ESCLUSIONE ED ISOLAMENTO
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“Abbiamo
sentito dire, non visto coi nostri occhi, che un tempo un uomo si accostò al
letto di Zeus e il figlio di Crono onnipotente lo incatenò alla corsa di una
ruota; ma di nessun altro uomo ho sentito dire o visto che abbia avuto un
destino più nemico di quest’uomo, giusto coi giusti, che non ha fatto nulla di
male, non ha tolto niente a nessuno, e si consumava indegnamente. Lo stupore mi
prende quando penso a come da solo ha conservato la sua vita di lacrime,
ascoltando il fragore dei marosi. Senza
muoversi, confinato in se stesso, senza un compagno di sventura dal quale
risentire l’eco divorante, sanguinosa, dei suoi gemiti e che calmasse con miti
erbe prese dalla terra fertile il fiotto rovente si sangue dal piede ferito, al
momento dell’accesso. Quando il male divoratore lo lasciava, si trascinava qua
e là dove poteva, come un bambino allontanato dalla nutrice. Senza cibo dai
semi della terra sacra, senza gli altri prodotti che noi uomini ci guadagniamo,
solo le rapide frecce scoccate nell’aria gli procuravano da mangiare. Anima
infelice, da dieci anni non gode la letizia del vino; e si muove sempre in
cerca di un po’ d’acqua stagnante.” Circa a metà della tragedia, inaspettato come un
sorriso appena accennato, Sofocle innalza, attraverso la voce del coro, un
immaginifico inno alla solitudine ed all’isolamento, tragico e maestoso, di una
semplicità struggente che non lascia scampo, vivido affresco espressionistico
che con pochi tratti indolenti ritrae la condizione esistenziale di un uomo imprigionato
nel cerchio incantato della solitudine. “Confinato
in se stesso”, Filottete (etimologicamente “colui che acquista amici”) ha
come unici compagni di permanenza sull’isola la ferita, e quindi il dolore, e
l’arco, che permette la sua sopravvivenza ma anche paradossalmente la
continuazione della sua sofferenza. Gettato su un’arida sponda, relegato ai margini
dell’esistenza come un novello Lord Jim cui la disillusione e le sofferenza
hanno precluso anche la dimensione del vagheggiamento onirico, Filottete è
perduto nell’abisso di disperazione della propria condizione, annega nel
vortice torbido del tedio e del languore e l’angoscia pianta despota il suo
vessillo. Diversamente dalle opere omonime di Eschilo ed
Euripide, nel “Filottete” di Sofocle, la solitudine dell’eroe è totale: egli
vive su “una terra senza ancoraggio e
senza abitante”, i lemnii non svolgono alcun ruolo e nemmeno la loro
esistenza è menzionata (e quindi si suppone che l’isola sia disabitata), il
coro è formato dall’equipaggio del battello greco. L’isolamento dell’eroe si
esprime con la parola έremoς, che non torna meno di sei volte (versi 228, 265, 471, 487,
1018). Anzi, Filottete è stato, nel senso tecnico del termine, esposto: “Sono stato io che ho esposto un tempo il figlio di Peante”, ricorda
Ulisse (verso 5), e va ricordato che nella Grecia antica solo il padre aveva il
diritto di esporre un neonato. Il
formulario da cui l’autore attinge per rappresentare la solitudine di Filottete
è a tratti monotono ma sempre efficace: “Quest’uomo di
stirpe nobilissima, non secondo a nessuno, giace qui solo, abbandonato, privo
di tutto” (versi 180-184) “Abbiate pietà
di un uomo infelice, solo, abbandonato, travagliato, senza amici” (versi
226-228) “Non mi
lasciare qui abbandonato, lontano dagli uomini” (versi 486-487) Il tema dell’emarginazione, della perfida
estromissione, viene toccato con parole di fuoco da Filottete, intento ad
esporre a Neottolemo la prima rήsiς della tragedia: “Mi hanno
lasciato solo col mio male e se ne sono andati come erano venuti, con le navi
dalla riva di Crise. Quando mi videro dormire, stanco dei lunghi dolori, in una
grotta sul mare, furono ben lieti di abbandonarmi ed andarsene…” (versi
