere attendibile ma
non infallibile (pagg.LIII-LXVIII). Alcuni importanti argomenti connessi alla
partecipazione o all'appoggio di non-violenti a gruppi che ricorrono alla
violenza sono discussi da Pontara a pag.LVI e seguenti: l'obbligo di lealtà,
l'obbligo di equità, argomenti utilitaristici e tattici (non sottomissione,
riduzione della violenza nel mondo, giudizi sulla possibilità e sull'efficacia
dell'azione non-violenta, diritti derivanti dall'adempimento di un dovere).
Il motivo per cui si compie un'azione (per codardia, ecc.) è rilevante ai fini
delle responsabilità di chi agisce (pag.LXVII).
Gandhi ritiene vi sia una verità oggettiva, ma l'atteggiamento verso chi
sbaglia deve essere di pazienza e di comprensione; l'unica autorità è la
ragione, l'individuo è la misura della verità (pag.LXXV).
Da un lato la violenza è un male morale, un agire moralmente illecito;
dall'altro è l'impiego di mezzi coercitivi, e può essere: "diretta
o indiretta, fisica o psichica, per omissione o per commissione, manifesta o
latente, personale o strutturale, più o meno intensa, estesa, ecc." (cit.,
pag.XLI).
L'uso della violenza implica inoltre limitazioni e distorsioni delle
informazioni, quali condizionamenti e indottrinamenti; anche chi assiste i
soldati, persino nei servizi sanitari, secondo Gandhi partecipa alla guerra
(pag.LV).
Solo l'impiego di metodi non-violenti garantisce soluzioni reali dei conflitti,
determinando verità più vaste di quelle parziali che determinano i
conflitti stessi. Inoltre non basta astenersi dalla violenza, occorre agire per
cercare di ridurla il più possibile nel mondo; argomenti a posteriori a
favore della non-violenza sono:
- l'instabilità delle situazioni che derivano dalla violenza;
- la brutalità connessa all'uso della violenza e il rischio della sua
escalation;
- la lotta violenta facilita l'accesso al potere di individui e istituzioni
autoritarie;
- la violenza compromette i valori democratici di libertà, di autonomia e
soprattutto di uguaglianza.
Ogni limitazione alla libertà individuale deve essere di natura non-violenta,
equa, volontaria, reciproca; Gandhi è contrario ad ogni forma di privilegio
sociale od economico (pag.LXXVIII) e si oppone all'automazione che elimina
lavoro umano. Il forte decentramento sociale ed anche economico aiuta i metodi
non-violenti. Non può esservi inoltre governo non-violento ove vi siano
accentuate divisioni fra ricchi e poveri; Gandhi rifiuta però sia la violenza
rivoluzionaria che la lotta di classe.
Istintivamente, osserva Bertrand Russell in Autorità
e individuo (op.cit.), dividiamo l'umanità in amici (impulso a collaborare)
e nemici (impulso a competere), cambiando continuamente la divisione; la forza
coesiva deriva dal nemico esterno comune: "in tempi sicuri, possiamo
permetterci il lusso di odiare il nostro vicino, ma in tempi di pericolo
dobbiamo amarlo" (pag.14). Perciò lo Stato mondiale, non avendo alcun
nemico, rischierebbe di disgregarsi per mancanza di forza coesiva.
La coesione sociale non si può fondare allora solo sul timore verso nemici
esterni, in quanto si tratta di una forza negativa che cessa con la vittoria,
ma vi deve essere coscienza della cultura comune (pag.36). Da sempre il governo
ha due funzioni: una negativa, impedire la violenza privata ed assicurare il
rispetto della legge, ed una positiva che in passato era solo la guerra, ma poi
la sua azione si è andata estendendosi all'educazione ed all'economia (pag.37).
L'appello all'odio verso un nemico presunto come risposta a ciò che non va,
produce alla fine effetti catastrofici (pag.77).
Nel saggio La Vittoria Disarmata (op.cit.), Bertrand Russell rifiuta il pacifismo
teorico: alcune guerre sono giustificabili, "la guerra contro il
nazismo era inevitabile" (pag.15); ma la vera novità del secondo
dopoguerra sono state le armi nucleari che, secondo Russell, hanno la
caratteristica di ritorcersi contro chi le usa e pertanto sono una debolezza e
non una forza (pag.159).
Conseguenza di ogni conflitto è l'esasperazione dei sentimenti nazionali; il
nazionalismo si caratterizza per amore per il proprio paese (nazionalismo
buono) e per l'odio verso gli altri (nazionalismo cattivo).
Il pericolo viene enormemente accresciuto dalle reazioni ad esso: "la
paura crea odio, porta alla convinzione che l'altra parte sia assolutamente
malvagia e la nostra assolutamente buona" (pag.169); la divisione
dell'umanità in buoni e cattivi rispecchia una mentalità infantile: in tutti
noi ci sono sia il bene che il male, chi si ritiene migliore non è detto che lo
sia per davvero (pag.167).
Un governo mondiale è il solo mezzo capace di impedire guerre totali; il
governo mondiale dovrebbe avere il monopolio delle armi più potenti, un
esercito di individui appartenenti a diverse nazioni e razze, il controllo
delle materie prime necessarie per costruire armi di distruzione di massa,
codici di diritto internazionale e corti internazionali di giustizia, mentre
una Corte Suprema Internazionale dovrebbe poter intervenire sugli accordi fra
Stati.
Secondo Russell, però, i poteri del governo mondiale sarebbero solo quelli
indispensabili a prevenire le guerre, mentre gli Stati membri resterebbero
autonomi in tutti gli altri aspetti (pag.174).
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
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la dignità umana nei conflitti armati (Edizioni Cultura della Pace, Firenze
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- Bertrand Russell, IL POTERE. Una nuova analisi sociale (1954/ed.
Feltrinelli, Milano 1981)
- Bertrand Russell, AUTORITÀ E INDIVIDUO (1949/ed.Longanesi, Milano 1980)
- Bertrand Russell, LA VITTORIA DISARMATA (ed. Longanesi, Milano 1965)
- Peter Singer, ONE WORLD. L'etica della globalizzazione (ed. Einaudi, Torino
2003)
- R.H.Tawney, LA SOCIETÀ ACQUISITIVA (1948)
- Max Weber, LA POLITICA COME PROFESSIONE (Politik als beruf, 1919/ed.
Anabasi, Milano 1994)
17- IL RIFORMISMO E L'ECONOMIA GLOBALE
17-1 GLOBALIZZAZIONE PRO E CONTRO
Secondo Franco Debenedetti,
grandi forze positive muovono le nostre economie: tecnologia,
innovazione, conoscenza, globalizzazione, democrazia, individualismo, new
economy (Non basta dire no, op.cit., pagg.58-59).
Vi è poi il fatto del declino del sindacalismo in Occidente, mentre servirebbe
la sua espansione a livello mondiale (Bruno Manghi, Non basta dire no,
pagg.103-108): la concertazione è tipica dei periodi critici, e come tale è
eccezionale; la prassi ordinaria è quella di accordi fra sindacati e governo.
Il riformismo non è un metodo universale ed è geneticamente estraneo alla
destra in quanto, attraverso l'analisi distaccata della realtà, si pone il
problema di trasformarla per costruire un mondo diverso e più giusto: è una
strategia politica ed una cultura (non l'unica) che appartiene ai non
conservatori (cit., pagg.142-148).
La globalizzazione spaventa la parte più debole (come ricchezza ma anche come
sapere) della società: occorre invece ricercare un compromesso
socialdemocratico in una prospettiva che sia europea, perché ci sono
problemi che hanno natura sopranazionale (agricoltura, ricerca, immigrazione,
sicurezza sociale, pag.140).
Galbraith nel libro La società opulenta
(op.cit.) individua tre "problemi economici di oggi": ineguaglianza,
sicurezza, produttività.
Evidenzia l'affievolimento dell'interesse per il problema dell'ineguaglianza:
ciò è dovuto in parte alla mancata tendenza al peggioramento, in parte al fatto
che il prestigio sociale non è più legato al possesso di ricchezza, bensì alla
direzione delle aziende.
Le ineguaglianze diminuiscono con la redistribuzione del reddito e con
l'aumento della produzione; quest'ultima lascia però sempre un margine di
povertà che tende ad autoperpetuarsi.
La sicurezza aumenta in presenza di monopoli, cartelli, controllo dei
prezzi, restrizioni all’iscrizione di nuove imprese, protezione per mezzo di
tariffe e quote, attività pubblicitarie, controllo e finanziamento del
progresso tecnico, grandi dimensioni. Diminuisce in presenza di concorrenza e
libero movimento dei prezzi, crisi, disoccupazione.
Per incrementare la produzione e la produttività occorre:
- utilizzare in modo completo le risorse disponibili (lavoro e capitale);
- combinare vantaggiosamente lavoro e capitale, grazie al progresso tecnico;
- aumentare la disponibilità di lavoro, grazie a natalità ed immigrazioni;
- aumentare la disponibilità di capitale, in particolare come sostituto del
lavoro;
- migliorare il livello delle capacità professionali, sempre grazie al
progresso tecnico.
Gli investimenti per l'istruzione e la ricerca scientifica costituiscono un’economia
esterna: hanno un’utilità generale per tutte le imprese, la mentalità
convenzionale è legata al fatto che un secolo fa questi investimenti non erano
intimamente connessi alla produzione. Lo stato impiega capitali in attività di
ricerca sostanzialmente per interessi militari: la ricerca di base e le sue
applicazioni riguardano perciò aviazione, esplorazione spaziale, energia
nucleare, comunicazioni via satellite, calcolatori elettronici, ecc.
