I perché della guerra - Le ragioni della pace
ATTACCO MILITARE
Dossier a cura di PeaceLink
Versione n. 6
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Quando è stato lanciato l'attacco Usa?
Alle 18.39 del 7 ottobre 2001 l'agenzia Reuter ha dato la prima informazione a livello mondiale sull'attacco Usa con missili cruise e aerei in Afghanistan. Hanno collaborato anche aerei britannici. "Il popolo afghano conoscerà la generosità del popolo americano", ha detto il presidente Bush alle 19, ora italiana nella conferenza stampa subito dopo l'attacco. "Londra e Washington, intanto, ipotizzano una loro permanenza in Afghanistan dopo che il conflitto si sarà concluso, con una forza di pace composta da migliaia di militari" (RAI Televideo 7 ottobre 2001).
Cosa sostiene il governo americano?
"Gli Stati Uniti non hanno dubbi sulla responsabilità di Osama Bin Laden negli attentati di martedì scorso, ma ci vorranno anni per avere la meglio. Lo ha detto il vicepresidente Cheney, nella sua prima intervista pubblica dagli attacchi a New York e Washington". (RAI Televideo 16/9/2001)
Sul Corriere della Sera del 16/9/2001 è riportata una dichiarazione di Madeleine Albright, ex segretario di Stato americano: "Non è ancora chiaro che si tratti davvero dell'opera di Osama Bin Laden. Ma è certo che questo terrorista sta ricevendo aiuti in Afghanistan. E' importante per noi e i nostri alleati ritenere responsabili per quello che sta succedendo coloro che offrono rifugio ai terroristi. E' giunto il momento di prendere posizione". In seguito gli Stati Uniti hanno detto di aver raccolto le prove contro Bin Laden ma non le hanno divulgate, considerandole segreto militare.
Questa guerra mette a rischio i civili?
"Il presidente Bush ha dichiarato di avere dato l'ordine dell'azione solo dopo avere fatto 'molta attenzione' e avere detto 'molte preghiere'. (ANSA 07/10/2001 ore19:44). Ma contemporaneamente il dottor Gino Strada, responsabile di Emergency presente in Afghanistan per assistere i profughi, ha dichiarato che "il 90% delle vittime, come in tutte le guerre degli ultimi anni, saranno civili" (fonte: www.unimondo.org). Il dottor Strada è attualmente nell'ospedale di Emergency ad Anabah (ottanta chilometri a nord-est di Kabul); intervistato la notte del 7 ottobre ha detto: "Saranno proprio queste persone, i civili, le prime vittime di questi assurdi bombardamenti (…) Dal fronte giungeranno nuovi feriti. Già accede sempre, domani un po' di più. Si dovrebbe venire in questi avamposti per rendersi conto dell'orrore della guerra, delle mutilazioni che produce tra la gente, delle stragi senza fine fra i civili (…) Vorrei che si riuscissero a salvare più vite umane possibili. Vorrei che il mondo dicesse no all'assurdità della guerra". (Liberazione 8/10/01)
La
guerra
annunciata
è
la
causa
dell'ondata
di
profughi?
Sì,
l'Onu
calcolava
i
profughi
-
prima
dell'attacco
Usa
-
in
un
numero
variabile
da
un
milione
a
due
milioni;
la
situazione
si
è
aggravata
e
il
10
ottobre
si
valutava
una
quantità
di
profughi
compresa
fra
i
5
e
i
6
milioni.
Dalle
notizie
emerse
il
4
ottobre
sembra
che
si
stia
diffondendo
una
malattia
contagiosa
simile
all'ebola.
La
catastrofe
umanitaria
coincidente
con
questa
guerra
annunciata
sta
diventando
un
problema
e
c'è
da
attendersi
che
ogni
parte
in
causa
scaricherà
sull'altra
parte
la
responsabilità
del
dramma
in
corso.
Su
Rai
Televideo
del
4
ottobre,
ore
19,
appariva
la
notizia
che
il
presidente
Bush
aveva
promesso
di
stanziare
320
miliardi
di
dollari
(circa
720
mila
miliardi
di
lire)
per
i
profughi;
sul
TG1
di
un'ora
dopo
il
cronista
parlava
di
320
milioni
di
dollari,
una
somma
mille
volte
inferiore
(corrispondente
a
circa
750
miliardi
di
lire).
Gli Stati Uniti stanno compiendo voli per inviare cibo e medicinali ai profughi?
Sì, ma si tratta di 37 mila razioni per una quantità di profughi che oscilla tra i 5 e i 6 milioni di persone, raggiungendo solo lo 0,6%. Inoltre il 10 ottobre la Croce Rossa tedesca ha osservato che il lancio dei pacchi rischia di far dirigere i profughi verso zone minate mentre Medici Senza Frontiere ha criticato la diffusione di medicinali senza la necessaria assistenza medica a popolazioni che non conoscono le istruzioni d'uso dei medicinali stessi.
Esistono diverse posizioni nello staff del presidente Bush?
Sì. A premere per una immediata azione militare subito dopo gli atti terroristici dell'11 settembre sono stati i civili come Cheney per dare all'opinione pubblica e ai media un'immagine di forza e non di debolezza. Tali posizioni da "falchi" sono riassumibili nella posizione di Gianandrea Gaiani, direttore di Analisi Difesa (http://www.analisidifesa.it/) e consulente presso il Casd (Centro Alti Studi Difesa) il quale ha affermato: "Il vero effetto deterrente è colpire in maniera devastante i regimi che supportano il terrorismo, altrimenti è inutile (…) Ci siamo cullati nell'idea della guerra umanitaria e ora questo sogno si è rotto. La guerra è spietata e l'America l'ha capito e sta costringendo tutti a prendere una posizione e non prenderla significa prenderla in senso opposto" (Corriere del Giorno 17/9/01). Hanno invece frenato i militari statunitensi capeggiati dal generale Powell, ora segretario di stato. Per loro l'efficacia dell'attacco militare è stata fino all'ultimo dubbia (si veda l'articolo del consigliere Luttwak in appendice). Powell punta ad un'azione a lungo termine che raccolga una ampia coalizione internazionale. Powell ha dichiarato che tale coalizione è basata su una campagna politica, diplomatica e finanziaria, specificando il 4 ottobre che "c'è una componente militare che non è ancora stata usata e che sarà decisa, al momento opportuno, dal presidente Bush" (RAI Televideo). Il 7 ottobre l'attacco militare è stato presentato dal presidente Bush come un attacco non al popolo afghano (a cui ha promesso il lancio di cibo e medicinali) ma ai talebani. Secondo alcuni analisti l'opinione pubblica americana stava dando segni di impazienza di fronte alla tattica "attendista" dell'amministrazione Bush che rinviava di giorno in giorno l'attacco militare.
Che cosa ha frenato fino al 7 ottobre l'azione militare?
Oltre alle esigenze di stringere accordi diplomatici e di ottenere supporti logistici alternativi al Pakistan, vi è stato il cattivo andamento della borsa che è scesa quando si profilava l'attacco ed è salita quando la guerra non veniva annunciata.
Le informazioni che riceveremo saranno attendibili o saranno sottoposte alla censura militare?
Scrive Federico Fubini su Limes: "Dice Bush ai giornalisti, con un'affermazione che in altri momenti sarebbe costata cara: "Lasciatemi porre condizioni alla stampa nel modo seguente: qualunque fonte e metodo di informazione resterà protetto e segreto. La mia amministrazione non parlerà di come raccogliamo le informazioni, se lo facciamo e cosa esse dicano" (…) In questo quadro si pongono per esempio gli interrogativi su cosa può o non può un organo di stampa riportare sulle posizioni dei terroristi senza farsi strumento della loro propaganda (…) Dare la parola al portavoce taliban in grado di far cadere le Borse europee con due frasi, dev'essere ancora consentito?". (Limes supplemento n.4/2001)
Bin Laden ha rivendicato gli attentati dell'11 settembre negli Stati Uniti?
"Il miliardario saudita Osama Bin Laden ha smentito di essere implicato negli attentati a New York e a Washington. "Gli Stati Uniti puntano il dito contro di me, ma affermo categoricamente che non sono stato io", ha detto Bin Laden in un comunicato all'Aip, l'agenzia di stampa dei Taleban con sede in Pakistan. I leader religiosi hanno richiesto agli Stati Uniti le prove del coinvolgimento di Bin Laden". (RAI Televideo 16/9/2001)
Subito dopo l'attacco americano, nella notte del 7 ottobre, è però apparso Bin Laden in una TV vicina per dire a questo proposito: "Quello che è accaduto negli Stati Uniti è la reazione naturale alla politica cieca degli americani. Se l'America continua con questa politica i figli dell'Islam non fermeranno la loro lotta. Gli Stati Uniti sono stati colpiti da Dio in uno dei suoi punti più deboli. L'America adesso è spaventata da Nord a Sud, da Ovest a Est. Grazie Dio per questo. Ringrazio Dio per la distruzione dei simboli dell'America. Ciò che l'America ha assaggiato oggi è pochissimo rispetto a quello che abbiamo provato noi. Da 80 anni questa nazione musulmana e araba vede ogni tipo di umiliazione. Un gruppo di musulmani d'avanguardia sono riusciti a far provare all'America ciò che noi abbiamo provato". Il capo dell'organizzazione terroristica Al Qaeda ha giurato che "l'America non vivrà in pace prima che la pace regni in Palestina". (7 ottobre 2001 Corriere della Sera on line)
Vi è poi stata una successiva intervista a Bin Laden pubblicata sul settimanale in lingua urdu "Takbir" di cui ha dato notizia l'agenzia kuwaitiana "Kuna" da Islamabad. Si legge sulla Gazzetta del Mezzogiorno del 12/10/2001: "Rispondendo ad una precisa domanda, Bin Laden ha negato qualsiasi coinvolgimento di "alcuno dei suoi compatrioti negli attacchi suicidi contro gli Stati Uniti" affermando che l'Islam vieta di uccidere persone innocenti" e che né egli "né alcuno dei suoi compagni potrebbero osare violare gli insegnamenti dell'Islam"."
L'organizzazione di Bin Laden ha rivendicato gli atti di terrorismo dell'11 settembre?
L'organizzazione Al Qaida, di cui Bin Laden è considerato il regista, ha rivendicato gli attacchi dell'11 settembre durante la notte del 7 ottobre. La rivendicazione è avvenuta pubblicamente solo dopo gli attacchi americani in Afghanistan. Riferisce l'ANSA (ore 21.13 del 7/10/01): "Gli attentati contro gli Usa dell'11 settembre sono dovuti all'appoggio americano a Israele. Lo ha detto un portavoce di al Qaida, secondo quanto ha reso noto l'emittente al Jazira".
