LA SCUOLA ELEMENTARE  A TEMPO PIENO

Con l’approvazione della Legge 820/71 fu possibile, col 1° ottobre 1972, introdurre nella scuola italiana le cosiddette “attività integrative” aumentando l’orario settimanale delle lezioni e, contemporaneamente, l’organico dei docenti in misura sufficiente a coprire le ore aggiuntive.

 Ove tale aumento di ore avesse raggiunto il doppio dell’orario normale, si avrebbe avuto anche il raddoppio dell’organico. In questo caso si sarebbe parlato di “scuola a tempo pieno”.

 Questa possibilità, tuttavia, fu concessa in misura molto limitata, anche se sufficiente a coprire le richieste che, occorre dire, furono anch’esse molto limitate.

 Si vennero così a creare, in ogni provincia, un esiguo numero di “scuole a tempo pieno” che, favorite in questo senso anche da finanziamenti ministeriali, ebbero stretti rapporti fra loro con incontri frequenti, discussione e confronto delle esperiemze di ciascuno.

 Ciò finì col determinare una sorta di “movimento delle scuole a tempo pieno” che tese a trasformare l’esperienza in una specie di sperimentazione ufficiosa che riguardò non solo l’organizzazione scolastica ma anche il rinnovamento metodologico.

 Col passare del tempo, però, questo fervore sperimentale si andò esaurendo e le scuole a tempo pieno, che viva via andarono diffondendosi, divennero semplicemente una forma di organizzazione scolastica con un orario più lungo. Ciò non toglie che qualcosa sia rimasto nella scuola di quella “sperimentazione ufficiosa”, sia per quanto riguarda le soluzioni organizzative, sia per quanto riguarda il rinnovamento metodologico.

Le attività integrative

Ma cosa erano queste attività integrative ? Si trattava di attività gradevoli per i ragazzi, capaci di integrare le normali attività didattiche tradizionali incontrando l’interesse e, quindi, suscitando l’impegno degli alunni che, fra le molte attività proposte potevano trovare quella per la quale si sentivano particolarmente portati e nella quale potevano ottenere significativi successi.

 Tali attività potevano essere attività creativo-espressive sia di tipo figurativo (es.: pittura, modellaggio….) sia di altro tipo (es.: drammatizzazione, danza….), attività manuali-costruttive (traforo, piccola falegnameria, intreccio…), attività di gioco intelligente (parole incrociate, rebus, gioco degli scacchi….), seconda lingua, eccetera, eccetera, eccetera.

 Queste attività erano, in genere, opzionali, nel senso che in determinate ore venivano aperte le classi e gli alunni potevano optare per una delle attività che venivano proposte quel giorno. Ciò consentiva di scoprire le tendenze e gli interessi degli alunni e, anche per gli alunni meno dotati, era possibile trovare una attività nella quale riuscivano ad avere successo. Il che era estremamente importante per far sì che essi potessero beneficiare di quella “terapia del successo” che consentiva loro di realizzare una immagine positiva di sé e un’immagine accettabile della scuola.

L’organizzazione

Agli inizi e per diversi anni i circoli didattici che affrontarono l’esperienza del tempo pieno ebbero una amplissima libertà organizzativa.

 Il dirigente scolastico aveva la facoltà di scegliere i docenti aggiunti (ovviamente col loro consenso) che venivano assegnati provvisoriamente conservando la sede di titolarità. Era così possibile contare su insegnanti dotati di particolari capacità di direzione delle attività che venivano proposte.

 La scelta delle attività da proporre era lasciata interamente all’”equipe” degli insegnanti. Lo stesso dicasi per la collocazione oraria di tutte le attività.

 Era possibile organizzare delle attività “per gruppi” anziché “per classi” non solo durante le attività opzionali ma anche in altri momenti (per esempio durante le attività di ricerca storica, geografica o scientifica).