L'istruzione è un'arma a doppio taglio; la stimolazione della domanda con la
pubblicità e l'emulazione è decrescente al crescere dell'istruzione, mentre è
crescente la stimolazione di desideri più esoterici: musica, arti figurative,
interessi scientifici e letterari, in parte anche i viaggi.
L'equilibrio sociale consiste nel rapporto soddisfacente fra beni e
servizi prodotti dall'economia privata e dallo Stato. Non si può affermare che
la soddisfazione che una comunità ricava dall'incremento marginale delle
risorse destinate a scopi pubblici sia uguale alla soddisfazione ottenuta
dall'incremento marginale delle risorse destinate ad usi privati, perché si
tratta di valori incommensurabili: in primo luogo, gli individui interessati
sono diversi; inoltre, si paragona la soddisfazione di bisogni artificiosamente
stimolati con la soddisfazione di bisogni che non lo sono.
Cause di squilibrio sociale per Galbraith sono l'insufficienza dei servizi
pubblici, l'ineguaglianza, l'inflazione.
Gli individui poveri sono individui il cui reddito è inferiore a quello della
comunità, anche se è sufficiente a farli sopravvivere; la povertà può essere individualizzata
(deficienze dei singoli individui per inabilitazioni, alcolismo, ignoranza,
procreazione incontrollata, ecc.), o zonale (nella zona sono quasi tutti
poveri per ostacoli ambientali, discriminazione razziale, insufficienza di
scuole, disintegrazione della vita familiare, ecc.). Per i redditi fissi, la
povertà è poi più grave nelle città che nelle campagne. La sua riduzione
dipende da una molteplicità di interventi, quali l'assegnazione di fonti
elementari di reddito, l'istruzione ed assistenza ai ragazzi delle famiglie
povere, l'edilizia abbondante, la realizzazione di trasporti efficienti, comodi
ed economici, l'assistenza sanitaria, i miglioramenti ambientali.
La società opulenta deve garantire a chi ne ha bisogno un reddito minimo
per una vita comoda e dignitosa.
Secondo Ethan B.Kapstein (Governare l'economia
mondiale, op.cit.), il sistema internazionale è caratterizzato da
globalizzazione, innovazione, speculazione, deregolamentazione, e suggerisce
l'immagine del casinò, dove la fortuna incide sui risultati tanto quanto
le capacità professionali (pagg.37-40 e pag.217).
Il settore più globalizzato sembra essere quello finanziario, perché fortemente
condizionato dalla rivoluzione tecnologica che ha investito informazione e
telecomunicazioni (pagg.16-17).
Il multilateralismo, almeno nel campo del controllo sulla finanza
internazionale, sembra non essere un modello efficace di governo mondiale, a
meno che non vi sia un paese-guida che faccia rispettare gli accordi, e tale
ruolo finora è stato ricoperto dagli Stati Uniti (pagg.211-225). I rapporti di
potere e di sovranità fra stati nazionali ed organizzazioni transnazionali non
costituiscono un gioco a somma zero; per evitare crisi finanziarie analoghe a
quella degli anni Trenta, gli stati hanno costruito una struttura a due
livelli, dove in alto sta la cooperazione internazionale e in basso il
controllo nel paese di origine: con questo modello si cerca di regolamentare
anche settori diversi da quello finanziario, come quello delle
telecomunicazioni e l'inquinamento delle coste causato dalle petroliere
(pagg.218-220).
L'inquinamento e le crisi finanziarie costituiscono vere e proprie esternalità
transnazionali, effetti indesiderati che derivano da guasti del sistema.
I mercati, osserva Kapstein, possono fornire servizi normativi (pag.225).
Il controllo dell'allocazione del credito è uno strumento importante
delle politiche economiche degli stati-nazione (pag.32), ma altrettanto
importante è la prevenzione delle crisi finanziarie, più ancora della
loro gestione: qui esigenze di sicurezza e solidità (regolamentazione)
si scontrano con quelle di competitività (liberalizzazione).
Le aziende multinazionali, osserva Naomi Klein in No logo (op.cit.),
sono le più potenti forze politiche del nostro tempo: la multinazionale è come
uno stato-nazione che si autoregola, occorre invece secondo la Klein che la
regolamentazione delle aziende multinazionali torni di dominio pubblico
(pagg.412-413).
Arnold Toynbee, ne La città aggressiva
(op.cit.), osserva come le città rimasero luoghi eccezionali fino alla
rivoluzione industriale, la maggioranza della popolazione, infatti, era
agricola; le fasi di crescita delle città corrispondono allo sviluppo
tecnologico e sono parallele allo sviluppo della civiltà: inesistenti nel primo
milione di anni, piatte negli ultimi cinquemila (esistevano solo le capitali),
e fino a duecento anni fa quando nasce un nuovo tipo di città che si
differenzia dalla capitale, la città meccanizzata.
Le città tradizionali sorgevano in aree piccolissime ad alta densità; le
distanze brevi erano indispensabili in assenza di mezzi di comunicazione
efficienti, e spesso si abitava nello stesso edificio in cui si lavorava; le
città moderne hanno una minore densità e la rivoluzione nei mezzi di trasporto
ha consentito di articolarle in zone ampie e separate (residenziale, commerciale,
industriale), ma le megalopoli si caratterizzano per la congestione del
traffico e la mobilità della popolazione, tendente a divenire suburbana e
pendolare.
I fenomeni pendolari nella storia dell'umanità sono due, il nomade pastorale,
caratterizzato da un ciclo annuo, che abita e lavora nello stesso luogo non
stazionario, ed il pendolare urbano caratterizzato invece da un ciclo
giornaliero, che si sposta dal luogo dove lavora a quello dove abita.
Toynbee evidenzia i fenomeni di autolesionismo costituiti dalle megalopoli
arcaiche del carbone e dalle megalopoli moderne della benzina, sovrabbondanti
di auto private, congestione del traffico ed inquinamento, mentre la ferrovia
occupa spazi minimi per il trasporto di quantità enormi di persone e di merci,
e necessita di investimenti per salvaguardare la possibilità futura di
viaggiare. Le città meccanizzate sono rumorose, sporche, senza anima, prive di
contatto con la campagna, si riforniscono da fonti lontane, e non sono amate:
il cittadino ne è alienato in ogni caso, chi vi fa denaro lo utilizza per
scappare, con un’inversione rispetto al passato del rapporto fra la città ed i
suoi abitanti, che era caratterizzata invece da intimità, protezione, stimolo,
libertà.
L'ecumenopoli potrebbe racchiudere tutta la superficie terrestre in
un'unica conurbazione attraverso la fusione fra le varie megalopoli esistenti.
L'esplosione demografica, in particolare della parte più povera ed arretrata,
porta all’esplosione urbana, l'essere umano normale del futuro sarà un individuo
di città e non più di campagna, con la conseguente urbanizzazione della
produzione alimentare.
Ma la città-mondo futura si caratterizza già oggi per l'aumento del consumo
quotidiano e pro capite di acqua, per una distribuzione ineguale della densità media
della popolazione (sobborghi travolti dagli slums e bidonville nel cuore delle
metropoli, per la costituzione di municipalità suburbane con l'isolamento
giuridico e fiscale delle residenze suburbane della classe media, per la
diminuzione dei tributi nei confini amministrativi tradizionali delle città,
sempre più occupate da residenti con bassi redditi.
Gli effetti psicologici della diversità (reddito, modi, costumi, aspetto
fisico) sono maggiori nell'ambiente urbano rispetto a quello rurale.
La città-mondo dovrà essere accompagnata da un governo mondiale, altrimenti il
caos amministrativo porterà alla catastrofe. La città-mondo dipende inoltre
dall'applicazione della scienza alle tecnologie della medicina e
dell'agricoltura; l'incremento demografico comporta la necessità di
massimizzare e la produzione e la conservazione delle merci, la rimozione degli
slums sarà possibile solo creando un equilibrio fra abitazioni disponibili ed
incremento demografico, e supportando l'incremento dei pendolari con lo sviluppo
del traffico, sia di superficie che ferroviario: il treno è la sola tecnologia
dei trasporti che possa rispondere alla sfida dell'esplosione demografica,
anche nel trasporto merci, grazie ai containers; il veicolo stradale
rappresenta invece uno spreco, sia in termini di spazio occupato che di
consumo. Il traffico delle auto private dovrà essere regolato e indirizzato
verso l'esterno delle aree urbanizzate, ovvero in linee dirette sotterranee al
loro interno. La pianta tradizionale della città è diventata una trappola per
la moderna città meccanizzata in espansione, che ha preso la forma di una
sequenza di cerchi concentrici, come il tronco di un albero, con una
progressiva maggiore pressione sul centro ed il suo conseguente decadimento con
l'esodo dei ceti medi e alti.
La città prima della meccanizzazione era un disco solido, come una ruota di
legno; dopo la meccanizzazione è divenuta un cerchio vuoto, come una gomma
d'auto. La città-mondo non si può immaginare con un unico punto centrale, la
pressione dell'attività umana su di esso sarebbe infatti enorme, come l'oceano
nei suoi punti più profondi.
Una città a misura d'uomo alterna armonia e conflitto sociale, ma non la
solitudine: ogni centro civico deve essere contenuto nelle dimensioni delle
città del passato. La funzione tradizionale delle mura era difensiva, oggi è
quella di salvare aree verdi e parchi.
