Trincee: la vita al fronte (2a parte )
INVERNO DI GUERRA
"La lotta contro il freddo"
Per
la produzione di tavole, mattoni e blocchi di cemento, necessari per
allestire ricoveri contro i rigori dell'inverno, si dovettero impiantare
apposite segherie e fornaci sia nelle retrovie che nelle varie regioni italiane. Là
dove il terreno non consentì il collocamento di baracche al fronte, furono scavate
gallerie in roccia o si utilizzarono caverne naturali, adattandole a ricoveri. All'interno degli alloggiamenti la truppa riposa su
pagliericci (sacchi riempiti di paglia, paradiso dei pidocchi), appoggiati su
tavole rialzate da terra, o disposte su più ordini in castello metallico o
ligneo. Le maggiori cure si hanno per l'igiene e la pulizia degli
alloggiamenti, che sono periodicamente disinfettati con lavaggi antisettici e
con distribuzioni di polvere insetticida.
Ovunque, accanto ai villaggi di
baracche, dove è stato possibile, sono state impiantate docce ad acqua calda e
stufe sterilizzanti, ove i reparti si recano a turno per la pulizia personale e
per la disinfezione del vestiario. Presso i bagni funzionano anche lavanderie
con mezzi per la sterilizzazione del vestiario che deve essere continuamente
cambiato. Il complesso delle opere che venne messo in
atto fece poi stupire il nemico per l'arte delle costruzioni e l'inventiva delle
opere italiane. Sul finire della guerra, da parte Austriaca, ci fu sempre meno attenzione
alla vita del soldato e alle sue condizioni per il collasso a cui il paese
andava incontro. Larghissima fu infine in Italia la
distribuzione degli indumenti invernali: camicie di flanella, mutande, calze, guanti di lana,
cappucci e fasce "molletières". Dopo l'esperienza dell'inverno 15/16 furono distribuiti
in maggior numero cappotti invernali con pelliccia, cappucci con pellicce, sacchi a pelo. Furono
aumentate, a seconda delle necessità, le quote di coperte. L'abbondanza delle
distribuzioni, risulta evidente quando si afferma che ad un solo corpo d'armata,
dislocato in zona alpina furono dati circa 80.000 cappotti invernali, 60.000 pettorali in pellicce, 10.000 sacchi a pelo.
Da ogni parte d'Italia, con
generosa gara, Comitati benemeriti ed Associazioni, con l'appoggio attivo,
costante e disinteressato della stampa si organizzarono per inviare al fronte
ogni genere di bene di conforto. Molti accorgimenti ingegnosi furono
escogitati per combattere due grandi nemici: il freddo e l'umidità. Le baracche,
i ricoveri, perfino le trincee furono provviste di stufe d'ogni tipo e forma;
alle truppe furono dati scaldapiedi e scaldamani d'ogni specie. In qualche zona
più elevata, perché le vedette potessero preservare le mani dal freddo furono,
con materiali di ripiego da parte dei fabbri e meccanici di reggimento,
costruiti recipienti per acqua calda, che le vedette mettevano in tasca.
Ad
evitare congelamenti agli arti inferiori, si pensò anche di riscaldare mattoni,
che, avvolti poi in panni di lana, si applicavano alle estremità di chi ritornava dalla guardia. Particolare attenzione fu rivolta
alle calzature. Il numero dei congelamenti agli arti si ridusse quasi a zero
dopo il primo inverno di guerra. Si
distribuirono stivaletti da montagna, zoccoli di legno di vario tipo, per
servire da sovrascarpa o per sostituire le scarpe, spesso bagnate, nei
momenti di riposo. Altre soluzioni: Tele speciali impermeabili, da sovrapporre alle calze di
lana, per impedire il passaggio dell'umidità; grassi per ungere le pelli e per
ungersi;
scarpe con suola impermeabile mediante fodera interna ricavata dalla vescica dei
bovini ecc.