Qual è la posizione del governo afghano?
L'ambasciatore
afghano
in
Pakistan,
Abdul
Salam
Zaeef,
aveva
inizialmente
escluso
qualsiasi
responsabilità
di
Bin
Laden
mostrando
tuttavia
disponibilità
verso
una
sua
eventuale
estradizione:
"Solo
però
-
ha
affermato
-
in
presenza
di
prove
certe
che
dimostrino
il
suo
coinvolgimento.
Prove
che
studieremo
per
poi
prendere
una
decisione
alla
luce
delle
evidenze
disponibili".
(Fonte:
Corriere
del
Giorno
13/9/2001)
Il
7
ottobre
si
legge
sul
Televideo
RAI:
"Kabul:
dateci
prove
e
processiamo
Osama.
Le
autorità
afghane
sono
disposte
ad
arrestare
Osama
Bin
Laden
e
a
processarlo
in
una
corte
afghana
se
gli
Usa
faranno
una
formale
richiesta.
Lo
afferma
l'ambasciatore
dei
Talebani
in
Pakistan.
"Se
qualcuno
ci
porta
le
prove
non
sarà
un
problema
arrestarlo",
ha
spiegato
l'ambasciatore
Abdul
Salam
Zaeef.
Pronta
la
risposta
degli
Usa:
"Questo
non
è
un
negoziato",
afferma
alla
Cnn
una
fonte
di
Washington".
Poche
ore
dopo
c'è
stato
l'attacco
militare
Usa.
Si può legittimamente parlare di una "guerra al terrorismo"?
Queste sono le principali definizioni di guerra:
- "Lotta armata tra due popoli o fra due o più Stati divisi in campi opposti" (Enciclopedia De Agostini)
- "Contesa armata tra due o più Stati".(Dizionario Pittano)
- "La lotta armata tra due o più Stati o tra fazioni di uno stesso Stato" (Dizionario Garzanti)
- "Lotta tra due stati o all'interno di uno stato, condotta con le armi, con o senza l'osservanza del diritto internazionale in materia" (Dizionario DISC)
Bush
sostiene
che
l'orrenda
serie
di
attentati
negli
Usa
siano
un
"atto
di
guerra".
Tuttavia
la
parola
"guerra"
si
applica
ad
una
contesa
armata
fra
stati
o
all'interno
di
uno
stato
fra
fazioni
armate
opposte
(guerra
civile).
Fra
"azione
terroristica"
e
"azione
di
guerra"
vi
è
una
distinzione
a
meno
che
l'atto
di
terrorismo
non
sia
messo
in
atto
o
sostenuto
da
uno
Stato
contro
un
altro
Stato.
Secondo
gli
Stati
Uniti
la
guerra
all'Afghanistan
è
legittima
a
causa
della
copertura
offerta
a
Bin
Laden.
Tuttavia
non
sono
state
esperite
le
procedure
che
il
diritto
internazionale
prevede:
l'esibizione
delle
prove
per
ottenere
l'estradizione
del
responsabile
dell'atto
di
terrorismo.
E
paradossalmente
le
prove
-
anziché
provenire
dagli
Stati
Uniti
prima
dell'attacco
-
sono
venute,
in
forma
di
ammissione
proclamata,
dall'organizzazione
di
Bin
Laden
dopo
l'attacco,
quando
ormai
era
guerra
e
ogni
aspetto
procedurale
era
saltato.
E'
stata
una
prova
di
forza
da
una
parte
e
un
gioco
di
logoramento
dall'altro.
Ed
il
risultato
è
stata
una
guerra
che
pagheranno
i
civili.
Qual è il giudizio dato dal movimento pacifista italiano?
La
Tavola
della
Pace,
il
coordinamento
di
associazioni
pacifiste
che
ha
organizzato
la
Marcia
Perugia
Assisi,
ha
dichiarato
l'8
ottobre
2001:
“Gli
attentati
contro
gli
Stati
Uniti
sono
un
crimine
contro
l’umanità
e
i
responsabili
devono
essere
fermati
e
assicurati
alla
giustizia.
La
decisione
americana
di
effettuare
un
attacco
armato
contro
lo
Stato
dell’Afghanistan,
a
seguito
degli
attentati
subiti
lo
scorso
11
settembre,
è
sbagliata,
illegale
e
pericolosa.
Sbagliata
perché
provocherà
nuove
vittime
innocenti,
nuove
distruzioni,
nuove
violenze
e
anziché
sradicare
il
terrorismo
lo
alimenterà
insieme
all’odio
e
al
fanatismo
contro
gli
americani
e
l’Occidente.
Illegale
perché
è
espressamente
vietata
dal
diritto
internazionale
e
dalla
Carta
delle
Nazioni
Unite.
Pericolosa
perché
espone
i
cittadini
americani
e
tutti
i
loro
alleati
ad
una
catena
di
attentati
terroristici.
Anziché
fermare
la
spirale
del
terrore
questa
guerra
finirà
per
alimentarla".
Questa guerra era inevitabile?
Afferma
la
Tavola
della
Pace:
"Questa
guerra
non
era
inevitabile.
Fin
dal
giorno
degli
attentati
la
Tavola
della
Pace
ha
indicato
un’altra
strada
più
decisa,
precisa
ed
efficace:
la
strada
della
legalità
e
della
giustizia
penale
internazionale.
Rinunciare
a
farsi
giustizia
da
soli.
Affidare
all’Onu
la
responsabilità
di
agire
a
nome
dell’intera
umanità
per
sradicare
i
terrorismi
con
misure
politiche,
diplomatiche,
finanziarie
e
di
polizia
internazionale.
Ratificare
e
insediare
subito
la
Corte
Penale
Internazionale.
Intervenire
alle
radici
dei
problemi.
Mettere
fine
alla
politica
dei
“due
pesi
e
due
misure”.
Mettere
fine
al
conflitto
israelo-palestinese
e
togliere
l’embargo
all’Iraq.
Promuovere
il
disarmo
e
ridurre
l’ingiustizia
economica
che
alimenta
la
disperazione
e
il
disordine
internazionale.
Fin
dal
12
settembre
l’Onu
ha
intrapreso
la
strada
giusta
approvando,
con
uno
straordinario
consenso,
misure
nuove
e
concrete.
Perché
non
si
è
voluto
continuare
a
percorrere
la
strada
tracciata
dall’Onu?"
Si
poteva
agire
diversamente?
Scrive Noam Chomsky: "C'è la Corte Internazionale di Giustizia, e se gli USA lo volessero, potrebbero istituire un tribunale speciale com'è stato fatto per la Jugoslavia. Anche il Consiglio di Sicurezza dell'ONU può avviare azioni di forza se gli vengono presentate ragioni forti. Dovremmo ricordare che ci sono veri e propri precedenti legali. Il più ovvio, perché sostenuto da una delibera della Corte Internazionale di Giustizia e dal Consiglio di Sicurezza dell'ONU, sono le stesse autorità internazionali. Vent'anni fa, gli Stati Uniti fecero una guerra contro il Nicaragua, e fu una guerra terribile. Morirono decine di migliaia di persone, e il paese fu praticamente distrutto. Il Nicaragua non rispose lanciando bombe su Washington, ma si rivolse alla Corte Internazionale di Giustizia con un'accusa, e la Corte emise una sentenza in suo favore, ordinando agli Stati Uniti di porre fine al loro "uso illegale della forza" (cioè terrorismo internazionale) e di pagare una sostanziosa riparazione. È vero che gli Stati Uniti risposero con parole di disprezzo per la Corte e avviarono immediatamente un'escalation dell'attacco. A quel punto, il Nicaragua si rivolse al Consiglio di Sicurezza dell'ONU che votò una risoluzione che richiamava tutti gli Stati al rispetto del diritto internazionale. Non veniva nominato nessuno in particolare, ma tutti sapevano che si trattava degli Stati Uniti. È vero che gli Stati Uniti opposero il loro veto. Il Nicaragua si rivolse allora all'Assemblea Generale che per due anni di fila approvò una risoluzione simile con le sole opposizioni di USA ed Israele. E, una volta, di El Salvador. Ma gli Stati Uniti sono indubbiamente un paese molto potente. Se si oppongono ai mezzi della legge, non possono essere perseguiti. E quindi il Nicaragua non poté fare niente. D'altra parte, se gli Stati Uniti utilizzassero quei mezzi, nessuno potrebbe fermarli. Anzi, tutti li sosterrebbero".
I mezzi militari sono i più efficaci nel combattere il terrorismo?
Il polmone finanziario del terrorismo sono i "paradisi fiscali". In appendice riportiamo una dettagliata analisi dell'ex magistrato Antonio Di Pietro su come lui combatterebbe Bin Laden colpendo i "paradisi fiscali" dove transitano i soldi sporchi che legano il terrorismo ai traffici illeciti.
Perché l'Onu non è il centro di gestione di questa crisi internazionale?
"Chi sostiene che l'articolo 5 della Nato va interpretato e che comunque qualsiasi decisione va rimessa all'Onu, punta in realtà a mettere i bastoni tra le ruote agli americani. Lo sanno tutti infatti che all'interno dell'Onu gli Usa non hanno la maggioranza...", sostiene Gianfranco Pasquino, politologo ed ex parlamentare DS (Corriere della Sera 15/9/2001)
Gli Stati Uniti sono tuttavia riusciti ad avere l'appoggio della Russia e la cauta approvazione della Cina per cui il segretario generale dell'Onu Kofi Annan ha definito l'attacco militare sull'Afghanistan come azione di "legittima difesa"; gli Stati Uniti hanno comunicato al Consiglio di Sicurezza dell'Onu che la loro azione militare potrebbe colpire altre nazioni e il governo israeliano si è detto pronto a collaborare per un attacco contro l'Irak (fonte: RAI Televideo 9/10/01). Poche ore dopo l'approvazione - da parte di Kofi Annan dei raid aerei contro l'Afghanistan, gli Stati Uniti hanno colpito a Kabul (9/10/01) la sede di un'agenzia Onu per lo sminamento, facendo 4 morti e 2 feriti fra il personale Onu. Gli Stati Uniti hanno rivendicato l'operazione specificando che non si è trattato di un errore ma di un atto deliberato verso una sede che "non svolgeva solo compiti umanitari" (RAI Televideo 10/10/01).
Secondo i leader dell'Ulivo Rutelli, D'Alema, Fassino, Amato e Dini, l'Onu ha autorizzato i bombardamenti Usa in Afghanistan: è vero?
Secondo questi leader dell'Ulivo "solo dopo che l'Onu ha legittimato con sue risoluzioni l'uso della forza contro esecutori, mandanti e complici delle stragi americane, è partita l'offensiva militare". E hanno aggiunto:
"Si poteva agire diversamente? Crediamo di no".