La città mondo dovrà essere costituita da cellule con scala uguale alle città
locali tradizionali, che saranno centinaia di migliaia affiancate come in un
mosaico e non più disperse in un ambiente rurale: il fatto che circa diecimila
anni fa l'uomo sia riuscito a trasformarsi da cacciatore nomade a coltivatore
sedentario è un precedente che lascia sperare, secondo Toynbee, che egli
riuscirà a sopravvivere anche a questa ulteriore trasformazione.
Il XX secolo, osserva Amartya Sen in Lo
sviluppo è libertà (op.cit.), ha portato miseria, fame, violazione dei
diritti e delle libertà fondamentali, ma anche un’opulenza inimmaginabile
prima, l’allungamento della vita media, la democrazia (pag.5). Le privazioni,
osserva Sen, si combattono con lo sviluppo, che non è un mero aumento di PNL o
dei redditi individuali, ma è un processo di espansione delle libertà umane; ci
possono essere discordanze fra reddito pro capite e libertà individuale, ma
miseria, intolleranza ed autoritarismo sono tutte fonti di illibertà.
L’idea dello sviluppo come libertà richiede che le libertà siano parti
costitutive dello sviluppo per due ragioni: per una ragione di efficacia,
in quanto la libera azione degli individui è fondamentale per lo sviluppo, e
per una ragione valutativa perché vi è progresso laddove vengono
promosse le libertà umane (pagg.10-12 e 24).
La difesa della libertà è prioritaria per via della sua asimmetria ed
interconnessione con persone diverse, perciò la sua violazione è di per sè un
male (pagg.69-70).
Per le libertà e l’idea di sviluppo come libertà sono importanti non solo gli
obiettivi finali, ma anche i processi (le procedure) e le possibilità (o conseguenze,
pag.23): non sono ammissibili, ad esempio, “guardiani” della tradizione
culturale o religiosa (pag.38). L’espansione delle libertà reali degli
individui è sia lo scopo principale che il mezzo principale dello
sviluppo; le libertà hanno dunque sia un “ruolo costitutivo” che un “ruolo
strumentale” nello sviluppo, il quale consiste peraltro nel processo stesso di
espansione delle libertà: “la partecipazione politica e il dissenso sono parti costitutive
dello sviluppo” (pag.41).
Lo sviluppo è dunque un processo di estensione dei vari tipi di libertà
sostanziale, mentre il sottosviluppo è illibertà (pag.91).
Le libertà o illibertà economica, sociale e politica sono tra loro strettamente
connesse: non c’è mai stata una carestia in una democrazia funzionante, anche
se povera; libere elezioni ed informazione incentivano i governi ad impedirle:
ad esempio, l’India dopo l’indipendenza nel 1947 non ha più avuto carestie,
mentre in Cina la carestia del 1958-1961 fece trenta milioni di morti
(pagg.14-22, 48-57, 156, 181).
Le correlazioni fra reddito e ricchezza da una parte e salute, nutrizione,
istruzione, speranza di vita dall’altra vanno in entrambe le direzioni; anche
fra libertà individuale ed assetti sociali vi è una relazione bidirezionale.
Povertà e disoccupazione non sono solo scarsità di reddito, ma comprendono
l’esclusione sociale ed effetti che sono di natura psicologica (pagg.25-27, 36,
52 e 99).
Sono libertà strumentali cruciali, fra loro interconnesse, le libertà politiche
(compresi i diritti civili), le infrastrutture economiche (i mercati), le
occasioni sociali (scuola, sanità), le garanzie di trasparenza (diritto
all’informazione, meccanismi legali di responsabilizzazione), la sicurezza
protettiva (la rete di protezione sociale, la sicurezza dell’impiego, pagg.6,
43 e seg., 58, 67). La crescita economica va considerata sommando l’incremento
reale dei redditi privati alla crescita dei servizi sociali e della sicurezza
sociale; la crescita dell’istruzione e l’espansione del sistema sanitario
possono sconfiggere la povertà, come è stato nel caso della restaurazione Meiji
(pagg.45-46).
Peraltro i servizi sociali, istruzione e sanità in primo luogo, hanno un’alta
intensità di lavoro e quindi accelerano la crescita economica, e nel contempo
costano poco nei paesi poveri dove i salari sono bassi: vanno quindi realizzati
subito anche nelle economie più povere e senza aspettare che diventino ricche
(pagg.52-53). In Gran Bretagna le politiche sociali si incrementarono
rapidamente nei due periodi di economia di guerra, provocando una forte
diminuzione della mortalità per cause non belliche (pag.54).
Le regole procedurali, osserva Sen, non si possono però accettare
indipendentemente dalle loro conseguenze: i giudizi di valore indicati
dall’utilitarismo esprimono l’idea che ogni scelta vada giudicata in base alla
somma totale delle utilità che produce, e si fondano su tre componenti distinte
(pag.63): il consequenzialismo, secondo cui tutte le scelte vanno
giudicate in base ai risultati che producono; il welfarismo per
il quale tutte le scelte vanno giudicate in base alle utilità che
producono; la classifica per somma secondo cui conta il valore aggregato
delle utilità e non come sono diversamente distribuite fra gli individui.
L’ingiustizia, per l’utilitarismo, è quindi la realizzazione di minore utilità
aggregata, una concezione sbagliata in quanto indifferente alla distribuzione,
che però non inficia la validità delle sue intuizioni consequenzialiste e
welfariste, e quindi l’attenzione ai risultati ed al benessere degli individui.
Gli assetti e le istituzioni sociali, secondo l’approccio consequenzialista,
vanno giudicati infatti non solo sulla base dei loro aspetti costitutivi, ma
anche per le conseguenze che producono (pagg.64-71).
Le conseguenze spesso non corrispondono alle aspettative: il riformatore
razionale impara facendo (pag.255); le conseguenze non volute non sono
necessariamente imprevedibili, bisogna imparare a prevedere conseguenze
importanti e non intenzionali (pag.257).
L’utilitarismo nega valore intrinseco a diritti e libertà, che contano solo se
influiscono sull’utilità: si può essere schiavi felici o anche mentalmente
condizionati ed adattati (pag.67).
Le condizioni mentali di persone diverse non sono confrontabili (desideri,
piaceri, felicità, ecc.), l’utilità esprime le preferenze di ciascun individuo,
non è possibile alcun confronto interpersonale di utilità e lo stesso
comportamento di scelta, in persone con stati d’animo diversi, dà origine a
funzioni di utilità diverse. Allo stesso modo, con funzioni di domanda
eterogenee è impossibile il confronto fra redditi reali di persone diverse; Sen
individua almeno cinque cause che variano il rapporto fra redditi reali e
vantaggi che ne derivano in termini di benessere e di libertà, rendendo
inservibile il concetto di opulenza (pagg.72-76): l’eterogeneità degli esseri
umani per età, sesso, malattie; le diversità ambientali del clima ma anche
svantaggi ambientali o malattie infettive; le variazioni delle condizioni
sociali (istruzione, criminalità, epidemiologia); le differenze relative, come
essere relativamente poveri in una società ricca (pag.94); la distribuzione
intrafamiliare del reddito per età, sesso, bisogni.
Sen privilegia il criterio delle capacità o libertà sostanziali (capabilities,
pag.19), rispetto alle utilità (welfaristi) o ai beni principali (Rawls): non
basta possedere i beni principali, osserva Sen, questi infatti devono essere
convertiti in capacità di raggiungere i propri scopi, gli individui sono
diversi fra loro per età, sesso, talento, malattie, invalidità, condizioni
familiari, indipendentemente dai beni posseduti; talune occasioni non vengono
colte, la stessa libertà di scegliere è di per sè un valore (scegliere di
digiunare non è la stessa cosa di soffrire la fame, pag.80).
Il livello di reddito incide sulle ‘capacitazioni’ in modo contingente e
condizionato, variando da comunità a comunità, da famiglia a famiglia, da
persona a persona; la povertà reale può essere perciò più o meno intensa
rispetto al livello del reddito (pagg.92 e seg.).
I risultati del mercato dipendono dagli assetti sociali e politici, di cui è
parte integrante l’azione pubblica; le innovazioni sociali possono
incidere positivamente sui mercati economici (pag.146 e 259).
Il conservatorismo finanziario (l’estremismo antideficit) non è applicabile
allo stesso modo in tutte le situazioni, e indipendentemente dagli scopi della
spesa pubblica (sanità e istruzione piuttosto che spese militari); la
discussione pubblica è fondamentale per individuare i bisogni economici e stabilirne
la priorità, la “condizione umana” in sè non ci dice nulla (pagg.157-158).
Le virtù della democrazia, secondo Sen, sono tre: è importante intrinsecamente,
ha un’utilità strumentale perché crea possibilità e previene catastrofi
economiche (pag.183 e seg.), svolge un ruolo costruttivo nel creare valori e
norme (“governo attraverso la discussione”, pag.273); la democrazia acquista
poi un fondamentale valore pratico nelle situazioni critiche (pagg.161-162).
Le carestie vanno distinte dalle situazioni di povertà endemica, e spesso sono
legate alla perdita di titoli ad acquistare cibo in un mercato che non
ne è privo (pagg.163-168 e seg., 207 e seg.); il funzionamento del mercato del
lavoro è cruciale per prevenire fame e carestie e peraltro, osserva Sen, gli
individui non sono solo mezzi di produzione ma anche il fine dei processi
economici (pagg.166 e 295), come pure il superamento delle divisioni e delle
distanze culturali (pagg.170-176 e seguenti); lo Stato può intervenire
facilmente, anche solo creando occasioni di lavoro temporaneo in progetti
pubblici a breve termine (pag.182).
