Giuseppe
 (una storia vera)

      

Non era bravo a scuola. Aveva quindici anni e faceva ancora la quinta elementare. Lo avevano bocciato tutti gli anni: in prima, in seconda, in terza e in quarta. Ora faceva la quinta e si aspettava, rassegnato, di dover fare due volte anche quella.

 Ormai non si sforzava nemmeno più di essere un po’ più bravo. Aveva accettato l’idea di essere un somaro, così come era giudicato dal maestro e anche dai compagni. Compagni: si fa per dire. In realtà i suoi compagni di classe erano ancora dei bambini mentre lui era quasi un giovanotto. Raramente, durante la ricreazione, partecipava ai giochi, un po’ perché per lui erano troppo infantili, un po’ perché nessuno lo invitava a partecipare. Lo consideravano un po’ deficiente e anche pericoloso, così grande e grosso come si ritrovava. Infatti quando si lasciava andare a dare quattro calci al pallone insieme agli altri, qualcuno si faceva sempre male. Non lo faceva di proposito, ma era troppo grande rispetto agli altri, e se nella foga del gioco urtava qualcuno, quasi sempre lo faceva cadere. Allora quello si rialzava piangendo, con le ginocchia sbucciate, e per Giuseppe erano rimbrotti, anche insulti e l’invito perentorio a farsi da parte e a non dar noia ai bambini.

 Anche in classe Giuseppe era emarginato. Stava all’ultimo banco perché – gli disse il maestro – “tu sei grande e vedi la lavagna anche se hai gli altri davanti”. Ma tutti dicevano che quello era il banco dei somari. Ed effettivamente Giuseppe si comportava da somaro: i compiti a casa non li faceva quasi mai e spesso non faceva neppure quello che c’era da fare a scuola. E quando il maestro gli chiedeva qualcosa o non rispondeva o dava una risposta sbagliata che suscitava l’ilarità di tutta la classe. Anche il maestro si era ormai rassegnato ad avere in classe un somaro irrecuperabile e non lo sgridava neppure più per il suo comportamento svogliato. Insomma Giuseppe era tenuto a distanza e disprezzato da tutti. Anche perché puzzava di stalla.

 Già, perché Giuseppe, quando arrivava a scuola, aveva appena finito di aiutare il babbo a levare sotto alle vacche (1), a riempire di fieno le mangiatoie e a fare, insomma, tutto quello che c’è da fare nelle stalle. Al mattino per lui la sveglia era alle sei e alle otto, quando passava lo scuolabus che lo portava a scuola, lui si era già sbafato due ore di lavoro.

 Quando, poi, all’una, ritornava a casa, aveva appena il tempo di mangiare un boccone, perché poi c’era sempre qualche faccenda da fare nei campi o nelle selve. Già in ottobre, a scuola appena cominciata, c’era da preparare la terra per la semina del grano e del farro. Poi, appena finite le semine, cominciava la raccolta delle castagne, il loro trasporto al metato (2) dove, per una ventina di giorni, bisognava tenere acceso giorno e notte il fuoco che le avrebbe seccate. Queste, poi, dovevano essere pestate (3) e, infine, portate al mulino per essere macinate. E si era quasi a Natale. Nei mesi invernali la campagna dava un po’ di respiro, ma le bestie andavano governate anche in inverno. E poi quelle giornate invernali che ti costringevano in casa cadevano a proposito per fare ceste, panieri, capagnate (4), rivestire fiaschi e damigiane… con i lunghi e sottili rami di salice raccolti nell’estate. E Giuseppe aveva imparato a fare anche quello. E lo faceva piuttosto  bene.

 Quando poi le nevi si scioglievano e la terra si asciugava cominciava il lavoro più duro e impegnativo: la semina del granoturco e delle patate, la cura delle viti, la preparazione dell’orto con la semina di tutti gli ortaggi…..Raramente si rientrava a casa prima che facesse buio. E le giornate si facevano sempre più lunghe. Verso maggio, quando il maestro chiedeva agli scolari maggior impegno per una buona conclusione dell’anno, Giuseppe rendeva ancora meno del solito perché stremato dal lavoro e perché la sua mente era impegnata in tutt’altri pensieri: quelli del lavoro da fare appena uscito da scuola, per esempio.