263-270) Ma anche a colloquio con Odisseo le sue posizioni
non si ammorbidiscono: “Ora,
sciagurato, tu pensi di portarmi via in catene da questa stessa riva dove mi
hai abbandonato un giorno senza amici, senza patria, solo, un morto ancora
vivo. Ah! Maledetto, sapessi quante volte ti ho augurato la morte!” (versi
1016-1019) Quella operata dall’esercito acheo non si limita ad
essere un’esclusione fisica, per quanto brutale e ingiusta, ma è anche e
soprattutto un’esclusione spirituale e ideologica. Espulso dal consorzio civile
e dal sistema di valori incarnati dalla comunità Filottete non è più membro di
una collettività ma diviene individuo singolo presente alla propria fragilità
(“ognuno sta solo sul cuor della terra…”), impossibilitato a dare un senso al
proprio essere al mondo. Non a caso Heidegger asserisce che l’esistenza umana
è, fin da principio e costitutivamente, apertura verso il mondo e verso gli
altri: come il rapporto tra l’uomo e le cose è un prendersi cura delle cose,
così il rapporto tra l’uomo e gli altri è un aver cura degli altri che
raggiunge il massimo grado di realizzazione nel solidale e tollerante “coesistere”.
L’uomo, lontano dalla polis, e dal
sistema di valori e leggi che essa rappresenta, diviene uno “straniero morale”,
un distaccato etranger (Camus)
sradicato dall’unica piattaforme etica che sente propria e gli dona stabilità.
Solo nello Stato, inteso come ideale etico, il cittadino realizza pienamente se
stesso e raggiunge completa e limpida libertà. Per Hegel lo Stato rappresenta
il momento culminante dell’eticità, in cui l’interesse individuale diviene
interesse collettivo, l’universalità della norma etica coincide con la
particolarità degli interessi e delle propensioni; esso incarna “il razionale
in sé e per sé”. Politicamente, senza che la parola sia mai pronunciata,
Filottete è proprio esattamente un άtimoς, un morto civile.
Ulisse difatti ha fatto di lui un morto sociale: άfilon, έrhmon, άpolin, en
zώsin nekrόn: “Un uomo senza amici, senza
città, un cadavere tra i viventi” (verso 1018). Ulisse giustifica la
sentenza d’esilio che è stata pronunciata contro di lui ricordando che, a causa
delle sue grida, l’esercito “non poteva più procedere in pace a una libagione
né a un sacrificio” (versi 8-9): per dirla altrimenti, la sua presenza rendeva
i possibile l’esercizio del culto civico. È dunque la parola άgrioς, “selvaggio”, che
definisce meglio di ogni altra la sua condizione: Filottete è, propriamente
parlando, “inselvatichito”, άphgriwmenoς (verso 226). E di
questo triste stato di regressione è lo stesso protagonista ad accorgersene,
quando, rivolgendosi ad Odisseo, penosamente ammette: “Tu hai fatto di me un selvaggio”. Il vocabolario che lo
caratterizza è quello che definisce la selvatichezza animale. Pertanto la sua
dimora è una tana animale, aύlion (versi 954, 1087, 1149), il suo cibo è una pastura, borά (verso 274). Ed il
male che lo tortura, definito anch’esso come άgrioς, è, in lui, la parte
del selvaggio. Filottete non può essere un homme
sauvage, in lui c’è ferinità, non innocenza, non perché sia stato da enfant
abbandonato alla selva, ma perché adulto vi è regredito. Cade dunque in
frantumi l’utopia, partorita dalla mente colorata di Jean Jacques Rousseau, di
un bon sauvage in armonia con il
Grande Spirito della Natura, incorrotto e incolpevole. È questa un’illusoria
costruzione ideale, che non trova alcun riscontro nella realtà; il ritorno
all’uguaglianza primitiva si risolve in una vana “costruzione mentale”. La ragione al contrario ammicca compiacente ad
Aristotele. L’uomo è, e sarà sempre, un “animale politico”, pur con tutti i
difetti della polis, poiché è tale la
sua natura. L’individuo non basta a se stesso e non può, da solo, giungere alla
virtù: “Chi non ha
bisogno di nulla è una belva o un dio” (Pol.