Le misure coercitive non sono efficaci per ridurre il tasso di fertilità; il
benessere sociale può essere invece promosso più efficacemente dal ruolo attivo
giocato dalle donne, in particolare attraverso l'istruzione e l'occupazione
femminile (pagg.192-219).
La libertà personale e la tolleranza devono essere garantite e condivise
da tutti: il valore della libertà e della tolleranza va coniugato con l’uguaglianza
della libertà e della tolleranza; interpretazioni diverse e più riduttive
(valori asiatici, islamici, occidentali, africani, ecc.) sono
ipersemplificazioni del tutto arbitrarie (pag.234 e seguenti). Le regole di
buon comportamento e la fiducia reciproca sono fondamentali per far funzionare
economie di scambio (pag.263 e seguenti); libertà e responsabilità sono
strettamente connesse, la libertà ha molti aspetti: processuale,
possibilitante, costruttivo (pagg.284-292).
Jeremy Rifkin, nel libro L’era dell’accesso
(op.cit.), osserva come i termini accesso e rete stiano
acquisendo un'importanza maggiore di proprietà e mercato; il
concetto di accesso è carico di significati politici, per via del rapporto di
inclusione/esclusione, e riguarda sia il livello che il tipo di partecipazione
(pagg.21 e 353): chi può accedere e a che tipo di mondi e di esperienze.
L'Africa è il continente meno connesso, la distinzione è oggi fra gli
informaticamente ricchi e gli informaticamente poveri (pag.306).
L'accesso è divenuto una misura dei rapporti sociali senza generare dibattito
sociale: forse perché il passaggio dalla proprietà all'accesso, come altri
grandi cambiamenti storici, è stato impercettibile (pag.155 e pag.183).
Il dibattito pubblico si è sviluppato sulla deregolamentazione dei servizi e
delle attività dello Stato ma non sull'inclusione progressiva della sfera
personale nel dominio del mercato: "ogni istante della nostra vita è
influenzato da qualche forma di rapporto economico" (pag.152); Rifkin
descrive il processo di saturazione della mercificazione del tempo, la trappola
malthusiana del tempo: le relazioni di natura economica aumentano per
quantità, varietà ed invadenza e si sostituiscono alle relazioni tradizionali
(pag.153).
Il capitalismo moderno si caratterizza infatti per la progressiva acquisizione
nella sfera economica dei molteplici ambiti della vita umana; con l'economia
del ciberspazio anche il tempo viene acquisito dall'economia e "l'era
dell'accesso si definisce, soprattutto, attraverso il crescente asservimento delle
esperienze alla sfera economica" (pag.131). L'agente economico assume un
ruolo affettivo; questa nuova dipendenza commerciale per certi aspetti è
assimilabile alla dipendenza dallo Stato sociale (pagg.139-140).
Il nuovo capitalismo è diverso dal capitalismo industriale quanto quello lo era
dall'economia mercantile dei secoli precedenti e sta ridisegnandosi in forma di
rete, con concezioni sistemiche: reti di fornitori, di produttori, di clienti,
consorzi di standard, reti di cooperazione tecnologica, dove il potere
economico si concentra in pochi megafornitori: le reti, eliminando i mercati e
sostituendoli con catene fornitore-utente, rappresentano un’aperta violazione
alle normative antitrust (pagg.26, 57, 79, 100).
La nuova economia delle reti si caratterizza per l'accorciamento del
ciclo di vita dei prodotti, la cosiddetta "legge di Moore", e le
aziende in vantaggio sulla concorrenza spesso competono contro se stesse
(pagg.27-29).
Il valore aggiunto, depurato dell'inflazione, è molto superiore alla massa materiale
prodotta: la produzione si sta smaterializzando, l'economia 'fisica’ si
contrae. Il peso come unità di misura per l'import/export perde d’importanza:
"prodotti più leggeri, miniaturizzazione, contrazione degli spazi di
lavoro, scorte just-in-time, leasing e outsourcing sono le prove della
svalutazione di una visione materiale del mondo che ha posto l'accento sulla
fisicità " (pag.76).
Regalare beni per vendere servizi con effetto network; il modello
reticolare hollywoodiano (pagg.38-129) è stato adottato rapidamente in
altri settori economici di punta: informatica, scienze biologiche (i geni sono
ceduti su licenza, il patrimonio mondiale di sementi è brevettato, pagg.90-93),
franchising ("l'oggetto di un contratto di franchising è la negoziazione
dell'accesso, non il trasferimento di una proprietà ", pag.84), produttori
virtuali, distribuzione digitale della musica, dematerializzazione dello spazio
lavorativo, dematerializzazione del denaro, sia nel senso che il suo valore non
è più garantito da alcuna ricchezza tangibile, sia nel senso della soft bank,
declino del risparmio, aumento dell'indebitamento personale (pagg.44-66).
Fino all'inizio del XX secolo la parola consumo aveva un significato
negativo, di spreco (pag.188). Oggi l'industria turistica globale è la
mercificazione di un'esperienza culturale ed è la terza voce di spesa dopo
abitazione ed alimentazione, le attrattive locali sono manipolate per originare
esperienze di tipo teatrale (parchi tematici, centri commerciali, villaggi
palcoscenico separati dal resto del territorio e dei suoi abitanti); ma mentre
la piazza è un luogo pubblico, il centro commerciale non lo è (pagg.195-213).
Il mercato è derivato, presuppone la comunità sociale e la
cultura, e la fiducia che da loro deriva: comunità forte vuol dire
fiducia sociale ed empatia, e quindi economia sana. Il terzo settore svolge
quindi un ruolo fondamentale: mercato e reti non possono reggersi da soli,
dipendono dall'esistenza di comunità forti che esistono solo nello spazio
geografico, nel territorio (pagg.323-336).
Relazioni durature si realizzano solo in comunità d’interesse (pag.148):
queste si caratterizzano per legami di consapevolezza, d’identità (elemento di
differenziazione), di relazione (rapporto interattivo), di comunità (interessi condivisi
e relazioni a lungo termine). Le nuove comunità d’interesse, osserva Rifkin,
sono sempre meno legate ai luoghi geografici (pag.297).
Ma una parte considerevole dell'economia mondiale è nelle mani di poche
centinaia di società multinazionali, poche centinaia di miliardari posseggono
un patrimonio superiore al reddito della metà popolazione più povera del mondo
(pag.298 e pag.307): l'allontanamento dello Stato e delle imprese dalla
comunità locale, se non è sostituito dal terzo settore, rischia di far
crescere un quarto settore costituito da economia sommersa e cultura
criminale, e da fondamentalismi (pagg.298, 307, 340-344).
Il disagio sociale creato dalla disoccupazione diffusa favorisce partiti
politici estremisti, vi è correlazione fra disoccupazione e criminalità: nel
libro La fine del lavoro (op.cit.) Rifkin evidenzia come l'attuale
momento storico si caratterizzi per conflitti a bassa intensità dove la
distinzione tradizionale fra guerra ed attività criminale va sempre più
scomparendo (pagg.336-348). I microconflitti e l'estremismo politico e
religioso aumentano con la disoccupazione tecnologica, col minore potere
d'acquisto, specie della classe media, e con le minori disponibilità
finanziarie degli stati; criminalità e disoccupazione sono strettamente
correlate (pagg.454-455).
La perdita dell'occupazione formale di massa costituirà forse il maggior
problema sociale del XXI secolo (pag.16, pag.289 e seguenti); il valore di
mercato del lavoro è stato finora la misura del valore degli individui: con
processi di crescente automazione occorrerà trovare altri modi "per
definire il valore degli individui e le relazioni sociali" (pag.19).
La fine del lavoro è caratterizzata da processi di automazione laborsaving,
di re-engineering (particolarmente accaniti verso il middle
management, pag.29, pag.279 e seguenti, pag.454), di outplacement
(pag.25), di downsizing (riduzione della dimensione delle imprese,
pag.158).
Il XX secolo segna la metamorfosi del consumo, da vizio a virtù (pag.47
e seguenti); il credito al consumo fu fondamentale per imporre una cultura
edonistica negli Stati Uniti, il cui new deal si caratterizzò come un
insieme di programmi di opere ad alta intensità di manodopera; ma fu l'economia
di guerra a dominare con un "complesso militare-industriale (...) che, se
avesse costituito una nazione a sè stante, si sarebbe collocato al tredicesimo
posto nella graduatoria dei paesi industrializzati" (pag.68). La guerra
fredda, il Vietnam contribuirono all'espansione dell'economia nonostante nuove
tecnologie.
Gli scioperi intensi del dopoguerra americano avevano per oggetto aumenti
salariali, ma ai sindacati sfuggì il pericolo per l'occupazione della crescente
automazione, di cui le prime vittime furono gli afroamericani (pagg.120-128 e
147). La riduzione della spesa pubblica per contenere il crescente debito
pubblico porta a re-engineerizzare il pubblico con l'obiettivo di accrescere la
produttività, riducendo posti di lavoro (pag.79).
