Terry Eagleton, Introduzione alla teoria letteraria, Editori Riuniti, 1996 (traduzione di Francesco Dragosei)Introduzione: cos'è la letteratura? |
Se c'è una teoria letteraria, sembra ovvio ci debba essere anche qualcosa cui tale teoria si riferisce, e che si chiama letteratura. Possiamo iniziare, dunque, ponendoci la domanda: cos'è la letteratura? Ci sono stati vari tentativi di definire la letteratura. Essa può essere, ad esempio, descritta quale scrittura «immaginativa»: nel senso cioè di finzione, dì scrittura che non è letteralmente vera. Ma basterà riflettere un solo istante su che cosa generalmente vie ne compreso nella denominazione «letteratura», per concludere che tale definizione non funziona. La letteratura inglese del Seicento include Shakespeare , Webster , Marvell e Milton. Ma si estende anche ai saggi di Francis Bacon, ai sermoni di John Donne, alla biografia spirituale di Bunyan e alle pagine, difficilmente incasellabili, scritte da sir Thomas Browne . Potrebbe, all'occor-renza, annettere persino il Leviatano di Hobbes , o La storia della ribellione del conte di Clarendon . La letteratura francese del Seicento contiene, assieme a Corneille e Racine , le massime dì La Rochefoucauld , le Orazioni funebri di Bossuet , VArt poétique di Boileau , le lettere dì Madame de Sévigné alla figlia, gli scritti filosofici di Cartesio e Pascal . La letteratura inglese dell'Ottocento comprende Lamb (ma non Bentham ), Macaulay (ma non Marx), Mill (ma non Darwin o Herbert Spencer). La distinzione tra «fatto» e «finzione» non sembra dunque molto efficace, anche in considerazione del fatto che essa è spesso opinabile. È stato affermato, ad esempio, che l'opposizione che noi stabiliamo tra verità «storica» e «artistica» non è valida nel caso delle antiche saghe islandesi1. Nell'inglese della fine del Cin- quecento e dell'inizio del Seicento, la parola « novel » (romanzo) sembra fosse usata sia per eventi reali che di fantasia, e persino le notizie di cronaca non sempre potevano essere considerate veramente tali. Romanzi e notizie non erano né chiaramente fatti né chiaramente fantasia : la nostra distinzione netta tra queste categorie non sarebbe stata adatta2. Gibbon riteneva senza dubbio di star scrivendo la verità storica, e forse lo pensavano anche gli autori della Genesi: ciononostante, essi sono oggi letti come «fatti» da alcuni e come «finzione» da altri. Newman sicuramente pensava che le sue meditazioni teologiche fossero vere: eppure, per molti lettori di oggi, esse sono «letteratura». Inoltre, se la letteratura include spesso la scrittura dei fatti, essa esclude d'altra parte gran parte della «finzione». I fumetti di Superman, o i romanzi di Mills e Boon3, pur essendo finzione, non vengono generalmente considerati letteratura, sia pure con la «elle» minuscola. Infine, il fatto che la letteratura sia una scrittura «creativa», o «immaginativa», vuoi forse dire che la storia, la filosofia, le scienze naturali sono prive di creatività o immaginazione? Forse c'è bisogno dì un approccio completamente diverso. Forse la letteratura deve essere definita non in base al fatto di essere finzione o immaginazione, ma al particolare modo in cui viene usato il linguaggio. Secondo tale ipotesi, la letteratura è un ti po di scrittura che, per usare le parole del critico russo Roman Jakobson , costituisce una «violenza organizzata commessa ai danni del linguaggio ordinario». La letteratura trasforma e intensifica il linguaggio ordinario, devia sistematicamente dal parlare quoti diano . Se alla fermata dell'autobus qualcuno mi si avvicina mormorandomi: «tu per sempre inviolata sposa del silenzio»4, io mi rendo immediatamente conto di essere in presenza del letterario. Lo so perché la struttura, il ritmo, la risonanza delle parole esprimono una ridondanza rispetto al significato puro; perché, come direbbe tecnicamente un linguista, c'è una sproporzione tra i significanti e i significati. Il linguaggio, cioè , attira l'attenzione su se stesso, fa sfoggio del proprio essere, diversamente da una frase inerte come «non sai che c'è lo sciopero degli autobus?». E tale era infatti la definizione del «letterario» proposta dai formalisti russi, gruppo formato da Viktor Sklovskij , Roman Jakobson , Osip Brik , Jurij Tynjanov , Boris Ejchenbaum e Boris Tomasev-skij . I formalisti, che emersero in Russia negli anni prima delia rivoluzione bolscevica del 1917, furono attivi per tutti gli anni venti finché non vennero ridotti al silenzio dallo stalinismo. Gruppo militante e polemico, essi rigettarono il simbolismo quasi mistico che aveva influenzato la critica letteraria prima di loro, e con spirito scientificamente pratico spostarono l'attenzione sulla realtà materiale del testo letterario stesso. La critica doveva dissociare l'arte dal mistero e occuparsi piuttosto di come un testo letterario concretamente funzionava: la letteratura non era pseudoreligione , o psicologia, o sociologia, ma una particolare organizzazione del linguaggio. Essa aveva proprie leggi, strutture e strumenti, che dovevano essere studiati in se stessi invece che ridotti a qualcos'altro. Il lavoro letterario non era né un veicolo di idee, né una riflessione sulla realtà sociale, né l'incarnazione di una qualche verità trascendentale: esso era un fatto materiale, il cui funzionamento poteva