 Ci fu, fin da subito, il coinvolgimento dei genitori (i famosi “decreti delegati” che introdussero la democrazia scolastica sarebbero stati approvati solo tre anni dopo) che, anzitutto, furono chiamati a discutere e ad accettare la trasformazione della scuola “del mattino” in “scuola a tempo pieno” e che, in seguito, mediante assemblee plenarie o comitati da essi stessi eletti, ebbero parte rilevante nelle decisioni. Particolarmente per quanto concerneva la gestione della mensa scolastica, il controllo dei cibi e la formazione del menu.

 Fu necessario stabilire stretti rapporti di collaborazione con i comuni e con gli allora funzionanti Patronati Scolastici, per la concessione dei locali occorrenti e la gestione delle mense e del trasporto alunni.

 Dopo il primo anno, in cui gli insegnanti aggiunti diressero soltanto le attività integrative o poco altro, mentre gli insegnanti titolari continuavano a dirigere le materie obbligatorie, tutte le attività sia obbligatorie (le materie tradizionali) che opzionali furono suddivise fra tutti gli insegnanti. In linea di massima la tendenza fu di assegnare, per ciascuna classe, la lingua italiana e alcune altre materia ad un insegnante e la matematica con alcune altre materie a un altro insegnante. Tutti gli insegnanti, poi, dirigevano due o più attività integrative a classi “aperte”, cioè per gruppi e non per classi. Per la prima volta nella scuola elementare italiana gli alunni non avevano più un solo maestro ma una pluralità di docenti.

 In linea di massima il tempo scolastico era orghanizzato in questo modo: Le quattro ore del mattino venivano dedicate alle attività più impegnative. La quinta ora era destinata alla mensa, durante la quale le insegnanti assistevano i bambini pranzando con loro. In alcuni casi fu sperimentato l’utilizzo dei bambini nei servizi connessi (apparecchiare, sparecchiare, servire in tavola.) La sesta ora era destinata ad attività ludico-ricreative, che avrebbero dovuto (ma non sempre si riuscì a far sì che lo fossero) essere organizzate e seguite dagli insegnanti che avrebbero dovuto proporre attività ludiche diverse fra le quali ogni alunno avrebbe potuto liberamente scegliere la preferita. La settima e la ottava ora erano dedicate ad attività didattiche meno affaticanti.

 La pluralità dei docenti e il fatto conseguente che c’era una alternanza dei docenti stessi determinò una sorta di “secondarizzazione” della scuola elementare, con orari più rigorosi e simili, appunto, a quelli della scuola secondaria. Ciò creò, in alcuni casi, qualche problema.

La “filosofia” del movimento delle scuole a tempo pieno

 Era evidente a tutti che una delle finalità di questo tipo di scuola era assistenziale. Essa risolveva il problema dei genitori entrambi lavoratori, che ora avevano una istituzione cui affidare i propri figli per otto ore giornaliere.

 Ma fin da subito fu chiaro a tutti e specialmente ai docenti in essa impegnati che la scuola a tempo pieno non poteva avere soltanto questa finalità.

 Essa, infatti, poteva essere l’occasione per garantire a tutti i bambini opportunità uguali o, almeno, molto meno disuguali.

 Nella scuola delle quattro ore, infatti, accadeva che le necessarie esercitazioni fossero affidate ai famigerati “compiti a casa”.

 Questo comportava che l’alunno con una famiglia che aveva tempo e capacità di seguirlo e che integrava le spiegazioni della maestra se qualcosa non era stato ben compreso, traeva naturale beneficio dalle esercitazioni suddette.

 Mentre l’alunno con una famiglia che non aveva questo tempo e questa capacità traeva dubbio beneficio facendo compiti sbagliati se non aveva ben capito o non facendoli affatto.

 La scuola a tempo pieno si proponeva di eliminare i compiti a casa e di trovare spazio per le esercitazioni durante l’orario scolastico, in modo che tutti i bambini potessero avere lo stesso sostegno e le stesse spiegazioni aggiuntive in caso di necessità. In realtà la questione dei compiti a casa ha avuto una storia travagliata che, eventualmente, tratteremo altrove. Ma agli inizi questa parve una nobile finalità della scuola a tempo pieno.