Prima di esaminare le risoluzioni dell'Onu in merito, occorre subito rilevare la grande preoccupazione dell'Onu per questo conflitto che può causare la morte di milioni di profughi; l'Ansa registra il 14/10/01 quanto segue: "LONDRA - Milioni di afghani rischiano di morire di fame se non ci sarà una sosta nei bombardamenti per consentire una capillare distribuzione di aiuti alimentari, soprattutto nel centro del paese: lo ha detto oggi l'alto commissario per i diritti umani dell'Onu, Mary Robinson. L'alto commissario ha inoltre ricordato la marea di profughi che premono su Pakistan e Iran. 'Ma quei confini - ha aggiunto - sono chiusi. E' una situazione simile a quella del Ruanda'". ANSA 14/10/2001 13:58
Quindi questo comunicato di per sé è la smentita di un "via libera" dell'Onu ai bombardamenti, per lo meno nella forma attuale. Per quanto riguarda la posizione ufficiale dell'Onu sui bombardamenti la formula si presta a diverse interpretazioni, anche a seconda delle traduzioni e delle sintesi che se ne sono fatte. A riguardo della posizione dell'Onu sulla guerra in Afghanistan, il testo della dichiarazione di Kofi Annan è disponibile a questo link: http://www.un.org/News/dh/20011008.htm#40
Vi si legge: "Immediately after the 11 September attacks on the United States, the Security Council expressed its determination to combat, by all means, threats to international peace and security caused by terrorist acts. The Council also reaffirmed the inherent right of individual or collective self-defence in accordance with the Charter of the United Nations. The States concerned have set their current military action in Afghanistan in that context". Effettivamente vi è una frase è un po' sibillina ma si limita
a far notare come gli stati che hanno iniziato la guerra in Afghanistan, lo hanno fatto richiamandosi al diritto all'autodifesa, stabilito anche dalle Nazioni Unite e riaffermato nella recente risoluzione.Risoluzione che però non chiamava gli stati all'uso della forza, ma all'assicurare alla giustizia gli autori degli atti terroristici.
I mezzi da utilizzare per raggiungere questo scopo sono raccomandati nella frase successiva: "To defeat terrorism, we need a sustained effort and a broad strategy to unite all nations, and address all aspects of the scourge we face.The cause must be pursued by all the States of the world, working together and using many different means - including political, legal, diplomatic and financial means".
L'Onu si è occupato della lotta al terrorismo con pronunciamenti di carattere generale che possono essere (furbescamente) interpretati come un'autorizzazione "di ogni mezzo necessario".
Occorre fare questa importante annotazione: un conto è quanto viene detto nelle frasi che precedono la risoluzione, che hanno compito introduttorio alla risoluzione vera e propria ("Reaffirming the need to combat by all means, in accordance with the Charter of the United Nations, threats to international peace and security caused by terrorist acts") in cui si dice "con ogni mezzo necessario"; ma si deve notare l'inciso, che richiama sempre alla Carta della Nazioni Unite; altra cosa è il testo vero e proprio della risoluzione; se infatti vediamo il testo della risoluzione, troviamo questa forma comune, con la quale si chiudono molte delle risoluzioni dell'Onu: "Expresses its readiness to take all necessary steps [...] in accordance with its responsibilities under the Charter of the United Nations". Qui si parla di "tutti i passi necessari", non di "tutti i mezzi necessari", e ancora questi passi devono svolgersi nell'ambito delle responsabilità del Consiglio di Sicurezza come stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite, che a questo punto dobbiamo andarci a rileggere: http://www.un.org/aboutun/charter/
in particolare il capitolo 7 (quello del famoso articolo 51)
http://www.un.org/aboutun/charter/chapter7.htm
dove l'autorizzazione all'uso della forza passa attraverso una serie di passi, appunto, ben più complessi di una semplice frasetta introduttiva di una risoluzione.
Concludendo: è vero che le parole dell'Onu sono (forse volutamente) un po' sibilline, ma una corretta interpretazione non consente di concludere quanto sostengono i leaders dell'Ulivo, a meno che non si compia una interpretazione forzata, magari con l'ausilio di un esperto consulente (gli Stati Uniti hanno dato mandato a 6 mila legali di seguire tali questioni in occasione della guerra) che - dotato di competenze di diritto internazionale e di una buona conoscenza dell'inglese - arrivi a trovare qua e là parole da usare per giustificare la guerra.
PeaceLink ha affidato alla traduttrice Sabrina Fusari il compito di scandagliare il sito delle Nazioni Unite per meglio verificare se è vero ciò che dicono i vertici dell'Ulivo, ed ecco la sua risposta:
"Dispongo della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza così come l'ho scaricata dal sito www.un.org. Riassunto: il titolo 1 parla del congelamento dei beni finanziari dei terroristi. Il titolo 2 vieta il sostegno, sia finanziario, sia a livello di protezione, da parte di Stati a terroristi (il comma b e il comma g mi sembra possano anche essere intesi come autorizzazione a varare leggi anti-terrorismo. In particolare, se non vado errato, il comma g è incompatibile con il trattato di Schengen, per cui, questa Risoluzione ONU potrebbe rappresentare una base per sospendere il Trattato). Il titolo 3 sancisce la cooperazione tra Stati per "prevenire e sventare" (prevent and suppress, comma c) attacchi terroristici. Gli altri titoli contengono gli auspici dell'ONU, nessuno dei quali mi sembra si riferisca ad un attacco armato. Io di articoli o commi che sanciscano la legittimità della guerra non ne vedo. Anzi, vedo il comma (e), titolo 2, che recita:
(Decide altresì che tutti gli Stati dovranno)
"Garantire che chiunque partecipi a finanziare, pianificare, preparare e commettere atti terroristici, o ancora a sostenere gruppi terroristici, sia assicurato alla giustizia, e garantire altresì che, tra le altre misure intraprese contro di essi, tali atti terroristici siano definiti quali gravi crimini dalle leggi e normative nazionali, e che le pene riflettano debitamente la gravità di tali atti terroristici".
Mi sembra che l'enfasi sia sulla prevenzione attraverso una maggiore attenzione all'immigrazione, alle transazioni finanziarie e in particolare, negli ultimi titoli, si richiama gli Stati a fare attenzione al fatto che la criminalità organizzata (droga ecc.) ha connessioni con i terroristi, e quindi non bisogna abbassare la guardia su questo versante. Insomma, mi sembra proprio riferirsi ad azioni a carico delle Polizie nazionali che dovrebbero poi coordinarsi tra loro a livello internazionale".
Se diventasse "legale" per gli Stati Uniti bombardare l'Afghanistan, un'altra nazione potrebbe fare lo stesso verso uno stato confinante nemico sospettato di terrorismo?
Le interpretazioni non corrette della risoluzione dell'Onu vista sopra potrebbero aprire la porta a tanti raid e vendette fra nazioni confinanti in nome della lotta al terrorismo; un bombardamento lo potrebbe fare ad esempio subito la Macedonia contro le basi terroristiche dell'UCK in Kossovo.
E' legittimo per la Nato intervenire a sostegno di un'azione militare contro l'Afganistan?
La Nato deve rispettare l'articolo 1 che sancisce per le "parti" (ossia le nazioni aderenti alla Nato) quanto segue: "Le Parti si impegnano, in ottemperanza alla Carta delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale nella quale possano essere implicate, in modo da non mettere in pericolo la pace, la sicurezza e la giustizia internazionali, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all'impiego della forza in modo incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite". Quindi il ricorso all'articolo 5 della Nato (l'autotutela collettiva) è vincolato alla dimostrazione che il governo dell'Afghanistan è direttamente implicato negli attentati dell'11 settembre negli Usa. Altrimenti tutto rientra nella definizione di "controversia" da "comporre con mezzi pacifici".
Giovanni Paolo II il giorno dopo (12/9/2001) ha detto: "Non posso iniziare questa Udienza senza esprimere profondo dolore per gli attacchi terroristici che nella giornata di ieri hanno insanguinato l'America, causando migliaia di vittime e numerosissimi feriti (...) Con partecipe affetto, mi rivolgo all'amato popolo degli Stati Uniti in quest'ora di angoscia e di sgomento, in cui viene messo a dura prova il coraggio di tanti uomini e donne di buona volontà. (...) Imploriamo il Signore perché non prevalga la spirale dell'odio e della violenza. La Vergine Santissima, Madre di misericordia, susciti nei cuori di tutti pensieri di saggezza e propositi di pace".(Fonte: sito Internet del Vaticano www.vatican.va)
In seguito il Papa ha invocato l'America a non cedere alla guerra invitandola "a non cedere alla tentazione dell'odio e della violenza, ma ad impegnarsi al servizio della giustizia e della pace". (RAI Televideo 16/9/2001)
Sulla
guerra
la
posizione
vaticana
è
stata
meglio
specificata
il
27
settembre:
"Nessun
via
libera
ai
bombardamenti.
Lo
ha
detto
oggi
il
portavoce
Navarro,
incontrando
i
giornalisti.
"Si
è
fatta
una
semplificazione
ingiustificata,
nessuno
ha
mai
detto
"fate
come
vi
pare"
perché
esiste
una
precisa
etica
cristiana
sulla
legittima
difesa,
che
tiene
conto
della
proporzionalità
e
impone
che
non
venga
versato
il
sangue
di
vittime
innocenti".
(RAI
Televideo
27/9/01)
Il
3
ottobre
il
Papa,
all'udienza
generale
in
Piazza
S.
Pietro,
ha
detto:
"La
religione
non
deve
mai
essere
utilizzata
come
motivo
di
conflitto.
Cristiani
e
musulmani,
insieme
con
i
credenti
di
ogni
religione,
sono
chiamati
a
ripudiare
la
violenza
per
costruire
un'umanità
amante
della
vita,
che
si
sviluppi
nella
giustizia
e
nella
solidarietà"
(RAI
Televideo
4/10/01)
Dentro il mondo cattolico vi sono differenti posizioni in merito?
Esiste un dibattito in cui Gianni Baget Bozzo accusa "la volontà islamica di voler sostituire con violenza il cristianesimo: la guerra di religione è entrata nella Storia"; il cardinale Biffi ha pregato "perché la cristianità trovi la strada giusta per la propria sopravvivenza" (Corriere della Sera 15/9/2001); Giulio Andreotti sostiene: "Quello attuale è un momento che rischia di diventare "muscolare". A maggior ragione occorre che si faccia appello alle virtuose risorse della moderazione e del diritto come fondamento anche della vita internazionale. A differenza della prepotente massima degli antichi romani, io credo che chi vuole la pace debba lavorare per la pace" (editoriale intitolato "La miglior vendetta? Lavorare per la pace", Corriere del Giorno 13/9/2001).
