Riformiamo il PIL

 

Il Pil (prodotto interno lordo) come misuratore della ricchezza e del benessere umano? No. Quelle del Pil sono cifre parziali e anche fuorvianti. A Porto Alegre viene presentata anche la proposta di rivedere i criteri di determinazione dell'indicatore.

«Il Pil è un indicatore troppo parziale - spiega Enrico Brambilla della Rete Lilliput - che si limita a dati economici e monetari. Per esempio non mette in evidenza affatto lavori non monetizzati come quello dei milioni di casalinghe di questo pianeta».

Secondo i sostenitori italiani della riforma del Pil, va tenuto conto del «dashboard of sustainability» e del concetto di «impronta ecologica». In altre parole, la legge finanziaria va preparata tenendo in considerazione parametri come il potenziale danno all’ambiente, all’impiego, all’educazione eccetera.

Brambilla afferma che, se si considerano tutti i parametri, cadrebbe all’istante il credo della crescita illimitata propagandato dalla globalizzazione selvaggia. «L’impronta ecologica - afferma - è un altro nuovo indicatore già al vaglio dell’Onu. E’ in grado di misurare scientificamente la quantità di natura espressa in ettari che occorre per sostenere i consumi del cittadino di un tale paese. Un italiano medio per vivere ha bisogno per esempio di almeno 4 ettari di natura produttiva. Se volessimo che tutti gli abitanti del mondo arrivassero al livello italiano ci vorrebbero tre pianeti. Bisogna quindi imboccare la strada della riduzione drastica nel consumo di materia ed energia».

 


Gli anni venti sono stati, nell’Unione sovietica, un periodo di grandi fermenti e speranze; il governo bolscevico instaurato da Lenin doveva ricostruire un paese devastato dalla guerra e della crisi economica, con industria e agricoltura arretrate, con una popolazione dilaniata da divisioni e odi interni. Non sarebbe stato possibile risollevare l’industria del grande paese, ricco di risorse naturali, non sarebbe stato possibile riportare gli alimenti e le merci nei negozi, senza una pianificazione capace di indicare le priorità produttive: elettricità, carbone, concimi, acciaio, grano, eccetera. E la pianificazione richiedeva la conoscenza di un quadro completo delle produzioni e dei loro rapporti: quanti concimi e trattori occorrono per aumentare la produzione di grano; quanto carbone per aumentare la produzione di acciaio; quanto acciaio per produrre i trattori ?

   Per dare una risposta a tali domande Lenin nel 1921 creò il Gosplan, lo speciale ufficio per la pianificazione, in cui raccolse i migliori ingegni economici, matematici, tecnico-scientifici del paese, per costruire il primo bilancio economico dell’URSS. In questa atmosfera lavorò un giovanotto, Vassily Leontief, che nel 1925, ad appena 19 anni, scrisse il primo dei numerosi articoli che lo avrebbero portato al premio Nobel per l’economia. Leontief  si trasferì successivamente negli Stati uniti dove fu assunto, negli anni trenta, dall’ufficio di ricerche economiche col compito di redigere, per l’America, un bilancio delle interrelazioni tecniche ed economiche simile a quello a cui aveva lavorato nell’Urss.

   Visto in prospettiva si trattava di un lavoro gigantesco; occorreva avere attendibili informazioni statistiche, comprendere come ciascun settore economico “vende” merci a tutti gli altri settori e rifornisce, con le proprie tasse, le tasche dello stato; come le famiglie “vendono” il proprio lavoro ai vari settori economici e col ricavato acquistano i beni e i servizi necessari.

   Una grande circolazione di denaro e di beni materiali che può essere “scritta” in una grande “tabella” di interdipendenze settoriali o, come si dice, di rapporti input-output. Ciascun settore produttivo e di consumi finali e di servizi ha una entrata (input), proveniente da tutti gli altri settori e a tutti gli altri settori cede qualcosa (output): materie prime, energia, metalli, grano, automobili, concimi, tessuti, carne, lavoro, servizi di trasporti, eccetera.