 Insomma la vita di Giuseppe era piena di cose e di interessi con i quali le cose che gli facevano fare a scuola non avevano nulla a che fare. La scuola ignorava il mondo di Giuseppe e il mondo di Giuseppe ignorava la scuola.

 Poi accadde che, quell’anno, la scuola di Giuseppe diventò più lunga. A mezzogiorno e mezzo non si andava a casa ma si mangiava alla mensa della scuola e si stava a scuola fino alle quattro e mezzo del pomeriggio. La chiamavano scuola a tempo pieno. Il padre di Giuseppe ne fu allarmato. Lui aveva bisogno che Giuseppe lo aiutasse in campagna e quelle ore in più sottratte al lavoro lo impensierivano. Ma quando ci fu l’assemblea dei genitori che doveva approvare il nuovo orario ci furono tanti discorsi sui vantaggi, per i ragazzi, che questo nuovo tipo di scuola avrebbe portato, che lui, il padre, non ebbe coraggio di dire che era contrario e votò a favore come tutti gli altri.

 A Giuseppe l’idea di dover subire per quattro ore in più il clima per lui non gradito della scuola piaceva poco. Però – si era in ottobre –  il pensiero che sarebbe stato molto meno faticoso starsene a scuola piuttosto che nei campi a stuffare (5) lo consolò, e accettò la novità senza prendersela troppo.

 A scuola ci furono subito delle novità. Anzitutto arrivarono nuovi maestri giovani e bravi, poi i ragazzi furono informati che ci sarebbero state delle nuove “materie”, alcune delle quali “opzionali” (a Giuseppe fu spiegato che quella parola lì voleva dire che si potevano scegliere quelle più gradite). Fra  le nuove “materie” ce n’erano di piuttosto strane: enigmistica, gioco degli scacchi, intreccio…. Intreccio !!! Giuseppe drizzò le orecchie ! E quando toccò a lui di scegliere, la scelse subito.

 Poi ci fu la novità delle “ricerche”. Furono proposti degli argomenti e anche qui i ragazzi furono invitati a scegliere. Un maestro simpatico e che si chiamava Giuseppe pure lui, proponeva una ricerca sull’agricoltura della zona. E Giuseppe drizzò di nuovo le orecchie ! Ma poi, cosa inaudita, il maestro Giuseppe si rivolse al Giuseppe scolaro e gli disse che, poiché lui – il Giuseppe scolaro – sapeva tante cose sull’agricoltura, lui – il Giuseppe maestro – sperava di averlo nel suo gruppo. Tutti gli scolari presenti si volsero a guardare Giuseppe e fecero una faccia molto stupita. Era la prima volta che si sentiva qualcuno dire a Giuseppe che sapeva tante cose. E, forse, il più stupito fu proprio lui, Giuseppe, che, comunque, fu immediatamente conquistato da quel maestro che si chiamava come lui. E disse di sì.

 Per Giuseppe le cose cominciarono subito a cambiare in meglio e nel giro di un mese erano cambiate da così a così. Infatti, sia per quel che riguarda l’intreccio, sia per quel che riguarda la ricerca sull’agricoltura, Giuseppe ne sapeva più dei maestri.

  Durante l’attività di intreccio la maestra aveva proposto lavori semplici di intreccio con nastri o rafia ma, quando seppe che Giuseppe sapeva fare cesti, cestini e panieri, gli propose di essere lui quello che avrebbe insegnato agli altri come si fa. E lui, che si sentiva sicuro del fatto suo, portò a scuola un bel fascio di rametti di salice e, sotto gli occhi attenti dei compagni e anche della maestra, che quelle cose lì non le sapeva fare neanche lei, in quattro e quattr’otto, con tre legnetti di castagno e i lunghi rametti di salice fece la base di un bel paniere, con i lunghi rametti che sporgevano da ogni lato e coi quali avrebbe poi  fatto la parte laterale e il manico del paniere stesso. I ragazzi cominciarono a guardare Giuseppe con occhi diversi mentre la maestra non gli lesinava lodi e invitava gli altri a stare attenti. Insomma era lui che sapeva e che insegnava agli altri. Era lui al centro dell’ ammirata attenzione di tutti. Quando poi anche gli altri ragazzi provarono a fare un panierino, era a lui che tutti si rivolgevano:

-         Giuseppe, e ora che devo fare ? –

-         Giuseppe, mi aiuti, per piacere che qui non mi riesce ? –

-         Giuseppe, guarda: ho fatto bene ?