essere analizzato come si potrebbe esaminare una macchina. Era fatto di parole, non di oggetti o sentimenti, ed era un errore vederlo come l'espressione della mente dell'autore, VEugenio Onegin di Puskin , arrivò un giorno a dire con grande disinvoltura Osip Brik , sarebbe stato scritto anche se Puskin non fosse nato. Il formalismo fu essenzialmente l'applicazione della linguistica allo studio della letteratura; e, dal momento che la linguistica in questione era di tipo formale, si preoccupava cioè delle strutture della lingua piuttosto che di ciò che essa voleva effettivamente dire, i formalisti trascurarono l'analisi del «contenuto» letterario (nel quale vedevano sempre presente il pericolo della psicologia o della sociologia) per lo studio della forma letteraria. Lungi dal vedere la forma quale espressione del contenuto, essi capovolsero il rapporto, individuando nel contenuto una mera «motivazione» della forma, un'occasione, un'opportunità per un particolare tipo di esercizio formale. Il Don Chisciotte non è la storia di un personaggio che si chiama cosi; tale personaggio sarebbe piuttosto un mero espediente per tenere insieme vari tipi di tecnica narrativa. h a fattoria degli animali non sarebbe, per i formalisti, un'allegoria dello stalinismo: al contrario, lo stalinismo fornirebbe semplicemente una utile opportunità per la costruzione di una allegorìa . Fu questa insistenza perversa che attirò sul nome dei formalisti l'ostilità e una fama negativa. Sebbene essi non negassero che l'ar te avesse un rapporto con la realtà sociale - alcuni di loro ebbero addirittura dei legami coi bolscevichi - provocatoriamente sostennero, nel contempo, che tale rapporto non riguardava ìl lavoro del critico. I formalisti iniziarono considerando il lavoro letterario come una sorta di arbitrario assemblaggio di «artifici», che solo più tardi arrivarono a vedere come elementi interrelati, o «funzioni», all' interno di un sistema testuale totale. Gli « artifìci » comprendevano i suoni, le immagini, il ritmo, la sintassi, il metro, la rima, le tecniche narrative, insomma l'intero armamentario formale degli elementi letterarii e quello che tutti questi elementi avevano in comune era il loro effetto «straniante» o « defamiliarizzante », Ciò che era specifico del linguaggio letterario, che lo distingueva da altre forme di discorso, era che esso «deformava» il linguaggio ordinario in vari modi, Sotto la pressione degli artifici letterari, il linguaggio ordinario veniva intensificato, condensato, torto, compresso, esteso, capovolto. Era una lingua «straniata», e a causa di ciò anche il mondo quotidiano era improvvisamente reso non familiare, lnsomma , mentre nella routine dei discorsi di ogni giorno la nostra percezione della realtà e il rapporto con essa divengono esausti, ottusi, o, per dirla coi formalisti, «automatizzati», la letteratura, viceversa, forzandoci a una consapevolezza straordinaria del linguaggio, rinfresca queste reazioni abituali e rende gli oggetti più «percettibili». Dovendo affrontare il linguaggio in un modo più vigoroso e consapevole del solito, il mondo che quel linguaggio contiene è vivacemente rinnovato. La poesia di Gerard Manley Hopkins offre un esempio particolarmente vivido di ciò. Il discorso letterario strania o aliena il discorso ordinario, ma cosi facendo, paradossalmente ci consente un più pieno e più intimo possesso dell'esperienza. La maggior parte del tempo respi riamo l'aria senza esserne consapevoli, essendo essa, al pari del linguaggio, l'elemento stesso in cui ci muoviamo. Ma se l'aria improvvisamente si inspessisce o si infetta, noi dobbiamo badare al nostro respiro con una inusitata attenzione, il cui effetto può essere una accresciuta consapevolezza della nostra vita corporea. Leggiamo il messaggio scarabocchiatoci da un amico senza fare troppa attenzione alla sua struttura narrativa; ma se la storia si interrompe e ricomincia, se si sposta continuamente da un livello narrativo a un altro, se procrastina il suo momento culminante per mantenere la suspense, allora non solo diveniamo acutamente consapevoli di come essa è costruita, ma si accresce anche il nostro coinvolgimento. Una storia, come direbbero Ì formalisti, ricorre a espedienti di «ostruzione» o di «ritardo» al fine dì trattenere la nostra attenzione; e nel linguaggio letterario tali espedien- ti vengono messi a nudo. Fu ciò, che spinse Viktor Sklovskij a osservare con malizia che il ' Yrhtram Shandy di Sterne , con quella continua ostruzione che quasi impedisce del tutto il decollo della sua principale linea narrativa, è «il più tipico romanzo della letteratura mondiale». I formalisti, dunque, vedevano il linguaggio letterario come una specie di violenza linguistica, una serie di deviazioni dalla norma che fa si che la letteratura sia uno «speciale» tipo di linguaggio, contrapposto a quello «ordinario» che comunemente usiamo. Ma individuare una deviazione significa essere in grado di identificare la norma dalla quale essa si scosta. Sebbene quello di «linguaggio ordinario» sia un concetto assai amato da alcuni filosofi del gruppo di Oxford, il linguaggio ordinario dei filosofi di Oxford ha ben poco in comune col linguaggio ordinario degli scaricatori del porto di Glasgow. [1 linguaggio di cui entrambi Ì gruppi sociali si servono per scrivere lettere