"Il nutrimento del soldato"
Cure speciali furono dedicate all'alimentazione del soldato al fine di renderla
varia, abbondante e adatta alle eccezionali condizioni climatiche alpine. Con l'aumento di alcuni dei generi componenti la
razione e con l'introduzione di altri si assicurò al soldato un minimo
giornaliero di circa 3900 calorie.
Per le truppe sottoposte a lavoro intenso in
montagna, tale minimo fu portato a 4700 calorie, aumentando il pane e il vino ed
aggiungendo moderate distribuzioni di rhum o marsala. All'inizio della guerra la
panificazione era fatta mediante i pur ottimi forni da campo: a
questi si sostituirono gradatamente quelli in muratura, che forniscono pane più
buono e sano. Si cercò di assicurare giornalmente al soldato un piatto caldo, non lasciando intentato alcun espediente per riuscirvi:
da un largo impiego delle casse di cottura, ai termos e agli scaldaranci
(*
vedi sotto)
in
carta e in cera, o alcool solidificato per fornelli, che in
primissima linea servono assai bene a cuocere le vivande e a mantenerle calde.
Per garantire il vettovagliamento delle truppe dislocate in
zone montuose assai elevate furono costruiti, vicino ai reparti, forni avanzati, magazzini di viveri e generi di conforto,
depositi di legna e di carbone. In tal modo, anche in caso di temporanea
interruzione delle strade (nevicate, frane etc.), le truppe sono in grado di provvedere al proprio
sostentamento. Queste postazioni erano spesso raggiunte oltre che da strade,
decauville (ferrovie a scartamento ridotto o cremagliere) anche da teleferiche
(vedi fondo pagina) che,
oltre che trasportare i materiali da costruzione e armamenti, trasportavano il
cibo, la biancheria e gli stessi soldati. Un problema importantissimo, strettamente connesso
all'igiene dell'alimentazione, fu quello di assicurare l'acqua potabile
necessaria. Nella previsione che, in zone elevate, potesse mancare acqua per il gelo delle sorgenti, furono installati potabilizzatori e distribuiti alle truppe filtri tipo "Borkfeld". Là
dove l'acqua mancava del tutto, come sul Carso (poi pure sul Pasubio) si
provvide con
appositi impianti al sollevamento meccanico a pompa
(vedi sotto acquedotti)
e al trasporto da
lontane sorgenti fino alle linee più avanzate, o dalle valli fino alle alte
quote, risparmiando così il lento e faticoso servizio di salmerie e di
portatori.
*
Testimonianze orali "Io ricordo ancora la guerra del '12, avevo cinque
anni, ma c'erano due donne che abitavano qui vicino a me, una anziana ed una più
giovane, madre e figlia. La madre aveva il figlio in Africa e ricordo che tutti
i giorni aspettavano il portalettere sperando di ricevere posta dall'Africa Poi
del 1915-18 ricordiamo le privazioni, le tessere: è stata dura anche quella. Io
ricordo che c'era poca roba e cattiva. C'era un olio che non si poteva
adoperare, del lardo giallo quasi immangiabile. Davano la tessera in base alle
persone, un tanto a testa. Noi avevamo campagna, ma compravamo un po' di tutto
perché non è che rendessero molto i nostri campi.
