FILOTTETE IN ESCHILO ED EURIPIDE

Non abbiamo la fortuna di Dione Crisostomo (circa 40 – 120 d.C.), che una mattina, dopo gli esercizi fisici, si mise a leggere una dopo l’altra, come dice nell’orazione 52, le tre tragedie su Filottete scritte da Eschilo, Euripide (432 a.C.) e Sofocle (409 a.C.). Un Filottete lo aveva scritto anche Antifonte: anche lui prima di Sofocle, se il tragediografo che porta questo nome ed il sofista (che fu condannato a morte nel 411) sono la stessa persona. Noi possediamo soltanto il dramma di Sofocle e pochi frammenti di quelli degli altri due drammaturghi. Dione si compiace di pensare al proprio privilegio di leggere le tre tragedie una dopo l’altra secondo la sequenza cronologica della loro rappresentazione: un privilegio negato a chiunque, all’epoca della loro messa in scena, dato lo spazio di tempo intercorso tra di esse. Per fortuna, Dione ci offre un breve riassunto e qualche nota critica su ciascuna delle tragedie, cosicché conosciamo nelle grandi linee l’intreccio delle due tragedie perdute.

Dione Crisostomo dice che tutte e tre si concentrano sul “furto (kloph) o la rapina (arpagh) dell’arco di Filottete da parte di Odisseo e lui stesso portato a Troia…”. Il dramma di Sofocle si parla spesso di kloph, ma talvolta (versi 55, 968, 1125) con queste voci si intende l’inganno, la circonvenzione dell’animo di Filottete, altre volte, invece, il furto: ma sempre con la sfumatura propria del raggiro, dell’impresa fraudolenta del ladro.

Non si sottilizzerà sul fatto che nel “Filottete” di Sofocle Neottolemo, e non Odisseo, ottiene e detiene l’arco: infatti come Odisseo stesso dice al verso 1247, è attraverso il suo piano che Neottolemo ha ottenuto l’arma. Agli occhi di Odisseo, Neottolemo è il proprio sostituto. Dione continua: “e lui stesso [Filottete], portato a Troia, perlopiù contro la sua volontà, ma, in qualche modo, anche persuaso dalla necessità, dal momento che è privato delle armi che gli procuravano sia il sostentamento nell’isola, sia il coraggio in tanto grave malattia, e, insieme, la fama”.

La posizione di Filottete nel dramma di Sofocle è molto più complessa di questa, ma Dione la descrive con esattezza nel compendio. Dopo aver tratteggiato il tema essenziale dei tre drammi, Dione analizza ciascuno di essi. Nella tragedia di Eschilo, Odisseo si presenta da Filottete, a Lemno, dopo i nove anni trascorsi, e non viene riconosciuto da Filottete: Dione congettura che per via della malattia, della degradazione e della vita solitaria, il mancato riconoscimento di Filottete può non essere così reale come sembra. La forza e linearità dell’azione, la nobiltà arcaica e severa dei personaggi, permettono di tollerare altre improbabilità, per esempio che gli abitanti di Lemno (in Eschilo Lemno è abitata), rappresentati dal Coro dei Lemni, non si siano mai avvicinati a Filottete durante i dieci anni del suo esilio nell’isola. L’intrigo vero e proprio non si profila chiaramente nel riassunto di Dione. Filottete apre il prologo e poi narra al Coro la storia della sua espulsione da parte degli Achei. Entra Odisseo dicendo la propria menzogna per portare Filottete dalla sua parte, menzogna semplice e, come afferma Dione, neppure troppo persuasiva. Odisseo parla della disastrosa situazione dell’esercito Acheo dopo nove anni di guerra, e inventa che Agamennone è morto, che egli stesso è accusato del crimine più vergognoso. Filottete prova gioia e abbandona ogni diffidenza.