d'amore differisce dì solito dal modo in cui si rivolgono al parroco locale. L'idea che ci sia un singolo linguaggio «normale», una moneta corrente condivisa da tutti i membri della società, è un'illusione. Qualunque linguaggio reale è costituito da una gamma estremamente complessa di discorsi, differenziata in base a classe, religione, sesso, rango eccetera, e che non può assolutamente essere unificata in una singola, omogenea comunità linguistica. La norma per alcuni, può viceversa essere la deviazione per altri: « ginnel » invece di « alleyway » [ambedue le parole vogliono dire « vicolo», ma la prima si usa solo nel nord dell'Inghilterra] può essere poetico a Brighton ma normale a Barnsley . Il più prosaico testo del quindicesimo secolo può oggi sembrarci poetico a causa della sua arcaicità. Se dovessimo incappare in un isolato brano di scrittura di una civiltà da lungo tempo scomparsa, non saremmo in grado di dire, dalla sua semplice lettura, se si tratti o meno di poesia, dal momento che non conosciamo i discorsi «ordinari» di tale civiltà. E anche se delle indagini ci dovessero rivelare che ci troviamo di fronte a una «deviazione» dalla norma, ciò ancora non dimostrerebbe che si tratta di poesia, giacché non tutte le deviazioni (si pensi al gergo) sono poetiche. Senza essere informati sul modo in cui la scrittura realistica funzionava nella civiltà in questione, non potremmo escludere che si tratti di un brano di letteratura «realistica». Non è che i formalisti russi non si rendessero conto di ciò. Essi sapevano che la norma e la deviazione fluttuano da un contesto sociale (o storico) all'altro; che in tal senso la «poesia» dipende dal punto in cui ci si situa nel tempo. Il fatto che un linguaggio fosse «straniante», non garantiva che tale sarebbe stato sempre e dovunque, ma semplicemente che Io era contro lo sfondo dì una certa normalità linguistica, scomparsa la quale quel linguaggio avrebbe potuto cessare di essere percepito come letterario. Se tutti usassero frasi come «tu per sempre inviolata sposa del silenzio» nelle normali conversazioni da pub, tale tipo dì linguaggio cesserebbe di essere poetico. Per i formalisti, in altre parole, la « lette rarietà » era una funzione delle mutevoli relazioni tra un tipo di discorso e un altro, e non una qualità data per l'eternità. Loro obiettivo non era definire la « letteratura» ma la « letterarietà », cioè quegli speciali usi del linguaggio che possono trovarsi nel testo «letterario», ma anche in molti altri luoghi fuori di esso. Chiunque ritenga che la «letteratura» sia definita da tali usi speciali, deve accettare il latto che si trovano più metafore nella città di Man-chester che nella poesia di Marceli ; che non c'è meccanismo «letterario» - metonimia, sineddoche, litote, chiasmo, eccetera - che non sia frequentemente usato nel discorso quotidiano. Però, benché si rendessero conto di ciò, i formalisti continuarono a ritenere che lo « straniamento » fosse l'essenza del genere letterario, individuando quest' ultimo nel contrasto tra un tipo di discorso e un altro . Ma come la metteremmo se, sempre in un pub, il mio vicino di tavolo dicesse la frase: «questa scrittura è uno scarabocchio » ? Sarebbe da considerare «letteratura» o «non letteratura»? In realtà sì tratta di letteratura, dal momento che la frase si trova nel romanzo di Iiamsun Fame . Ma come faccio io a saperlo? Dopotutto, tale atto verbale non concentra in modo particolare l'attenzione su di sé. Io so che è letteratura perché so che la frase proviene dal romanzo di Hamsun Fame. Cioè che è parte di un testo che io ho letto come «finzione», che si annuncia come «romanzo», che può essere incluso in un programma di letteratura per l'università, eccetera. Insomma, il contesto mi dice che si tratta di letteratura. Ma la frase in se stessa non ha alcuna proprietà intrinseca o qualità che la distingua da altri tipi di discorso, e chiunque potrebbe benissimo pronunziarla in un pub, senza essere ammirato per la sua abilità letteraria. Considerare la letteratura nel modo in cui la consideravano i formalisti vuoi dire vedere ogni sua forma alla stregua della poesia. Non per niente i formalisti, quando gli capitò di volgere la loro attenzione alla prosa, spesso si limitarono a estendere ad essa la tecnica usata per la poesia. Ma è opinione di molti che la letteratura contenga parecchie cose escluse dalla poesia: ad esempio, una scrittura realistica o naturalistica che non è particolarmente incentrata su di sé o «esibizionistica». U lettore talora apprezza la qualità di una narrazione proprio in quanto essa non attira un'eccessiva attenzione su di sé; ne ammira la concisione e la semplicità, la sobrietà e i toni sommessi. E che dire poi delle barzellette, dei cori e degli slogan calcistici, dei tito li di giornale, degli annunci pubbiicitari , i quali sono spesso verbalmente esuberanti, ma non per questo considerati letteratura? Un altro problema che riguarda lo « straniamento » è che non c'è alcun tipo di scrittura che, con un certo grado di fantasia, non possa essere letta come straniante. Prendiamo un enunciato prosaico e privo di ambiguità come quello che si può vedere nella metropolitana di Londra: « Dogs must be carried on thè escalator » [«Portare i cani in braccio sulle scale mobili»] . Esso non è cosi pri vo di ambiguità come