Ignacio Ramonet

Il bilancio di Ignacio Ramonet: dal forum un appello morale, i cahiers de doleance dell'umanità. I potenti ci ascoltino!

"Pensa, discuti, agisci. Ottieni il possibile". Lo slogan campeggia su uno dei grandi tabelloni disseminati per le grandi sale dell'Università cattolica, spazzata dai flussi umani di decine di migliaia di persone che come stormi si riuniscono, si allargano, scompaiono nelle grandi sale e nelle piccole aule, si riversano sui prati e nei viali del campus per discutere, manifestare, cantare, ballare, comprare. Seguire tutto è impossibile, scegliere è un dispiacere, un'occasione mancata. C'è un aspetto un po' "giungla" in tutto questo. Cosí lo definisce Ignacio Ramonet, emerso da un seminario su "Democrazia e Comunicazione" dove oltre 500 persone, la maggior parte giovanissime, si sono accalcate per oltre tre ore in un'aula troppo piccola, zeppa come un autobus in un'ora di punta. Ma al di là di questo disordine irrazionale, la forza di questo Forum, dice il direttore di Le Monde diplomatique, giornale che fa parte del comitato organizzatore, si impone di per sé: "E l'effetto di vigore, energia, forza che dà, dimostra che questo evento era indispensabile allo stato del mondo oggi". Ramonet riflette e continua: "E pensare che dopo l'11 settembre i responsabili del Forum si erano chiesti se non fosse meglio annullarlo, perché l'atmosfera politica che si era creata, di criminalizzazione del movimento di protesta parlava di un fronte dei provocatori che si sarebbe riunito qui. Ma oggi vediamo quanto fosse necessario mantenerlo. Perché è evidente che qui si ritrova il mondo esattamente com'è, in tutta la sua realtà, una realtà non molto differente da quella che c'era prima dell'11 settembre. C'è sempre la questione del debito, dei paradisi fiscali, del degrado ambientale, dell'emancipazione delle donne, dei bambini ridotti in schiavitù. Se facciamo un paragone con il Forum dello scorso anno - spiega il direttore di Le monde diplomatique - e vediamo quanto si è moltiplicato, si capisce meglio quello che è avvenuto al movimento della protesta con Seattle". Ramonet ripercorre in pochi secondi l'"album fotografico" di quello che a tutti gli effetti è ormai un movimento globale: "Fino alle manifestazioni di Seattle, nel '99, nessuno aveva protestato, a parte il sub comandante Marcos in Chiapas. Poi c'è stata Seattle e la protesta ha preso il via. Dopo è venuta Praga, quindi Washington, Quebec, Genova. La protesta è diventata una manifestazione dell'agire politico attuale. Già dal primo appuntamento a Porto Alegre ci siamo resi conto che il Forum era diventato una manifestazione obbligatoria della vita politica internazionale. Quello che oggi viene fuori con ancor più evidenza è che è necessario, su scala mondiale, un luogo dove le associazioni, i sindacati, le ong, i movimenti della società vengano a denunciare le sofferenze e le ingiustizie, e come queste si determinano. L'Onu non è certo questo luogo. Qui a Porto Alegre assistiamo alla nascita di una sorta di società delle società. Un Forum dei popoli, un'organizzazione delle società unite. In un certo senso, il Forum é come un parlamento".
Ma il Parlamento ha un potere istituzionale riconosciuto. Che tipo di potere ha il Forum ?

Un potere morale. Penso che non si possa auspicare nessun altro tipo di potere. Qui vengono esposti i mali dell'umanità. Qui abbiamo i cahiers de doleance, come li aveva la Rivoluzione francese. Passando da un seminario all'altro, vediamo migliaia di persone riunite a discutere di tutto quello che non funziona: acqua, istruzione, lavoro, ambiente, le grandi città, la salute etc. Un catalogo di tutto quello che non funziona. E' una sorta di appello morale ai padroni del mondo, per inchiodarli alle loro responsabilità.