La "visione utopistico-tecnologica", dalla frontiera del West alla frontiera
tecnologica, presenta un lato oscuro che emerge con l'utilizzo delle bombe
atomiche in Giappone, la corsa allo spazio durante la guerra fredda ridarà
nuovo valore all'utopia tecnologica, che poi verrà frenata ancora dai disastri
del Challenger, di Chernobyl, dall'incidente al reattore di Three Mile Island,
dall'inquinamento crescente (pagg.84-104).
Il termine efficienza emerge nel XIX secolo in termodinamica; la sua
applicazione nel processo economico risale a F.W.Taylor (1895) per significare
"il massimo rendimento ottenibile nell'unità di tempo con il minimo
dispendio di energia, lavoro e capitale" (pag.95). I ritmi
dell'automazione però sono diversi da quelli della natura, e provocano
"sovraccarico" (stress, pag.303 e seguenti).
I giapponesi realizzarono nel dopoguerra un modello di produzione
post-fordista: l'impresa non assomigliava più ad una burocrazia militare, con
una struttura gerarchica piramidale discendente, ma consisteva in una lean
production, una produzione leggera caratterizzata da un approccio
cooperativo di gruppo, just-in-time piuttosto che just-in-case
come quello americano. Le tecnologie informatiche aiutano ancor di più
organizzazioni del lavoro a rete o a matrice piuttosto che piramidali
(pagg.164-173 e 299).
I maggiori cambiamenti tecnologici stanno investendo l'agricoltura, con un
passaggio epocale dalle pirotecnologie, che prevedono l'utilizzo del
fuoco per creare nuovi materiali, alle biotecnologie, biologia
molecolare, protetta giuridicamente dai brevetti, che considera le specie come
contenitori di programmi genetici (pagg.183-206).
Cambiamenti tecnologici investono l'industria automobilistica, che è la
maggiore attività industriale del mondo, come pure il settore siderurgico e quello
tessile (pagg.215-231). Anche i servizi hanno subito profonde trasformazioni,
dal centralino elettronico alla divisione elettronica della posta, dagli uffici
automatici (bancomat, pos, ecc.) agli uffici virtuali del tele-lavoro
(pagg.234-235, 238, 241 e seguenti); scanner e codici a barre elettronici hanno
consentito la diminuzione dei cassieri, che erano il terzo gruppo di impiegati
negli Stati Uniti dopo i contabili e le segretarie, queste ultime rese inutili
dall'introduzione e diffusione dei computer (pag.245-252).
L'automazione elettronica si sta espandendo anche alla ristorazione, fino alla
spesa elettronica con conseguente effetto di spiazzamento tecnologico
(pagg.254-256 e 453).
L'automazione ha consentito un maggiore controllo sui processi produttivi, ed
una maggiore produttività; nella produzione pianificata il lavoratore
agiva in una fase specifica del processo produttivo, nella produzione
programmata funge soltanto da osservatore (pag.297). L'introduzione dei
computer, osserva inoltre Rifkin, sembra aver aumentato piuttosto che ridotto
il tempo di lavoro (pagg.355-356).
I processi di automazione stanno investendo anche il Terzo mondo, il lavoro
contingente (temporaneo, parziale e outsourcing) è il nuovo esercito di
riserva; essere disoccupati significa "sentirsi improduttivi e privi di
valore" con conseguenze spesso disastrose per la salute (pag.317 e
seguenti).
Il controllo del capitale finanziario e dei mezzi di produzione non garantisce
più oggi il controllo dell'attività economica, che è nelle mani dei knowledge
workers; il maggior capitale d'investimento americano sono i fondi pensione
(pag.285 e 364).
Informazione e comunicazione non conoscono confini, nè frontiere, Rifkin
evidenzia come il ruolo geopolitico e quello di "datore di lavoro di
ultima istanza" dello stato nazionale si stiano affievolendo. La soluzione
ai problemi della mancanza di lavoro sta nel terzo settore, nelle
attività di volontariato o economia sociale (pagg.377-381).
La partecipazione al terzo settore, secondo Rifkin, è l'alternativa alla
cultura criminale (pag.394); comunità di interesse ridurranno la
necessità di intervento dello Stato in materia di assistenza sociale.
Il futuro, secondo Rifkin (pag.195), sarà caratterizzato da:
- riduzione del settore pubblico;
- globalizzazione di quello privato;
- comunità locali forti ed autosostenentesi.
Concetti basilari sono quelli di network cooperativo, settore
indipendente o terzo settore, volontariato, "salario ombra"
deducibile fiscalmente, salario sociale, reddito minimo garantito, riduzione
dell'orario di lavoro (pagg.396-433).
Le NGO sono soggetti importanti per creare occupazione, ma anche per le
rivoluzioni democratiche e per la cooperazione internazionale (pagg.439-446).
17-2 LA NECESSITÀ DEL RIFORMISMO NEL CONTESTO DELL’ECONOMIA GLOBALE
Il capitalismo, osserva Giorgio Ruffolo in Riformismo e capitalismo globale (cit.), è l’unico sistema
storico in mutazione permanente; il riformismo lo ha capito ed ha cercato di
controllarne i cambiamenti attraverso due soggetti fondamentali, che sono lo Stato
nazionale ed il sindacato di classe, soggetti oggi entrambi
indeboliti (cit., pagg.15 e 17-53).
Tre sono i punti critici su cui è impegnata la moderna sinistra riformista:
rispondere alla globalizzazione mondiale, alla destrutturazione del lavoro e
del Welfare State, alla mercatizzazione dei rapporti sociali; le risposte
possono essere rigide, come la mera conservazione delle conquiste ottenute,
oppure mimetiche (e tale è, secondo Ruffolo, la “terza via”), oppure ancora di pragmatismo
etico, che consiste nel tradurre gli ideali in obiettivi, nel “costruire un
sistema di indicatori-obiettivo che nell’insieme configuri l’immagine di
una società desiderabile e possibile, relativamente a un periodo determinato”
(cit., pag.20).
Governare la globalizzazione, osserva ancora Ruffolo, significa governare i
flussi monetari e finanziari, governare i flussi commerciali, governare i beni
comuni planetari (cit., pagg.55 e 66); il sistema di Bretton Woods riuscì a
stabilizzare sia i cambi che i tassi di interesse, oggi occorre trasformare e
rafforzare il FMI e combattere i paradisi fiscali, mentre è improprio parlare
di moneta unica mondiale o di governo mondiale: “non si possono governare
processi presenti con istituzioni future” (cit., pag.64), e nulla è più
frustrante del riformismo annunciato: “nuovo, vero, moderno, serio,
concreto…” (cit., pag.66).
Il tema della regolazione mondiale comprende i problemi del che cosa,
del come e del chi: l’Europa potrebbe essere la piattaforma di
partenza (cit., pag.68).
La competitività, osserva ancora Ruffolo, a livello macroeconomico è un
concetto retorico, un paese non è un’impresa mossa soltanto dalla
massimizzazione dei profitti, e peraltro gli Stati Uniti sono insieme il paese
economicamente più forte ed anche il più indebitato (cit., pagg.56 e 74).
Anche secondo Pierre Carniti (La società dell'insicurezza, cit.) i paesi
non sono aziende e la competitività è meno importante della coesione sociale,
che si fonda non sul saldo della bilancia commerciale ma piuttosto su cose come
"istruzione, salute, lavoro, sicurezza, ambiente" oltre che sulla
produttività (cit., pag.111); e gli stati, osserva Carniti, scompaiono per
guerra o rivoluzione, mai per un'Opa. Per quanto riguarda il conflitto, poi,
questo non costituisce un problema per la democrazia ma piuttosto ne è il
fondamento.
Grazie alle rivoluzioni informatica ed elettronica, il potere finanziario è
divenuto extraterritoriale, mentre il potere politico è ancora vincolato
territorialmente (governi e parlamenti nazionali, sindacati, cit.,
pagg.14-17-25).
Tre sono i tipi di diseguaglianze, tutte in crescita, che accompagnano il
processo di globalizzazione: quelle interne ai paesi ricchi, quelle interne ai
paesi poveri, quelle fra paesi ricchi e paesi poveri. Deregolamentazione,
flessibilità, precarizzazione, regresso dell'economia pubblica, declino della
politica caratterizzano la società dell'incertezza, che diventa imprevedibile
sia nelle dinamiche individuali che in quelle sociali (cit., pag.55).
La fine del comunismo ha accelerato i processi di globalizzazione delle
economie di mercato, ma ha anche creato nuove divisioni: separatismi,
nazionalismi, fondamentalismi (cit., pag.71).
Funzione della politica è correggere il mondo, oltre che amministrarlo; i
principi vanno tenuti fermi, le politiche variano invece col variare dei
contesti: la storia può insegnarci solo ciò che non si deve fare, il da farsi
va inventato, è il compito della politica (cit., pag.95). E non basta solo
avere ragione, bisogna anche farla valere (cit., pag.72).
Alla globalizzazione dell'economia occorre rispondere con la globalizzazione
della democrazia: la globalizzazione è infatti una risorsa, che comporta rischi
ma anche opportunità; è una seconda modernità (pag.59). Le due grandi
minacce del nostro tempo sono quella ambientale e quella derivante dalla natura
di gioco d'azzardo del sistema finanziario, caratterizzato da livelli crescenti
di volatilità, incertezza, speculazione; ed entrambe le minacce, osserva
Carniti, sono senza nemici (cit., pag.98).
Robert Heilbroner, ne La prospettiva dell’uomo,
(op.cit.), osserva come ciascuna generazione dia per scontati i propri standard
di vita e non provi gratitudine per quelle a lei precedenti, mentre i sacrifici
per le generazioni future incontrano la difficoltà di stabilire una
identificazione con gruppi che non sono oltre i nostri confini, ma oltre il
nostro tempo. L'atteggiamento verso il futuro delle moderne società
consumistiche è determinato perciò da considerazioni egoistiche.