sembrerebbe a prima vista: vuoi forse dire che si è obbligati a portare dei cani sulle scale mobili? Che magari non è consentito usare le scale mobili se non ci si munisce di qualche randagio da tenere tra le braccia? Molti avvisi apparentemente lineari contengono ambiguità del genere. Tale è il caso dell' indica zione « Refuse to be put in this basket» [«I rifiuti devono essere messi in questo cestino», ma anche «Rifiutate di essere messi in questo cestino»], per esempio, o del cartello stradale britànnico «Way out», se letto da un californiano [nel primo caso il significato è «uscita», nel secondo «inconsueto, d'avanguardia»]. Ma, lasciando perdere tali ambiguità e tornando all'avvertimento della metropolitana di Londra, è evidente che anche esso può essere letto come letteratura. Si potrebbe rimanere colpiti dal repentino, minaccioso staccato dei suoi primi ponderosi monosillabi; essere poi sbalzati, con la rotonda allusività di « carried », nella suggestiva immagine di un cane zoppo cui si presta aiuto; cogliere addirittura, nella cadenzata cantilena della parola « escalator », un'imitazione dello srotolarsi e del continuo andare su e giù di una scala mobile. E se tali fantasie dovessero sembrare sterili, basterebbe riflettere che non sono poi molto più sterili del voler udire il rumore dei fioretti che si incrociano nella poetica descrizione di un duello: con la differenza, anzi, che l'avviso della metropolitana ci mostra come la letteratura possa essere non solo una questione di scrittura che agisce sulla gente, ma anche della gente che agisce sulla scrittura. Anche se qualcuno dovesse leggere l'avviso in tal modo, si tratterebbe pur sempre di una lettura poetica, cioè propria di un certo genere particolare di letteratura. Consideriamo invece un altro tipo di interpretazione erronea che si spinga oltre la lettura poetica. Immaginiamo, di notte, un ubriaco piegato in due sul mancorrente della scala mobile, che legge l'avviso con faticosa attenzione per qualche minuto e poi mormora a se stesso: «com'è vero!». Qual è l'errore in questo caso? È che l'ubriaco prende l'avviso per un avvertimento di .significato generale, addirittura cosmico. Applicando ad esso certe convenzioni della lettura, egli ne svincola le parole dal contesto immediato, le strappa dal loro scopo pragmatico, le conduce a generalizzazioni di più ampia e forse profonda portata. Tale procedimento sembra essere una delle operazioni tipiche di ciò che chiamiamo letteratura. Quando il poeta ci dice che la sua amata è come una rosa rossa, noi sappia mo, per il fatto stesso che egli fa tale affermazione in versi, che non ci dobbiamo chiedere se la sua amante, per una qualche bizzarra ragione, effettivamente rassomigliasse a una rosa. Egli ci sta dicendo qualche cosa sulle donne e l'amore in generale. La lette ratura, potremmo dunque affermare, è discorso «non pragmatico»: diversamente da un testo di biologia o dal biglietto lasciato al lattaio, essa non assolve ad alcuno scopo pratico immediato ma si riferisce a uno stato delle cose generale. Qualche volta, pur se non sempre, essa può impiegare un linguaggio particolare per rendere un fatto ovvio: per segnalare che si tratta di un modo di dire applicato a una donna piuttosto che di quella donna in carne e ossa. Questa attenzione sul modo di dire, piuttosto che sulla realtà di cui si parla, induce talora a concludere che la letteratura è una specie di linguaggio auloreferenziale , un linguaggio cioè che parla di se stesso. Tuttavia, anche questo modo di definire la letteratura comporta dei problemi . Tanto per dirne una , George Orwell si sarebbe probabilmente sorpreso ad apprendere che i suoi saggi dovevano essere letti come se gli argomenti fossero meno importanti del modo in cui ne parlava. In gran parte di ciò che viene etichettato come letteratura, la veridicità e la rilevanza pratica di ciò che viene detto sono considerate importanti a tutti gli effetti. Se poi SÌ decidesse che elemento importante della letteratura è il trattare la sua materia in modo «non pragmatico», ne conseguirebbe che la letteratura non può essere «oggettivamente» definita, essendo ta- le definizione rimessa al modo in cui si decide di leggerla, piuttosto che alla natura di quanto viene scritto. Ci sono alcuni tipi di scrittura - poesie, lavori teatrali, romanzi - che benché siano ovviamente concepiti come «non pragmatici», non è detto che saranno poi letti in modo non pragmatico. Posso leggere la storia dell'impero romano di Gibbon non perché sia cosi sprovveduto da credere che essa mi dia delle notizie attendibili sull'antica Roma , ma perché mi piace la prosa di Gibbon , o perché mi diletto di fronte alle immagini della corruzione umana, quale che sia il loro fondamento storico, Un botanico giapponese, viceversa, può leggere una poesia di Robert Burns per poter capire se la rosa rossa fioriva o meno nella Gran Bretagna del diciottesimo secolo. Però questo, si dirà, non è leggere una poesia «quale letteratura». Ma forse che, per leggere Orwell quale letteratura, dovrò considerare ciò che egli dice sulla guerra civile spagnola alla stregua di una generica asserzione cosmica sulla vita umana? Se è vero che molte delle opere studiate come letteratura nelle istituzioni acca-demiche furono «costruite» in modo tale da poter essere lette come letteratura, è