  E non c’era più nessuno che voleva allontanare Giuseppe, anzi, se ne contendevano l’attenzione.

  Ma il vero trionfo di Giuseppe ci fu durante le ricerche sull’agricoltura locale.

Giuseppe era cambiato. Ora stava attento quando il maestro leggeva sui libri che aveva portato. Si parlava di semine, di concimazione, di irrigazione….tutte cose che appartenevano al mondo di Giuseppe e che Giuseppe sapeva bene. Tanto che, spesso, era lui che spiegava quello che non appariva molto chiaro, era lui che integrava le cose lette con cose della sua esperienza, era lui che rispondeva al maestro quando gli faceva domande non per vedere se sapeva la risposta, ma per sapere cose che lui stesso, il maestro, non sapeva.

 Ormai gli altri alunni vedevano in Giuseppe quasi un insegnante. E lo trattavano con rispetto.

 E accadde un giorno che il maestro decise che avrebbe portato il gruppo a visitare una stalla e chiese a Giuseppe se pensava che avrebbero potuto visitare la sua. Giuseppe disse che lo avrebbe chiesto a suo padre. Gli si erano illuminati gli occhi. Era sicuro che il padre avrebbe acconsentito e la cosa lo entusiasmava. Era orgoglioso della sua stalla e delle sue mucche ed era felice all’idea di poterle mostrare al maestro e ai compagni.

 Il padre fu d’accordo e si fissò il giorno. Quella mattina Giuseppe non sarebbe sceso con lo scuolabus e avrebbe aspettato a casa il maestro e i compagni. Come al solito si era alzato alle sei, ma quella mattina aveva lavorato con più lena del solito.

 Voleva che la stalla fosse pulita e in ordine più che mai.

  Poco dopo le nove – e Giuseppe, che attendeva ormai da un’ora insieme al padre,  cominciava ad essere impaziente – lo scuolabus arrivò e i compagni del gruppo col maestro scesero e salutarono festosamente Giuseppe e il padre.

 Il maestro, prima di entrare nella stalla, raccomandò ai ragazzi di comportarsi bene e di fare attenzione alle spiegazioni che Giuseppe avrebbe dato sulla stalla e sulle mucche. Entrarono. Molti dei ragazzi non avevano mai visto una mucca così da vicino ed erano alquanto timorosi davanti a quei bestioni cornuti. Perciò guardavano stupefatti Giuseppe che, mentre spiegava con grande serietà tutto quello che c’era da spiegare, andava in mezzo alle sue mucche, le accarezzava, le toccava senza mostrare timore alcuno. Disse quello che era il suo lavoro di tutte le mattine, parlò di ciò che mangiano le mucche, di come si mungono, di come nascono i vitellini. E mentre parlava della mungitura mostrò ai compagni le grandi mammelle delle mucche e, preso un capezzolo con una mano mostrò come si fa a mungerle. E mentra parlava delle mucche che sono erbivore aprì la bocca di una di loro perché i ragazzi potessero vedere la dentatura come era fatta. E mentre parlava dei vitellini entrò nel piccolo recinto dove si trovavano tre vitellini nati da pochi giorni e invitò i compagni ad avvicinarsi senza paura per accarezzare quelle dolci bestioline ancora malferme sulle gambette esili. E qualcuno lo fece e accarezzò il vitellino che Giuseppe teneva fermo quasi abbracciandolo.

 Quando ebbe detto tutto quello che c’era da dire il maestro dette il via e ci fu un lungo, convinto applauso di tutto il gruppo.

 Giuseppe, grande e grosso, col viso colorito di chi è abituato a lavorare all’aria aperta, sorrideva contento mentre il padre, che era rimasto silenzioso sulla porta, aveva le lacrime agli occhi.

 Ora Giuseppe andava volentieri a scuola. Certo la sua ortografia non era perfetta, ma scriveva cose sensate e si faceva capire. Leggeva ancora stentatamente ma capiva ciò che leggeva. I problemi più complicati non riusciva a risolverli ma le quattro operazioni le sapeva fare e i metri, i litri, i chili e i metri quadrati non avevano segreti per lui. Nel lavoro di intreccio, poi, e nel lavoro di ricerca nessuno poteva stargli al pari.