   E questa gran massa di dati doveva essere rappresentata in una forma matematica adatta a rispondere alla domanda: per far aumentare del 10 percento la produzione di acciaio, di quanto deve aumentare la produzione di minerali, la richiesta di mano d’opera, di quanto aumenteranno i consumi delle famiglie ?

   L’idea originale del Gosplan fu di scrivere una contabilità nazionale in unità fisiche; tale idea discendeva dalla trattazione marxiana della “circolazione” e della “riproduzione” dei beni, fu teorizzata da Bucharin e Preobrazenski, nel celebre “ABC del comunismo”, del 1922, e suscitò un vivace dibattito anche teorico e politico. Molte testimonianze sono contenute nel libro (ormai raro) curato da Nicolas Spulber, “La strategia sovietica per lo sviluppo economico, 1924-1930. La discussione degli anni venti nell’Urss”, pubblicato nel 1954 e tradotto in Italia da Einaudi nel 1970.

   Apparve però subito che una contabilità fisica comportava la necessità di confrontare e sommare “cose” estremamente eterogenee, ferro con patate, macchine con legname, carbone con zucchero, eccetera. Infine si andava incontro a problemi di duplicazioni contabili: lo stesso chilo di ferro va contato quando il minerale viene venduto alle acciaierie, quando le acciaierie vendono acciaio alle fabbriche dei trattori, quando l’industria meccanica vende i trattori al settore dell’agricoltura, eccetera: il chilo di ferro è sempre lo stesso ma viene contato quattro (e magari molte altre) volte.

   Ben presto l’ambizioso progetto --- pur concettualmente corretto --- fu abbandonato e le prime tavole intersettoriali dell’economia sovietica furono scritte in unità monetarie; quanti rubli ciascun settore economico cedeva a, o riceveva da, tutti gli altri. Il bilancio dell’economia sovietica per il 1923-24, elaborato da P.I. Popov, era rappresentato con una “matrice” intersettoriale, o input-output nella forma che sta alla base, ancora oggi, dei bilanci economici nazionali in tutto il mondo.

   Anzi, proprio sulla base delle tavole intersettoriali redatte in ciascun paese viene elaborato, con opportuni artifizi contabili, il “prodotto interno lordo”, quel PIL di cui i governanti seguono con ansia l’aumento o la diminuzione. Bisogna anche qui evitare duplicazioni contabili --- gli stessi mille euro sono pagati dall’industria saccarifera al coltivatore di barbabietola, dal negoziante all’industria saccarifera, e dalle famiglie al negoziante quando comprano lo zucchero, e sono gli stessi mille euro che i componenti delle famiglie ricevono in cambio del loro lavoro dalle fabbriche o dagli uffici, eccetera. Il PIL annuo, perciò, come è ben noto è dato dalla somma della  quantità di denaro che arriva ai settori dei “consumi” finali delle famiglie e dei servizi, più la quantità di denaro che viene investita per macchinari, edifici, eccetera, a vita media e lunga, più il costo delle merci e dei servizi esportati, meno il prezzo delle merci e dei servizi importati.

   A partire dagli anni sessanta, con la “scoperta dell’ecologia”, vari studiosi hanno cominciato a spiegare che il PIL era un ben povero indicatore dello stato di salute di una economia. Tutti i “processi” di produzione e di consumo, descritti come scambi monetari, anche quelli apparentemente immateriali, sono accompagnati non solo dal movimento di migliaia o milioni di tonnellate di minerali, fonti energetiche, prodotti agricoli e forestali, metalli, merci, eccetera, per cui si paga un prezzo, ma anche dal movimento di una quantità, molte volte maggiore, di molti altri beni materiali tratti dalla natura. Dalla natura “si acquista” senza pagare niente, l’ossigeno indispensabile per la respirazione animale e per le combustioni industriali, o i sali del terreno necessari per la crescita delle piante; inoltre, nei vari processi vengono generate molte altre cose, come l’anidride carbonica e gli altri gas che finiscono nell’atmosfera, o le sostanze liquide e solide che finiscono nelle acque o sul suolo alterando i caratteri e la futura utilizzabilità di questi corpi naturali, spesso senza che venga pagato alcun risarcimento a nessuno.

