Intanto a New York...
Timothy R. Harley della Harvard University, accreditato presso il Forum Economico mondiale, commenta i primi giorni dei Potenti fra tensione e domande
NEW-YORK - I tremila illustri e potenti partecipanti si confrontano con un tema impegnativo - "Leadership in tempi di fragilità" - e tutti, ovviamente, partiranno dal «September eleven»; la data “che ha cambiato il mondo per sempre”.
Il problema - ecco l'importanza degli interventi! - è uno solo: in quale senso i fatti dell'11 settembre hanno cambiato il mondo? Sarà decisivo sapere e conoscere, quindi, sia quanto dicono in pubblico sia quanto sussurrano nei corridoi e nei pranzi. I precedenti incontri del Forum Economico ci hanno insegnato a “leggere” con più attenzione le cose che si dicono extra-ufficialmente, spesso più sincere di quelle “conclamate” dalla tribuna. In attesa delle veline del farraginoso ufficio stampa alcune cose si possono già dire. C'è tensione tra gli ospiti, e non tanto per le contromanifestazioni (la polizia locale è molto efficiente e poco tenera) quanto per la reale fragilità della situazione internazionale. Per questi signori la parola “fragilità” fa riferimento sostanzialmente alla congiuntura economica del mondo più che alla “leadership” politica. Anzi, sopra dell'economia e della politica, si sa, il “World Economic Forum”, pensa in particolare alla finanza. La sua visione del mondo ha un'origine precisa: la finanza. Poi, in quest'ordine, seguono, l'economia e la politica. Il “governo del bene comune” (nazionale, regionale e planetario), per loro, deve essere sottoposto al governo dell'economia che, a sua volta, deve rispondere alla finanza. Il Forum di Davos ci ha abituato alla sovversione dell'ordine naturale: al posto del bene comune che determina la soddisfazione dei bisogni e quindi organizza il reperimento delle risorse, ha voluto farci credere che le cose stanno al rovescio. A questo punto possiamo spiegare meglio la tensione esistente tra i partecipanti del Forum di New York. A loro avviso circola troppo “sociale” dopo i fatti dell'11 settembre.
La questione sociale del XX° secolo
I movimenti anti-global, e le sue svariate fisionomie, sono detestabili, non tanto perché qualche loro frangia è violenta, quanto perché hanno fatto irrompere prepotentemente nella quiete della finanza la questione sociale del XXIº secolo. Niente di nuovo. Si tratta di un “fastidio” vecchio e conosciuto e di esso si fece portavoce Robert McNamara, quando il 21 settembre 1970, essendo Presidente della Banca Mondiale, parlava di ciò che egli chiamava "uomini marginali". Letta nella sua vera e totale crudeltà quest'espressione faceva riferimento a migliaia di milioni di “esseri umani improduttivi”, che nell'economia di mercato sono zavorra. Non servono né come produttori né come consumatori. Qualche anno prima, nel 1964, il generale brasiliano Da Costa Silva, Direttore dell'Accademia Militare del Brasile, teorico della famigerata “Dottrina della sicurezza nazionale” (ideologia del militarismo latinoamericano) diceva, giustificando il golpe contro il Presidente Joao Goulart: “Il modello di produzione e di consumo del Brasile può garantire una buona sopravvivenza a 50 o 60 milioni di brasiliani. Gli altri, avanzano, e mettono a repentaglio il successo del modello” (sic). Da questa teoria, tra l'altro, nacque il concetto di “nemico interno” la cui natura avrebbe giustificato dopo la tortura, l'esilio, la repressione, l'assassinio.
Oggi, alle porte del 2002, molti pensano che le rivendicazioni sociali rappresentino un vero e grave pericolo per il modello. E non sono pochi se è vero, come ha detto Kofi Annan, che attualmente su 10 cittadini del mondo soltanto 4 entrano nel mercato. Ciò vuol dire che il 60 % dell'umanità è fuori. Mentre Porto Alegre tenta di dare voce a questo 60 %, il Foro di New York, esprime la “cosmogonia globale” dell'altro 40 %. Ovviamente i signori del Foro Economico allargheranno il loro sguardo sulla sterminata realtà di dolore e di miseria della maggioranza del mondo, ma lo faranno per tentare due operazioni sinergiche: da un lato, incitare a chi di dovere a trovare palliativi “compassionevoli” (direbbe George Bush) onde disinnescare eventualità esplosive e, dall'altro, serrare le file allo scopo di evitare che la situazione possa sfuggire al loro controllo. A questo punto niente di meglio che mettere al primo posto dell'agenda mondiale la “sicurezza” ( e i fatti dell'11 settembre danno loro ragione e consensi) poiché la paura del terrorismo spinge a molti a rinunciare alla libertà. Ci vorrebbe un intervento di Franklin Delano Roosevelt davanti all'Assemblea del Forum di New York. L'ex Presidente degli Stati Uniti diceva: “Coloro che pensano di sacrificare la libertà in nome della sicurezza, non meritano né la sicurezza né la libertà”.