anche vero che molte di esse non lo furono. Uno scritto può iniziare la sua vita come storia o filosofia per poi essere incasellato quale letteratura. O può cominciare come letteratura per essere poi apprezzato per il suo valore archeologico. Alcuni testi nascono letterari, altri raggiungono la letterarietà , altri ancora se la vedono imporre. L'educazione, in tal senso, può contare molto di più della nascita. Quello che conta può essere non da dove si viene, ma come gli altri ci considerano. Se gli altri decido no che noi siamo letteratura, letteratura saremo, indipendentemente da ciò che pensiamo di essere. Dunque , più che come una qualità intrinseca o una serie di qualità possedute da un certo tipo di scritti da Beowulf tino a Virginia Woolf , la letteratura deve essere vista come i vari modi in cui la gente si rapporta allo scrivere. Non sarebbe facile isolare, tra tutto ciò che è stato di volta in volta chiamato «letteratura», una serie di caratteristiche intrinseche costanti. Anzi, sarebbe impossibile quanto cercare di individuare il singolo aspetto caratterizzante che tutti Ì giochi hanno in comune. Non c'è una qualche «essenza» della letteratura. Qualunque scritto può essere letto «non pragmaticamente » (se questo è ciò che si intende per leggere un testo quale letteratura), proprio come qualunque scritto può essere letto «poeticamente». Se mi metto a studiare l'orario ferro- viario non per trovare una coincidenza ma per stimolare in me delle riflessioni sulla velocità in generale, nonché sulla complessità dell'esistenza moderna, si può agevolmente affermare che sto leggendo l'orario in quanto letteratura. John M. Ellìs sostiene che il termine «letteratura» è un po' come la parola «erbaccia»: l'erbaccia non è un particolare tipo di pianta, ma semplicemente un qualunque tipo che, per un motivo o per l'altro, il giardiniere non voglia avere tra i piedi5. Ma forse per la «letteratura» vale proprio il contrario: essa è qualunque tipo di scrittura che, per un motivo o per l'altro, sia da qualcuno altamente apprezzata. Come direbbero i filosofi, «letteratura» e «erbaccia» sono termini funzionali piuttosto che ontologici: ci parlano di quello che facciamo, non dell'essenza immutabile delle cose. Ci parlano del ruolo dì un testo, o di un cardo, in un contesto sociale, del loro rapporto e delle differenze con l'ambiente che li circonda, del modo in cui sì comportano, dei fini cui possono essere adibiti e delle pratiche umane che gli sono cresciute intorno. In questo senso la «letteratura» è una categoria vuota, puramente formale. Se noi sosteniamo che essa è un uso non pragmatico del linguaggio, non siamo arrivati ali' «essenza» della letteratura, giacché ciò è anche vero di altre pratiche linguistiche, come la barzelletta. Comunque , è tutt' altro che scontato che si possa distinguere tra modi «pratici» e «non pratici» di relazionarsi al linguaggio. La lettura di un romanzo per diletto differisce ovviamente dalla lettura di un cartello stradale a lini informativi: ma che dire della lettura di un testo di biologia per migliorare la propria cultura? È da vedere come un uso «pragmatico» della lingua o no? In molte società la lette ratura ha assolto a funzioni fortemente pratiche, quali quelle religiose. Una netta distinzione tra «pratico» e «non pratico» può essere possibile solo in una società come la nostra, dove la letteratura ha cessato di avere una vera funzione pratica. Potremmo illuderci di star proponendo una definizione generale del concetto di « letteratura», mentre invece essa è un nostro significato storicamente determinato. Non abbiamo, però, ancora scoperto il segreto del perché Lamb , Macaulay e Mill sono generalmente considerati letteratura, mentre invece Bentham , Marx e Darwin non lo sono . La semplice risposta potrebbe essere che mentre i primi tre sono esempi di scrittura «artistica», cosi non è per gli altri. Tale risposta ha lo svantaggio di essere, almeno a mio giudizio, molto fallace; e il van- taggio di mettere in chiaro che, in generale, la gente considera «letteratura» la scrittura che ritiene artistica (definizione alla quale può subito essere latta l'ovvia obiezione che, se cosi fosse, non ci sarebbe una cosa come la «cattiva letteratura», ovvero «non artistica»). Io posso ritenere Lamb e Macaulay sopravvalutati, ma questo non significa necessariamente che smetterò di considerarli letteratura. Si può giudicare Raymond Chandler «buono nel suo genere», ma non propriamente letteratura. D'altra parte, se Macaulay fosse veramente un cattivo scrittore - se non avesse alcuna padronanza della grammatica e sembrasse interessato esclusiva mente ai topi bianchi - allora la sua potrebbe non essere considerata affatto letteratura, né buona né cattiva. Credo che i giudizi di valore abbiano molto a che lare col fatto che una cosa sia considerata letteratura o meno. Dunque, per venir considerata letteratura, non è necessario che una scrittura sia «artistica», ma semplicemente che sia del tipo che viene considerato artistico, anche se poi è un esempio deteriore di un paradigma ritenuto valido dalla generalità. Nessuno si prenderebbe la pena di osservare che un biglietto dell'autobus è un esempio di letteratura scadente, ma qualcuno potrebbe farlo per la poesia di Ernest Dowson6. L'espressione «scrittura artistica», o