I, 2, 1253) E Filottete, che un dio non è di certo, sull’isola
di Lemno è pericolosamente vicino allo stato di bestia. Nel desolante orizzonte di irrazionalità che
definisce l’isola di Lemno, Filottete cerca disperatamente di aggrapparsi alle
vesti della ragione, me è debole, un “inetto”, e cede alla disperazione, al
rancore e al vano rimpianto. Nel deserto di valori e di certezze rappresentato
dall’isola di Lemno, la solitudine diviene cifra essenziale dell’esistenza, il
silenzio lo stordisce: nel momento in cui ascolta delle parole che dice umane, logoi manifestazione del logos razionale, quale gioia, quale puro
e cristallino moto del cuore!: “Suono
dolcissimo! Oh sentire la voce di un uomo come te dopo tanto tempo! Ma quale
bisogno ti ha portato qui, figlio mio? Quale slancio, quale vento carissimo?
Parlami, dimmi tutto; voglio sapere chi sei.” (versi 234-238) E’ questo un tenero tuffo al cuore, tocco vellutato
e malinconico, fragile e impalpabile, piacer figlio d’affanno che ribadisce
anziché attenuare il carattere radicale e angoscioso della solitudine
dell’eroe. E’questa una scena sublime dove si recita la nostalgia della parola:
protagonista la lingua greca, regista Sofocle vecchio, anzi vecchissimo, che
innalza un meraviglioso peana alla lingua, alla comunicazione orale, un atto
d’amore simile a quello operato da Truffaut in Effetto Notte per quanto
concerne il linguaggio cinematografico.
Egli è privo di qualsiasi conforto, di qualsiasi
palliativo che possa lenire la sua condizione spirituale. “Nessun indigeno avvicinava la sua miseria” (verso 692). A Filottete
manca, almeno fino all’arrivo di Neottolemo, qualcuno che si prenda cura di
lui, una sorella amorevole come era stata Antigone per Eteocle. È curioso a
proposito menzionare un episodio delizioso del “Mulino sulla Floss”, quello in
cui la piccola Maggie Tulliver ascolta per la prima volta la storia di
Filottete. Gliela racconta, a lei bambina analfabeta il compagno di scuola del
fratello, Philip, il quale, guarda caso, è storpio. Maggie ascolta seria, non
crede alle sue orecchie e chiede sgomenta – lei che fin dall’inizio è la “girl”
del fratello: “Ma Filottete non aveva una sorella?”. Perché se l’avesse avuta,
non l’avrebbe certo lasciato solo, sarebbe andata con lui sull’isola deserta, a
curarlo. La sorella ama si più e meglio della moglie: ama di un amore fatto di
carità, di solidale compassione, che va ben oltre quel “finchè morte non vi
separi” che unisce la coppia coniugale a una dimensione, tutto sommato,
secolare. Mentre l’amore tra fratello e sorella è mistico, è un legame
assoluto. Ne fanno fede, per l’appunto, Maggie e Antigone. Filottete si trova in un lembo di terra dimenticato
e incomprensibile -poiché, alienato, non riesce ad abbracciarlo con la mente -,
in una dimensione differente di dolore e sofferenza e non può che, essendo
attaccato visceralmente alla forma esteriore del
κλέος, rimpiangere la sua vita passata, come i dannati
dell’Inferno dantesco, come l’Ovidio delle epistole dall’Ellesponto e dei Tristia. Egli non trova la forza di
aggrapparsi all’assolutezza della legge morale dentro di sé, né trova conforto
nel cielo stellato che lo sovrasta, non assapora il dolce gusto
dell’αυτάρχεια raggiunta da Seneca
durante l’esilio in Corsica. Ecco dunque di seguito alcuni passi illuminanti e
paradigmatici della Consolatio ad Helviam
matrem, in cui tutti i luoghi comuni della letteratura filosofica e
consolatoria bruciano al fuoco purificatore di un’altissima ispirazione, di un furor compositivo di natura divina: “Che beni da poco son quelli che ho perduti!