 Altra finalità importante parve quella di poter offrire una quantità di attività opzionali da valere come opportunità aggiuntive di successo e di affermazione di ciascun alunno.

 Ma quello che i docenti del “movimento” avvertirono come finalità importante fu quella del rinnovamento metodologico. La grande libertà di sperimentare nuove tecniche metodologiche-didattiche era favorita dal maggior tempo a disposizione che liberava dal timore, quasi sempre nutrito dagli insegnanti, di “perder tempo”. Così, complice anche un certo finanziamento di cui le scuole a tempo pieno potevano disporre, furono introdotti molti moderni sussidi e, quindi, nuove tecniche.

 Ma l’innovazione che, soprattutto, caratterizzò la prima fase delle scuole a tempo pieno fu la tecnica della ricerca. Si convenne che l’alunno non doveva limitarsi ad acquisire nozioni trasmesse dall’insegnante mediante la lezione, ma doveva farlo “scoprendole” mediante la ricerca. L’ambizione dichiarata fu quella di trasformare la “scuola della lezione” in “scuola della ricerca”. Naturalmente questo comportava l’acquisizione di una “tecnica” della ricerca e gran parte delle discussioni e dei dibattiti che caratterizzarono gli incontri delle scuole a tempo pieno fu occupata da questo argomento. Per dare un’idea dell’impegno che fu posto nel trattare queste problematiche verrà proposto, in appendice, una relazione sull’argomento presentata in uno dei suddetti incontri.

L’evoluzione dell’esperienza

Dopo i primi anni in cui, come sopra detto, era il direttore didattico a scegliere gli insegnanti ritenuti più adatti per svolgere le attività integrative, le cose cambiarono: i posti degli insegnanti per le attività integrative vennero resi stabili e furono coperti con i normali trasferimenti. Ciò, in qualche modo, “normalizzò la situazione” e il clima di sperimentazione, sia pure “ufficiosa” lentamente si attenuò fino a svanire. Le richieste di istituzione di scuole a tempo pieno aumentarono sensibilmente, anche perché ci si rese conto che esse costituivano un consistente aumento dei posti di lavoro che andavano a compensare le diminuizioni causate dal calo degli alunni. Ora ogni provincia aveva un numero elevato di scuole a tempo pieno per cui divenne impossibile, anche per ragioni logistiche, farle incontrare periodicamente. Qualcosa del “movimento delle scuole a tempo pieno” sopravvisse per un po’ fra quelli che erano stati gli insegnanti delle prime scuole a tempo pieno. Ma alla fine anche questo qualche cosa si spense. Rimasero, tuttavia, le scuole a tempo pieno con la loro buona organizzazione e il buon livello qualitativo del loro insegnamento.

 La successiva introduzione dei “moduli” (che, come è noto, prevedono tre soli insegnanti su due classi in luogo dei quattro richiesti dalle scuole a tempo pieno) cercò, forse anche per ragioni di economia, di eliminare le scuole a tempo pieno. Ma una buona parte delle scuole a tempo pieno, ormai consolidate e apprezzate dall’utenza, rimasero.

 Sempre per ragioni di economia, però, specie nelle piccole scuole di periferia, esse vennero vulnerate dalla progressiva sottrazione di insegnanti, per cui fu sempre più difficile mantenere un orario di almeno 40 ore settimanali (40 ore è il minimo necessario per qualificare la scuola “a tempo pieno”, ma nei primi anni di funzionamento l’orario settimanale fu normalmente di 44 ore e, in alcuni casi, di 48). Il corso di cinque classi a tempo pieno riuscì, comunque, in molti casi, a mantenere l’orario di 40 ore anche con 9 e perfino con 8 insegnanti (in luogo dei 10 occorrenti normalmente), ottimizzando l’organizzazione oraria e utilizzando le ore di compresenza dei docenti. Al di sotto di questo limite, però,  la cosa diventa impossibile e i tentativi di resistere comunque con un orario di 40 ore comporta aggiustamenti tali (temporanei accorpamenti di classi, riduzione della sorveglianza durante la mensa e simili) che fanno apparire dubbia la validità del risultato. Per cui, in molti casi, la scuola a tempo pieno si è rassegnata a trasformarsi in scuola “per moduli” con un orario settimanale di 30 ore.