In un articolo pubblicato da El Pais, "Il consensus di Porto Alegre", tu hai scritto che da questo Forum dovrebbe uscire una proposta concreta per andare oltre la denuncia e agire.

Io lo penso, ma non è la via scelta dal consiglio dei responsabili del Forum, i quali pensano che le lotte sono talmente disperse che ogni catalogo dovrebbe gerarchizzare, stabilire delle priorità. E allora chi va al primo posto, chi va al quinto, chi all'ultimo? Di conseguenza si creerebbero tensioni, malcontento. Ciò spezzerebbe l'unità del movimento. Ma ci sono quattro o cinque idee che tutto il mondo condivide. Il debito, ad esempio. Tutti sono d'accordo per annullarlo, è immorale. Ma anche i paradisi fiscali, la tassa Tobin, gli organismi geneticamente modificati, la questione dell'acqua, la sicurezza degli alimenti, l'emancipazione della donna, i bambini schiavi, l'istruzione. Ci sono una decina di temi che si ricorrono, in un modo o nell'altro, nel dibattito e che costituiscono una sorta di decalogo. E' questo quello che io definisco il consensus di Porto Alegre.

Da una parte vediamo il fronte di quelli che tu chiami "i padroni del mondo" che, pur diviso dalle crescenti contraddizioni del sistema, si allea e si unisce per combattere e stroncare il movimento di opposizone che avanza, avendone peraltro tutti gli strumenti e le organizzazioni (polizia, esercito, spionaggio). Un fronte che risolve i suoi problemi con la guerra. E dall'altra parte c'è invece un movimento che ha fatto in qualche modo della diversità la sua forza e che non ha ancora alcuna organizzazione propria. Non pensi che sia in corso un processo che in qualche modo costringe ad accelerare i tempi della concretezza?

Credo che questo movimento debba assumere una grande forza etica, un ascendente, un potere morale. Deve imporsi così tanto per la forza delle sue rivendicazioni e del suo umanesimo, da disarmare i suoi avversari. Ma l'avversario resta ovviamente molto attento al fondo del problema, che tuttavia non può essere risolto con lo scontro. Questo movimento ne sarebbe scombussolato, danneggiato. Dopo tutto, gli altri sono molto deboli. Guardiamo l'Argentina, dimostrazione matematica del fallimento della soluzione del Fondo monetario internazionale. Abbiamo assistito alla bancarotta della Enron, che è anche il fallimento delle società di certificazione come la Andersen, che tengono in piedi l'intero sistema. Un sistema che non è più sicuro di sé, che tira fuori le armi per fare la guerra in Afghanistan perché è stato attaccato al suo interno, negli Stati uniti. E le sole soluzioni che propone ai suoi problemi sono militarizzate, anche contro la contestazione. Genova è stata l'immagine della risposta militarizzata del potere a una manifestazione che al 99% era assolutamente pacifica. Quello che avviene dopo l'11 settembre è che la globalizzazione, che fino a quel momento aveva proceduto con un volto amichevole e accompagnata da un discorso, in realtà un'ideologia, secondo il quale si preparavano nuove, definitive soluzioni ai problemi del mondo, dopo quella data ha tirato fuori un apparato di sicurezza: l'esercito degli Stati uniti, la Nato. Vale a dire una macchina da guerra capace di portare guerra in tutti gli angoli della terra, e non solo con gli eserciti ma anche con la polizia, lo spionaggio, i servizi etc. Un sistema di sicurezza con cui attaccare tutti gli avversari, sia quelli irrazionali e violenti che noi condanniamo, coma Al Qaeda e bin Laden che non è certo anti globalizzazione ma anti Stati uniti, sia il movimento di protesta che smonta nel modo più intelligente l'attuale processo di globalizzazione. Un movimento che, soprattutto, dice ai governanti che non basta essere eletti democraticamente ogni quattro o cinque anni, per avere legittimità, ma che bisogna governare democraticamente per tutto il tempo. E cioè che bisogna trovare il modo di consultare e coinvolgere i governati quando si prendono decisioni che possono cambiare la loro vita e quella del resto dell'umanità.