Gli scaldaranci erano cilindretti di carta
avvolta e pressata, grossi come un rullino di pellicola fotografica. Avvolta più volte e legata stretta
la carta veniva quindi immersa nella
paraffina per diverse ore fino ad impregnarsi. Concorrevano a questi lavori donne
e bambini dei comitati di assistenza sparsi nelle grandi città. Altri costruivano con filo il fornelletto
come l'immagine sotto e tutti ricevevano in
cambio il
"…Il nostro piccolo accampamento è sulle pendici del Bruscòn, verso quota 1100. Qui stanno i 41 muli, i conducenti, il Sergente Rossi capo delle salmerie, il maniscalco, ecc. Gli uomini sono attendati: per muli ecc. si completeranno i baldacchini, possibilmente con tetto in lamiera. Il clima è freddo e umidissimo (montano-forestale) essendo la pineta fitta. La spesa viveri si fa con le carrette all'osteria di Granezza che è assai lontana, o alla Barricata […]. In detti luoghi vi sono le sezioni di Commissariato (sussistenza) della 30a divisione per il sottosettore di sinistra (Barricata) e di destra (Granezza). Il tabacco si prelevava però solo a Granezza, dove ha sede la direzione dell'ufficio di Commissariato. La spesa di foraggio si ha nientemeno che a Rocchette (Vicenza), in pianura: è un bel viaggio. L'avena si prende invece coi viveri. Alla spesa vanno le carrette. L'acqua, che a Campiello veniva attinta dalle botti recate prima da camions e poi col trenino a cremalliére, qui vien presa a Prià dell'Acqua. La misura è di 4 litri per uomo al giorno, per tutte le truppe dell'Altipiano. Detta acqua serve ora però solo per i conducenti, perché noi l'abbiamo qui a Canove (altopiano di Asiago) e la trasportiamo a sud del paese, con ghirbe. Il rancio e il caffè vengono cotti la notte, poiché il Comando brigata Piemonte ha proibito di accendere fuochi durante il giorno, e con ragione. Il caffè vien recato al crepuscolo mattutino, la carne cotta rimane là durante il giorno e recata col rancio di riso o pasta a notte fatta. Gli uomini mangiano quindi, verso le 11 di sera, con fame lupina, e prendono il caffè verso le 5 di mattina. Di giorno hanno talvolta il formaggio (3 volte per settimana). La razione è completata 3 volte per settimana da cognac o marsala o anisette. Il servizio di viveri per le 3 sezioni in linea è fatto naturalmente con le casse di cottura e i sacchi da pane a dorso di mulo: (un mulo per sezione)" da Giornale di guerra e di prigionia di Carlo Emilio Gadda.
La base OSRAM in Italia era rappresentato dalla "Società Edison
per la fabbricazione delle lampade ing. C. Clerici e C", azienda la cui storia
commerciale e industriale risale al 10 Aprile 1897, quando Carlo Clerici
inaugura la sede a Milano, in Via Broggi, tra corso Buenos Aires e via Vittor
Pisani (ex periferia). Sfruttando il brevetto di Edison, Clerici investe con
grande acume nella lampada a filamento metallico, utilizzando la nuova
tecnologia del vuoto nell'ampolla inventata da Arturo Malignani. Clerici fonda
così la società commerciale SILEZ, a Milano, per le "lampade Z", che
diventano presto le più famose in Italia.
"I
servizi sanitari"
Furono
rigorosamente applicate le misure igieniche e profilattiche destinate a
prevenire malattie infettive e contagiose.
Durante la guerra 1914-1918 l'attività annonaria
statale in quasi tutte le nazioni civili, sia belligeranti sia neutrali, fu
intensissima. In Italia, con decreto 2 agosto 1916, n. 926, fu creato il
servizio per gli approvvigionamenti e consumi, eretto poi a commissariato (decr.
16 gennaio 1917, n. 76) e infine a ministero (decr. 22 maggio 1918, n. 702): I
provvedimenti annonari più comuni a disposizione sono:
1. il divieto di esportazione fuori dello stato e il correlativo controllo
sull'effettivo quantitativo della produzione
2. l'acquisto diretto sui mercati e la successiva vendita al consumatore
3. l'importazione dall'estero
4. la requisizione, ossia acquisto forzoso, con prezzo d'imperio, per successiva
rivendita
da settembre 1917 e oltre la fine della guerra partirà poi il vero e proprio tesseramento dei principali beni di consumo (Grano e principali sfarinati) ....
"Le tregue non concesse". Da Cime trincee riportiamo un episodio dei Perugini che gli storici continuano ad ignorare riferito alla replica in Italia della "Tregua di natale" verificatasi sul fronte occidentale**.
