Italo Svevo ( pseudonimo di Ettore Schmitz, un ebreo triestino) impiegato di banca per professione e poi industiale, visse la sua esperienza di scrittore come una seconda parte della sua vita. Insieme al Pirandello interpretò la crisi della civiltà borghese del suo tempo (fine dell'Ottocento e primo ventennio del Novecento). Volle esplorare attraverso i personaggi dei suoi romanzi (Una vita, Senilità, La coscienza di Zeno) le zone profonde dell'animo umano, con l'aiuto anche della psicoanalisi che allora cominciava ad affermarsi ad opera del viennese Freud. Egli mette in scena la figura dell'inetto (l'opposto del superuomo dannunziano), dell'uomo cioé, che è incapace di adattarsi alla vita che vivono gli altri ed è abituato a tormentarsi con una continua riflessione su sé stesso, al punto da sentirsi malato (di una malattia, ovviamente, nervosa). Il pessimismo dello scrittore è totale ed è aggravato dall'incubo della decadenza fisica e della morte. Egli è convinto, però, che proprio grazie a quella malattia che è l'inettitudine si può penetrare nella sostanza più profonda della vita: chi è sano, invece, non si tormenta col pensiero, accetta il suo secolo nella società e con la sua normalità si uniforma al modo comune di pensare. Il tipico personaggio sveviano è un uomo rivolto a un continuo scavo interiore che paralizza la sua volontà di agire e lo rende un inetto alla vita: un tale personaggio riflette la crisi dell'uomo moderno, che avverte il vuoto sotto le esteriori certezze e prova angoscia sentendosi destinato al fallimento. Emblematica è la figura di Zeno Cosini, uomo mancato, abulico, che attraverso la sua confessione tenta, ma invano, di comprendere sé stesso e di liberarsi dell'inettitudine: la sua analisi perviene alla conclusione che le oscure profondità dell'io restano inafferabili.