Riassumendo il dramma euripideo, Dione mette l’accento sull’impegno di Euripide a creare una trama più plausibile, cioè più realistica, di quella di Eschilo: a questo fine, sebbene mantenga il coro di Lemni, Euripide inventa un personaggio lemnio, un certo Attore, che si avvicina a Filottete come una persona conosciuta, e con cui ha una certa familiarità. In secondo luogo, Euripide segue il momento dell’Odissea: Atena maschera l’identità di Odisseo, sicché Filottete non potrà riconoscerlo. Odisseo non si presenta solo, ma insieme a Diomede, il compagno di ventura, già al suo fianco nel decimo libro dell’Iliade. Euripide elabora la trama in modo tale da poter accogliere giostre e contrasti retorici, occasioni per mostrare il potere della sofia. Immagina che una missione troiana, guidata da Paride, si presenti a Filottete offrendogli il potere a Troia in cambio del suo arco: Paride ed Odisseo si affrontano in un dibattito oratorio (agone) per guadagnare l’arco di Filottete, l’uno promettendo onori regali e l’altro facendo appello al sentimento patrio e alla gloria. Per via di questo nuovo ruolo, il personaggio di Odisseo doveva avere una rispettabilità sufficiente per divenire il paladino della nobile causa. Ciò spiega l’elaborato prologo del dramma durante il quale Odisseo parlava come un vero sofos: mostrava come la sua reputazione di saggezza e di intelligenza nascondesse il contrario, cioè la smania di addossarsi iniziative, di correre rischi, mentre avrebbe potuto restare tranquillo. A questo lo spingeva l’ambizione, cioè il pungolo che forza le persone nobili e dotate ad affrontare ogni sorta di fatiche.

Subito dopo il prologo, Odisseo rischia la violenza di Filottete, pronto ad uccidere qualunque greco si presenti, ma, facendo credere che lui stesso sia stato vittima dell’arroganza di Odisseo, riesce ad accattivarselo. L’azione del dramma non è sempre chiara: quando, come, e grazie a chi l’arco di Filottete cada nelle mani dei Greci, resta, in gran parte, congettura. L’agone fra Odisseo e Paride doveva essere il pezzo forte del dramma. Alla fine, Odisseo sarebbe stato aiutato da un deus ex machina, l’identità del quale o della quale, ci è ignota. Insomma, si tratterebbe di un dramma tipico, con scene simili a quelle di altri drammi di Euripide, con rischi vertiginosi, dibattiti oratori e scioglimento positivo. Un dramma, dunque, della sofia.

In confronto con Euripide, si riconoscono facilmente le straordinarie innovazioni di Sofocle. Per prima cosa Sofocle rende Lemno deserta; ciò gli permette non solo di evitare le difficoltà che gli altri due drammaturghi incontrano quando ignorano o devono giustificare un isolamento assurdo, ma anche, e soprattutto, di creare uno scenario desolato, l’astrazione di un abbandono assoluto, che rafforza il nucleo poetico del dramma, l’espulsione totale di Filottete dal mondo, e la sua costante prossimità alla morte. Con l’immagine di Lemno disabitata, Sofocle ha dovuto inventare un Coro nuovo, formato dai marinai di Neottolemo, creando un terzo personaggio a tipo in rapporto con Filottete. Un personaggio ambiguo, scabroso e difficile, poiché diviso fra una pietà corriva – la pietà è connaturata alla tragedia – e il cinismo di chi vuole soltanto riuscire nell’impresa. Che dire poi di Neottolemo, che ad alcuni critici appare come il personaggio principale e il più problematico del “Filottete”?

In terzo luogo, Sofocle ha fatto di Filottete un personaggio ricco di aspetti inattesi e insospettabili: presentato da Odisseo come un pericolo (versi 46-47), e temuto da Neottolemo (verso 147), Filottete si mostra traboccante di gioia alla vista dei Greci, e desideroso, supplicante, di udire la lingua greca. Udirla è per lui un ritorno alla vita.

I colpi di scena, le ripetizioni, le ambiguità, i doppi sensi, le ironie investono costantemente l’azione dei personaggi, perché queste sospensioni, tensioni e vibrazioni contrastanti di senso e di tono sono proprie del testo di Sofocle. Nessun altro “Filottete” può essere come il suo.