 Ma i vecchi insegnanti del “movimento delle scuole a tempo pieno” si portano dentro la nostalgia di quei primi tempi, così ricchi di fervore di iniziative, di entusiasmo e di fiduciosa speranza di poter realizzare una scuola nuova e migliore.

Appendice

          L’ATTIVITA’ DI “RICERCA” NELLA SCUOLA ELEMENTARE

                                 Relazione del Direttore Didattico Mario Pellegrinetti

(Dagli atti del convegno tenutosi nel Circolo Didattico di Piazza al Serchio (Lucca) nel giugno 1976)

PARTE PRIMA: Finalità dell’attività di “ricerca”

La nostra riflessione ha preso le mosse dalla constatazione che la civiltà contemporanea, nella quale siamo inseriti, è caratterizzata da rapidissimi cambiamenti che si verificano sia per ciò che riguarda la quantità e la qualità delle conoscenze, sia per ciò che riguarda i costumi di vita e il tipo di organizzazione sociale, sia, addirittura, per ciò che riguarda le ideologie, i modi di pensare, i valori.

 Da questa constatazione ne discendono immediatamente una seconda e una terza.

 La seconda è questa:  In una situazione come quella descritta, fatalmente l’uomo è sottoposto ad un continuo, ineludibile, stressante sforzo di adattamento a situazioni sempre nuove. Ma non sempre, purtroppo, tale sforzo è coronato da successo. E, allora, l’individuo non riesce più ad accettare la realtà e manifesta il suo rifiuto con atteggiamenti aggressivi e asociali, oppure con nevrosi e incapacità di integrarsi con gli altri a qualsiasi livello. In ogni caso si ha l’emarginazione, la incapacità di seguire il normale fluire dell’esistenza, la incapacità di dare il proprio contributo fattivo al bene collettivo.

 Ed ecco la terza: Stando così le cose, occorre preparare gli uomini a controllare e a sopportare l’angoscia che può derivare dai mutamenti troppo rapidi e dal senso di instabilità e di insicurezza che tali mutamenti provocano.

 Il problema è: Come prepararli ?

 Per poter rispondere a questa domanda occorre fare un tentativo di analisi dei motivi per cui l’uomo, di fronte al mutamento, entra in crisi. La nostra ipotesi è questa: La nostra società (e, per essa, la scuola) ha sempre provveduto alla trasmissione della “cultura”, sforzandosi di convincere i destinatari che le conoscenze, i giudizi, i valori che venivano trasmessi erano “certezze” immutabili. Ogni uomo, di conseguenza, interiorizzava un modello del mondo ritenuto “certo” e “giusto”, riponendo ogni fiducia nella sua immutabilità ed orientando le sue aspettative nell’ambito di questa “costellazione” di certezze.

 E’ evidente che da un uomo così “educato” ogni mutamento non può che essere percepito come uno sconvolgimento di quel “modello del mondo” cui si era conformato, con grave messa in crisi della sua personalità che si viene a trovare disorientata, priva di certezze.

 Se questo è vero, la soluzione potrebbe essere rappresentata da un tipo di “trasmissione” che, lungi dal “coltivare certezze”, alimenti nei giovani l’attitudine a percepire la realtà come “problema”, per la soluzione del quale occorre esercitarsi a ricercare continuamente nuove ed aggiornate ipotesi di soluzione.