Ma i due più belli, dovunque io mi indirizzerò, mi seguiranno: il godimento, a
tutti comune, della natura, e la personale virtù (…). Quello che ogni uomo ha
di meglio rimane fuori dal potere di un altro uomo, non può essere né dato né
tolto. Questo nostro mondo, di cui la natura non ha generato nulla di più
grande e di più armonioso, e l’animo capace di contemplare e di ammirare il
mondo, l’animo che ne è anzi la parte più eccelsa, sono nostra perpetua
proprietà e dureranno con noi quanto noi stessi dureremo. Baldi adunque e a
testa alta, in qualsiasi luogo ci toccherà andare, avviamoci con intrepido
passo, misuriamo ogni angolo di terra, quale esso sia: entro i confini del
mondo non vi può essere esilio di sorta; nulla infatti che si trovi in questo
mondo è estraneo all’uomo. Da ogni terra lo sguardo si solleva al cielo sempre
ad ugual distanza, tutto ciò che è divino dista sempre del medesimo intervallo
da tutto ciò che è umano. Perciò, fintanto che i miei occhi non siano distolti
a forza da quello spettacolo di cui sono insaziabili, fintanto che mi sia
concesso contemplare il sole e la luna, affligermi negli altri astri, studiare
il loro sorgere e il loro tramontare, le loro distanze e perché essi
trascorrano più veloci o più lenti, rimirare tante stelle rilucenti nella
notte, alcune immobili, altre non irrompenti per ampio tratto, ma ruotanti
sempre lungo la loro orbita, alcune balenanti all’improvviso, altre folgoranti
lo sguardo quasi con un getto di fiamma, come se cadessero, o solcanti a volo
l’immenso spazio con una vivida scia di luce, fintanto che io possa dilettarmi
di siffatti spettacoli e partecipare alla vita del cielo, per quel che è lecito
ad un uomo, fintanto che io riesca a trattenere sempre negli spazi celesti
l’animo mio che anela alla vista delle creature ad esso connaturate, che
m’importa di sapere che suolo calpesto?” Ad un’analisi attenta della vicenda si evince
pertanto che l’abbandono dell’eroe greco sia strettamente legato al tema
dell’esilio. Che la scelta del mito di Filottete da parte di
Sofocle fosse in relazione con la tormentata vicenda del rientro dall’esilio di
Alcibiade è stato, di tanto in tanto, prospettato, soprattutto nell’Ottocento.
Poi è prevalso il pregiudizio di tipo idealistico, secondo cui la ricerca di
riferimenti attuale intaccherebbe la poesia. Oggigiorno le posizioni sono discordanti.