 Soprattutto – ed è quello che più conta – era stimato ed era felice. Era finalmente caduta la paratia stagna che teneva separata la sua scuola dalla sua vita. E lui era felice.

(Mario Pellegrinetti)

 

 

NOTE:

1) Togliere la vecchia “lettiera” di foglie mista a letame e predisporre la nuova “lettiera” pulita.

2) Seccatoio

3) Anticamente le castagne secche venivano poste in un sacco e pestate, cioè sbattute su un ceppo di legno finchè la buccia non si staccava dal frutto. Le bucce secche e sbriciolate costituivano la “pula” che, posta sopra i “ciocchi” ardenti del metato, mantenevano a lungo il fuoco acceso e costante, come doveva essere durante la fase della seccatura.

4) Capagnate = grosse ceste cilindriche, di un metro e mezzo circa di diametro di base e circa 30 o 40 centimetri di altezza, a maglie molto larghe, usate per il trasporto del fieno sulle spalle.

5) Stuffare =  rompere i “tuffi”, cioè le grosse zolle di terra dei campi vangati o arati. E’ il lavoro di erpicatura che oggi si fa con gli erpici e che un tempo si faceva spesso anche a mano, con la zappa.


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                                       L’essenziale e l’accessorio

                                                        ovvero

                                           Saper fare il riassunto

 

Da qualche giorno i bambini di seconda elementare erano impegnati in un gioco proposto nel quadro di una sperimentazione di educazione linguistica elaborato da un istituto di Milano.

 Il gioco consisteva nel mettere in ordine una serie di quattro o cinque illustrazioni che rappresentavano i diversi momenti di una storia. Una volta capita la storia e messe in ordine le illustrazioni, bisognava mettere sotto a ogni illustrazione una lunga didascalia che raccontava quel momento della storia. Alla fine, mettendo insieme le quattro o cinque didascalie, la storia risultava raccontata anche con le parole oltre che con le illustrazioni.

 I bambini dicevano che quel gioco era divertente e lo facevano volentieri.

 Un bel giorno – era di lunedì - la maestra propose ai ragazzi di raccontare per scritto quello che avevano fatto la domenica e i bambini si accinsero a farlo.

 Ma Giuseppe, cui lo scrivere pesava un poco mentre amava molto disegnare, alzò la mano e chiese:

-          Maestra, prima di scriverla potrei disegnarla la mia storia ? –

-          E perché ti è venuto in mente di disegnarla ? –

-          Perché a scrivere sotto le figure mi riesce meglio. –

 La maestra, che era accorta, capì le ragioni di Giuseppe e – subito accomodante – disse:

-          Va bene, però devi fare soltanto cinque disegni per illustrare la tua storia. Poi scriverai le didascalie sotto a ogni illustrazione come nel gioco delle storie da ricostruire che facciamo sempre. E guarda che la storia si capisca bene anche solo dai disegni. – E gli consegnò cinque bei fogli bianchi.

-          Va bene – disse, felice, Giuseppe. E si mise all’opera.

  Passò un po’ di tempo e tutta la classe taceva ed era intenta al suo lavoro.

  Ma, a un tratto, il silenzio fu rotto dalla voce piagnucolosa di Giuseppe che, con le lacrime agli occhi, diceva:

-          Maestra, ho finito i fogli ! –

 La maestra, sempre accorta, si avvicinò e guardò i disegni pensierosa.  Nel primo disegno si vedeva Giuseppe che veniva svegliato dalla mamma. Nel secondo si vedeva Giuseppe che si lavava il viso. Da solo. Nel terzo si vedeva Giuseppe che si vestiva. Da solo. Nel quarto si vedeva Giuseppe che faceva colazione. Nel quinto si vedeva Giuseppe che si lavava i denti.