Il cardinale Marini, nel suo intervento al summit islamo-cristiano promosso a Roma dalla Comunità di Sant'Egidio, ha detto: "Sarà importante, nella comprensibile ansia di legittima difesa, agire nella ragionevolezza, senza facili semplificazioni, senza affrettate creazioni di capri espiatori che possono soddisfare la volontà di rivalsa" (RAI Televideo 4/10/01).
Qual
è
la
posizione
del
leader
palestinese
Arafat
di
fronte
agli
atti
di
terrorismo
dell'11
settembre
negli
Usa?
"Arafat ha espresso le proprie condoglianze, anche donando sangue a favore delle vittime". (Fonte: Corriere della Sera 16/9/2001) Dopo l'inizio dell'attacco militare all'Afghanistan ha vietato le manifestazioni a favore dei Bin Laden reprimendole con la forza (vi sono state anche alcune vittime fra i manifestanti).
Il mondo dell'Islam ha condannato il terrorismo?
In appendice pubblichiamo il documento congiunto di Sarajevo concordato fra cristiani e musulmani. Yusuf Al-Qaradawi, direttore del Centro Ricerche di Sunna (Quatar) intervenendo al Summit della Comunità di Sant'Egidio, ha dichiarato: "A nome di tutti gli Ulema dell'Islam rifiutiamo il terrorismo. Allo stesso modo rifiutiamo di lottare contro il terrorismo con altro terrorismo, che condanna un intero popolo per crimini individuali".
L'Islam ammette la poligamia, vietata dalla legge italiana; in questo come in altri casi l'Islam in territorio italiano può costituire un pericolo?
L'articolo 8 della Costituzione Italiana sancisce: "Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge". Più avanti l'articolo 19 garantisce: "Tutti hanno diritto di professare la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume". L'articolo 8 fissa anche un obbligo: le confessioni religiose non devono contrastare con l'ordinamento giuridico italiano. Ma questo non vale solo per i musulmani che entrano in Italia, vale anche ad esempio per i cristiani statunitensi che non potranno rivendicare come diritto, sul suolo italiano, l'applicazione della pena di morte o la liberalizzazione delle armi da fuoco come avviene negli Usa.
Cosa detto Amnesty International dopo i fatti dell'11 settembre?
Amnesty International appellandosi ai capi di tutti i governi, il 14/9/2001 ha ricordato che "la solidarietà internazionale alle vittime non può essere dimostrata cercando vendette ma cooperando all'interno delle regole imposte dalle leggi, per arrestare i responsabili. Criminalizzare intere comunità non porta a nulla". (Fonte: http://www.amnesty.org/)
A poche ore dall'attacco sull'Afghanistan, Amnesty International ha rinnovato il suo appello finalizzato a risparmiare i civili ed evitare attacchi indiscriminati chiedendo al governo Usa ed agli Stati alleati di garantire il pieno rispetto degli standard internazionali in materia di diritto umanitario. (Fonte: http://www.vita.it/)
Gli Stati Uniti hanno detto che potranno colpire altre nazioni: colpiranno quelle dei collaboratori di Bin Laden?
Se dovessero colpire Suleiman Abu Gheith dovrebbero colpire il Kuwait perché è kuwaitiano, se dovessero colpire Ayman Zawahiri e Abdulaziz Abu Sitta (alias Mohammed Atef) dovrebbero colpire l'Egitto perché sono egiziani. Quindi i criteri per colpire altre nazioni non saranno legati alla nazionalità dei più stretti collaboratori di Bin Laden (i dati sono tratti dal Corriere della Sera 9/10/01 e si basano sul video trasmesso da Al Jazira).
Dove è possibile leggere in italiano la Carta dell'Onu?
La Carta dell'Onu è disponibile su Internet all'indirizzo:
http://www.studiperlapace.it/documentazione/onucarta.html
Per quale ragione Russia e Cina stanno appoggiando l'attacco all'Afghanistan?
La Cina vede nel fondamentalismo islamico il maggior rischio di disintegrazione della propria autorità nazionale. La Russia vede inoltre finalmente colpita una nazione che dà sostegno ai guerriglieri ceceni i quali contendono il territorio della Cecenia alle truppe russe; a questo proposito va osservato che gli Stati Uniti avevano criticato la condotta della Russia in Cecenia per violazione dei diritti umani; in tal modo, pur sostenendo nobili principi, gli Usa traevano vantaggio geopolitico dall'instabilità in Cecenia essendo tale regione uno snodo fondamentale per gli oleodotti (la Russia pagava in Cecenia il prezzo del non completo controllo sulle proprie vie di fornitura energetica). La Russia così otterrà che fra gli "stati canaglia" della lista nera americana venga inserito anche l'Afghanistan e ci sarà probabilmente un accordo bilaterale per il controllo delle forniture energetiche anziché una guerra di logoramento e di ostruzionismo. La Russia spera inoltre che vengano chiuse le polemiche sulle violazioni dei diritti umani da parte delle truppe russe in Cecenia offrendo un apprezzamento per le "cautele umanitarie" dell'operazione Usa in Afghanistan: "Non ho alcun dubbio - ha affermato il presidente russo Vladimir Putin - che gli Stati Uniti faranno il massimo sforzo per evitare vittime innocenti" (Corriere della Sera 9/10/01).
Ma l'Afghanistan non era per gli Usa uno "stato canaglia"?
No, fino all'11 settembre tale stato non figurava nella "black list" degli stati considerati come fomentatori del terrorismo (fonte: Limes 4/2001). Era in una lista secondaria (quella degli stati su cui vi erano sospetti) di minore importanza. Tanto per dare un'idea: Cuba era nella "lista nera" e l'Afghanistan no, forse perché l'Afghanistan dava manforte ai guerriglieri ceceni rendendo (fino ad ora) difficile alla Russia in controllo sul proprio oleodotto. Inoltre i guerriglieri afghani (mediatori in traffici di armi e droga) avevano dato manforte ai guerriglieri kossovari dell'Uck, schierati dalla parte della Nato nella guerra del 1999 contro la Jugoslavia (fonte: Limes 4/2001).
Chi ha addestrato i guerriglieri di Bin Laden?
I primi campi di addestramento dei guerriglieri di Bin Laden sono stati due campi scozzesi, rispettivamente nei pressi di Criffel, nel Dumfries e nella remota penisola di Applecross nella Scozia occidentale. La fonte di queste informazioni è "Il Giornale" del 17/9/01 nel quale la corrispondente Erica Orsini da Londra annota: "Soldati impeccabili, con un debole per i western di John Wayne. Così erano i mujaheddin, l'"esercito" segreto di Osama Bin Laden, che fu addestrato ad uccidere nei campi militari britannici, tra le colline ricoperte d'erica della selvaggia Scozia. A rivelarlo ieri, in un'intervista pubblicata sul quotidiano 'Sunday Mail' è stato proprio uno degli "insegnanti" dei guerriglieri afghani che negli anni Ottanta combatterono i russi supportati dagli americani e dagli inglesi. Ken Connor, eroe dei corpi speciali inglesi fu incaricato di organizzare i vari campi di addestramento e per farlo senza il coinvolgimento dell'esercito nazionale dovette perfino rassegnare le dimissioni da quest'ultimo". Ma vediamo cos'altro ha rivelato Ken Connor al Sunday Mail: "Gran parte dell'infinita ricchezza dei Bin Laden - afferma - è stata costituita da finanziamenti della Cia stanziati per la costituzione di un governo "amico" afghano che combattesse la guerra per conto degli Stati Uniti". I guerriglieri di Bin Laden vennero addestrati molto bene. "Alcuni di loro furono addestrati anche alla guida di elicotteri e all'attacco dei campi d'aviazione". "Oggi il presidente Bush - osserva Ken Connor - forse si starà chiedendo quanto è costato veramente all'America l'addestramento dei futuri soldati di Bin Laden".
Qual è la storia recente dell'Afghanistan?
Dopo
la
fine
del
decennale
conflitto
(definito
spesso
"il
Vietnam
della
Russia")
tra
le
truppe
d'occupazione
sovietiche
e
i
guerriglieri
islamici
Mujaidin
(finanziati
e
armati
da
Usa,
Pakistan
e
Arabia
Saudita),
terminato
nel
1989
con
il
ritiro
dell'Armata
Rossa,
rimase
in
carica
il
governo
filo
sovietico
(seppur
moderato)
di
Najibullah,
contro
cui
i
Mujaidin
continuarono
a
combattere,
sempre
con
il
sostegno
della
Cia
e
del
Pakistan.
Nel
1992
i
guerriglieri
islamici
conquistarono
Kabul,
ma
subito,
sconfitto
il
nemico
comune,
le
fazioni
tribali
che
lo
componevano
entrarono
in
lotta
per
il
potere,
formalmente
in
mano
al
nuovo
presidente
Rabbani.
Seguirono
anni
di
lotte
senza
quartiere,
di
anarchia
totale.
Finché
nel
1996
la
fazione
più
fondamentalista,
quella
degli
studenti
sunniti
Talebani,
è
riuscita
a
conquistare
Kabul.
Solo
Pakistan,
Arabia
Saudita
e
Emirati
Arabi
Uniti
hanno
riconosciuto
il
governo
teocratico
e
oscurantista
dei
Talebani
.
La
resistenza
moderata
sciita
si
è
concentrata
nella
parte
nord
del
Paese,
dove
varie
fazioni
si
sono
poi
unite
nell'Alleanza
Nordica,
appoggiata
dalla
Russia
che
non
vuole
perdere
totalmente
il
controllo
della
regione.
La
guerra
prosegue
durissima
e
a
fasi
alterne
nelle
provincie
settentrionali
dell'Afghanistan.
Attualmente
il
90%
del
Paese
è
in
mano
dei
Talibani
(che
appoggiano
i
Ceceni
contro
la
Russia
e
addestrano
i
terroristi
internazionali),
anche
se
le
offensive
dell'Alleanza
Nordica
guidata
dal
generale
Masood
sono
spesso
arrivate
a
minacciare
la
stessa
Kabul.
Un
ventennio
di
guerre
ha
causato
la
morte,
oltre
che
di
15mila
soldati
sovietici,
di
oltre
2
milioni
di
afghani
e
un
numero
incalcolabile
di
rifugiati
che
vivono
in
condizioni
drammatiche.
Cosa ne pensava Bush dei Taleban?
"Cosa
ne
pensa
dei
Taleban?"
Intervistato
da
"Galmour"
un
anno
fa,
George
W.
Bush
-
allora
candidato
alla
Casa
Bianca
-
fece
scena
muta.
Poi
si
illuminò:
"Sono
per
caso
un
complesso
rock?..."
