Giulietto Chiesa

L'altra metà d'Italia in cammino verso Porto Alegre

 

Non avrei mai pensato di entrare nel movimento no global. Invece, quasi senza accorgermene, ne sono stato come risucchiato. Ero andato a Genova, a luglio, richiamato più dal ricordo della mia città natale come luogo di forti tensioni politiche, che non dall'avvenimento G8. Il movimento mi incuriosiva. I trecentomila che ho visto coinvolti, al di là degli scontri e delle violenze, mi hanno impressionato. Tanto che ho scritto un libro per raccontarli. Mi sembrava un passaggio importante. Ma a settembre, dopo l'attacco alle Torri, sono partito per l'Afghanistan. Ho seguito la guerra per La Stampa. La sorpresa è stata al ritorno. Una serie ininterrotta di telefonate, inviti, appuntamenti. Tante chiamate ai talk show, assemblee affollate, giovani e anziani insieme. D'improvviso, ho capito che l'11 settembre, invece di mettere in crisi i no global, aveva dato loro una spinta imprevedibile. A volte, discutendo con loro, provo la sensazione che stiano cercando qualcosa cui aggrapparsi, per capire. Ma non è gente confusa. C'è un'Italia che non ha mangiato la foglia delle guerra, ma che non ha ascolto da parte dei media per contrastarla. Eppure quella foglia gliel'hanno messa sotto il naso in tutte le salse, confezionata a dovere, ben condita. Ma continuano a ritenerla immangiabile. Da quello che ho visto e sentito, in due mesi di incontri, tutti affollatissimi, di fronte a pubblici diversi per età, composizione sociale, orientamenti politici, preferenze elettorali, ho la sensazione di parlare all'altra metà dell'Italia. Parlo da Roma in su, per il momento, ma cominciano ad arrivare sul mio computer richieste, inviti, proposte, anche lunghe lettere, dalla Sardegna, Sicilia, Calabria. Chi sono? A pensar bene non è facile trovare una definizione. Sono gli abitanti di quella voragine che si è aperta con il voto «bulgaro» con cui il Parlamento italiano è entrato in guerra. Una voragine che non si sente rappresentata da quel 93 per cento di sì ai bombardamenti sull'Afghanistan. Una voragine arrabbiata, offesa, che cerca una nuova rappresentanza politica nelle istituzioni, perché quasi tutti quelli che ci sono dentro non la rappresentano più. Come chiamarli? Diciamo che sono quelli di Porto Alegre, perché ormai è questo il simbolo. Globale, mondiale.

Certo sono molto più «global» di un sacco di gente che li ha definiti sbrigativamente «no global». Genova poteva diventare questo simbolo, e invece c'è stato il morto. Manderanno a Porto Alegre una grossa rappresentanza, proprio perché c'è stata Genova e oggi, in tutto l'Occidente ricco, non c'è paese che possa vantare una vitalità critica, democratica, così intensa come questa Italia, dove c'è un'altra Italia così poco «global» che fa fatica persino a stare in Europa. Dopo l'11 settembre Le Monde scrisse - frettolosamente (ma quanta fretta nel catalogare, nel seppellire, come ha provato a fare anche Mario Vargas Llosa) - che il movimento di Seattle-Genova era finito. Come si poteva ancora criticare la «globalizzazione americana» (definizione, giusta, di Mario Deaglio) dopo che l'America era stata così proditoriamente colpita? Errore. Non teneva conto che la guerra (e il nascere dell'Impero che l'accompagna) avrebbe messo il tigre nel motore di tutte le proteste. Errore, perché presupponeva una globalizzazione trionfante, e invece essa è entrata in crisi. La lista delle e-mail si allunga ogni giorno. Sono tutti in rete, parlano, si parlano. Ma non addosso. Si muovono. Ma non a caso. Le sezioni dell'ex Pci sono ormai deserte quasi dappertutto. Si va altrove, in sale stracolme, per dibattiti civilissimi, molto diversi da quelli, ormai lontani, del ‘68 e del ‘77. E forse la spiegazione è nel fatto che ci si rende conto che la situazione è diventata più grave - nel mondo come in Italia - e c'è poco spazio per gli happenings. Ma certo questi sono pubblici al tempo stesso giovani e maturi, dove confluisce una parte grande, probabilmente già maggioritaria, di un popolo che non è andato a votare, o che ha votato dalle parti del centro-sinistra ma turandosi il naso, come una volta aveva invitato a fare - per la democrazia cristiana - Indro Montanelli. In ogni caso per l'ultima volta. Chiamarlo «popolo (deluso) della sinistra»? Ho l'impressione che sarebbe fargli torto, in molti sensi. Per parecchi di loro, i più giovani, il termine sinistra, centro-sinistra, ha un senso stanco, di cosa ammuffita, di talk-show dove ci si lascia dolcemente sballottare, o strattonare, da Bruno Vespa. Di ideali, idee, nemmeno l'ombra. E invece loro è di questo che vogliono sentir parlare.

