Just do it?

Lo sapevate che nel 1992 la Nike ha pagato l'impiegato part-time Michael Jordan più di quanto abbia pagato tutte le 30.000 ragazze indonesiane che hanno prodotto milioni di scarpe col famoso marchietto ?

La giornalista canadese Naomi Klein ha scritto un libro per dire "Basta!"

 

A soli 30 anni, Naomi Klein è una dei guru del movimento antimondializzazione, un ampio gruppo transnazionale relativamente organizzato che protesta contro il potere, crescente e totalizzante, dell'economia multinazionale nel mondo. Il suo libro NO LOGO : TAKING THE AIM AT THE BRAND BULLIES (qualcosa di traducibile come: "mirare alla tirannia dei marchi di fabbrica") pubblicato all'inizio di quest'anno in Canada, USA e Inghilterra, sta avendo in quei paesi un clamoroso successo che lancia Naomi nel ristretto empireo dei maîtres à penser del nuovo millennio. Eppure, in Italia, Naomi è praticamente sconosciuta. Forse siamo troppo concentrati, intellettuali compresi, a disquisire sulle fortune mediatiche presenti e future di Marina La Rosa, la cui summa di pensiero si può trovare in edicola a dispense settimanali ne LA RIVISTA DEL GRANDE FRATELLO.

Nonostante ciò che Naomi afferma nel suo libro abbia una sostanza rivoluzionaria, la giovane giornalista canadese sfugge ad ogni cliché tipico, da Ned Ludd in poi, del partisain anticapitalista. Anzi, lei stessa si definisce un "ponte" tra movimenti anticapitalisti e il business system, attirandosi non poche critiche dai radicali dell'una e l'altra sponda (e, d'altro canto, le recensioni favorevoli sia del "London's Observer" che di "Anarchy") : "Non voglio diventare una consulente aziendale" dice "ma voglio riuscire a parlare ai businessmen come cittadini".

Secondo Naomi, l'attuale evoluzione del mercato, che produce un sentimento di "claustrofobia globale e la sensazione che non ci siano più scappatoie", nasce negli anni '80 quando, sempre più aziende, spostano il centro dei loro interessi dalla semplice produzione delle merci, al marchio in sé. Si punta sull'immagine insomma. Il tutto, investendo milioni di dollari nel marketing e, contemporaneamente, trasferendo le sedi dell'attività produttiva nel Terzo Mondo per contenere e compensare la vertiginosa crescita della nuova voce di spesa.

Un esempio illuminante : nel 1992 la Nike ha pagato l'impiegato part-time Michael Jordan più di quanto abbia pagato tutte le 30.000 ragazze indonesiane che hanno lavorato in condizioni spaventose per fabbricare le scarpe da ginnastica che portano il marchio della mega-corporation statunitense.

Questo spostamento di baricentro ha preso la mano agli stessi fautori che, sempre più, stanno assumendo un ruolo guida che è filosofico prima ancora che economico : non si vendono più solo dei prodotti, si vendono dei modi di "fare ed essere qualcosa". Alla Nike, ad esempio "il prodotto non è che il miglior strumento di marketing". Ancora una dichiarazione dalla Nike : "Non vogliamo più essere soltanto una fabbrica di scarpe. Vogliamo essere una fabbrica di sport. Noi vogliamo entrare nel gioco". E, non si può negare, ci sono riusciti pienamente (si veda anche l'attuale scandalo in Brasile dove l'ex C.T. della nazionale carioca è sotto inchiesta perché, pare, essersi sottomesso alla volontà dello sponsor facendo scendere in campo nella finale mondiale di Parigi un Ronaldo in gravi condizioni psico-fisiche. E puntuale è arrivata la smentita della Nike), anche in virtù del progressivo arretramento della presenza del pubblico in istituzioni civili come scuole e musei. Ciò ha fatto sì che le corporations, da semplici sponsorizzatrici di "situazioni" e istituzioni di proprietà pubblica, ne acquisissero la titolarità de facto. Estremo, ma illuminante, un episodio : nel 1988 la Coca Cola bandì un concorso nelle scuole americane per setacciare idee tra i giovani per le loro strategie di marketing (un inciso : sempre più la creatività dei giovani viene precocemente sfruttata e incanalata nei canali commerciali delle corporations : si pensi a un esempio considerato un modello di sinergia intelligente tra bisogni formativi e strategie aziendali, "Fabrica" di Benetton fondata da Toscani). Una scuola andò oltre quando, dopo aver organizzato una "giornata della Coca Cola" sospese uno studente che, evidentemente non disposto ad aggiungere la propria voce a quella del coro, si presentò con addosso una maglietta della Pepsi. Il potere dei marchi ormai sfugge ad ogni regola. Al punto da ingenerare la sensazione, o peggio la dottrina, che non sia più possibile fare nulla senza il supporto di una grande o piccola (a seconda della dimensione di propri obiettivi) impresa. Un pensiero pericoloso che si è insinuato in noi in maniera strisciante. "Rifiuto l'idea" ha dichiarato Naomi Klein in un'intervista "che ci sia un enorme quantità di persone troppo occupata per impegnarsi nella propria comunità come cittadini. Noi abbiamo altri poteri oltre quello contenuto nei portafogli". Questi poteri consistono nell'impegnarsi nella politica locale, scrivere lettere ai giornali esprimendo la propria opinione, partecipare a manifestazioni su temi che ci coinvolgono, o molto semplicemente, nel domandare (sempre). Queste forme, che non sono esclusivamente di protesta, non è solo essere contro qualcosa, ma impegnarsi per qualcos'altro, possono essere un inizio. Naomi Klein pensa che un reale cambiamento possa avvenire solo attraverso il riappropriarsi da parte dei governi del loro potere di regolamentazione del mercato, ma prima che questo accada, devono essere gli individui a fare sentire la loro forza.