   E’ così apparso chiaro che il carattere fondamentale dell’economia è la “produzione di merci a mezzo di natura”, e non solo a mezzo di soldi o di altre merci, ed è apparso il ruolo fondamentale della analisi della “storia naturale delle merci”.

   Ci si è allora accorti che per qualsiasi politica ambientale --- l’applicazione di strumenti come imposte sui rifiuti (la carbon tax è un esempio), o di divieti alle emissioni, o di incentivi per tecnologie pulite --- è indispensabile sapere da dove ciascun agente inquinante viene e dove va a finire. Ciò possibile soltanto integrando le contabilità nazionali in unità monetarie, con una contabilità in unità fisiche che indichi non solo le tonnellate di materia o i chilowattore di energia che passano da un settore economico all’altro, dall’agricoltura, all’industria, ai consumi finali, ma anche i flussi di materiali tratti dalla natura senza pagare niente e utilizzati nei processi di produzione e di consumo, e i flussi di materiali che, provenienti da tali processi economici, finiscono come scorie o rifiuti nei corpi riceventi naturali.

   La redazione di tavole intersettoriali (sovrapponibili a quelle redatte in unità monetarie) in cui i flussi da un settore all’altro siano indicati in unità fisiche, di peso e di energia, comporta, ingigantiti, i problemi di evitare la duplicazione degli scambi e quelli ancora più grandi di sommare e moltiplicare cose tanto eterogenee, come acciaio e conserva di pomodoro, automobili e carta, latte e vetro, eccetera.

   Comunque dei passi cominciano ad essere fatti: tavole intersettoriali in unità fisiche sono stati redatti per la Germania e per la Danimarca. Una tavola input-output per l’Italia è stata presentata nell’Università di Bari.

   E’ stato così possibile vedere che il  PIL annuo italiano è accompagnato dal movimento di circa 4.000 milioni di tonnellate all’anno di materiali: grano e benzina, zucchero e acciaio, carta e plastica; e inoltre “beni” tratti dalla natura senza pagare niente (l’ossigeno dell’aria, i sali del terreno, esclusa l’acqua che viene usata in ragione di circa 50.000 milioni di tonnellate all’anno, ed esclusa quella parte dell’aria che non entra nei processi di fotosintesi, respirazione, combustione, produzione) --- e si formano scorie e rifiuti gassosi (come l’anidride carbonica o gli ossidi di azoto e zolfo), liquidi e solidi che finiscono nell’ambiente naturale.

   Una grande circolazione natura-merci-natura dal regno della natura, ai vari settori dell’agricoltura, della zootecnia, dell’industria, fino ai consumi delle famiglie, tornando più o meno rapidamente, come scorie e rifiuti, nell’aria, nelle acque, sul suolo. 

   Depurando la massa totale dei materiali che attraversano l’economia italiana, quello che in un certo senso è il “costo fisico totale” dell’economia del paese, dalle numerose duplicazioni contabili, è possibile misurare un “prodotto interno materiale lordo”, calcolato con accorgimenti simili a quelli cui viene calcolato il PIL in unità monetarie.

   Il prodotto interno materiale lordo, cioè la massa di materiali che alimenta i consumi finali e i servizi, e che viene immobilizzata in beni a vita lunga, tenuto conto delle importazioni ed esportazioni, ammonta per l’Italia, nel 1995, a poco più di 500 milioni di tonnellate all’anno, poco più di 280 tonnellate per miliardo di lire (1995) di PIL, cioè circa 9 tonnellate per persona all’anno. Questo significa che ogni persona in Italia, per mangiare, abitare, muoversi, lavorare, guardare la televisione o andare a spasso, richiede ogni anno 9000 chili di materiali (acqua ed aria escluse), quasi duecento volte il proprio peso, provenienti dall’aria, dalle cave, dalle attività agricole e industriali e dalle importazioni, poi restituiti come gas, liquidi o rifiuti solidi nell’ambiente naturale.