E poi ci sono, tantissimi, anche di mezza età, per i quali sinistra è ancora un valore, ma che è insopportabile ormai associare a D'Alema, Veltroni e Tony Blair. E infine c'è la sterminata galassia cattolica, che vedo emergere con una vitalità strabiliante. Un segmento di società italiana vasto, dinamico, carico di idealità. Anche loro in libera uscita, forse definitiva, rispetto alle rappresentanze cattoliche istituzionali. Talvolta anche rispetto alle gerarchie ecclesiastiche. Anche loro contro la guerra, prima di tutto. Gli inviti a dibattere più numerosi sono i loro, insieme a quelli delle scuole secondarie superiori, delle università, dei social forum che ormai sono sparsi dappertutto. A Brescia come a Lucca, a Senigallia come a Bologna. Dovunque ci sono firme cattoliche in calce ai volantini d'invito. Vado a parlare negli oratori, nelle sale parrocchiali, nelle aule universitarie, nelle assemblee sindacali, nei conventi, nelle province e nei comuni, nei centri di formazione, nelle sedi del volontariato cattolico. Ovunque trovo Emergency, che è diventata una grande presenza italiana. Sempre trovo, mescolati tra questi pubblici nuovi - che mi hanno adottato perché hanno letto di tutti i miei dubbi sulla guerra e me li hanno sentiti ripetere a voce - anche molti elettori Ds. Raramente parlano. Ascoltano, sono in ambasce, divisi dentro. Solo una volta, a Lucca, un senatore si è alzato, coraggiosamente, per motivare il suo voto favorevole alla guerra. Non è andato al di là di un «qualcosa bisognava pur fare». Ma nessuno ha fischiato. C'è stato solo un silenzio penoso di chi aveva capito che - come venne poi detto da un giovane studente cattolico - «quelli hanno perso la bussola».

Accade anche che mi invitino organizzazioni locali dei Ds. Me lo dicono apertamente: per ascoltare un'altra voce, visto che quelle che sentono sono così univoche e così poco convincenti. Ma se al vertice la scelta a favore della «guerra al terrorismo» è maggioritaria, nella base del partito le riserve sono evidenti. E' come assistere a una frana, a uno smottamento generale, per ora lento, ma che sta aumentando velocità. Già la «guerra umanitaria» era stata difficile da digerire. Questa non va nemmeno giù in gola. E molti avvertono il rischio che, deglutendo anche questa, toccherà poi ingoiare subito dopo altri bombardamenti, altro sangue. Per esempio sull'Iraq. Perché i nostri tempi sono diventati così rapidi che le verifiche storiche si fanno nella cronaca, e non c'è molto da aspettare per vedere come vanno le cose. Adesso molti di loro andranno a Porto Alegre, per sciacquare i panni in una globalizzazione «buona». Là non ci saranno incidenti ma tanti seminari, incontri, dibattiti. Ci sarà tutta la galassia dei movimenti, tutta la pluralità di questo mondo non omologato. Ci sarà anche tutta l'intellighentzia «no global»: da Naomi Klein a Noam Chomsky, a Walden Bello, a Riccardo Petrella, a Robert Stiglitz, nuovo acquisto della squadra di Porto Alegre, rubato al Fondo Monetario Internazionale, proprio mentre prendeva il Premio Nobel. Fino a luglio del 2001 si diceva che il movimento era incoerente, contraddittorio, che non aveva soluzioni da proporre. Adesso che la globalizzazione è in crisi, l'America è ferma, diventa chiaro che le soluzioni non le ha nessuno. Resta aperto il problema della rappresentanza, in Italia, di questo movimento italiano. Colpisce che il centro-sinistra si guardi addosso senza saper che fare e non sia capace di guardare fuori. Vedrebbe quello che sto vedendo io: un'Italia che gli sta sfuggendo.