(Fonte:
Il
Giornale,
21/9/2001)
Qual è la posizione della Libia, della Jugoslavia e di Cuba?
Gheddafi ha approvato senza riserve i raid. Per il governo jugoslavo i bombardamenti sull'Afghanistan rappresentano "una reazione giustificata e logica al terrorismo", a differenza di quelli della Nato del 1999 per la crisi del Kossovo (allora "nessuno aveva attaccato gli Usa" ha detto Zoran Zivkovic, ministro dell'interno); questo appoggio ha anche una possibile spiegazione, infatti gli Stati Uniti si sono appoggiati - nella guerra contro la Jugoslavia - sui guerriglieri dell'Uck che avevano stretti rapporti con i guerriglieri afghani; il governo jugoslavo tenterebbe così di mettere fuori gioco l'Uck con le sue mire separatiste e destabilizzatrici per la Macedonia. Fidel Castro ha invece condannato la guerra: "Questa è una guerra a favore del terrorismo, una cura peggiore del male. Un intero Paese è stato trasformato in terreno di sperimentazione per i più moderni armamenti. Questa è una guerra della tecnologia più sofisticata contro quanti non sanno leggere né scrivere". (Fonte: Corriere della Sera 9/10/01)
Il terrorismo internazionale è nato contro la volontà delle superpotenze mondiali o, al contrario, è stato da esse favorito?
"Un ruolo non secondario è stato giocato dalla cosiddetta "guerra fredda" tra il blocco delle nazioni occidentali attorno agli Stati Uniti, e il blocco di nazioni orientali attorno all'Urss (1945-1989). Alcuni paesi, attraverso i loro servizi segreti, hanno stabilito alleanze con gruppi criminali, e hanno favorito il narcotraffico. I guadagni della droga servivano per creare fondi clandestini da utilizzare in operazioni politiche e militari segrete, a vantaggio dell'una o dell'altra superpotenza. I soldi della droga potevano servire all'acquisto di armi alimentando guerriglie in America Latina, colpi di stato in Africa, oppure a finanziare un partito in Europa". (Luigi Ciotti, "Chi ha paura delle mele marce? Giovani, droghe, emarginazione", EGA-SEI, p.42)
C'è il rischio di una guerra atomica?
"Gli Usa non escludono uso di armi nucleari. Il segretario alla Difesa americano, Donald Rumsfeld, non ha escluso il ricorso alle armi nucleari nel conflitto contro i terroristi. L'affermazione è stata fatta da Rumsfeld durante un'intervista televisiva. Rispondendo ad una domanda, il ministro ha detto che quest'opzione non è stata esclusa. (23/09/01 RAI Televideo)
In Italia chi si sta occupando dei profughi afgani?
Fra le associazioni italiane l'Aifo, l'Associazione Papa Giovanni XXIII (Operazione Colomba) ed Emergency si stanno occupando dei profughi mediante contatti e missioni dirette in Pakistan. Il dottor Gino Strada, responsabile di Emergency, si è diretto verso l'Afghanistan per l'aiuto umanitario (è chirurgo di guerra e ha soccorso chi è stato dilaniato dalle mine) e ha lanciato appelli alla pace. Ma questa iniziativa è stata al centro di una polemica. Scrive Emergency in un suo comunicato del 2 ottobre: "Il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi in Senato ha parlato di “un medico integerrimo ma di confuse idee, che non saprebbe scegliere tra gli Stati Uniti e l'Afghanistan. Noi ha aggiunto tra la grande democrazia americana ed una teocrazia violenta che costringe le donne al silenzio e alla segregazione, noi abbiamo già scelto e definitivamente”. Secondo agenzie di stampa il Presidente del Consiglio si riferirebbe a Gino Strada che ha dichiarato “io non mi sento più americano di quanto non mi senta afgano”. Emergency, di cui Gino Strada fa parte, sta con gli indifesi, con le vittime civili delle guerre; non ha mai preso posizione in favore o contro qualche Governo o Paese. Una vita persa americana ha lo stesso valore assoluto della vita di un cambogiano, di un iracheno, di un italiano". Sul sito http://www.vita.it/ vi è un elenco delle organizzazioni umanitarie impegnate per il soccorso ai profughi. Sul sito di Unimondo c'è la pagina di documentazione http://www.unimondo.org/crisiUSA/profughi.gif
Non tutti sono d'accordo sui benefici dello scudo spaziale. "Missili nucleari lanciati sugli Stati Uniti e intercettati dallo scudo antimissile progettato dal Pentagono potrebbero cadere sull'Europa o in
qualche altra parte del mondo. Lo affermano alcuni ricercatori del prestigioso Massachusetts Institute of Tecnology (Mit) di Boston. Il programma di scudo spaziale, per il quale sono già iniziati i primi esperimenti, ha come obiettivo la deviazione dei missili dalla loro traiettoria ma non quello di distruggere le testate nucleari, che nel caso l'intercettazione abbia successo potrebbero cadere in qualsiasi parte della superficie terrestre, secondo i fisici del Mit. L'opzione del Pentagono è quella di prendere di mira il missile nemico durante la fase di propulsione, nel corso della quale è più facilmente avvistabile: comportandosi come un piccolo razzo, esso emette calore, il che consente di
localizzarlo. In seguito, in orbita bassa, il missile è più freddo e molto più difficile da intercettare. "Anzitutto l'intercettazione in fase di propulsione deve funzionare, il che è da dimostrare", spiega George Lewis, fisico del Mit specializzato nei sistemi di difesa antimissile. "Ma se questo funziona, la domanda successiva è: dove andrà a cadere la testata nucleare?". Secondo l'equipe di tre scienziati del Mit che da anni lavorano sulla questione, con la tecnologia disponibile attualmente o negli anni a venire non esiste alcuna possibilità di intercettare un missile controllandone allo stesso tempo il punto di caduta. Che si tratti di missili intercettori o di laser giganti su aerei o navi, non c'è alcuna possibilità che la testata nucleare sia distrutta, assicurano i fisici di Boston".
(Fonte: Il Giornale 8/9/2001, titolo dell'articolo: "Scudo, i missili intercettati possono cadere
sull'Europa")
E' vero che prima dell'attentato dell'11 settembre vi sono state operazioni di borsa "sospette"?
Sì. alcune operazioni di borsa sembravano orientate "come se" qualcuno sapesse degli attentati. Ma chi pensasse di trovarci operatori di borsa alle dipendenze di Bin Laden rimarrebbe deluso. Nel notiziario delle ore 16 del 3 ottobre 2001 di Radio Capital veniva riferita di una "svista" di alcuni funzionari grazie alla quale è trapelata un'informazione delicatissima: General Motors e Boeing sono nella lista dei "sospetti". Riportiamo integralmente quanto pubblicato sul sito web di Radio Capital (http://www.capital.kataweb.it/news/capital_127930.html): "3/10/01 New York, 16:31.
Attacco agli Usa: GM e Boeing in lista di titoli sospetti. Sono 28 i titoli su cui le autorità del governo americano stanno indagando per scoprire eventuali manovre speculative operate nei giorni precedenti l'11 settembre da persone a conoscenza dei piani terroristici. Tra questi ci sono anche la General Motors e la Boeing. La lista stilata dalla Securities and exchange commission (Sec), l'equivalente americano della nostra Consob, è divenuta di pubblico dominio dopo essere apparsa per qualche ora sul sito web di un'unione commerciale canadese che non aveva colto l'invito alla massima riservatezza lanciato nei giorni scorsi dalla Sec. Tra le 28 aziende compaiono le compagnie aeree e assicurative che più hanno sofferto alla riapertura dei mercati azionari dopo la più lunga sospensione dal dopoguerra. In certi casi i ribassi sono stati di oltre il 50% del valore, ed evidentemente chi avesse speculato essendo a conoscenza dei piani avrebbe potuto trarne un vantaggio incalcolabile. Ma alcune anomalie nei volumi di transazione, specialmente nelle operazioni di 'short', sarebbero state notate anche sui titoli di colossi industriali come appunto General Motors, Boeing, Lockheed Martin and Raytheon. Secondo quanto riferisce il Wall Street Journal, gli inquirenti non sarebbero riusciti per il momento a trovare alcuna prova certa di speculazioni "coscienti", cioè legate a una previa conoscenza di quello che sarebbe successo. E per qualcuno sarà del tutto impossibile stabilire qualsiasi legame tra i terroristi e chi ha guadagnato giocando al ribasso. (Dem)
Sì, in quanto la prima guerra mondiale nacque da un atto di terrorismo che venne attribuito dall'Austria alla Serbia. Vediamo come si svolsero i fatti. "Il 28 giugno 1914 nella città di Sarajevo, capitale della Bosnia (la regione che l'Austria-Ungheria aveva annesso nel 1908), uno studente nazionalista impugnò la pistola e sparò contro l'erede al trono austro-ungarico, l'arciduca francesco Ferdinando, che restò ucciso insieme con la moglie (...) Il governo austro-ungarico attribuì immediatamente la responsabilità dell'attentato alla Serbia e cercò di sfruttare il tragico avvenimento per infliggerle un colpo definitivo. La Serbia era la maggiore indiziata perché aveva sempre condannato l'annessione della Bosnia da parte dell'Impero austro-ungarico e manifestava nei confronti di questo un'ostilità irriducibile. Oggi noi sappiamo che il governo serbo non aveva responsabilità dirette nell'attentato: era al corrente che un gruppo di terroristi stava preparandolo, ma non riuscì ad impedirlo. Il governo austro-ungarico ritenne tuttavia che gli indizi fossero sufficianti e lanciò un ultimatum: entro due giorni la Serbia avrebbe dovuto sciogliere tutte le formazioni antiaustriache e consentire a funzionari austriaci di compiere ispezioni sul suo territorio per accertare le responsabilità dell'attentato. La Serbia accettò il primo punto , ma rifiutò le ispezioni, ordinando contemporaneamente la mobilitazione generale (cioè la chiamata alle armi della popolazione). Era la guerra: quando il 28 luglio la capitale della Serbia, Belgrado, fu bombardata dai cannoni austriaci, si scatenò una reazione a catena che trascinò nel conflitto, una dopo l'altra, tutte le grandi potenze europee". (Fonte: Calvani Vittoria e Giardina Andrea, "La storia dall'Illuminismo ai giorni nostri", Arnoldo Mondadori)
Esiste un sito di informazione chiara e divulgativa sull'Islam?
Si può consultare il sito http://www.islam-ucoii.it/faq.htm a cura dell'Unione delle Comunità ed Organizzazioni Islamiche in Italia.