Di fronte a quest'idea, la prima obiezione che viene in mente è che, mentre il mercato è già globale ed unico, i governi, la politica, sono lontanissimi dall'esserlo.

Ciò non toglie che vi siano ben poche alternative alla "cacofonia di voci" (N. Klein) che bisogna intonare.

"La mia speranza è che l'attivismo (Klein si riferisce qui a movimenti come quelli manifestatisi a Seattle o a Praga. N.d.A.) rappresenti una consapevolezza sempre maggiore rispetto al fatto che stiamo perdendo il controllo delle nostre società, che dobbiamo condurre le companies ad un più elevato standard etico, che siamo qualcosa di più di semplici relazioni economiche."

Questo, pur tenendo presente che il marketing, (ciò che fa credere alla Benetton di non vendere solo maglioni ma anche "politica progressista") tende inevitabilmente ad assorbire la sua opposizione.

Nella ricerca di percorsi alternativi, sempre più in voga è la protesta che sostituisce al manifesto pubblicitario la sua parodia. Un esempio eclatante in Italia (e in Internet) sono i banner satirici su Berlusconi prodotti in quantità veramente industriale! Secondo Klein, queste manifestazioni sono "una radiografia del subconscio di un'azienda, svelano la verità più profonda che si nasconde sotto strati di eufemismi".

Ma ,solo per un apparente paradosso, i pubblicitari hanno cominciato a considerare queste produzioni "off" come delle ottime idee e, "con una mossa da incubo", hanno, loro stessi, adottato quegli stilemi per vendere i loro prodotti!

Dunque non è solo il fatto che ogni spazio della nostra vita è ormai invaso da un qualche tipo di marchio, ma anche, e sempre di più, esiste un'appropriazione preventiva o posteriore di ogni creazione intellettuale, sia essa pro o contro lo status quo. Di qui quella sensazione di claustrofobia globale precedentemente ricordata.

Venire davvero fuori da questa situazione totalmente orwelliana (ben più di una sciocca trasmissione televisiva che, al massimo è , a sua volta, una parodia) non sembra davvero facile.

Per questo, Klein non rifiuta il confronto aperto e (possibilmente) costruttivo col business.

Anche perché, come ha dichiarato Naomi in un'intervista, "se io parlando agli studenti racconto loro qualcosa di negativo sulla Nike, loro mi rispondono cose del tipo - Ok, allora compreremo Adidas! -. La verità è, che è impossibile cambiare il mondo semplicemente modificando le nostre abitudini d'acquisto. Credo sia un modo inefficace di cambiare le cose."

Piuttosto, prosegue Naomi :" se le corporations sono diventate potenti quanto i governi (o di più ? N.d.A.), allora vanno trattate nello stesso modo in cui si tratta il potere politico : chiedendo loro responsabilità e trasparenza!".

Anche perché, sempre secondo l'autrice di NO LOGO, questo nuovo ruolo sociale assunto dalle corporations è anche il loro tallone d'Achille. Klein lo chiama "brand boomerang effect", l'effetto boomerang che lo strapotere simbolico che un marchio ha assunto porta con sé. Le companies vendono sogni arricchendo l'immaginario collettivo, ma fanno promesse che poi non saranno in grado di mantenere. Quando la NIKE lancia un messaggio potente come JUST DO IT, non può più liberarsi dai significati simbolici che mette in circolo . Al contrario, creando icone, si libera l'iconoclastia!