"Fraternizzare col nemico"
Gli aneddotti e i racconti inerenti al fugace contatto "pacifico" tra soldati italiani e austro-ungarici sono assai numerosi. Tale fenomeno, scoraggiato dall'ufficialità e severamente punito dai comandi superiori, viene spesso ignorato. In alta montagna, dove il nemico principale erano le avverse condizioni atmosferiche e le operazioni limitate nel tempo, non era difficile che fra i soldati nascesse un sentimento di umana solidarietà verso gli abitanti della trincea di fronte. Uno dei tanti episodi è narrato da Lucio Fabi: "Una più articolata forma di rapporto tra le trincee avverse si instaurò, nel dicembre del '16, sul monte Zebio, tra alcuni soldati del 129° reggimento, prima della guerra emigranti in Germania, e gli austriaci delle posizioni di fronte, concretizzato nello scambio di doni, generi di conforto, ma soprattutto nella promessa di non spararsi addosso, al punto che, per suggellare la tregua, dalla trincea austriaca venne issato, il 25 dicembre, un grande cartello con la scritta 'Buon Natale". Il clima natalizio del 1916 deve aver pervaso a fondo i fanti del 129°. Oltre a quanto ricordato da Fabi, posso presentare un inedito episodio, forse collegato al primo, narrato con un certo gusto da don Beniamino Ubaldi, allora cappellano militare del 129° fanteria: "1916, dicembre 24 (domenica) Celebro la messa al II battaglione, a destra. Nel pomeriggio mi reco a fare un giro in prima linea, a sinistra. Davanti alla famosa lunetta dove le trincee sono a circa una decina di passi di distanza, mi faccio vedere fuori della trincea e riconoscere nella croce per cappellano. E quelli, dopo aver nicchiato alquanto e occhieggiato alla feritoia, sono venuti fuori uno dopo l'altro in cinque e mi hanno salutato militarmente. Io ho chiesto loro se sapessero parlare latino. Mi hanno risposto di no. Ho preso delle medaglie religiose e mettendole in un pezzo di carta e facendone un cartoccio glielo ho gettato. Uno mi ha detto che non le voleva, ma mi ha gentilmente ringraziato. Il dottor Cascione, mettendosi dietro di me, ha fatto loro la fotografia". A puro titolo di curiosità riporta anche questa lettera, pubblicata in un periodico locale il 6 febbraio 1916, scritta dall'eugubino Adamo Belardi (che non era nel 129°) al proprio parroco: "Gli faccio sapere che la sera di Sant'Antonio [17 gennaio] sono tornato indietro dalla trincea e domani forse vado in riposo a ... Gli faccio pure sapere che il giorno 11 abbiamo passato una giornata di allegria: eravamo in trincea vicino al nemico circa 50 metri. Gli austriaci cominciarono a dire 'italiani, fatevi avanti che non vi spariamo. Noi certamente non ci volevamo fidare, ma essi ci fecero proprio persuasi e uscimmo dalla nostra trincea. Quando ci videro cominciarono a dire che erano stufi di combattere e che erano 18 mesi che facevano quella brutta vitaccia e che volavano la pace. Nello stesso tempo ci buttarono qualche arancia, qualche mela, cioccolato e un sacchetto di noci. Gli dico la verità che era un teatro( sembrava uno finzione teatrale, uno spettacolo ). Speriamo che il buon Dio concederà la pace a tutte le nazioni. Certamente prima si deve vincere. Faccia coraggio alla mia mamma e preghi per me".