   Purtroppo i precedenti dati sul “prodotto interno materiale lordo” sono basati largamente su stime perché mancano dati statistici attendibili. 

   Ci sono carenze e silenzi nelle statistiche delle produzioni, delle importazioni ed esportazioni delle merci in unità fisiche. La legge istitutiva dell’Istituto Nazionale di Statistica prevede che molti dati statistici, relativi a produzioni industriali che pure ammontano a milioni di tonnellate all’anno, debbano essere tenuti segreti per ragioni di riservatezza industriale. Ugualmente restano segreti molti dati del commercio estero che pure coinvolgono rilevanti masse di materiali.

   Ci sono carenze nelle informazioni sul flusso di materiali, anche “economici”, estratti dalla natura; solo per fare un esempio, non si conosce la massa dei materiali estratti nelle attività di cava (sabbia, ghiaia, calcari, pietre, eccetera) il cui rilevamento è compito delle regioni da quando ad esse sono state trasferite le “competenze” dei vecchi servizi minerari centrali dello stato. Nei volumi delle “Relazioni sullo stato dell’ambiente” ci sono tabelle con desolanti vuoti su queste informazioni: eppure si tratta di una massa di materiali che supera i trecento milioni di tonnellate all’anno.

   Ci sono carenze nella misura dei flussi di scorie, residui, agenti inquinanti dai processi di produzione e di consumo verso i corpi riceventi ambientali. La prima legge sui rifiuti solidi, che imponeva anche l’obbligo di rilevamenti statistici di questa ingente massa di materiali, è stata emanata nel 1985, ma le relazioni sullo stato dell’ambiente apparse fino ad ora contengono soltanto “stime” sulla produzione dei rifiuti solidi in Italia, con valori che oscillano fra 60 e 100 milioni di tonnellate all’anno.

  Una soluzione potrebbe essere offerta dalla ricostruzione dei flussi di materiali che attraversano singoli processi produttivi: il ciclo della produzione dei metalli., della raffinazione del petrolio, della costruzione di strade ed edifici, della produzione agricola e zootecnica e dei relativi cicli produttivi agroindustriali. Ma qui la situazione è ancora peggiore. La carenza di dati derivano da “riservatezze” aziendali, che spesso nascondono la vera e propria non-conoscenza di quello che attraversa i loro stabilimenti, del loro “metabolismo industriale”. 

   La cultura dell’analisi dei flussi fisici nei processi produttivi manca nelle Università; l’unica disciplina che se ne occupava, la merceologia, è stata espulsa in quasi tutte le Facoltà economiche. Altrettanto gravi sono i silenzi della pubblica amministrazione a cui per legge molti dati aziendali, anche se più o meno attendibili, dovrebbero essere avviati. A tutto questo si aggiungano i mutamenti delle classificazioni delle attività economiche, conseguenti ad accordi europei e internazionali, per cui si può ben dire che negli ultimi venti anni i dati sui flussi fisici nell’economia sono ben poco confrontabili da un anno all’altro.

   Ma vale poi la pena di fare tanta fatica ?  Altro che ! Soltanto una contabilità nazionale in unità fisiche consente di conoscere quanta materia deve essere movimentata per ottenere una unità di valore monetario; oppure da quale branca di attività economica proviene una certa quantità di rifiuti. Se una legge impone di diminuire le emissioni di un certo agente inquinante (è il caso della normativa sui rifiuti o sulle emissioni dei “gas serra”) quali settori economici saranno influenzati? di quanto diminuirebbe la produzione di plastica, o di automobili, o di acciaio ? di quanto diminuirebbe (o aumenterebbe) l’occupazione ?