 Un atteggiamento di questo tipo, che potrebbe definirsi “adattamento creativo” ad una realtà in movimento, esclude ogni possibilità di “crisi da mutamento”, giacché il mutamento viene naturalmente percepito come l’essenza stessa della realtà

 Si tratterebbe, in altre parole, di sostituire alla trasmissione di “verità” pre-fabbricate, cioè di interpretazioni della realtà fatte da altri, la trasmissione di strumenti per poter effettuare direttamente e “dal vivo” l’analisi della realtà, onde poterla interpretare in modo originale e personale.

 C’è, poi, un’ultima considerazione da fare, prima di concludere questa prima parte. Ed è questa: La scuola “dispensatrice di certezze” educa individui che,  per il fatto stesso di sentirsi in possesso della “verità”, sono fortemente predisposti all’intolleranza nei confronti delle idee “diverse” (percepite cone idee “eretiche”).

 Una scuola che tenda ad interpretare ciò che appare certo non come verità “dogmatica” ma come “la più attendibile delle ipotesi allo stato attuale delle conoscenze disponibili”, viceversa, predispone alla accettazione e, addirittura, alla ricerca sistematica del “diverso”, della “ipotesi alternativa”. Predispone, cioè, alla tolleranza e alla collaborazione.

 L’introduzione della attività di “RICERCA” nelle nostre scuole a tempo pieno rappresenta un tentativo di realizzare una scuola di questo tipo.

PARTE SECONDA: Le fasi dell’attività 

Non c’è alcun dubbio che, in un’attività di “ricerca” concepita sulla base di tali premesse, la fase iniziale deve essere quella dell’OSSERVAZIONE, cioè del diretto contatto con la realtà. Alcune esigenze e considerazioni emerse nel corso dell’esperienza, però, hanno consigliato di farla brevemente precedere da una

1^  FASE: PREPARATORIA

 Tale fase, che consiste in definitiva nell’organizzare il momento dell’osservazione, si realizza sotto forma di conversazione in classe, durante la quale gli alunni, con il coordinamento degli insegnanti (che diventa guida e stimolo ove occorra) :

a) decidono “cosa” andranno ad osservare e “perché”;

b) si organizzano in gruppi e si dividono i compiti (ogni gruppo si occuperà di un particolare del “tutto” da osservare);

c) preparano, se previsti, questionari, elenchi di domande, ecc.;

d) mettono a punto i dettagli organizzativi (itinerari, orari, strumenti eventualmente occorrenti, ecc.;

  Gli obiettivi specifici che riteniamo di poter conseguire con l’attività descritta sopra sono i seguenti:

1) Abitudine alla conversazione ordinata, con stimoli e sostegni per i più timidi affinchè riescano a superare i propri stati ansiosi e ad esprimersi liberamente. Abitudine a rispettare gli altrui “spazi comunicativi”, cioè a tacere e ad ascoltare quando gli altri parlano.

2) Abitudine a programmare ordinatamente ogni attività;

3) Abitudine a “problematizzare” la realtà, cioè a diventare curiosi di tutto ciò che non riescono a spiegarsi e che, quindi, appare come “problema” da risolvere. La scelta dell’argomento della ricerca dovrebbe essere in gran parte determinata proprio da queste curiosità manifestate dai ragazzi.

 Quest’ultima affermazione riteniamo possa creare sconcerto, per cui tentiamo di dover chiarire il nostro punto di vista sulla dibattura questione sui “contenuti” della ricerca.

 Come abbiamo già dichiarato nella prima parte di questa relazione, l’obiettivo dell’attività di “ricerca” non è, a nostro avviso, quello di trasmettere contenuti di conoscenza, cioè delle “nozioni” (questo, nei limiti del necessario, potrà avvenire in altri momenti dell’attività scolastica e con altre tecniche didattiche le quali, pur essendo tecniche attive e largamente ispirate allo spirito non dogmatico della ricerca, non possono identificarsi col l’attività di ricerca così come noi l’abbiamo concepita), bensì quello di trasmettere “strumenti” utilizzabili per una ricerca personale sulla realtà.