**Nel Natale del 1914, accadde qualcosa di strano: Scrive Martin Gilbert: “…..mentre le truppe di tutti gli eserciti europei celebravano la nascita del Salvatore, da cinque mesi qui si combatteva con crescente asprezza, ma improvvisamente, quando venne la sera della vigilia, in vari punti del fronte per un po' le armi tacquero. “Cominciammo a parlare con i tedeschi: chiedevano una tregua per il periodo natalizio” scrisse nel diario del suo battaglione un tenente venticinquenne delle guardie scozzesi, Sir Edward Hulse ”… nemici che fino ad allora erano rimasi rintanati nelle proprie trincee ne uscirono fuori e, amichevolmente, ci fu uno scambio di ricordi. Le due parti si accordarono inoltre per la sepoltura dei morti. Il tutto avvenne nel massimo della solennità. Nella terra di nessuno i soldati si incontrarono e si aiutarono a vicenda: c'era che aiutava a seppellire i morti, chi si scambiava parole, ricordi e persino dolci. Gli inglesi offrirono ai tedeschi il loro budino natalizio, che fu molto apprezzato”. Tutto ciò sembrava molto bello ma, quando l'alto comandante inglese Sir John French venne a sapere che i soldati fraternizzavano, diede ordine di vietare qualsiasi altra manifestazione del genere facendo in modo che la cosa non si ripetesse. Tuttavia, riporta lo storico Gilbert, “la tregua natalizia “non ebbe una replica nel 1915 quando alcune batterie lanciarono fino a trecento granate. “Erano quelli gli ordini. Sono convinto che lo scopo fosse di impedire ai soldati di fraternizzare”, annotò il caporale D. A Pankhurst della regia artiglieria inglese. Gli alti comandi erano infatti preoccupati per i ripetuti episodi nei quali i soldati “nemici” avevano fraternizzato. Ecco un caso narrato da Philip Gibbs che risale al novembre del 1915 quando le piogge avevano trasformato le trincee in torrenti. L'acqua arrivava al ginocchio, in qualche caso fino alla cintola. Gibbs, già corrispondente dal fronte, nel suo libro “Realities of War” (pubblicato nell'immediato dopoguerra) raccontò che i soldati tedeschi “non potendone più dei disagi, si issarono faticosamente sui parapetti scivolosi e si sedettero ad asciugare le gambe, gridando: “Non sparate! Non sparate!”. I nostri non spararono. Si sedettero anch'essi ad asciugare le gambe, sorridendo”.
E' uscito qualche anno fa un film che rievoca il fatto (uno dei fatti) diretto da Christian Carion: Joyeux Noel: una verità dimenticata dalla storia Con Diane Kruger, Benno Fürmann, Guillaume Canet, Gary Lewis, Dany Boon..Titolo originale Joyeux Noël-2006. ndr del sito: La musica apre il film con il melodramma interrotto e chiude il film quando il treno dei "ribelli" tedeschi graziato dal principe ereditario viene spedito a morire in Russia. Aggiungo alcune sbavature (e ingenuità di scarsa conoscenza della tecnica di guerra) e come sottolinea anche la Giulidori la forzata doppiatura e il vescovo "inglese" (a me sembra anglicano e mi sembra strano che scozzesi cattolici si pieghino ad ascoltare l'ordinario militare anglicano celebrar messa). Ai cappellani italiani (sottomessi a Papa Benedetto XIV contrario alla guerra) non sarebbe stato concesso di riprogrammare i soldati all’odio per il Tedesco. Altra sbavatura la consegna dell'Ufficiale Francese delle lettere dei tedeschi al proprio servizio segreto. Forse non poteva far altrimenti se non distruggerle a quel punto ma a suo discarico la sudditanza psicologica dal padre Generale di Divisione. Una scheda completa del film alla sezione cinema
Nel settore del Pal Piccolo l’episodio più sintomatico avvenne il pomeriggio del 10 maggio 1917, quando alcuni soldati italiani ed austro-ungarici si affacciarono timidamente dalle trincee contrapposte della vetta Chapot e della Panzerstellung. Accortisi che nessuno aveva intenzione di sparare, dopo poco cacciatori del battaglione n. 8 dell’IR. e alpini del battaglione Pinerolo uscirono in massa dalle opposte trincee. Testimoni oculari riportano che la zona brulicava di uomini, non più soldati costretti a spararsi addosso, tranquillamente seduti sui muretti e sui parapetti delle trincee o in mezzo ai reticolati a bere, a parlare e a fumare. Attimi irreali, perché questi episodi di fraternizzazione venivano sempre stroncati sul nascere dai rispettivi comandi, che volevano evitare ad ogni costo che i soldati delle due parti si accorgessero di essere uguali in tutto, sofferenze, sacrifici e soprattutto voglia di pace. Il reparto italiano fu trasferito immediatamente e non sappiamo quali provvedimenti di giustizia militare furono presi, mentre il comando della X armata austro-ungarica insabbiò la vicenda non inoltrando il rapporto al comando supremo.