Proprio l'assenza di legami col futuro fa dubitare che gli stati-nazione e gli
ordinamento socioeconomici possano prendere decisioni adesso per risolvere i
problemi del futuro; gli stati nazione, osserva peraltro Heilbroner, sono
surrogati psicologici della famiglia, e la speranza di poter raggiungere la
fratellanza universale è utopistica.
La concezione umanistica ha il proprio punto debole nell'incapacità o non
volontà di affrontare certe caratteristiche umane radicate; inoltre, le
priorità attuali consistono nell'incoraggiare quel progresso industriale che,
se da un lato permette di combattere la povertà, dall'altro è destinato a
divenire il nostro pericolo mortale (pericolo ambientale e climatico).
Per Galbraith (Il progresso economico in
prospettiva, op.cit.) lo sviluppo economico è un processo differenziato,
non è possibile un'unica diagnosi delle cause di sottosviluppo, in pochi casi
vi è identità fra cause di arretratezza e condizioni di progresso.
Il capitale fornito a paesi ancora in fasi iniziali di sviluppo è sprecato, lo
sviluppo negli stessi paesi sviluppati non dipende dal capitale ma da altri
fattori (immaginazione scientifica e tecnica, abilità e qualità della forza
lavoro, chiarezza di obiettivi, capacità di utilizzare a pieno le risorse
disponibili). Lo sviluppo diventa più facile man mano che si avanza, il
differenziale fra i paesi più sviluppati e gli altri aumenta.
Dividere il mondo fra benefattori ed assistiti è sbagliato e nocivo
psicologicamente, lo sviluppo è un'impresa in cui il bisogno d'aiuto si accompagna
a qualcosa da offrire: il senso di fiducia in se stessi aumenta non con gli
aiuti ma con le esportazioni. La disoccupazione nei paesi meno avanzati dipende
spesso proprio dall'adozione delle tecnologie dei paesi più evoluti, che sono
adatte alle particolari esigenze di quelle economie.
L'organizzazione ed i servizi dei paesi più evoluti non sono la causa ma il
risultato del loro sviluppo. Nelle prime fasi dello sviluppo occorre porre le
basi amministrative, sociali ed educative necessarie per la crescita
successiva.
Contare sul mercato senza pianificazione pubblica significa correre il rischio
inaccettabile che poco o nulla si realizzi: le conquiste spaziali, l'energia
atomica, l'elettronica dipendono dalla pianificazione, il tipico piano di
sviluppo moderno è un piano di investimenti. Un buon piano di sviluppo deve:
- basarsi su una teoria del consumo che abbia una visione chiara dei
bisogni del consumatore da servire;
- avere una strategia di progresso economico che distingua le cose essenziali
da fare da quelle utili o indifferenti (se ogni cosa diventa essenziale, ciò
che lo è veramente sfugge all'attenzione);
- dare rilevanza tanto alle dimensioni visibili delle realizzazioni industriali
quanto a quelle invisibili (efficienza, direzione indipendente e sana, qualità
dei prodotti, basso costo delle materie prime e della produzione, possibilità
di sostituire ed espandere gli impianti).
L'azienda industriale è una personalità sintetica, è la combinazione di
molte personalità reali in modo da riuscire a fare ciò che un singolo individuo
isolato non riuscirebbe assolutamente. La realizzazione della personalità
sintetica dell'ente sociale "azienda" è possibile solo in condizioni
di libertà: autonomia significa però allora maggiore responsabilità pubblica
per i risultati prodotti.
L'impresa del settore pubblico in un paese sottosviluppato ha come primo
obiettivo quello di espandere se stessa.
L'istruzione è insieme una forma di consumo ed una specie di
investimento, gli incrementi produttivi dipendono dall'istruzione, specialmente
quella di tipo universitario. L'istruzione come consumo implica la possibilità
di scegliere il tipo di istruzione preferita, l'istruzione come investimento
implica l'adattamento degli studenti alle necessità, che sono maggiori quanto più
sono scarsi i mezzi: Galbraith sottolinea in questo caso l'importanza degli
incentivi; il paese in via di sviluppo deve adattare il proprio sistema
scolastico in funzione delle esigenze peculiari dello sviluppo, adattandone le
materie e la preparazione degli studenti alla sua situazione specifica.
L'università, osserva Galbraith, è un'oligarchia del corpo accademico: la
democrazia al suo interno significherebbe incoerenza e caos.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Pierre Carniti, LA SOCIETÀ DELL'INSICUREZZA (Città
Aperta Edizioni, Enna 2001)
- Franco Debenedetti (a cura di), NON BASTA DIRE NO (ed.Mondadori, Milano 2002)
- John Kenneth Galbraith, LA SOCIETÀ OPULENTA
- John Kenneth Galbraith, IL PROGRESSO ECONOMICO IN PROSPETTIVA (Economic
development in perspective)
- Robert Heilbroner, LA PROSPETTIVA DELL'UOMO (An inquiry into the human
prospect, 1974)
- Ethan B.Kapstein, GOVERNARE L'ECONOMIA GLOBALE. La finanza internazionale
e lo stato (Asterios Editore, Trieste 1994)
- Alfredo Reichlin, Giorgio Ruffolo, RIFORMISMO E CAPITALISMO GLOBALE (Passigli
Editori, Firenze 2003)
- Jeremy Rifkin, L'ERA DELL'ACCESSO. La rivoluzione della new economy
(ed. Mondadori, Milano 2000)
- Jeremy Rifkin, LA FINE DEL LAVORO (ed.Baldini&Castoldi, Milano 1999)
- Amartya Sen, LO SVILUPPO È LIBERTÀ (Ed. Mondadori, Milano 2000)
- Arnold Toynbee, LA CITTÀ AGGRESSIVA (Cities on the move, 1970)
18- ERICH FROMM E L’UNITÀ DEI RIFORMISMI
L’idea che vi siano valori comuni che
caratterizzano le varie forme in cui si esplica l’azione riformista,
consentendo intese, unioni, unificazioni fra partiti riformisti con tradizioni
culturali diverse, è un’idea che l’agenda politica italiana ha reso prioritaria
per consentire la vittoria elettorale a queste forze, nessuna delle quali singolarmente,
nè il riformismo socialista, nè quello cattolico, nè quello liberale, nè quello
ambientalista avrebbero i consensi necessari per poter governare da sole.
L’idea, quindi, di arrivare a fondare un unico partito riformista, sintesi di
formazioni politiche diverse ma che tutte si riconoscano nell’unico ed
unificante metodo di azione politica, è un’idea che nel panorama politico
italiano si è fatta avanti dopo che i risultati elettorali anche della
cosiddetta “seconda Repubblica” hanno dimostrato, come era peraltro già
evidente nella “prima Repubblica” che i riformisti, da soli, non avrebbero mai
potuto governare il Paese.
L’idea di valori comuni, unificanti dei vari riformismi, non è però un’idea
recente, e non è neppure un’idea originale del nostro Paese. Vi sono infatti,
almeno dal punto di vista teorico, importanti precedenti, ed in particolare un
autore che, nel corso di tutta la sua produzione intellettuale, ha sempre posto
al centro dell’attenzione questa possibilità. L’autore di cui tratteremo in
questa sede si chiama Erich Fromm, e la sintesi teorica da lui proposta delle
diverse tradizioni culturali che, in campo politico, approdano al riformismo,
si chiama Umanesimo.
Nel libro Psicanalisi della Società
Contemporanea, Fromm osserva come non vi siano nuovi ideali da perseguire,
come i grandi maestri abbiano indicato, con linguaggi diversi, le norme
per vivere bene, che possono essere unificate, al di là delle diversità
contingenti dei linguaggi, in un unico grande insegnamento umanistico che abbia
carattere universale e condiviso; le differenze, infatti, hanno prevalso sulle
somiglianze a causa delle chiese e delle gerarchie che si sono impadronite di
quelle norme, creando divisioni e conflitti (cit., pag.330).
Lo sviluppo futuro dell'umanità dovrà comportare, secondo Fromm, la decisa
negazione di ogni idolatria e la nascita di un sistema di pensiero di carattere
universalistico che racchiuda in sè "gli insegnamenti umanistici comuni a
tutte le grandi religioni dell'oriente e dell'occidente" (pag.337) e per
il quale la pratica di vita possa prevalere sulle credenze dottrinarie,
ateistiche, che sono specifiche di ogni singolo sistema di pensiero.
Anche nel libro La rivoluzione della speranza, Fromm individua un
insieme di valori comuni nella storia psico-spirituale sia dell'Occidente che
dell'Oriente, che egli chiama valori umanistici (pagg.104-106), perché
la loro realizzazione è fondamentale per il completo sviluppo dell’essere
umano.
L'uomo, osserva Fromm, spesso confonde la sua essenza con una forma particolare
di esistenza: le diverse definizioni di uomo (Homo faber, Homo sapiens, Homo
ludens, Homo negans, Homo esperans) non chiariscono ciò che è umano in senso
universale, perché una definizione assoluta della natura umana non è possibile
(pagg.68-71); inoltre, "ognuno porta in se stesso ogni aspetto
dell'umanità, ed è santo come criminale" (pag.72): perciò, è possibile per
noi una conoscenza dei nostri simili basata su compassione ed empatia (pag.95).