"L'85% degli americani è favorevole ad azioni militari e di essi il 75% ritiene che le ritorsioni vadano intraprese anche se implicano vittime innocenti. E' quanto emerso da un sondaggio d'opinione compiuto negli Usa da cui risulta che gran parte degli americani appoggia in pieno la politica di Bush e tra i sacrifici mette anche la rinuncia alla privacy e alla segretezza delle conversazioni telefoniche." (RAI Televideo 16/9/2001)
Un
sondaggio
pubblicato
il
27/9/01
da
Il
Messaggero
riporta
che
il
45%
degli
italiani
è
contro
la
guerra
e
il
restante
è
a
favore
di
un'azione
militare.
In questo momento di venti di guerra esiste una "chiamata alla pace"?
Sì, cliccando su http://db.peacelink.it/volontari ci si può "arruolare" nel movimento per la pace; inserendo i propri dati si crea un database di attivisti decisi ad usare la nonviolenza per evitare che al sangue innocente versato se ne aggiunga altro di persone innocenti, colpevoli solo di essere nel posto sbagliano in un momento sbagliato e dalla parte sbagliata.
----- APPENDICE DI APPROFONDIMENTO -----
Sommario:
- Emergenza profughi (Vita)
- Discorso di Bush alla nazione (7/10/01)
- "Ecco come darei la caccia a Bin Laden" (A. Di Pietro)
- "La vendetta? Non in nome di nostro figlio" (lettera al "New York Times")
- Appello urgente dalle donne afgane
- Appello delle Donne per i Diritti Umani in Afghanistan
- Il rischio dell'intolleranza religiosa (dal quotidiano "Il Giornale")
- Lo staff del Presidente (come simulare a scuola la crisi internazionale)
- Sarà una guerra di parole (E. Luttwak)
- Il testo del Trattato NATO
- Il movimento per la pace negli Stati Uniti (dal "Boston Globe")
- Palestinesi felici per gli attentati agli americani? (N. Parry)
- Conferenza internazionale su cristiani e musulmani in Europa
- Intervista a Chomsky
- La CIA e l'estremismo islamico (recensione)
- Manuale per la propaganda di guerra (Carlo Gubitosa)
- Il terrorismo silenzioso
- Lettera ai pacifisti (dai leader dell'Ulivo, 11/10/01)
- Pensieri sulla guerra (cosa hanno detto nel mondo)
- Storia dei pensieri sulla guerra (cosa hanno detto in passato)
EMERGENZA PRUFUGHI
Fonte: Vita
http://web.vita.it/articolo/index.php3?NEWSID=9655
È
un'emergenza
umanitaria
nell'emergenza
umanitaria
quella
che
Onu
e
società
civile
affrontano
in
Afghanistan.
Il
milione
e
mezzo
di
persone
in
fuga
dal
paese
per
paura
di
un
attacco
americano
si
somma
ai
2
milioni
e
mezzo
di
afghani
che
già
vivono
nei
campi
profughi
in
Pakistan
e
al
milione
e
mezzo
scappato
in
Iran.
I
320mila
civili
che
rischiano
di
morire
di
fame
nelle
prossime
settimane
si
aggiungono
ai
5
milioni
di
cittadini
che
già
prima
degli
attentati
sopravvivevano
solo
grazie
agli
aiuti
del
Programma
alimentare
mondiale.
La
nuova
guerra
degli
Stati
Uniti
contro
il
terrorismo
si
aggiunge
a
22
anni
di
guerra
civile
e
contro
gli
invasori.
Il
blocco
dei
voli
umanitari
e
l'evacuazione
delle
ong
occidentali,
imposto
il
12
settembre,
arriva
al
termine
di
tre
anni
di
siccità.
I
fondi
a
rilento
Come
se
questa
moltiplicazione
di
emergenze
non
bastasse,
alla
cronica
mancanza
di
denaro
per
progetti
umanitari
in
Afghanistan
da
tre
settimane
si
aggiunge
la
difficoltà
di
raccogliere
fondi
per
un
paese
ritenuto
responsabile
di
6mila
morti
innocenti.
L'ong
AfghanAid
l'ha
spiegato
ai
suoi
sostenitori
con
un
comunicato
online
(
afghanaid.org.uk
)
invitandoli
a
non
discriminare
fra
le
vittime
americane
e
quelle
afghane
con
un'aspettativa
di
vita
media
che
non
supera
i
44
anni.
Ma
senza
grandi
risultati.
E
se
un
po'
più
fortunata
si
è
rivelata
la
raccolta
fondi
di
Oxfam,
24mila
dollari
in
una
settimana,
per
il
momento
l'unico
sostegno
economico
su
cui
possono
contare
i
profughi
afghani,
i
paesi
che
li
ospiteranno
e
le
ong
che
si
stanno
preparando
ad
accoglierli,
sono
i
4
milioni
di
euro
donati
dall'Unione
europea
e
i
16
milioni
di
dollari
con
cui,
al
2
ottobre,
numerosi
governi
(la
generosa
Italia
in
testa,
con
una
donazione
di
7
milioni
di
dollari)
avevano
risposto
alla
richiesta
di
268
milioni
lanciata
dall'Acnur.
Le
operazioni
più
urgenti
da
finanziare?
Per
le
quattro
agenzie
Onu
e
le
dodici
organizzazioni
non
governative
impegnate
nell'emergenza
(vedi
mappa)
a
dettare
la
lista
delle
priorità
sono
il
clima
e
la
geografia
della
terra
dei
Talebani.
I
meno
25
gradi
dell'inverno
afghano
ormai
alle
porte,
che
l'anno
scorso
nella
sola
Herat
hanno
ucciso
centinaia
di
persone
ogni
notte,
rendono
più
che
mai
urgente
la
costruzione
di
ripari
per
i
7
milioni
e
mezzo
di
persone
a
rischio
in
Afghanistan.
“Nel
20
per
cento
dei
casi
sono
bambini
sotto
i
cinque
anni
gravemente
denutriti”,
spiega
Roberto
Salvan,
direttore
di
Unicef
Italia,
il
Fondo
delle
Nazioni
unite
per
l'infanzia
che
il
2
ottobre,
dopo
20
giorni
di
interruzione
degli
aiuti,
ha
portato
a
Faizabad,
nella
zona
controllata
dall'Alleanza
del
nord,
200
tonnellate
di
alimenti
ad
alto
contenuto
proteico
e
vestiti
per
ripararsi
dal
freddo.
Le
peripezie
dei
camion
Il
percorso
seguito
dai
19
camion
dell'Unicef
e
delle
altre
agenzie
Onu
per
raggiungere
Faizabad
spiega
chiaramente
come
la
geografia
del
paese
stia
condizionando
le
operazioni
umanitarie.
Partito
sabato
28
settembre
dalla
città
pakistana
di
Peshawar,
il
convoglio
ha
percorso
450
chilometri
verso
nord
fino
a
raggiungere
Chitral,
a
3mila
metri
di
altezza.
Qui,
il
giorno
dopo,
il
carico
di
tutti
i
camion
è
stato
trasferito
su
un
centinaio
di
jeep
a
quattro
ruote
motrici
che
hanno
raggiunto
il
passo
Shah
Saleem,
a
4mila
metri,
e
quindi
consegnato
gli
aiuti
a
500
portantini
che
li
hanno
distribuiti
su
4mila
asini
cui
ci
sono
voluti
due
giorni
per
compiere
i
40
chilometri
che
separano
il
passo
dalla
pianura
afghana
di
Zeebak.
Dove
il
carico
umanitario
è
stato
nuovamente
caricato
su
dei
camion
diretti
a
Faizabad.
E
se
trasportare
generi
di
soccorso
in
territorio
afghano
è
difficile,
praticamente
impossibile
è
farci
entrare
operatori
occidentali
specializzati
in
guerre
e
assistenza
ai
profughi.
Le
difficoltà
dei
profughi
Al
chirurgo
Gino
Strada,
unico
italiano
che
si
trova
ora
in
Afghanistan
con
due
espatriati
di
Emergency,
cinque
di
Medici
senza
frontiere
e
due
della
Croce
rossa
internazionale,
ci
sono
voluti
quattro
giorni
di
cammino,
jeep
e
cavallo
fra
le
montagne
per
raggiungere
il
suo
ospedale
di
Anabah,
nel
Panshir.
Un
viaggio
che,
in
senso
inverso,
dall'11
settembre
al
primo
ottobre
hanno
già
compiuto
in
15mila.
Secondo
l'Acnur,
in
caso
di
attacco
armato,
potrebbe
seguire
le
loro
tracce
un
altro
milione
di
profughi.
Sempre
che
ci
riescano:
martedì
2
ottobre,
vinti
dalla
sete,
dalla
mancanza
di
cibo,
dalla
stanchezza
e
dalle
frontiere
sbarrate,
20mila
afghani
che
cercavano
di
entrare
in
Pakistan
hanno
fatto
marcia
indietro
e
sono
tornati
a
casa.
È
difficile
anche
essere
profughi,
oggi,
in
Afghanistan.
Già
prima
che
sul
confine
col
Pakistan
e
nei
suoi
nuovi
campi
di
accoglienza
mancasse
l'acqua,
solo
il
12
per
cento
della
popolazione
aveva
accesso
a
quella
potabile.
Già
prima
che
mancassero
le
medicine,
solo
il
2
per
cento
degli
afghani
aveva
assistenza
sanitaria.
Già
prima
di
questa
emergenza,
il
Paese
era
al
tracollo.
La
geografia
della
disperazione
Regione:
Mazar
I
Sharif
500mila
profughi
interni
900mila
persone
a
rischio
Nella
zona
operano:
Oxfam
Il
21
settembre
è
riuscita
a
portare
1.500
tonnellate
di
cibo,i
primi
aiuti
da
quando
il
Programma
alimentare
mondiale
aveva
sospeso
i
voli
umanitari
in
seguito
agli
attentati,
nella
zona
di
Mazar
I
Sharif
dove
oltre
18mila
profughi
vivono
nel
campo
di
Aq
Kupruc.
Tutto
il
personale
straniero
è
stato
evacuato
in
Pakistan.
Prima
dell'11
settembre
era
una
delle
ong
incaricate
di
distribuire
gli
aiuti
del
Programma
alimentare
mondiale.
Contava
su
numerosi
operatori
occidentali
e
personale
afghano
in
grado
di
aiutare
750mila
persone.
oxfam.co.uk
Save
the
children
A
coordinare
gli
aiuti
umanitari
e
i
progetti
di
educazione
dei
bambini
di
Mazar
sono
rimasi
solo
10
operatori
e
volontari
afghani
di
questa
ong
impegnata
nel
paese
dal
1976.