Dionigio Annovi dal diario raccolto da W. Amici http://digilander.libero.it/frontedeserto/diari/annovi.htm - Anche questo Monte (Civeron) era la tomba dei reggimenti perché era in una posizione strategica, dominava tutta la vallata; si faceva il cambio col nemico, un po' lo tenevamo noi e un po' loro, di conseguenza erano attacchi e contrattacchi giorno e notte. La vallata invece era più tranquilla. Siccome la linea di confine attraversava la vallata stessa e il letto del fiume Brenta distava solo pochi passi dalla loro linea, eravamo arrivati al punto di farci dei segnali e cambiavamo il pane con le loro sigarette (balcaniche buone); sembra buffo, ma è verissimo, tanto è vero che, essendosene accorti i nostri comandanti, ci mandarono a Primolano in Trentino (per punizione)
La Brigata Perugia è decorata di 2 medaglie d'argento.
Alla bandiera del 129° reggimento fanteria. Con salda disciplina, con ferrea volontà, con superba audacia, da Peteano si affermò sulle Rocce Rosse verso Boschini (Basso Isonzo) abbattendo reticolati profondi e conquistando trinceramenti saldamente guarniti e difesi. (21 ottobre-18 novembre 1915). In tre giorni di aspra e cruenta lotta cooperò a mantenere ed a respingere i violenti attacchi di soverchianti forze nemiche, che avevano occupato la sponda destra del Piave (Ponte di Piave, 19-21 giugno 1918). Si distinse per eroica tenacia e spirito di sacrificio nella difesa delle Melette (novembre 1917). B.U. 1920 - disp. 47a.
Alla bandiera del 130° reggimento fanteria. Con meravigliosa audacia ed eroica tenacia, in ripetuti violentissimi attacchi, conquistò e mantenne formidabili trinceramenti nemici, a prezzo di largo e generoso olocausto di sangue (San Michele del Carso 13 novembre - 2 dicembre 1915). In tre giorni di aspra e cruenta lotta cooperò a contenere e a respingere i violenti attacchi di soverchianti forze nemiche, che avevano occupato la sponda destra del Piave (19-21 giugno 1918). Bollettino Ufficiale anno 1920, disp. 47a.
GLI ACQUEDOTTI
Uno dei principali problemi cui dovettero far fronte gli eserciti
fu quello dell'approvvigionamento idrico. In qualunque teatro ci si trovasse il
numero dei soldati sopravanzava di molto quello degli abitanti. Le acque
superficiali, per il problema dei cadaveri sepolti o insepolti, non erano consigliate e coi pozzi o
sorgenti era consigliata la prudenza. Altri fenomeni come quello carsico
occultavano poi le acque e le poche disponibili erano a misura della popolazione
residente e non sempre erano a portata di mano. Sull’altopiano di Asiago ad
esempio erano presenti anche 300.000 uomini senza contare i quadrupedi. I
cavalli se non bevono non si muovono. Sempre sull’altopiano alcuni acquedotti
captavano le acque all’Osteria del Termine, ma quando questa venne persa ci si
dovette arrangiare. Si andava avanti quindi coi trasporti che sottraevano
autocarri o animali da soma che a loro volta mangiavano e bevevano. Ricordo che
la differenza fra il passato e oggi in agricoltura è che di prati per l’uso
personale il contadino poteva disporne la metà di quelli che aveva, perché gli
altri erano per gli animali che fornivano la forza motrice. Se poi da questi
riusciva a trarre carne alla fine del ciclo produttivo tanto meglio. Si conta
che venissero trasportati lungo la salita per Asiago 500.000 litri di acqua al
giorno utilizzando anche il treno (ma ricordiamo che anche il treno era
strategico per uomini e munizioni e necessitava di energia e acqua).