Un esimio studioso come Luciano Canfora è per la tesi dell’allusione storica ad
Alcibiade: “In realtà
Sofocle, col “Filottete”, è intervenuto autorevolmente, e con molta chiarezza,
sul tema del giorno: la necessità e l’urgenza di colui che, solo, può rendere
possibile la vittoria. Il suo è un appello, lanciato nella più solenne delle
circostanze, alle Dionisie in cui si celebrava la restaurazione della
democrazia, e lanciato dal più venerabile ed autorevole poeta, vecchio amico di
Pericle, gloria degli anni migliori di Atene.” Altri invece, come il professor R. Nicolai,
sostengono che la tragedia non è un’arte allusiva, dove non esiste il
riferimento a fatti e problemi attuali, o se è presente, è sempre molto
diretto: nelle “Eumenidi” l’Areopago è sulla scena; Argo, l’alleata di Atene
nel Peloponneso, è la patria di Oreste. La tragedia greca non trae la propria
materia dalla realtà contingente e dal particolare, ma aspira all’universale
della paradigmicità: Oscar Wilde avrebbe affermato che “non è l’arte che
imita la vita, ma la vita che imita l’arte”. Filottete, in qualità di eroe tragico, è
caratterizzato da una solitudine anche culturale,
ed in questo appare in totale contrasto anche con l’eroe epico, che ha sempre
l’appoggio di una cultura che non lo lascia solo, ma lo esalta per specchiarsi
in lui e per sopravvivere. L’eroe epico è sempre vittorioso, ed anche quando
appare isolato e sconfitto non conosce tragedia: la morte di Ettore, di
Orlando, del Cid non è una sconfitta. Ecco perché i paladini della fede
cristiana, vassalli di una cultura saldamente istituzionalizzata, hanno
alimentato una ricchissima letteratura epico-cavalleresca, ma non una
letteratura tragica. L’eroe epico ha sempre una patria, l’eroe tragico è sempre
apòlis. L’effimera “patria” di
Filottete è la legittimità del suo odio.
Nello sterminato mondo della letteratura sono pochi
i personaggi accostabili al mood
esistenziale di Filottete, alla sua solitudine, al suo isolamento fisico e
spirituale, alla sua agghiacciante precarietà. La prima figura che ricorre alla
mente è certamente quella di Robinson Crusoe, impressa ormai nella memoria
collettiva. Tuttavia è bene ricordare che mentre il personaggio nato dalla
penna di Daniel Dafoe è naufragato su un isola deserta (o quasi), invece
Filottete è stato fisicamente abbandonato dai suoi stessi compagni di viaggio,
e dunque può prendersela con qualcuno per ciò di cui è stato vittima, ed in
particolare con Odisseo, vero “parafulmine” di tutte le esplosioni di rabbia di
Filottete. Un vicenda simile a quella dell’eroe greco si può invece riscontrare
ne “L’isola del tesoro” di Robert Louis Stevenson: è questa la storia di Ben
Gunn, marinaio abbandonato sull’isola del tesoro da Long John Silver. Ecco di
seguito la narrazione del primo incontro tra il giovane Jim Hawkins, l’io
narrante della storia, e lo sventurato: “Chi siete?”
chiesi. “Ben Gunn” -
rispose, e la sua voce suonò roca e goffa come una toppa arrugginita. – “Sono
il povero Ben Gunn, sono, e da tre anni non ho parlato ad un cristiano”. (…) Di tutti i
mendichi che avevo visto o immaginato, quello era il re, quanto a toppe e
cenci. Era vestito a pezzi e bocconi di vecchia tela da vele e di vecchi
incerati da marinaio, e questo straordinario mosaico era tenuto insieme da un
sistema delle più svariate ed eterogenee legature: bottoni di ottone, pezzetti
di legno, asole di cordicella incatramata. Intorno alla vita portava un vecchio
cinturino di cuoio con una fibbia di ottone, unica cosa che reggesse di tutto
il suo equipaggiamento. “Tre anni!” –
esclamai – “siete naufragato?” “No, compagno,
abbandonato” (…) “Abbandonato
tre anni fa” – continuò – “e campato di carne di capra, di bacche e di frutti
di mare. Dovunque si trovi, sai, l’uomo può bastare a se stesso. Ma vedi,
compagno, il mio cuore agogna a un cibo da cristiano. Non avresti per caso un
bocconcino di cacio addosso? No? Pazienza; quante notti interminabili ho
sognato un bocconcino di cacio (specie abbrustolito) e poi mi son destato per