Il
personale
occidentale,
evacuato
in
Pakistan
dopo
gli
attentati,
sta
raccogliendo
coperte
da
campo,
tende
e
generi
di
prima
necessità
per
accogliere
i
profughi
in
fuga.
savethechildren.org
Regione:
Hazaradjat
200mila
profughi
interni
50mila
persone
a
rischio
Nella
zona
operano:
Action
contre
la
faime
Lavora
in
Afghanistan
dal
1995
coinvolgendo
nei
suoi
progetti
umanitari
operatori
locali.
Tra
cui
90
donne
del
ministero
della
sanità
impiegate
nei
suoi
35
centri
di
nutrizione
e
cura
di
Kabul.
Dall'11
settembre
personale
locale
manda
avanti
il
suo
programma
“Food
for
work”
basato
sulla
distribuzione
di
viveri
in
cambio
di
aiuto
per
costruire
sistemi
di
irrigazione,
case
e
infrastrutture.
ac-fr.org
Aide
Medical
International
Grazie
al
personale
locale,
continua
a
garantire
cibo
e
assistenza
sanitaria
a
115
mila
persone
povere
che
vivono
in
quest'area.
Spera
di
poter
portare
nella
zona
quattro
cliniche
mobili
per
la
cura
dei
feriti.
In
Afghanistan
dal
più
di
20
anni,
prima
degli
attentati
contro
l'America
era
impegnata
in
otto
province
dell'ovest
con
15
espatriati
e
500
impiegati
afghani
dislocati
in
quattro
ospedali
e
11
dispensari.
amifrance.org
Regione:
Panshir
350mila
persone
a
rischio
Nella
zona
operano:
Emergency
Gino
Strada
e
due
colleghi
si
trovano
in
questo
momento
nell'ospedale
di
Anabah
creato
dall'organizzazione.
In
Afghanistan
dal
1999,
prima
dell'11
settembre
Emergency
era
impegnata
nell'assistenza
di
malati
e
feriti
a
Kabul
e
in
posti
di
primo
soccorso
sul
territorio.
emergency.it
Regione:
Faizabad
Nella
zona
operano:
Croce
rossa
internazionale
Due
espatriati
e
personale
locale
mandano
avanti
il
centro
ortopedico
di
Faizabad
e
quello
della
vicina
Gulbahar.
In
totale
ha
mille
afghani
impegnati
in
operazioni
di
solidarietà
in
tutto
il
paese.
In
seguito
agli
attentati
dell'11
settembre,
la
maggior
parte
del
personale
espatriato
si
è
trasferito
in
Pakistan:
a
Islamabad
è
stato
fissato
il
quartier
generale
in
cui
operano
27
persone,
mentre
Peshawar
serve
come
base
logistica.
Sta
cercando
di
riportare
il
personale
espatriato
nel
paese
e
intanto
ha
inviato
squadre
di
soccorso
in
Iran
e
Turkmenistan.
cicr.org
Medici
senza
frontiere
5
espatriati
di
varie
nazionalità
mandano
avanti
i
progetti
di
assistenza
sanitaria.
Qui
l'organizzazione
fa
arrivare
i
camion
di
aiuti
dall'estero.
msf.org
Regione:
Herat
300mila
profughi
interni
700mila
persone
a
rischio
Nella
zona
operano:
Christian
aid
Nel
suo
ufficio
di
Herat
è
rimasto
solo
personale
locale
impegnato
in
progetti
di
prima
assistenza
ai
profughi.
L'11
settembre,
60
espatriati
si
sono
spostati
in
Pakistan
e
squadre
di
volontari
attendono
in
Iran,
Turkmenistan
e
Tajikistan
milioni
di
afghani
in
fuga
dalla
guerra.
A
giugno
di
quest'anno
ha
organizzato
a
Kabul
un
incontro
fra
la
società
civile
internazionale
e
quella
afghana.
christianaid.org.uk
Tear
fund
Staff
locale
sta
mandando
avanti
la
costruzione
di
4.200
ripari
di
fango
per
i
profughi
in
fuga
dalle
città
che,
con
l'approssimarsi
dell'inverno,
rischiano
di
morire
di
freddo.
Il
personale
straniero
di
questa
charity
inglese
è
stato
costretto
a
lasciare
il
paese.
Oltre
ai
rifugi,
prima
dell'11
settembre
si
occupava
di
programmi
di
scolarizzazione
per
i
bambini.
tearfund.org
Medicins
du
monde
Volontari
afghani
mandano
avanti
il
suo
dispensario
di
Herat
da
cui
dipende
la
salute
di
12mila
profughi
ammassati
nel
vicino
campo
di
Maslakh.
In
Afghanistan
fin
dal
1982,
prima
dell'11
settembre
lavorava
soprattutto
nella
zona
occidentale
del
paese
con
programmi
di
sostegno
alle
donne
e
bambini.
Dopo
gli
attentati
sull'America,
tutto
il
suo
personale
straniero
ha
lasciato
il
paese.
medecinsdumonde.org
Coopi
In
Afghanistan
dall'inizio
dell'anno,
opera
grazie
a
personale
locale
e
ha
spostato
i
suoi
espatriati
in
Pakistan
dove
sta
allestendo
campi
per
i
profughi.
coopi.it
Regione:
Kandahar
200mila
profughi
interni
50mila
persone
a
rischio
Nella
zona
operano:
Waafa,
Al-Rasheed
trust
Nel
quartier
generale
dei
Talebani,
dove
probabilmente
si
nasconde
il
Mullah
Omar,
operano
le
ong
locali
cui
Bush
ha
tagliato
i
fondi
perché
sospettate
di
sostenere
il
terrorismo
fondamentalista
islamico.
Regione:
Kabul
100mila
profughi
interni
900mila
persone
a
rischio
Nella
zona
operano:
Croce
rossa
internazionale
Il
29
settembre,
un
camion
dell'organizzazione
carico
di
medicine
ha
raggiunto
Kabul.
Contiene
anche
kit
igienico
sanitari
per
curare
fino
a
500
feriti
di
guerra.
Nell'area
controllata
dai
Talebani,
continua
il
supporto
agli
ospedali
e
a
quattro
centri
ortopedici.
Mantiene
un
contatto
radio
giornaliero
col
personale
locale
a
Kabul.
Caritas
internazionale
Personale
locale
manda
avanti
i
soccorsi
per
cui
ha
stanziato
167
mila
dollari.
Gli
espatriati
attendono
i
profughi
nei
Paesi
confinanti.
catholicrelief.org
Ecco il testo integrale del discorso del 7/10/01 pronunciato questa sera da George W. Bush alla nazione.
"Su
mio
ordine,
le
forze
militari
degli
Stati
Uniti
hanno
iniziato
gli
attacchi
contro
i
campi
di
addestramento
dei
terroristi
di
Al
Qaeda
e
contro
le
installazioni
militari
del
regime
dei
Taleban
in
Afghanistan.
Questa
azioni
attentamente
mirate
hanno
come
fine
quello
di
distruggere
l'uso
dell'Afghanistan
come
base
terroristica
e
di
attaccare
le
capacità
miltari
del
regime
dei
Taleban.
Più
di
40
paesi
in
Medio
Oriente,
Africa,
Europa
e
in
Asia
hanno
dato
la
disponibilità
dello
spazio
aereo
o
di
terra.
Molti
di
più
hanno
collaborato
con
informazion
di
intelligence.
Siamo
sostenuti
dalla
volontà
collettiva
del
mondo.
Più
che
due
settimane
fa,
ho
dato
ai
leader
dei
Taliban
una
serie
di
richieste
chiare
e
specifiche:
chiudete
i
campi
di
addestramento
dei
terroristi,
consegnate
i
leader
dell'organizzazione
di
Al
Qaeda,
e
rilasciate
gli
stranieri,
compresi
i
cittadini
americani
ingiustamente
detenuti
nel
vostro
paese.
Nessuna
di
queste
richieste
è
stata
accolta.
E
ora,
i
Taliban
pagheranno
un
prezzo.
Distruggendo
i
campi
e
rendendo
inutilizzabili
le
comunicazioni,
renderemo
più
difficile
per
l'organizzazione
del
terrore
di
addestrare
nuove
reclute
e
di
coordinare
i
loro
piani
malvagi.
All'inizio
i
terroristi
possono
rintanarsi
in
grotte
sempre
più
profonde
ed
in
altri
luoghi
fortificati
per
nascondersi.
La
nostra
operazione
militare
mira
ad
aprire
la
strada
per
operazioni
sostenute,
a
largo
raggio
e
incessanti
per
stanarli
e
portarli
davanti
alla
giustizia.
Nello
stesso
tempo
il
popolo
oppresso
dell'Afghanistan
conoscerà
la
generosità
dell'America
e
dei
suoi
alleati.
Nel
momento
i
cui
colpiamo
gli
obiettivi
militari,
sganceremo
anche
cibo,
medicine
e
rifornimenti
per
gli
uomini,
le
donne
e
i
bambini
che
patiscono
la
fame
e
soffrono
in
Afghanistan.
Gli
Stati
Uniti
d'America
sono
amici
del
popolo
afghano,
e
noi
siamo
amici
di
circa
un
miliardo
di
persone
che
nel
mondo
seguono
la
fede
islamica.
Gli
Stati
Uniti
sono
nemici
di
coloro
che
aiutano
i
terroristi
e
dei
criminali
barbari
che
profanano
una
grande
religione
commettendo
crimini
in
suo
nome.
Questa
azione
militare
è
parte
della
nostra
campagna
contro
il
terrorismo,
un
altro
fronte
nella
guerra
che
è
stata
già
ingaggiata
attraverso
la
diplomazia,
i
sercizi
segreti,il
congelamento
dei
beni
finanziari
e
l'arresto
di
noti
terroristi
da
parte
delle
polizie
di
38
paesi.
Data
la
natura
e
la
portata
dei
nostri
nemici,
vinceremo
il
conflitto
accumulando
con
pazienza
successi,
affrontando
una
serie
di
sfide
con
determinazione
e
volontà.
Oggi
ci
concentriamo
sull'Afghanistan,
ma
la
battaglia
è
più
ampia.
Ogni
nazione
deve
fare
la
sua
scelta.
In
questo
conflitto,
non
c'è
un
terreno
neutrale.
Se
un
governo
aiuta
i
fuorilegge
e
gli
assassini
di
innocenti,
diventa
fuorilegge
e
assassino.
E
intraprenderà
una
strada
solitaria
a
suo
proprio
pericolo.
Vi
sto
parlando
oggi
dalla
Treaty
Room
della
Casa
Bianca,
un
luogo
dove
i
presidente
americani
hanno
lavorato
per
la
pace.
Siamo
una
nazione
pacifica.
Ma,
come
abbiamo
imparato,
così
improvvisamente
e
così
tragicamente,
non
ci
può
essere
pace
in
un
mondo
di
imrpovviso
terrore.
Di
fronte
a
questa
nuova
minaccia
di
oggi,
la
sola
via
di
perseguire
la
pace
è
di
perseguire
coloro
che
la
minacciano.