Esiste quindi un continuum che passa dalla libertà al determinismo, attraverso
le visioni messianiche (cristianesimo, ma anche Marx) e la loro
secolarizzazione (le chiese, il comunismo); occorre che le visioni prevalgano
sulla loro ritualizzazioni, le cui forme distruttive si sono manifestate nel corso
della storia umana, dall’inquisizione ai gulag.
La fratellanza è il valore comune che soddisfa le due necessità umane,
che sono libertà e rapporti comunitari, ovvero indipendenza ma anche
appartenenza, essere parte di un tutto (pag.81). Città di Dio e Città Terrena,
osserva ancora Fromm in Avere o essere, sono tesi ed antitesi la cui
sintesi è la Città dell'Essere (pag.262).
Nel libro Psicanalisi dell’amore Fromm evidenzia come, per le grandi
religioni umanistiche, il fine dell'uomo sia quello di superare il proprio
narcisismo: le differenze filosofiche e religiose non possono peraltro
scomparire del tutto, perché un unico sistema ortodosso condurrebbe a nuovo
narcisismo; questa precisazione è di estrema importanza per non ricadere negli
errori già commessi nel corso della storia dalla trasformazione dei sistemi di
pensiero in chiese: occorre infatti trovare un'esperienza umanistica comune rispettando
tutte le differenze. Alle feste nazionali, secondo Fromm, bisognerebbe
sostituire feste, solennità e simboli delle Nazioni Unite; i testi di storia
andrebbero riscritti come libri di storia universale (cit.,
pagg.117-122).
18-2 LA SPERANZA COME PREMESSA DEL CAMBIAMENTO
Il cambiamento richiede azione, l’abbiamo visto
in precedenza; ma anche la speranza, secondo Fromm, è un elemento
fondamentale di ogni tentativo di cambiare la società: Fromm distingue la
speranza passiva, che è attesa e rassegnazione, da quella attiva, che è invece
la proiezione nel futuro; la fede è convinzione "in ciò che ancora non è stato
provato" (La rivoluzione della speranza, cit., pag.20), ed è
accompagnata dalla speranza come stato d'animo: entrambe, fede e speranza, sono
visioni del presente in stato di gestazione.
I grandi cambiamenti non si possono fondare sulla sfiducia (come il “Grande
Rifiuto” di Marcuse), nè i conflitti possono scomparire semplicemente con la
soddisfazione materiale dei bisogni (pag.126). L'alternativa alla speranza è la
mania di distruzione: eros contro thanatos (pag.30).
In Avere o essere, Fromm osserva come i sacrifici necessari per mutare
il nostro modo di vita siano tali da far preferire una catastrofe futura,
mentre i leaders politici il più delle volte fingono di operare
efficacemente, attraverso trattative e conferenze senza fine (cit.,
pagg.25-26).
La nuova società , secondo Fromm, deve essere caratterizzata da crescita
selettiva, sicurezza, soddisfazione psicologica, decentramento, partecipazione
alle decisioni, informazione, sviluppo scientifico, democrazia industriale,
"liberazione delle donne dal dominio patriarcale" (pag.248), reddito
minimo garantito, disarmo atomico.
L'arte di essere (pagg.221 e seguenti) riguarda :
1) uno scopo supremo dell'esistenza che è la piena crescita di se stessi e dei
propri simili;
2) due negazioni, e cioè la rinuncia al proprio narcisismo, ad adorare idoli,
alle illusioni, ma anche la rinuncia a tutte le forme di avere, possedere,
controllare, ecc.;
3) attività positive quali sono il rispetto di ogni forma di vita, dare e
condividere, lo sviluppo della propria capacità di amare e di pensare in
maniera critica, lo sviluppo della propria fantasia come anticipazione di
possibilità concrete, conoscere se stessi, essere presenti, far propria una
libertà che non sia arbitrarietà, essere consapevoli che nessuno e nulla fuori
di noi può dare significato alla nostra vita e che male e distruttività sono
conseguenze necessarie del fallimento del nostro proposito di crescere.
Nel libro Voi sarete come dei, Fromm analizza l'atteggiamento negativo
della speranza dinamica, che è paradossale perché accetta la tesi
secondo cui la salvezza può arrivare subito come fra molte generazioni future,
e tende perciò ad alienarsi nella idolizzazione del futuro: adorazione della
posterità in Robespierre e Diderot, Leggi della Storia per marxismo e comunismo,
fondamentalismi religiosi (pagg.105-106).
Mentre i comportamenti degli animali sono determinati dall’istinto, l'immaginazione
è specificamente umana come lo è l'autocoscienza, e fa sì che l'uomo possa
essere buono o cattivo: "il problema del bene e del male sorge solo quando
c'è l'immaginazione" (cit., pag.109).
18-3 L’UMANESIMO COME STELLA POLARE DEL RIFORMISMO
Nell'introduzione al libro L'umanesimo
socialista, Fromm definisce l'umanesimo come "la fede nell'unità della
razza umana e nella capacità dell'uomo a perfezionare se stesso con i propri
sforzi" (cit., pag.5).
Egli condivide le affermazioni di Terenzio e di Goethe secondo cui ciascun
individuo porta in sè tutta l'umanità e nulla di ciò che è umano, nel bene e
nel male, gli può essere estraneo. Gli umanisti credono nella possibilità
dell'uomo di rendere perfettibile se stesso unicamente con i propri sforzi;
l'umanesimo emerge nella storia come reazione a minacce: nel
Rinascimento come reazione al fanatismo religioso, nell'Illuminismo come
reazione al nazionalismo estremo, nella seconda metà del XX secolo come
reazione all'alienazione ed alle armi nucleari (pag.6). Nel nostro tempo,
verrebbe da aggiungere, l'umanesimo può emergere come reazione alle minacce
fondamentaliste, alle diseguaglianze ed alla distruzione progressiva
dell'ambiente terrestre.
I primi due umanesimi (del Rinascimento e dell'Illuminismo) pensavano che l'istruzione
potesse svolgere il compito di trasformare l'uomo in un essere completo; Marx
individuò l'importanza del sistema sociale ed economico, ma individuò nel
proletariato la classe-guida della trasformazione, mentre oggi possiamo vedere
che esiste una alienazione del benessere tanto disumanizzante quanto l'alienazione
della povertà (pagg.6-7).
Per Marx, secondo Fromm, era fondamentale l'optimum di consumo anzichè
il maximum, la troppa ricchezza rende prigioniero l'individuo della
propria avidità e gli impedisce di divenire pienamente umano come la troppa
miseria (pag.264).
L'essenza dell'uomo consiste nelle sue diverse possibilità di risolvere la
propria contraddizione esistenziale: esistere nella natura, "in un
luogo e tempo accidentali", e nello stesso tempo esserne trascendente,
senza istinti ma cosciente "di se stesso, degli altri, del passato e del
presente" (cit., pag.270).
In Psicanalisi della Società Contemporanea, Fromm parla di umanesimo
normativo per individuare criteri di giudizio universali in base ai quali
valutare il grado di salute di una società; esiste infatti una deficienza
socialmente strutturata nelle società occidentali, in cui i mass media svolgono
la funzione di narcotico: come esiste la follia individuale, osserva, esiste
anche una folie à millions (pag.23).
In Avere o essere Fromm osserva come un reddito annuo minimo garantito
sia fondamentale per accrescere la libertà umana, ad esempio permettendo di
cambiare lavoro (pag.148 e seguenti). Occorre anche indirizzare diversamente i
consumi: vi sono beni e servizi che dovrebbero essere gratuiti, come lo sono
già ora l'aria e l'istruzione inferiore; fra questi, l'istruzione superiore, i
beni fondamentali, i trasporti (pag.151); la pubblicità, per Fromm, è "uno
dei più gravi attentati al diritto del privato di sapere ciò che desidera"
(pag.47): servono perciò restrizioni legali alla pubblicità e leggi fiscali per
disincentivare la produzione di cose inutili e dannose (pagg.145-146).
Il socialismo, per Fromm, resta la sola soluzione costruttiva: socialismo
umanistico e democratico, socialismo comunitario, implicando con ciò la
socializzazione dei partiti socialisti (Psicanalisi della società
contemporanea, cit., pagg.266-273, 314); il riformismo può essere
superficiale, quando si limita a correggere i sintomi ma non le cause, oppure
radicale: ma non vi può essere progresso se non è integrato fra le sfere
economico-sociale, spirituale e psicologica, "la vera misura della riforma
non è il suo ritmo ma il suo realismo" (pag.263).
La concezione umanistica è stata criticata da
Norberto Bobbio: Umanismo di Marx, di Rodolfo Mondolfo, uscì nel 1968,
anno della crisi cecoslovacca; fu in quell'occasione, rileva Bobbio, che venne
coniata l'espressione socialismo dal volto umano (L'Umanesimo
socialista da Marx a Mondolfo, cit., pag.7), una novità in quanto da allora
il socialismo veniva per la prima volta distinto al suo stesso interno (e non
più solo dagli oppositori) in socialismo dal volto umano (socialdemocrazia) e
socialismo dal volto disumano (comunismo, stalinismo).
L'umanismo di Mondolfo, riferito al socialismo, è una concezione
generale della storia e un'etica:
- la storia è fatta dagli uomini e non da forze che li trascendono;
- l'etica umanistica comporta il concetto di riappropriazione della propria
umanità da parte dell'uomo (pag.5), dopo aver constatato le condizioni
disumanizzanti in cui si trova a vivere l'uomo storico rispetto ad una sua
immagine ideale (uomo autentico, totale, come dovrebbe essere, ecc.).