ritrovarmi qui!” Sebbene emergano talune somiglianze circa la sorte
dei due “abbandonati” (Filottete e Ben Gunn) e le circostanze dell’incontro con
i due novizi (Neottolemo e Jim) non siano troppo dissimili, è evidente la
scarsa profondità del romanzo inglese che, seppur piacevole e divertente, non
riesce a scandagliare gli abissi dell’animo umano, come solo il genio di
Sofocle è capace. E’ quasi grottesco che un uomo, solo con se stesso per più di
tre anni, abbia come desiderio primario un bocconcino di cacio; ma è anche in
questo particolare che risiede l’ironica leggerezza de “L’isola del tesoro”. In secoli di critica letteraria eccellenti studiosi
della tragedia sofoclea hanno purtroppo sofferto la mancanza di vedute (è
iniquo e blasfemo definirlo demerito?) che avrebbe permesso di vedere nei
personaggi del “Filottete” oltre che delle anime tratteggiate con
inavvicinabile sapienza classica, dei paradigmi assoluti con cui misurarsi e
valutare la realtà. Slegandosi dalla contingenza dei fatti, le figure si
stagliano ed emanano una luce che sorge dai loro caratteri essenziali: solo
operando in questo modo si possono effettuare paragoni con personaggi della
storia, che, seppur azzardati, ci danno l’esatta misura dell’eterna attualità
della tragedia greca e dei suoi modelli. E, leggendo il “Filottete”, uno
storico smaliziato non può che tornare con la mente all’eroe più glorioso e
sfuggente della storia moderna italiana, Giuseppe Garibaldi. L’italiano infatti
presenta dei tratti che lo accomunano al personaggio Filottete: anch’egli è un
eroe determinante per la vittoria finale ma soprattutto anch’egli ha passato
molti anni della propria vita in isolamento, ed in un’isola per giunta, la
selvaggia Caprera. Ma la differenza salta subito agli occhi: la solitudine
ricercata da Garibaldi nell’ultimo squarcio di vita è una solitudine
autoimposta e risulta falso il mito secondo cui “l’eroe dei due mondi” sia
stato confinato da un re timoroso del suo sconfinato potere carismatico.
L’isolamento di Garibaldi è voluto fortemente da un uomo ferito, come Filottete,
ma interiormente: tale scelta apparentemente fredda e distaccata rappresenta al
contrario una solida presa di posizione che resiste alla sabbia del tempo, un
segno emblematico e indelebile d’indipendenza interiore. È il simbolo tenace di
uno sdegnato rifiuto nei confronti di una realtà gretta e provinciale che non
ha saputo meritare il suo coraggio e le sue azioni, un indignato rigetto verso
i politici, abituati a nascondersi dietro a “l’ipocrita ma terribile pretesto
della necessità”, e i burocrati (“questo partito composto di compra-giornali,
di grassi proconsoli e di parassiti d’ogni genere”). Garibaldi, come Sisifo,
incarna l’eroe assurdo, le cui sublimi
aspirazioni si scontrano con la volgarità dell’esistenza e che combatte contro
colossi inattaccabili come la Chiesa (“una vergogna che schiavizza l’anima e il
pensiero”) e l’impero austriaco: in tale ottica la solitudine di Caprera si
configura come l’ultima mossa che permette all’uomo di osservare in modo
distaccato l’assurdità del reale. Ma, a conti fatti, egli risulta tutt’altro
che perdente. Non solo la sua volontà ferrea e assolutamente incondizionata ha
rotto il contemporaneo stallo politico fatto di veti incrociati, condizione
tipica dell’Italia di allora e di oggi (“L’Italia” osserva Garibaldi “trova
sempre in se stessa quel germe maledetto che ne contraria il progresso”) e le
sue imprese rappresentano il fondamento imprescindibile dell’Indipendenza
italiana, ma anche il suo vivere fuori dagli schemi e dalle convenzioni ha
mostrato ad un popolo di guelfi e ghibellini che è possibile essere diverso, e
che è anzi il primo passo verso qualsiasi cambiamento. L’esclusione di Filottete richiama un altro grande tόpoς sofocleo, quello del mίasma, concetto che trova il suo
aspro correlativo oggettivo nella ferita, in quel male misterioso che lo attanaglia: è questa una
contaminazione che già, anche se in forme diverse, aveva colpito Edipo, Oreste
ed Eracle. |