 Col termine “strumenti” noi intendiamo quelle strutture concettuali, ovvero quell’insieme armonicamente ordinato di idee basilari atte a mettere ordine e ad indagare in un determinato ordine di fenomeni. Il che, in altre parole, vuol dire trasmettere non le nozioni codificate che gli esperti delle varie discipline hanno prodotto, bensì gli strumenti che hanno reso possibile tale produzione, cioè il processo di scoperta.

 Così le nostre ricerche si caratterizzano sempre e si qualificano esplicitamente (con gli indispensabili e inevitabili apporti interdisciplinari), come ricerche storiche, geografiche, scientifiche, sociali, allo scopo preciso di dare ai bambini le strutture concettuali adeguate per poter effettuare analisi storiche, geografiche, scientifiche, sociali della realtà.

 Alla fine, inevitabilmente, avremo trasmesso ai bambini (o meglio : i bambini avranno scoperto) anche delle “nozioni”, ma la conquista importante cui mirare non sarà questa, bensì quella di fornire gli anzidetti strumenti per la “produzione personale” di conoscenza storica, geografica, scientifica o sociale.

 In questa prospettiva, è evidente, il “contenuto” della ricerca non è importante per le nozioni che ha trasmesso, bensì in quanto è stato il “campo di esperienza” entro cui il bambino ha lavorato per scoprire e approfondire, fino a possederle, quelle strutture concettuali che saranno “strumenti” utilizzabili con qualunque “contenuto” dello stesso tipo

 

2^ FASE : L’OSSERVAZIONE

Questa fase che, a seconda del tipo di ricerca, può realizzarsi come visita a un luogo, escursione, osservazione di un oggetto, esperimento, sondaggio di opinione, ecc.,  è uhn momento importantissimo con cui si tende a conseguire i seguenti obiettivi:

a) abituare alla selezione degli stimoli e alla concentrazione;

b) abituare a cogliere e ad annotare tutto ciò che si osserva, con particolare attenzione a ciò che appare poco chiaro o, comunque, non immediatamente spiegabile.

 A questo punto è necessaria una nota di precisazione:

Come si potrà facilmente intendere leggendo la descrizione dell’obiettivo b) della prossima 3^ fase, noi attribuiamo molta importanza al fatto che il bambino impari ad utilizzare “anche” l’esperienza degli altri, da lui non vissuta direttamente, mediante la “decodificazione” del documento (di qualsiasi specie: narrazione orale, scritta, filmato, reperto…) in cui tale esperienza altrui è “codificata”. In questa prospettiva stiamo facendo tentativi (per ora molto indecisi e limitati) per utilizzare materiale bibliografico o filmato, collocandone l’uso proprio nella fase dell”osservazione”, in quanto tale materiale è da interpretare come “sostitutivo” dell’esperienza diretta.

 E’ nostra speranza riuscire a passare gradatamente ed efficacemente, con il crescere dell’età dei bambini, dalla ricerca centrata unicamente sull’esperienza diretta, alla ricerca centrata “anche” sui documenti e sui testi. Il fine, ovviamente, è quello di operare la difficile saldatura fra l’esperienza personale diretta del bambino e la “cultura” formalizzata e codificata. Naturalmente è, pure, nostra speranza che il bambino continui ad utilizzare, nella “osservazione” dei testi e dei documenti, quell’attitudine all’analisi accurata e quello spirito critico che dovrebbe avere acquisito durante l’osservazione diretta della realtà.

 

3^ FASE : LA CONVERSAZIONE O DISCUSSIONE

A nostro avviso è, questa, la fase più importante di tutto il ,processo. Essa si realizza in classe (generalmente), rispettando questa successione di momenti e queste regole:

1) Ciascun bambino, nessuno escluso, a turno, racconta tutto ciò che ha osservato con la maggior precisione possibile. Accade, naturalmente, che i quattro o cinque bambini dello stesso gruppo ripetono lo stesso racconto, avendo osservato le medesime cose, e ciò può risultare un po’ monotono. In realtà, però, ogni bambino riesce quasi sempre ad aggiungere particolari non rilevati da chi lo ha preceduto, per cui, tutto sommato, il lavoro di “ricostruzione” dell’esperienza ne risulta arricchito.