 La maestra disse: - Bene. Vedo che hai voluto raccontare il tuo inizio di giornata. Ora puoi raccontarlo con le parole –

-          Ma io ieri sono andato a pescare col babbo e ho pescano una bellissima trota. Era quello che volevo raccontare –

-          Ho capito – disse allora la maestra – ma eravamo d’accordo che i disegni dovevano essere cinque e non più –

-          E ora come faccio ? –

   E la maestra, sempre più accorta: - I disegni debbono essere cinque e non di più, pertanto non ne puoi aggiungere altri –

-          E allora ? –

-          Allora possiamo fare una cosa: questi cinque disegni li mettiamo via ed io ti do altri cinque fogli bianchi. Così puoi riprovare da capo –

-          Sì, sì, grazie maestra ! –

 Non appena ebbe i cinque fogli Giuseppe si mise all’opera. Nel primo foglio disegnò se stesso mentre, con una gran bocca a mezzaluna sorridente, stava sulla riva del lago e reggeva una lenza dalla quale pendeva una enorme trota col corpo punteggiato di rosso. Poi, con calma, decise di iniziare la sua storia illustrata disegnando Giuseppe e il padre che partivano in macchina con tutto l’armamentario fatto di lenze, cestini, barattoli con le esche, eccetera. Come seconda illustrazione disegnò Giuseppe e il babbo che, giunti in riva al lago, gettavano gli ami e pescavano, tutti intenti. La terza, quella centrale, era quella disegnata per prima, cioè Giuseppe che pescava la trota. Come quarta illustrazione Giuseppe disegnò se stesso e il padre che mostravano il cestino con tutte le bellissime trote pescate. A questo punto – gli restava un solo foglio – pensò a cosa disegnare per concludere degnamente la storia. E prese la sua decisione. Girò il foglio per il lungo e disegnò una grande tavola imbandita. Su di essa giganteggiavano i piatti su ciascuno dei quali faceva bella mostra di sé una grossa trota fritta. Intorno al tavolo stavano seduti Giuseppe, il babbo Carlo, la mamma Lucia e la sorellina Cleta, di soli quattro anni.  In alto una grossa lampada irrorava di luce gialla tutta la scena.

 Appena ebbe dato l’ultimo tocco Giuseppe corse dalla maestra a mostrare l’opera. La maestra fu prodiga di lodi e disse che si capiva benissimo la storia e anche la grande gioia che Giuseppe aveva provato nel pescare la trota. Poi trasse da cassetto i cinque disegni precedenti e insieme convennero che essi non erano affatto essenziali per raccontare la storia della pesca sul lago. In fondo ogni mattima succede che tutti si alzano, si lavano, si vestono, fanno colazione e si lavano i denti. Per cui non vale la pena di raccontarlo.

-          Però – aggiunse la maestra – non li buttiamo via. Non servono a raccontare la storia della pesca, è vero. Però, in fondo, raccontano in modo particolareggiato cosa fa, ogni bambino, nelle prime ore di ogni giorno. Potrebbe essere un’altra storia intitolata “Le prime ore di un bambino” –

 Giuseppe riprese anche quei fogli e fu contento di quello che la maestra aveva detto. In fondo aveva lavorato con impegno anche per disegnare quei disegni.

 Poi si mise di gran lena a raccontare con le parole l’avventura della pesca. Avendo davanti le illustrazioni veniva facile raccontare quello che stava davanti agli occhi. Ne venne una storia lunga cinque pagine e Giuseppe per primo si stupì di aver scritto tanto.

 Quando portò il quaderno alla maestra si vide che anche la maestra era stupita della lunghezza di quel racconto. Lo lesse sorridendo e alla fine disse che era bello ed era anche abbastanza corretto.

 Da quel giorno Giuseppe disegnò sempre le sue storie prima di raccontarle con le parole. Diceva che così trovava quali erano i punti importanti della storia dei quali bisognava parlare per forza. Poi si poteva anche abbellire il racconto con dei particolari meno importanti. E le sue storie risultavano sempre ben raccontate. Perché ben progettate. Infatti la scelta delle illustrazioni da disegnare non era altro che un vero e proprio progetto, una sorta di schema della vicenda da narrare.

 E, cosa notevole, da quel momento seppe anche fare i riassunti, cosa che non aveva mai saputo fare.

  Di fronte a un racconto da riassumere egli immaginava di doverlo illustrare con cinque disegni e, quindi, decideva quali erano le cinque illustrazioni necessarie per rappresentare la storia in modo comprensibile. Ed erano, quelli, i punti essenziali dei quali bisognava parlare nel riassunto. Aveva, infatti, capito cosa è essenziare per capire una storia e cosa è, invece, accessorio. E aveva capito che per fare un riassunto bisogna concentrarsi sulle cose essenziali trascurando quelle accessorie.

(Mario Pellegrinetti)

 

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