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Porto Alegre, Bertinotti: «l'alternativa è il socialismo» |
Normalmente
i
leader
si
guardano
bene
dal
fare
autocritica
in
pubblico,
specialmente
di
fronte
a
platee
non
intellettualmente
attrezzate
a
maneggiare
le
sottili
distinzioni
terminologiche
che
consentano
di
eliminare
l’acqua
sporca
senza
fare
fuori
il
bambino.
Ma
l’incontro
di
ieri
mattina,
dal
promettente
titolo
“La
lotta
per
il
socialismo
oggi”,
ha
smentito
molti
luoghi
comuni:
l’autocritica
-
quasi
un’autocoscienza
collettiva
-
è
stata
severa
e
la
risposta
della
platea,
composta
da
agricoltori
e
contadini,
è
stata
attenta
a
ogni
sfumatura.
Sul
palco
alcuni
leader
molto
noti
in
Brasile
come
Plinio
de
Arruda
Sampaio
e
James
Petras,
insieme
a
chi
veniva
a
raccontare
il
socialismo
delle
proprie
latitudini,
Rita
Edwards
e
Fausto
Bertinotti.
In
platea
gli
striscioni
di
gruppi
noti,
come
Via
Campesina
e
i
Sem
Terra,
e
meno
noti,
come
la
Fdc-Coalizione
contro
il
debito
delle
Filippine
o
il
Network
dei
popoli
sud-africani
contro
la
ri-colonizzazione. «Vorrei riuscire a spiegarvi perché, secondo me, dobbiamo riprendere la strada del socialismo» comincia Bertinotti, e subito la platea si riscalda. «Indubbiamente nel ’900 siamo stati sconfitti. Una violenta rivoluzione capitalista neoliberista che mira al primato assoluto del mercato sui popoli e alla riduzione degli esseri umani in merci ha preso il sopravvento. Attraverso l’egemonia culturale del pensiero unico, quello che incarna l’agenda delle banche e delle imprese, i disastri del neoliberismo non vanno a intaccare il consenso». L’elenco dei fallimenti è interminabile: «Ci avevano promesso la fine delle malattie e, oggi, ogni 10 secondi un uomo muore di sete. Ci avevano promesso la fine del lavoro e, oggi, il reddito di 600 milioni di persone equivale al reddito di tre soli individui: Bill Gates, Walter e il sultano del Brunei. Ci avevano promesso il dominio totale sulla natura e la progettazione artificiale della vita: ci hanno dato la mucca pazza». Segue un’ovazione: un pubblico fatto di allevatori sa bene qual’è la posta in gioco. Ma non è solo questione di giustizia sociale. Bertinotti riprende la profezia di Marx: «Se la lotta di classe non produce una nuova civiltà si può produrre la distruzione di ambo le classi in lotta». Chi sperava che il movimento si dividesse sul pacifismo rimarrà deluso: la guerra permanente qui non viene considerata altro che una fase inevitabile della rivoluzione capitalista lasciata a se stessa, una posizione che si è sentita ripetere più volte in tutti gli ambiti, con cui Bertinotti concorda in pieno. «I bombardamenti dell’Afghanistan non sono affatto contro il terrorismo ma servono solo a costruire un nuovo potere oligarchico globale, al prezzo della vita di migliaia di innocenti». A misurarla dagli applausi si tratta certamente di una posizione condivisa. Si può dire anzi che la guerra abbia rafforzato questo movimento, come se il rischio reale della distruzione globale abbia impresso un nuovo slancio al proliferare di proposte concrete. Italia e Sud Africa La vita di Rita Edwards non deve essere stata semplice. La militanza da socialista nel movimento anti-apartheid, la lotta per la terra nella sua comunità d’origine, l’esperienza del femminismo. Tutto ciò alla fine ha condotto miracolosamente - ma è un miracolo che qui al Forum succede spesso - a una quasi totale coincidenza di vedute. Lì dove poco prima Bertinotti aveva visto nel settarismo e, soprattutto, nell’eccesso di teoria uno dei mali storici del socialismo, la leader sud-africana è lapidaria: «Nel mio paese i socialisti hanno rotto ogni rapporto con il popolo, di fatto hanno smesso di seguire la lotta e si sono barricati nella teoria e, soprattutto, l’intolleranza gli ha reso insopportabili le differenze. L’identificazione totale con l’analisi di classe ci ha fatto perdere il contatto con la società. Per quanto mi riguarda, è stato necessario un faticoso percorso, come donna e come contadina, per recuperare il valore della mia differenza partendo dal personale». Non può non stupire, quindi, la convergenza con le parole di Bertinotti: «Nel secolo passato abbiamo imparato alcune cose importanti: che la rivoluzione o è mondiale o non è, che non basta prendere il potere, bisogna trasformarlo se vogliamo che la società sia diversa, che il primato della politica non vive nelle istituzioni, ma nelle classi, e che la scienza, l’economia e lo stato, non sono neutrali ma sono da costruire. E per farlo non bastano i saperi formali delle università. Dobbiamo, soprattutto noi del Nord, aprirci al mondo e dismettere le presunzioni teoriche e avanguardistiche dei partiti. La nostra teoria di classe è necessaria ma non è mai sufficiente. Ci sono altre culture critiche necessarie: quelle delle donne, degli ambientalisti, dei pacifisti, dei popoli del sud del mondo». Anche i giudizi sul Forum si assomigliano. La femminista contadina sud-africana commuove la platea raccontando della durissima lotta contro l’apartheid durante gli anni ’70 e ’80, quando un variegato movimento si era «gonfiato e ramificato come un fiume, fomentando ribellioni spontanee e organizzate, dalle zone rurali più remote ai centri urbani. Un fiume con almeno quattro affluenti principali: gli studenti, i sindacati, le donne e i socialisti. Oggi mi sembra di assistere a quello che vidi allora, su scala globale». Parole immediatamente precedute da quelle di Bertinotti: «Per costruire il socialismo serve un nuovo movimento operaio globale, un nuovo proletariato composto non solo da chi lavora in fabbrica, ma da tutti quelli che sono sottoposti al dominio capitalista. Forse non ce ne rendiamo conto ma questo nuovo soggetto politico lo stiamo già costruendo. Cinque anni fa nessun intellettuale o politico europeo avrebbe pensato che fosse possibile una cosa come il Forum Sociale Mondiale. Di fatto è la prima volta nella storia che si costruisce un’assemblea come questa senza una convocazione centrale da parte di un sindacato, di un partito o di una chiesa. Si tratta di una vera e propria assemblea autoconvocata, che ha scelto questa città perché qui c’é un governo di partecipazione popolare». Ha poi concluso: «La proposta riformista è fallita sia negli Stati Uniti che in Europa. Chi si è accontentato del meno peggio è stato sconfitto, aprendo la strada al peggio. Ma il peggio non si combatte con il meno peggio, ma con un’alternativa, e questa alternativa è il socialismo. Per parafrasare Gramsci, io credo oggi che il movimento debba essere un intelletto collettivo che pensa la rivoluzione e pratica il cambiamento. Un partito può sperare di sconfiggere la rivoluzione capitalista solo dentro al movimento». |
Sabina
Morandi
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