2) Teminato questo primo giro di interventi, si apre la discussione, che può essere piùo meno ricca, durante la quale interviene chi lo desidera per aggiungere particolari prima dimenticati, fare confronti, stabilire relazioni, evidenziare contraddizioni, enucleare problemi, ecc.

 Gli obiettivi particolari di questa terza fase sono:

a) quelli indicati al punto a) della fase 1^

b) abituare a “verbalizzare” l’esperienza, cioè a tradurre in parole tutta la quantità di percezioni e sensazioni ricevute, di sentimenti ed emozioni provate durante l’osservazione. E’ una cosa, per noi, molto importante, sia perché è un esercizio di recupero della memoria di fatti passati, sia, soprattutto, perché il dire a parole ciò che si è visto e si è fatto (ciò che può definirsi “codificazione in lingua” di un’esperienza) è un potente esercizio per divenire, poi, capaci anche dell’operazione inversa o “decodificazione”, cioè di capire veramente ciò che gli altri ci raccontano delle loro esperienze, di “evocare”, in altre parole, fino quasi a riviverla, una esperienza fatta da altri e da altri “codificata” con parole.

c) Favorire la capacità di analisi di un segmento di realtà. Infatti ogni gruppo descrive una parte del tutto e ogni bambino si sforza di ricordare i dettagli anche piccoli osservati

d) stimolare la capacità di stabilire correlazioni fra l’esperienza fatta e altre esperienze precedenti, di scoprire “problemi” e di ipotizzare soluzioni (da verificare, eventualmente, in un nuovo ciclo di attività), di prendere coscienza nel modo più intenso possibile della esperienza vissuta e del suo reale significato. (Questo, di organizzare le esperienze dei bambini affinchè siano, quanto più possibile, per essi significative, è forse il vero e forse l’unico ruolo dell’insegnante di una scuola nuova, preoccupata di non mortificare la “creatività” degli alunni).

e) abituare alla accettazione a al rispetto delle opinioni altrui e, quindi, alla tolleranza e alla democrazia.

 

4^ FASE : LAVORO DI GRUPPO

E’ soltanto questa fase che, per ragioni di mera nomenclatura, abbiamo denominato “lavoro di gruppo”. In realtà ci sono altre occasioni in cui i bambini lavorano in gruppo, come vedremo anche in seguito. Sarà opportuno, tuttavia, spiegare, per chiarezza, come sono rganizzati i bambini di questa scuola di Piazza al Serchio nel lavoro di ricerca. Essi sono divisi non in classi ma in gruppi di 20-22 alunni di classi diverse dello stesso ciclo. All’interno di questo “grande” gruppo si formano “piccoli gruppi” di 4-5 alunni. Quando parliamo di gruppi, nel corso di questa nostra relazione, intendiamo sempre qusti “piccoli gruppi”. Il lavoro di “intergruppo”, di cui parleremo fra poco, è, pertanto, il lavoro collettivo di tutti i piccoli gruppi, cioè del “grande gruppo” di 20-22 alunni al completo. Non abbiamo deliberatamente escluso un lavoro di intergruppo fra tutti gli alunni del ciclo che, anzi, in certe occasioni potrà utilmente essere realizzato. Ma le difficoltà tecniche e organizzative sono notevoli, come è facile capire.

 Questa 4^ fase del lavoro è divisa in due sottofasi:

Prima sottofase

In ogni gruppo, ogni alunno deve scrivere una relazione sul lavoro di osservazione svolto dal gruppo stesso. Tale relazione viene scritta su un apposito “Quaderno delle ricerche” (ogni alunno ne ha uno per ciascun tipo di ricerca: storica, geografica, scientifica, sociale). Le finalità di questa prima sottofase sono:

a) Impegnare tutti gli alunni in una esercitazione scritta motivata (la motivazione è data dal fatto che la relazione è essenziale allo sviluppo del lavoro)

b) sviluppare, a livello di scrittura, quelle capacità di “codificazione” di cui, a livello verbale, abbiamo detto al punto b) della fase 3^.