belles lettres , è dunque ambigua, designando uno stile che è dalla generalità altamente considerato, ma non comportando necessariamente che anche tu debba ritenere tale stile «artistico ». Con tale riserva, la definizione di «letteratura» quale tipo di scrittura altamente considerata dai più è accettabile. Ciò comporta però la conseguenza devastante di dover, una volta per tutte , abbandonare l'illusione che la categoria «letteratura» sia «oggetti-va», cioè data immutabilmente e in eterno. Qualunque cosa può essere letteratura; come qualunque cosa ritenuta indubitabilmente e invariabilmente letteratura - Shakespeare , ad esempio - può cessare dì essere letteratura . La convinzione che lo studio della lette ratura sia qualcosa di stabile e ben definito, né più né meno di come l'entomologia è lo studio degli insetti, può essere abbandonata come una chimera. Certe specie di invenzione sono letteratura e certi no; alcuni tipi di letteratura sono invenzione e altri no; un certo tipo di letteratura è autoreterenziale , mentre un altro tipo di complicata retorica non è letteratura. La letteratura, nel senso di una serie di opere di valore certo e inalterabile, contraddistinte da caratteristiche condivise e intrinseche, non esiste. Dunque , da que- sto punto in poi, quando userò nel presente libro le parole «letterario» e «letteratura», vi porrò sopra una invisibile cancellatura, per ricordare al lettore che tali termini, pur se devono essere usati in mancanza di meglio, sono assolutamente difettosi. Il motivo per cui una delinizione della letteratura come scrittura altamente considerata dai più implica anche la sua instabilità è che ì giudizi di valore sono notoriamente instabili. « 1 tempi cambiano, i valori no», dichiara la pubblicità di un quotidiano, quasi che noi ancora credessimo nell'opportunità di uccidere i neonati cagionevoli o di esibire Ì malati mentali in spettacoli pubblici. Se coloro che leggono possono considerare un'opera come filosofia in un secolo e come letteratura nel successivo (o viceversa), perché non potrebbero mutare opinione su quali scritti debbano essere ritenuti importanti e belli e quali no? Potrebbero addirittura cambiare i metri di giudizio atti a decretare ciò, II che, come ho già detto, non significherebbe necessariamente che essi rifiuterebbero lo status di letteratura a un'opera che sono ormai arrivati a considerare inferiore: probabilmente la definirebbero ancora letteratura, intendendo che essa appartiene al tipo di scrittura di cui hanno in generale considerazione. Ne deriverebbe però che il cosiddetto «canone letterario», l'indiscussa « grande tradizione» della «letteratura nazionale» dovrebbe essere riconosciuta per quello che è: un modello culturale foggiato da certi individui, per certe ragioni, in un certo momento. Non esistono un'opera letteraria o una tradizione che abbiano valore in se stesse, indipendentemente da ciò che è stato detto o che sarà detto su di esse, «Valore» è un termine-transitivo; esso Ìndica ciò che viene apprezzato da certi individui in una situazione specifica, secondo dei criteri particolari, alla luce di determinati intenti. Cosi è perfettamente possibile che, data una trasformazione sufficientemente profonda della nostra storia, si possa produrre nel futuro una società incapace di trarre alcun significato da Shakespeare . Le sue opere potrebbero apparire, in tal caso, assolutamente estranee, piene di forme di pensieri e sentimenti che a una tale cultura sembrerebbero limitate e irrilevanti. In una simile situazione, Shakespeare non avrebbe più valore di molti dei graffiti di oggi. E sebbene molti riterrebbero una tale condizione culturale tragicamente impoverita, a me sembra invece dogmatico non contemplare la possibilità che essa potrebbe invece nascere da un arricchimento dell'umanità. Karl Marx si arrovellava sul mistero dì un'arte greca che continuava a esercitare un «fascino eterno» nonostante che le condizioni che la avevano prodotta fossero da gran tempo passate: ma come facciamo noi a sa pere che tale arte rimarrà «eternamente» affascinante se la storia non è ancora finita? Proviamo a supporre di scoprire, grazie a una qualche prodigiosa nuova indagine archeologica, che la tragedia greca metteva in scena una serie di insospettate questioni e problemi estremamente significativi per i suoi originali spettatori ma assolutamente estranei e insignificanti per noi; e di cominciare dunque a rileggere quelle tragedie alla luce di questa nuova e più profonda conoscenza. Un risultato potrebbe essere quello di non trovarle più belle. Di scoprire che, se prima ci parevano belle, era perché inconsciamente le leggevamo sulla falsariga delle nostre preoccupazioni . Una volta che ciò fosse reso meno possibile, quei drammi potrebbero cessare di parlarci in modo significativo. Una delle spiegazioni del perché le opere letterarie sembrano conservare il loro valore attraverso i secoli potrebbe essere che, in una qualche misura, le interpretiamo sempre alla luce dei nostri problemi e interessi, arrivando addirittura al punto di essere incapaci dì fare altrimenti. Ciò può dipendere, naturalmente, dal fatto che ancora condividiamo molte delle tematiche dell'opera. Ma anche dal fatto, invece, che in realtà non abbiamo giudicato la «stessa» opera, pur se ne siamo stati convinti. Il «nostro» Omero non è identico all'Omero del Medioevo, né il «nostro» Shakespeare a quello dei suoi contemporanei. I vari periodi storici si sono costruiti Omero o Shakespeare «diversi» a seconda delle proprie esigenze particolari, trovando di volta in volta, nei testi, elementi da valutare o svalutare, non necessariamente coincidenti. Tutte le opere letterarie, in altre parole, vengono «riscritte», anche se inconsciamente, dalle società che le leggono: addirittura non c'è lettura di un'opera che non sia anche « ri-scrittura ». Nessun libro, e nessun giudizio su di esso , possono essere estesi a nuovi gruppi di persone senza essere trasformati nel processo, forse addirittura al punto di essere irriconoscibili. Questa è una delle ragioni che rendono la valutazione di ciò che conta in letteratura una faccenda notoriamente instabile. Non voglio dire che la valutazione sia instabile perché i giudizi di valore sono «soggettivi». Secondo questo modo di vedere, il mondo si dividerebbe tra i fatti, che «se ne stanno li», inoppugnabili e concreti come la Grand Central Station, e gli arbitrari giudizi di valore «dentro l' indivìduo », quali il trovare buone le banane , o il sentire che il tono di una poesia di Yeats oscilla tra una certa tracotanza difensiva e una rassegnazione cupamente possibilistica . I fatti sarebbero pubblici e irrefutabili, i valori privati e gratuiti. Per cui ci sarebbe un'ovvia differenza tra riferire che «questa cattedrale fu costruita nel 1612» ed esprimere un giudizio di valore come «questa cattedrale è uno splendido esempio di architettura barocca». Ma, supponiamo che io faccia la prima asserzione a un'amica d'oltreoceano in visita in Inghilterra, e che noti come la cosa la lasci parecchio perplessa. Per quale motivo, potrebbe chiedersi, continui a dirmi le date della costruzione di tutti questi edifici? Perché questa ossessione per le origini? Nella società in cui vivo, non teniamo conto di tali eventi: classifichiamo piuttosto i nostri edifici in base al fatto che siano rivolti a nord-ovest o a sud-est. Quello che voglio dimostrare è come ci sia un sistema inconscio di giudizi di valore anche al di sotto di una descrizione. Tali giudizi di valore non sono necessariamente dello stesso tipo di quello contenuto nella frase «questa cattedrale è uno splendido esempio di architettura barocca», ma restano ugualmente giudizi di valore, e nessuna asserzione «di fatto» può ad essi sottrarsi. Le asserzioni «di fatto» sono, comunque , asserzioni, dunque accompagnate da un certo numero di giudizi discutibili: tanto per cominciare, da quello che tali asserzioni siano degne dì essere fatte, anzi, più degne dì certe altre; o che io sia il tipo di persona che ha titolo a farle, e capace di garantirne la verità; o che la persona che ho di fronte sia degna di riceverle; o che, facendole, sì compia qualcosa di utile; eccetera. La conversazione in un pub può certamente trasmettere un'informazione, ma anche, in misura notevole , assolvere a quel tipo di funzione che i linguisti chiamano «fatica»; che si concentra cioè sull'atto stesso della comunicazione. Chiacchierando del tempo, segnalo al mio interlocutore che considero apprezzabile intrattenermi con lui, che lo ritengo una persona cui valga la pena di parlare, che io stesso non sono un antisociale, che non ho alcuna intenzione di attaccarlo criticando il suo aspetto fisico. In questo senso, non esiste un'asserzione completamente disinteressata. Naturalmente, precisare quando è stata costruita una cattedrale viene reputato dalla nostra cultura più disinteressato che esprimere un'opinione sulla sua architettura. Ma ciò non toglie che si possano dare situazioni in cui la prima asserzione risul- ti più «carica di valori» della seconda. Mentre «barocco» e «splendido» sono infatti divenuti quasi sinonimi, viceversa solo un'ostinata minoranza superstite si aggrappa ancora all'idea che l'anno di costruzione di un edificio sia importante: dunque, il mio dichiarare la data di costruzione può essere recepito come un parti-giano modo in codice di segnalare tale importanza. Tutte le nostre asserzioni descrittive si muovono in realtà all'interno di una rete spesso invisibile di categorie di valori: al punto che, se la eliminassimo, non avremmo nulla da dirci Putì l'altro. Non è solamente che noi abbiamo una cosiddetta «conoscenza basata sui fatti» che può essere distorta da particolari interessi e giudizi (anche se ciò è sicuramente possibile); è piuttosto che, senza certi particolari interessi, non avremmo alcuna conoscenza, non ve dremmo lo scopo di darci da fare per conoscere. GH interessi so no parte essenziale della nostra conoscenza, non meri pregiudizi che la mettono in pericolo. La pretesa che la conoscenza debba essere «libera da giudizi» è essa stessa un giudizio di valore. Il fatto che mi piacciano le banane può darsi benissimo che sia una questione personale, ma ciò non toglie che la cosa in generale possa essere discutibile. Un'analisi approfondita dei miei gusti in materia di cibo rivelerebbe probabilmente quanto le banane siano connesse a certe esperienze formative della mia prima infanzia, ai rapporti coi miei genitori e i miei fratelli e sorelle, e a molti altri fattori culturali che sono non meno sociali (e, dunque, non personali) delle stazioni ferroviarie. Ciò vale a maggior ragio ne