Una favela chiamata speranza

Reportage dalla baraccopoli di Vila Esperança, Porto Alegre: a due passi dal forum sociale, a un milione di chilometri dalla magnifica università cattolica "requisita" dal movimento. Ma è proprio lì che, grazie a un progetto legato al bilancio partecipativo, tra cinque anni nel caldo brasiliano nascerà unÆoasi

La favela è un rivoletto verdastro che schiaffeggia le narici, sono sorrisi di belle femmine con quattro soli denti in bocca, è un miliardo di fili corsari che succhiano la corrente a un unico cavo rispettabile, e quando piove a volte partono scintille grandi come scarafaggi. Ora toccherebbe scrivere "benvenuti a Vila Esperança", ma proprio non si può. Nessuno è benvenuto, nella fungaia di baracche del quartiere di Farrapos. Chi ci viene non ci vorrebbe venire, chi non ci vive non viene.
Vila o vilhita sono gli eufemismi adoperati per evitare la parola scomoda, ma una favela è una favela e non ci sono santi. Ce n'è di molto peggio in molti posti del mondo, persino a Porto Alegre ce n'è di tremende sulle rive della laguna, accanto alle superville che gli amici dei generali si facevano costruire sulle sponde del fiume (e insieme alle forniture elettriche e idriche arrivavano anche i miserabili che vi si attaccavano). Ma questa qui è la più vicina di tutte al Forum sociale mondiale. Tra la magnifica università cattolica privata "requisita" dal movimento e le catapecchie di Vila Esperança ci sono forse tre chilometri in linea d'aria - e un milione in termini di aspettativa di vita.
Dora è una signora sorridente, dall'aria indistruttibile e dal cognome teutonico di Bischoff, madre tedesca immigrata prima della prima guerra mondiale, padre allontanatosi destramente dalla marina militare hitleriana prima della seconda. Gli hanno fatto più male due mesi di galera durante la dittatura militare che 33 anni di favela con una figlia da crescere, "prodotto indipendente", specifica. "Quando mi prese la polizia di Castelo Branco ero incinta - racconta - e mi sono salvata così". Diffondeva un giornale della sinistra sindacale, Voz Operaria, era il '64, in qualche posto l'olocausto della sinistra latinoamericana era già cominciato, le cicatrici sulle gambe sono il suo tatuaggio. Non può stare seduta a lungo, e al Social forum non ci va. E' la vera padrona di casa di Vila Esperança.
Si attraversa la "direttrice 600" (una strada di terra battuta) e la favela è là. Un tubicino per l'acqua del calibro di un mezzo pollice rappresenta l'acquedotto (e perde pure, il maledetto). Un dedalo di canalette, le fogne. Ciò che separa le pareti delle catapecchie, le strade. Ci vivono più o meno quattromila persone. Non c'è un milligrammo di immondizia. "Di cosa vivono le persone, Dora?" "Di lixio, d'immondizia". Si chiama economia informale, in Italia come in Brasile. Qui definisce stormi di papeleiros, raccoglitori di carta e cartone e legna e lattine e insomma qualsiasi cosa possa essere venduta o riciclata. Partono al mattino col carretto, girano tutto il giorno, tornano la sera (se tornano) col bottino. Ciò che non viene venduto entra a far parte delle pareti, dei tavoli, dei mobili. Il paese dei miserabili sembra un rebus di tavole, pali, brandelli di lamiera, cordicelle, stracci, ma a guardare bene non c'è un chiodo fuori posto.
"Che è questo, Dora?" "Il maniscalco, non vedi?" Si sarebbe detto un cerchione d'automobile foderato di creta, infilzato su quattro tondini di ferro e ventilato dal basso con una vecchia pompa d'aspirazione alimentata al contrario, pieno chissà perché di brace, ma effettivamente c'è il cavallo e un sorridente signore che martella del metallo rovente. E' gente campesina inurbata dalla fame, i cavalli sono un bene rifugio.
"Bar da Vilma", Dora? "Certamente, qui c'è tutto. Là c'e' il panificio, questo qui ripara le lavatrici...". Bisognerà pure andare a bere un bicchiere ogni tanto, che diavolo, la birra è l'oppio dei popoli poveri. Anche di oppio dei popoli tradizionale, ce n'è una quantità. Un tempio evangelico, una chiesa (beh, chiesa...) cattolica, una luterana, quella Umbanda afrobrasiliana, il Reino de Exù.
Il campo da calcio ha la traversa ad altezza regolare, i pali distanti un terzo del normale, tre contro tre ci si sta stretti e nel buco più piccolo potrebbe essere caduta una granata, ma le reti sono perfette. "Vende-se esta casa", il cartello parla chiaro. "Quindi c'è qualcuno che potrebbe persino pensare di comprarla?" "Prima della favela qui c'era una strada, nient'altro che una strada. E ci viveva la stessa quantità di gente che ci vive adesso. Che ha quella casa che non va?". Un margine d'asfalto segna il confine delle catapecchie, dall'altro lato della strada ci sono casette di cemento, alcune a due piani. E' l'insediamento più vecchio, edilizia economica popolare della dittatura. L'intenzione era diabolica: piccoli crediti, trent'anni di tempo per pagare 40 metri quadri in cui vivere in otto-dieci e tutti i poveri finivano nello stesso ghetto. Ma il disegno è stato, diciamo, geneticamente modificato: l'impenetrabile favela diventò il principale rifugio di tutti i militanti di sinistra cacciati dalla polizia, se molti sono sopravvissuti lo devono al fatto che neanche i gorilla dei generali entravano nella baraccopoli in cerca di preda.
E non entrano nemmeno adesso, anche se coltelli e pistole girano come prima e la politica non c'entra nulla. E' un problema, certo, la violenza. Poiché nessuno con qualcosa di derubabile metterebbe piede tra le baracche, la tecnica della rapina ha dovuto accettare un'evoluzione. Si piazza un ragazzino di buon braccio al margine della strada che conduce all'aeroporto. Una pietrata sul cofano o sulle portiere, e l'automobilista prende uno spavento, non capisce, decelera, si ferma per vedere che è successo. Il calcolo del punto di fermata è solo questione di esperienza, e quando il poveraccio esce per valutare i danni, si ritrova improvvisamente in compagnia, minacciato di danni maggiori. Anche il rappresentante ufficiale del sindaco Tarso Genro è stato derubato in questo modo.
"Ma perché si chiama Vila Esperança, Dora? Quale speranza?" "Eccola là, vieni a vedere come diventerà questa zona tra cinque anni". Una parte della favela è stata spianata, spiega, un progetto di cooperazione con la Francia. Orçamento participativo naturalmente, bilancio partecipativo, il mantra ufficiale a Vila Esperança ha la sua applicazione pratica. Autorizzato uno stanziamento di bilancio e fatte un certo numero di casette a un piano, un centinaio di famiglie sono state trasferite, le altre seguiranno. Tecnologia alternativa, muri fatti di pneumatici, foglie di banano, cenere e altri materiali di scarto che tengono caldo d'inverno e restano freschi d'estate. Non si sa in inverno, quando ci sono sei o otto gradi e non un solo singolo meccanismo di riscaldamento per quattromila persone, ma in estate con trenta all'ombra è vero: l'asilo nido participativo è una vera oasi. Tutta roba dell'amministrazione del Pt, naturalmente, e forse è per questo che qui si arriva facilmente.
Eppure grazie all'applicazione pratica del bilancio partecipativo, tra cinque anni nel caldo brasiliano si vedrà forse un'oasi.