   Solo un confronto, settore per settore, della contabilità nazionale monetaria con quella materiale permette di capire, per esempio, di quanto l’imposta sulle emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera farà aumentare il costo dei manufatti dei vari settori economici che usano combustibili fossili, e del cemento e delle costruzioni, e quanto peserà sui bilanci  familiari --- e, d’altra parte, di quanto farà (potrebbe fare) aumentare l’occupazione per l’invenzione e la costruzione di nuovi macchinari e processi che producono meno anidride carbonica ?

   Se venisse incentivato il riciclo della carta usata, di quanto diminuirebbero le importazioni di pasta da carta e la richiesta di acqua e energia, e di quanto aumenterebbero il fatturato dei processi di raccolta differenziata e di riciclo, e la relativa occupazione ? Se aumentano le importazioni di materie prime probabilmente aumenta l’occupazione nelle industrie di trasformazione, ma può peggiorare, in seguito alla produzione di una maggiore quantità di scorie, la qualità dell’aria o delle acque: è come se, col minerale di ferro o di alluminio, importassimo anche rifiuti inquinanti in cambio di lavoro.

   Una accurata contabilità fisica può svelare se certe azioni, propagandate come “ecologiche”, si traducono invece in un peggioramento delle condizioni ambientali o in un aumento dei rifiuti: per esempio la politica di rottamazione degli autoveicoli, degli elettrodomestici e dei macchinari fa forse diminuire l’inquinamento dell’aria e fa aumentare l’occupazione dell’industria meccanica, ma di quanto fa aumentare la massa dei rottami metallici da smaltire e il relativo effetto inquinante.

   Perché allora tante lentezze nei rilevamenti e nella diffusione delle informazioni sulle uniche cose che contano, le materie e le merci che attraversano l’economia e la vita di ogni cittadino e delle imprese? come se ci fosse un deliberato disegno di evitare e nascondere tali informazioni,  lasciando tutto alla misura di quelle fumose grandezze che sono i numeri dei soldi.

  La ricerca presentata a Bari ha indicato che, nel caso migliore, i dati sui flussi materiali nell’economia italiana sono afflitti da una incertezza del dieci per cento. Poiché anche la contabilità monetaria e i flussi finanziari dipendono dai flussi fisici e dai loro mutamenti nel tempo, c’è seriamente da chiedersi quale credibilità abbiano i numeri sulla base dei quali vengono fatte le scelte di politica economica o viene misurato il PIL in unità di denaro, se “mancano” all’appello decine di milioni di tonnellate di sabbia e ghiaia che nessuno misura, se dalle statistiche “spariscono” 40 milioni di tonnellate all’anno di rifiuti solidi, se sono coperti dal segreto industriale o militare i movimenti di milioni di tonnellate di merci prodotte, importate ed esportate ?

Giorgio Nebbia, professore emerito di merceologia all'Università di Bari, pone la questione di un modo diverso di misurare il prodotto di un paese, per avere una fotografia più vicina alla realtà di come stanno le cose nel rapporto fra tipologia delle produzioni e riflessi sulla società e sull'economia.

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di Andrea Mario

Non passa giorno non passa giornale senza una notizia sul Pil. Oggi riguardo a quello di ieri, ieri in riferimento a quello di domani, ai media piace diffondere tra il grande pubblico i numeri che le varie agenzie e/o istituti contabili riversano quotidianamente sulla ricchezza prodotta o sulla ricchezza da produrre. Sono così ossessivi i riferimenti che ormai non ci facciamo più caso, o meglio coscientemente crediamo di non darci peso, ma inconsciamente siamo stati ormai convinti dell’importanza del Pil come reale fotografia del benessere. Ma cosa si nasconde dietro questo fantomatico numeretto, spesso espresso in innocua forma percentuale? Due cose, fra tutte: un pressappochismo mascherato dietro l’oggettività del dio numero e la visione, tipicamente capitalista, dello sviluppo come crescita economica.