Secondo Bobbio, tuttavia, l'espressione "umanismo" è carica di
suggestione emotiva, viziata da retorica di tradizione spiritualistica,
evanescente dal punto di vista concettuale (pag.8).
Mondolfo non è nè fatalista (non crede al solo primato delle condizioni
oggettive), nè volontarista (non crede al solo primato delle forze soggettive),
ma cerca di volta in volta di mediare le due tesi (pag.13).
Ma il concetto di umanesimo è ambiguo anche nel suo significato etico, le
immagini di uomo (e pertanto anche di umanesimo) sono tante quanti i sistemi
filosofici e religiosi (pag.9); Bobbio propone l'esempio delle due etiche,
stoicismo ed epicureismo, che divisero il mondo antico fra etica della virtù ed
etica del piacere: ma qual è superiore, la vita attiva o la vita contemplativa
? Homo faber o homo ludens ? All'immagine dell'uomo nuovo si è poi
aggiunta quella della donna nuova, ed i diversi umanismi sono stati
spesso concezioni dell'uomo in quanto tale, virtù maschili (p.10).
Bobbio però criticava Mondolfo, non direttamente
le teorie di Fromm, che nel libro La disobbedienza e altri saggi
descrive in modo più approfondito i principi fondamentali dell'umanesimo
come concezione globale dell'uomo, che sono l'unicità della nostra specie
(tutto ciò che è umano è in ciascuno di noi), l'importanza della dignità
umana, la capacità di autoperfezionamento ed autosviluppo dell'uomo,
la ragione, l'obiettività e la pace (cit., pag.61).
Tutti noi abbiamo tutte le possibilità dentro noi stessi (buone e cattive), e
per questo è possibile comprenderci (e capire anche il nostro inconscio,
pag.65).
L'umanesimo si sviluppa storicamente come reazione a minacce contro l'uomo
(pag.67); il socialismo è stato inteso erroneamente come movimento economico,
come nazionalizzazione dei mezzi di produzione, ma il principio supremo del
socialismo è che "l'uomo ha la precedenza sulle cose, la vita sulla
proprietà, e quindi il lavoro sul capitale; che il potere consegue alla
creazione, e non al possesso; che gli uomini non devono essere governati dalle
circostanze, ma al contrario le circostanze dagli uomini" (cit., pag.96).
In Psicanalisi dell’amore, Fromm osserva come Freud, Spinoza, ma anche
lo stesso Marx, non furono deterministi bensì alternativisti:
"l'uomo può spezzare le catene della necessità se è consapevole
delle forze che operano a sua insaputa, se fa lo sforzo enorme di
vincere la propria libertà " (pag.191).
Per il socialismo umanistico (La disobbedienza e altri saggi,
op.cit.):
A) la pace non può essere solo assenza di guerra, che è la sua
definizione negativa, ma deve essere in positivo collaborazione fra gli uomini,
pace come stato di armonia, disarmo (pagg.96, 129 e 151); i sistemi sociali ed
economici infatti, per Fromm, sono insiemi di rapporti umani e le
strategie della pace impongono la lotta contro gli idoli, il riconoscimento di
interessi reciproci, la mobilitazione collettiva (pagg.95 e 166-169).
B) la libertà è libertà da paura, bisogno, oppressione, violenza
ma anche libertà di partecipare e sviluppare il proprio potenziale
umano, secondo la lezione di Berlin (pag.97).
C) occorre arrivare all'abolizione della sovranità nazionale, da sostituire con
una comunità di nazioni (pag.103).
D) la democrazia è politica, partecipazione informata ai processi
decisionali, ma è anche industriale.
Per realizzare il socialismo umanistico, secondo Fromm, occorre però
individuare obiettivi intermedi da raggiungere, nei quali un certo grado di pianificazione
e di Stato può servire per raggiungere la meta finale, che è caratterizzata
invece da cooperazione e dallo stato minimo (pag.99). Fromm auspica
anche la costituzione di assemblee cittadine e la decentralizzazione (pag.102);
evidenzia, a pagg.80-81 del libro cit., come la burocrazia possa trasformare la
democrazia in rituale e distingue i profeti, che enunciano idee originali, dai
sacerdoti che invece utilizzano idee altrui (pag.43).
La felicità non può essere definita in un solo modo, non è un concetto
univoco, ma non può neppure essere la possibilità di fare quello che si vuole;
l’alternativa alle etiche autoritarie non è l’etica del laissez-faire:
l'autorità irrazionale, fondata sulla suggestione e sulla forza, non va
sostituita col laissez-faire ma con autorità razionali, basate sulla competenza
(pagg.70 e 104).
Nell'arte, il socialismo si propone di giungere ad eliminare la
distinzione fra chi la produce e chi la consuma: non è semplicemente un insieme
di atti di riforma, non è solo un programma economico, sociale, politico ma è
un programma umano mosso "dall'aspirazione ideale a una società
migliore dell'attuale" e che però sia fondata su potenzialità concrete
(pag.112).
Nel libro L’amore per la vita, Fromm rileva che privato e pubblico non
possono essere divisi, le cognizioni di sè e della società sono inseparabili
(pag.133). L'amore per i propri simili è strettamente legato alla compassione,
il cui contrario è l'indifferenza: "chi sa amare un unico suo simile, non
ama nessuno" (pag.168).
Si può fare senza avere uno scopo: il fare senza scopo, osserva
Fromm, è l'autoespressione dell'individuo: "quanto di più bello c'è nella
vita consiste nel dare espressione alle proprie forze, e non già con uno scopo,
ma per amore dell'atto in sè " (pag.105).
Nella concezione biblica, qualsiasi intervento umano è lavoro, mentre il
riposo è uno stato di pace fra uomo e natura e il Sabato è il
giorno di tale armonia; l'idea profetica di pace è quindi armonia non
solo fra gli uomini ma anche fra uomo e natura (pagg.85 e 132).
Nel libro Voi sarete come dei, Fromm sottolinea il carattere
rivoluzionario del Vecchio Testamento, il cui tema principale è "la
liberazione dell'uomo dai legami incestuosi del sangue e della terra, dalla
sottomissione agli idoli, dalla schiavitù, dai padroni potenti" (pag.9) e
ne dà una interpretazione nel senso dell'umanesimo radicale, una
filosofia globale che si può ritrovare anche negli scritti di Amos, Socrate,
Kant, Herder, Lessing, Goethe, Marx, Schweitzer e degli umanisti del Rinascimento
e dell'Illuminismo (pag.13).
Il punto centrale dell'Antico Testamento è la lotta contro l'idolatria, il fine
dell'agire umano è un processo costante di auto-liberazione dalle catene della
natura, del passato, del clan, degli idoli, della schiavitù (pagg.32 e 50).
L'obbedienza a Dio ed alle sue leggi aiutò l'uomo a liberarsi dai legami
incestuosi primari (natura, clan, madre, sangue, terra), che è la condizione
per l'evoluzione umana; l'indipendenza completa è però difficile, ed è
multiforme: dalla nazione, dal gruppo sociale, dal denaro, dai propri successi
e dal proprio narcisismo (pag.52-62).
La vita e la morte nella Bibbia non sono fatti biologici ma valori e principi,
si può essere morti ma vivi biologicamente (pag.122); gli ebrei, secondo Fromm,
proprio a causa della loro tragedia storica, furono capaci di mantenere una
cultura umanistica (pag.15).
L'uomo è fragile, debole, ma è un sistema aperto (pag.55).
Il riformismo è un sistema aperto.
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI:
- Norberto Bobbio, L’UMANESIMO SOCIALISTA DA MARX
A MONDOLFO (in AA.VV. L'Umanesimo Socialista di Rodolfo Mondolfo, Milano
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- Erich Fromm, PSICANALISI DELLA SOCIETÀ CONTEMPORANEA
- Erich Fromm, LA RIVOLUZIONE DELLA SPERANZA
- Erich Fromm, DALLA PARTE DELL'UOMO. Indagine sulla psicologia della morale
(1947/ed. Astrolabio, Roma 1971)
- Erich Fromm, PSICOANALISI DELL'AMORE. Necrofilia e biofilia nell'uomo (The Heart of Man. Its genius for good ad
evil, 1964/Newton Compton, Roma 1971)
- Erich Fromm, AVERE O ESSERE? (ed. Mondadori, Milano 1977)
- Erich Fromm, LA DISOBBEDIENZA E ALTRI SAGGI (1981/ed. Mondadori, Milano 1982)
- Erich Fromm, VOI SARETE COME DEI. Un'interpretazione radicale del Vecchio
Testamento e della sua tradizione (1966/ed. Astrolabio-Ubaldini, Roma 1970)
- Erich Fromm, AMORE, SESSUALITÀ E MATRIARCATO (1994/ed. Mondadori, Milano
1997)
- Erich Fromm, L'AMORE PER LA VITA. Letture radiofoniche (1983/ed.
Mondadori, Milano 1984)
- Erich Fromm, L'UMANESIMO SOCIALISTA. Introduzione e L'applicazione
della psicoanalisi umanista alla teoria di Marx (in Socialist Humanism
An International Simposium, 1965/ed. Rizzoli-BUR, Milano 1981)
- Erich Fromm, L'UOMO SECONDO MARX (Marx's concept of man, in Alienazione
e sociologia, ed. Franco Angeli, Milano 1973)