Seconda sottofase

Le 4 o 5 relazioni di ogni gruppo vengono lette da tutti i bambini del gruppo, al fine di trarne una unica relazione che sarà la relazione del gruppo. In pratica i bambini tendono a procedere così: I) scelgono di comune accordo la relazione che giudicano migl.iore II) La integrano con parti di altre relazioni o apportano modifiche che ritengono opportune fino ad arrivare alla stesura definitiva (è qualcosa di simile, sotto certi aspetti, alla “messa a punto” dei testi liberi del Freinet.)

 Le finalità:

a) abituare i bambini a sentire il valore dell’”unione degli sforzi”, della collaborazione, mediante i quali la competenza di ognuno viene integrata dalla competenza altrui, in un processo che è di arricchimento per tutti.

b) sviluppare l’abitudine e il gusto per il lavorare in gruppo e per la “socialità”.

 

5^ FASE: LAVORO DI INTERGRUPPO

 Il lavoro di intergruppo si realizza in questo modo:

1) Le relazioni di tutti i gruppi vengono lette al “grande gruppo”

2) Si discute brevemente

3) Si passa alla redazione della relazione finale o conclusiva di tutta la ricerca. Ciò può avvenire o per semplice sommazione logicamente ordinata delle varie relazioni di gruppo (è ciò che generalmente accade nel primo ciclo), o per integrazione e fusione delle stesse in un testo parzialmente o anche totalmente nuovo. Al livello minimo sarà, comunque necessario collegare le varie relazioni di gruppo usando opportuni connettivi linguistici in modo da dare uno sviluppo non frammentario alla relazione.

4) Composizione del cartellone o dei cartelloni su cui viene riportata la relazione conclusiva illustrata con disegni, fotografie, grafici, ecc., che rappresenta il “prodotto finito” di tutta l’attività. Compatibilmente con le disponibilità economiche si può anche produrre un fascicolo ciclostilato da distribuire a ogni alunno (in passato lo abbiamo fatto). E’ molto più economico, però, l’uso dei cartelloni (che, fra l’altro, rimangono a lungo ben visibili sulle pareti dell’aula e sono più vistori e più colorati del fascicoletto), avendo, però, l’avvertenza di far ricopiare a tutti gli alunni la relazione conclusiva sul quaderno delle ricerche, in modo che ciascuno abbia la sua personale copia.

 Finalità:

a) Sviluppare ulteriormente la coscienza del valore della collaborazione

b) abituare gli alunni al lavoro di sintesi . Nella fase di intergruppo, infatti, vengono rimessi insieme i “pezzi” che erano stati analizzati singolarmente dai vari gruppi

c) far prendere coscienza del fatto che, da una visione “sincretica” o globalòmente indifferenziata di un segmento del reale, attraverso l’analisi e la successiva sintesi, si passa ad un livello molto più alto e approfondito di consapevolezza e di conoscenza.

 

6^ FASE. LIBERA CONVERSAZIONE FINALE

E’, appunto, una libera conversazione che viene fatta in classe, discretamente ma decisamente sollecitata e stimolata dall’insegnante, al fine di:

a) favorire la reale presa di coscienza del lavoro svolto (specie della fase di intergruppo)

b) Favorire ulteriori collegamenti con altre esperienze, nonché ulteriori riflessioni e approfondimenti

c) Controllare la misura e la qualità della “fruizione”, da parte di ogni alunno, dei benefici dell’attività. Tale controllo, ovviamente, non è in alcun modo “fiscale” o, comunque, rivolto a misurare il valore dei singoli, bensì a valutare l’efficacia dell’attività nel suo complesso.

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