Pressappochismo si diceva; e come definire altrimenti l’elaborazione del dato sulla ricchezza nazionale con un metodo che somma solo merci e servizi scambiati regolarmente nel mercato? Pensate ad una giornata tipo e provate a fare il conto di quanto incide la cosiddetta economia informale, non contabilizzata nel Pil. Per fare un esempio se la colazione la fate al bar viene contabilizzata se invece la fate a casa, magari con la marmellata del vostro albero di prugne, il miele raccolto dal vicino di casa e la torta di mele della mamma, no; o chi vi tiene i bambini se andate al cinema? Se avete una baby sitter cui pagate regolari contributi, il tutto entra nel Pil, se invece viene una zia o la suocera è come se non fosse successo niente. Aggiungete ancora il lavoro nero, l’economia illegale, le esternalità – tutti dati che esulano dal Pil - e ben si capisce come il quadro finale di ritorno rispecchi solo in minima parte la realtà.

E c’è di più. Il Prodotto interno così calcolato non restituisce, come si è tentati di credere, il patrimonio a disposizione di una comunità, ma solo il suo temporaneo consumo di ricchezza. Dire che il Pil è cresciuto del 3% rispetto all’anno precedente, in buona sostanza, vuol dire soltanto che abbiamo speso il 3% in più, non che siamo più ricchi. L’esempio classico, per solito qui citato, è quello dello sfruttamento intensivo di una foresta: se oggi decido di tagliare tutto un  bosco e di venderne il legname, guadagno sul momento, ma perdo per il futuro una fonte di reddito; per il Pil sono più ricco, in realtà ho dilapidato una ricchezza. Gli economisti conoscono il problema e giustamente distinguono i concetti di stock e di flow, ma molto spesso sono proprio loro stessi che ne  trascurano la differenza suggerendo soluzioni buone per l’oggi, disastrose per il futuro. Ultimo ma non da ultimo, il Pil non tiene in nessun conto la distribuzione interna del reddito prodotto: il Pil/pro capite è il risultato di una semplice ed equa divisione tra la ricchezza prodotta e il numero degli abitanti. Più che un dato statistico di qualche riferimento è un augurio o un illusione, a seconda del punto di vista.

 Queste le ragioni tecniche del pressappochismo. Le ragioni della pericolosità sono invece più teoriche. Chi ha qualche reminiscenza della filosofia presocratica ricorderà i due grandi problemi esistenziali allora dibattuti : la molteplicità e il divenire. Il pensiero greco era affascinato, in sostanza, dalla diversità, sia quella orizzontale, nello spazio, per cui posso osservare un fenomeno, un altro e un altro ancora, sempre  tra loro diversi; sia quella verticale, nel tempo, per cui oggi il mondo non è quello di ieri e domani sarà ancora un'altra cosa. Affascinati ma nello stesso tempo tentati, i filosofi greci, di ricercare un unico comun denominatore, di realizzare quella reductio ad unum obiettivo poi di tanti altri loro colleghi.
Bene, cosa ti combina oggi il neoliberismo? Di fronte alla vivacità creativa della vita, non sa far altro che ridurre la molteplicità del reale alla sola dimensione economica o, come scrive Latouche in proposito (Standard di vita / di Serge Latouche in Dizionario dello sviluppo / a cura di Wolfang Sachs. Torino : Ega, 1998, P. 307-328) sostituisce l’idea del bene-essere con l’idea dell’avere-beni. 

Dall’altra parte ha detto e fatto del progresso economico, della crescita economica e dello sviluppo economico il progresso, la crescita e lo sviluppo per antonomasia, controllando così, attraverso un’unica operazione riduzionista, la dimensione spaziale ed insieme quella temporale dell’esistenza umana. E’ chiaro che la martellante e ossessiva importanza data alla crescita percentuale del Pil sia funzionale alla duplice battaglia ideologica del capitalismo moderno. 

 Ecco da dove nasce la pericolosità. Il pensiero unico è pericoloso non solo perché costringe ad uno stato di povertà la stragrande maggioranza delle persone di questo mondo - ragione sufficiente comunque per contrastarlo -  ma proprio in quanto unico, come ama autopresentarsi. Il tutto usando, a proprio fine,  un semplice e approssimato indicatore di contabilità nazionale.