per quella fondamentale struttura di idee e interessi che si sono radicati in me con la mia appartenenza a una particolare società, quali la convinzione che debba cercare di mantenermi in buona salute, che i diversi ruoli sessuali siano connaturati alla biologia umana, o che gli esseri umani siano più importanti dei coccodrilli. Possiamo dissentire su questo o quel punto, ma solo in quanto condividiamo certi modi «profondi» di vedere e di valutare, che sono intessuti nella nostra vita sociale, e che non potrebbero essere mutati senza trasformarla. Nessuno mi penalizzerà eccessivamente se non amerò una particolare poesia di Donne, ma se sosterrò che Donne non è letteratura, in certe circostanze po trò rischiare di perdere il mio lavoro. Sarò libero dì votare laburista o conservatore, ma se agirò ìn base alla convinzione che tale scelta mascheri un pregiudizio sotterraneo - il pregiudizio che il significato della democrazia sia confinato al mettere una croce su una scheda elettorale ogni tanti anni - in certe particolari circostanze potrò anche finire in prigione, La rete di valori, per Io più occulti, che informa e sottende le nostre asserzioni «di fatto» è parte di ciò che viene detto «ideologia». Per «ideologia» intendo, più o meno, i modi tramite i quali quello che diciamo e crediamo è collegato alla struttura e ai rapporti di potere della società nella quale vìviamo . Da una tale definizione di ideologia consegue che non tutti Ì nostri giudizi e le categorie fondamentali possono essere definiti ideologici. E profondamente radicato in noi immaginarci proiettati in avanti nel futuro (almeno un'altra società si vede invece proiettata in esso a ritroso), ma sebbene questo modo di vedere possa essere significativamente connesso alla struttura dì potere della nostra società, non è detto che debba sempre e ovunque essere così. Per «ideologia» non intendo solo le idee profondamente radicate nella gente, spesso in modo inconscio. Intendo piuttosto quei modi di sentire, di valutare, di percepire e credere che sono in qualche modo collegati col mantenimento e la riproduzione del potere sociale. Che tali idee non siano affatto dei semplici accidenti individuali può essere dimostrato dal seguente esempio letterario. Nel suo famoso studio Vractìcal Criticism (1929), il critico di Cambridge LA. Richards cercò di dimostrare fino a che punto i giudizi di valore letterari fossero capricciosi e soggettivi, chiedendo ai suoi studenti di valutare una serie di poesie dalle quali erano stati cancellati i nomi degli autori e Ì titoli. 1 risultati furono assai sorprendenti, con poeti celebrati che furono declassati, e oscuri autori che vennero celebrati. A mio parere, però, l'aspetto più interessante dell'esperimento, e quel che sembra assolutamente non colto da Richards stesso, fu il totale consenso di valutazìo-nì inconsce che sottendeva le sìngole divergenze di opinione. Leggendo i resoconti degli studenti, si rimane colpiti, cioè , dalle abitudini di percezione e interpretazione che essi spontaneamente condividevano: che cosa ritenevano che fosse letteratura, il bagaglio di preconcetti che si portavano dietro al momento della lettura, quali gratificazioni si aspettavano che ne avrebbero ricavato. Nulla di ciò deve sorprendere, giacché tutti coloro che furono coinvolti in tale esperimento erano - è ragionevole supporre -giovani, bianchì, della borghesìa alta o medio-alta , educati privatamente in una scuola inglese degli anni venti: insomma, il modo in cui avrebbero reagito a una poesia dipendeva da ben altro che dei semplici fattori «letterari». Le loro reazioni critiche erano indissolubilmente intrecciate con i loro pregiudizi e le loro idee generali- Dicendo ciò non vogliamo biasimarli, ma semplicemente dimostrare come non ci sia reazione critica che non sia cosi intrecciata, come non esista un'interpretazione o un giudizio letterario che siano «puri». Se c'è qualcuno da biasimare, questi è LA. Richards stesso, il quale, in quanto professore di Cambridge uomo, bianco e della alta borghesia, fu incapace di oggettivare un contesto di interessi che lui stesso largamente condivideva, e dunque di riconoscere appieno che le singole differenze «soggettive» di valutazione agiscono all'interno di un particolare modo socialmente strutturato di percepire il mondo. Se non è corretto vedere la letteratura come una « oggettìva » categoria descrittiva, non lo è neppure dire che essa è semplicemente ciò che la gente capricciosamente sceglie di chiamare letteratura. Non c'è proprio nulla di capriccioso in tali giudizi di valore, avendo essi le loro radici in strutture ideologiche profonde all' apparenza più incrollabili dell'Empire State Building. Quello che abbiamo scoperto a questo punto, non è semplicemente che la letteratura non esiste nel senso in cui non esistono gli insetti, e che i giudizi di valore da cui è costituita sono storicamente variabili, ma, soprattutto, che ì giudizi di valore stessi hanno una stretta relazione con le ideologie sociali. Si riferiscono, insomma, non solo al gusto personale, ma alle idee guida in base alle quali certi gruppi sociali esercitano e mantengono il potere sugli altri. Se questa sembra un'asserzione eccessiva, ingombra di pregiudizio personale, possiamo verificarla esaminando la nascita della «lette ratura» in Inghilterra. |