Quando questo non era più possibile per le asperità o altro si costruivano
acquedotti volanti (tubi da 7 cm) con pompe di sollevamento. Il volante non deve
far pensare a tubazioni fuori terrà perché in tal caso erano soggette ai colpi
di artiglieria o al gelo. Il fatto che si fosse in montagna in mezzo alla neve
non cambiava di molto il problema perché la neve andava sciolta con qualche
combustibile che sempre in quota doveva essere portato oltre al necessario per
scaldarsi.
LE TELEFERICHE
Per superare i problemi di trasporto, specialmente in montagna, nulla era più
utile di una teleferica. Una brigata alpina (2 reggimenti circa 7.000 uomini)
necessitava di 200 t. al giorno. Si bypassava il traffico veicolare su strade
strette di montagna, delle intemperie e principalmente del nemico. Le strade, se
non erano state costruite prima della guerra, erano difficili da impostare
occorrendo scavare gallerie, allestire ponti etc il tutto al riparo del nemico e
con l’alea di perderla il giorno dopo. Se contiamo poi che i fronti ebbero sede
nelle zone più impervie mai da nessuno considerate il quadro della situazione è
completo. La costruzione di teleferiche era l'unica alternativa possibile.
Potendo operare su lunghe distanze a volte si arrivava a rifornirle direttamente
dalle ferrovie o mini ferrovie (decauville) tracciate per l’occasione. Le
teleferiche s'imposero anche come mezzo meccanico sicuro (difficilmente
centrabile dall'artiglieria, gli austriaci posizionavano addirittura le stazioni
di rinvio intermedie in grotta) e svincolato dall’offesa di bombe con gas
tossici. Ricordiamo di nuovo che l’uso di gas tossici metteva fuori
combattimento uomini e animali.
L'esercito italiano costituì nel luglio del 1916 la Direzione dei servizi
teleferici; essa provvide a istruire e specializzare delle apposite Compagnie
Teleferisti inaugurando cosi una nuova specialità dell'arma del Genio. Verso la
fine del conflitto, col crescere dei bisogni e delle opere, si giunse ad
impegnare nella costruzione e gestione degli impianti circa 14.000 uomini.
Nel
1918 l'esercito imperiale austriaco disponeva invece di ben 39 compagnie di
teleferisti, di cui 26 dislocate sul fronte trentino. Si trattava
complessivamente di 403 ufficiali e 12.637 sottufficiali e militari, compresi
gli addetti alla costruzione e ai depositi di materiali. Gli impianti si
suddividevano essenzialmente in tre tipi: teleferiche leggere per i collegamenti
di prima linea, teleferiche campali e teleferiche pesanti per località meno
prossime alle posizioni di conflitto. Gli italiani adottarono anche impianti
anche a tre funi sulle teleferiche pesanti, avanguardia dei più moderni sistemi
di trasporto sciatori in montagna. Questi ultimi funzionavano con motori a
scoppio che impartivano un moto circolare continuo con sganciamento automatico
dei vagoncini. Quelle a grande sviluppo potevano arrivare fino ad una portata
giornaliera di 2000 t. su decine di chilometri.
Valga per tutti l’esempio della Savona Cairo Montenotte per il servizio carbone
impostata nel 1910. da:" Funivie – Savona / San Giuseppe" di AA. VV. Società Funiviaria Alto Tirreno p. Az., Savona, 1998. “Il 14 maggio 1910 viene fondata a
Bruxelles la Società "Les Transports des Savone"
avente per oggetto sociale la costruzione e l’esercizio di due "ferrovie aeree"
tra il Porto di Savona e la piana di S. Giuseppe di Cairo Montenotte. Due linee
funiviarie, la prima costruita nel 1912, la seconda nel 1936 coprono una
distanza di 18 Km con dislivello massimo di 520 metri. La potenzialità di
trasporto di 400 t./ora per 24 ore/ giorno è assicurata da oltre 1300 "vagonetti"
. I Km di
funi portanti e traenti sono 144 e sostituiscono 900 camion” . Si
ricorda infine che le teleferiche vennero utilizzate anche come ausilio allo
sgombero di feriti gravi e se ci si fidava di soldati e ufficiali anziani.