Non
abbiamo
cercato
questa
missione,
ma
ci
impegneremo
in
pieno
in
essa.
Il
nome
dell'operazione
militare
di
oggi
è
Libertà
duratura.
Noi
difendiamo
non
solo
la
nostra
preziosa
libertà,
ma
anche
la
libertà
di
tutti
gli
altri
popoli
a
vivere
e
e
crescere
i
loro
bambini
liberi
dalla
paura.
Conosco
molti
americani
che
hanno
paura
oggi.
E
il
nostro
governo
sta
prendendo
grandi
precauzioni.
Tutte
le
forze
di
sicurezza
e
i
servizi
segreti
stanno
lavorando
in
maniera
aggressiva
in
America,
nel
mondo
e
a
tempo
pieno.
Su
mia
richiesta,
molti
governatori
hanno
attivato
la
Guardia
Nazionale
per
rafforzare
la
sicurezza
negli
aereoporti.
Abbiamo
richiamato
i
riservisti
per
rinforzare
la
nostra
capacità
militare
e
la
protezione
della
nostra
patria.
Nei
mesi
futuri,
la
nostra
pazienza
sarà
la
nostra
forza,
pazienza
per
le
lunghe
file
provocate
dai
controlli
più
stretti,
pazienza
e
comprensione
per
il
fatto
che
ci
vorrà
del
tempo
per
raggiungere
i
nostri
obiettivi,
pazienza
per
tutti
i
sacrifici
che
dovremo
fare.
Oggi,
quei
sacrifici
sono
fatti
dai
membri
delle
nostre
forze
armate
che
ci
difendono
così
lontano
da
casa,
e
dalle
loro
famiglie
orgogliose
e
preoccupate.
Un
comandante
in
capo
invia
i
figli
degli
Stati
Uniti
a
combattere
in
terra
straniera
solo
dopo
la
massima
cura
e
una
serie
di
preghiere.
Abbiamo
chiesto
molto
a
chi
indossa
la
nostra
uniforme.
Abbiamo
chiesto
loro
di
lasciare
le
persone
amate,
di
percorrere
lunghe
distanze,
di
rischiare
il
ferimento,
anche
di
essere
preparati
a
compiere
il
sacrificio
ultimo
della
loro
vita.
Si
sono
consacrati
a
questa
missione
con
onore.
Rappresentano
il
meglio
del
nostro
Paese,
e
siamo
loro
grati.
A
tutti
gli
uomini
e
le
donne
del
nostro
esercito,
a
ogni
marinaio,
ogni
soldato,
ogni
pilota,
ogni
Guardia
costiera,
ogni
marine,
dico
questo:
la
vostra
missione
è
definita.
Gli
obiettivi
sono
chiari.
Il
vostro
obiettivo
è
giusto.
Avete
la
mia
piena
fiducia
e
metterò
a
vostra
disposizione
ogni
strumento
di
cui
avrete
bisogno
per
portare
avanti
la
vostra
missione.
Recentemente,
ho
ricevuto
una
lettera
toccante
che
dice
molto
sulle
condizioni
dell'America
in
questi
momenti
difficili,
la
lettera
di
una
bambina
delle
elementari
figlia
di
un
soldato.
"Per
quanto
non
voglio
che
mio
padre
combatta
-
ha
scritto
-
sono
pronta
a
consegnarvelo".
Questo
è
un
regalo
prezioso.
Il
più
grande
che
potesse
fare.
Questa
bambina
sa
che
cosa
vuol
dire
l'America.
Dall'11
settembre,
un'intera
generazione
di
giovani
americani
ha
raggiunto
una
nuova
comprensione
del
valore
di
libertà,
dei
suoi
costi,
della
missione
e
del
suo
sacrificio.
La
battaglia
è
ora
ingaggiata
su
molti
fronti.
Non
tergiverseremo,
non
ci
stancheremo,
non
vacilleremo
e
non
falliremo.
La
pace
e
la
libertà
avranno
la
meglio.
Grazie.
Che
Dio
benedica
l'America
ECCO COME DAREI LA CACCIA A BIN LADEN
NEWSLETTER DIPIETRO2001
28
settembre
2001
Come fermare Osama Bin Laden e la sua rete terroristica internazionale?
E' la domanda che ci assilla tutti. Combattendolo su più fronti ovviamente, come ha di recente ammonito il Presidente americano Bush: quello giudiziario, militare, politico, culturale, religioso,
economico, finanziario. Ecco, vorrei soffermarmi su quest'ultimo aspetto che è poi, a mio avviso, un punto nodale per la lotta al terrorismo.
Solo prosciugando le fonti di approvvigionamento e interrompendo i finanziamenti, si possono sterilizzare le azioni dei terroristi.
Bin Laden ha potuto agire grazie a ai suoi soldi. Soldi che non tiene certo a Kabul o nascosti nelle montagne o nelle grotte afgane. Li tiene - depositati o investiti - nelle banche dei soliti paradisi fiscali: Cipro, Panama Isole Cayman ma soprattutto a Vaduz nel Liechtestein, a Nassau nelle Bahamas ed a Riad in Arabia Saudita.
Si
pensi
a
quanto
denaro
è
stato
necessario
per
realizzare
gli
attentati
dell'11
settembre
negli
Usa:
decine,
forse
centinaia
di
terroristi
e
fiancheggiatori
da
mantenere
per
mesi,
e
forse
per
anni,
nel
territorio
americano,
piloti
da
addestrare,
famiglie
da
accudire
(anche
dopo
la
morte
dei
kamikaze),
spionaggio
e
coperture
da
attivare,
coordinamento
logistico
da
sincronizzare
e
così
via.
IL TERRORISMO COSTA
Insomma anche il terrorismo costa. Siccome a pagare sembra che ci pensi (e nel caso di New York ci abbia pensato) Bin Laden, bisogna scovare, sequestrare e bloccare le sue risorse finanziarie per renderlo impotente. Come fare? Indagando su di lui, ovviamente e su chi gli è stato e gli sta più vicino. Bisogna ricostruire la sua vita, individuare i suoi legami, ripercorrere i luoghi che ha frequentato, individuare i suoi amici, analizzare le sue attività. Sembrano cose scontate ma spesso è
proprio su queste bucce di banane che inciampano gli investigatori ed il guaio è che ci inciampano non tanto per difetto (di investigazione, intendo dire) quanto per eccesso, immaginando, prima di averne le prove, soluzioni fantascientifiche e poi perdendo tempo e risorse per dimostrare l'indimostrabile (per rendercene conto basti pensare alla tragedia del mostro di Firenze trasformata in una telenovela o al sequestro di Aldo Moro che secondo alcuni bisognava scoprire ricorrendo alla cartomante).
Ecco, cominciamo allora con il "ripulire" la storia personale di Bin Laden dal "romanzo" che se ne è fatto. Egli non è figlio del demonio, con possibilità infinite di replicarsi e di farsi gioco di tutte le polizie del mondo. Se ha scelto l'America ed alcuni paesi europei come suoi
principali
obiettivi
è
perché
li
conosce
bene
per
averci
vissuto
e
lavorato
e
per
aver
intrecciato
in
quei
paesi
pericolose
relazioni
di
connivenza
e
collaborazione.
Negli
anni
ottanta,
infatti,
egli
è
stato
un
alleato
degli
USA
che
di
lui
e
dei
suoi
uomini
si
sono
serviti,
anche
armando
le
loro
mani
e
insegnando
loro
a
fare
la
guerra,
per
fermare
i
sovietici
in
Afghanistan.
LA FAMIGLIA E GLI AMICI IN ARABIA SAUDITA
Di più. L'intera famiglia Bin Laden ha fatto fortuna proprio in America (ironia della sorte in alcuni casi proprio facendo affari con la famiglia Bush). In particolare, il fratello Salem ha fondato nel '73 ad Austin, nel Texas, la compagnia aerea Bin Laden Aviation ed il suo miglior amico Kheld Bin Manfuz è stato l'uomo chiave dell' affaire BCCI (uno scandalo americano di proporzioni enormi riguardanti finanziamenti occulti e iregolari a formazioni guerrigliere in America Latina ed in Medio Oriente con denaro anche proveniente dalla droga).
Bin Laden viene comunemente descritto come un miliardario ma in realtà sulla sua reale posizione patrimoniale si hanno poche notizie.
Certamente viene da una ricca famiglia molto ben introdotta in Arabia Saudita. I suoi parenti (ha quattro mogli, diversi figli, circa 50 tra fratelli e sorelle) sono titolari di un vero e proprio impero economico, il Saudi Bin Ladin Group (SBG) con interessi petroliferi e nelle costruzioni. Molti di essi lo hanno rinnegato e Osama Bin Laden è pure stato scacciato dal suo paese per aver criticato la monarchia saudita allorché questa fece entrare nel suo territorio truppe statunitensi ("gli infedeli") per pianificare la Guerra del Golfo contro Saddam Hussein. Egli però sicuramente può contare ancora sui parenti e amici più stretti. Da questi e su questi bisogna allora cominciare le indagini bancarie e finanziarie, per trovare il patrimonio di Bin Laden e non tanto su lui personalmente (egli sapendo di essere ricercato da anni dalle migliori polizie internazionali, si sarà guardato
bene dall'agire con il proprio nome). Insomma, appunterei le prime indagini - cosa che sicuramente gli 007 statunitensi, inglesi e israeliani stanno facendo - proprio in Arabia Saudita. E' questo un paese davvero strano, con potentati finanziari e governanti reali che vanno a braccetto con gli Stati Uniti ma con l'integralismo islamico nel cuore.
Probabilmente
è
proprio
da
lì
oltre
che
dall'Iraq
di
Saddam
Hussein
-
che
partono
i
finanziamenti
più
cospicui
e
più
occulti
a
favore
dei
terroristi,
magari
sotto
forma
di
donazioni
ed
elargizioni
umanitarie
e
di
beneficenza.
In
Arabia
Saudita,
la
maggior
parte
del
denaro
proveniente
dall'aumento
del
prezzo
del
petrolio
(da
4
mila
a
8
mila
miliardi
di
dollari
sostengono
gli
analisti)
si
è
letteralmente
volatilizzato
andando
ad
alimentare
l'extrabudget
e
soprattutto
la
corruzione.
L'APERTURA DEI FORZIERI NEI PARADISI FISCALI
Purtroppo manca una qualsiasi normativa in materia di controllo dei flussi di miliardi che entrano ed escono da quel paese. Non esiste, come in quasi tutti i paesi del Medio Oriente peraltro, una legge contro il riciclaggio. Eppure le connessioni saudite tribali e familiari di Bin Laden sono l'inizio della catena dell'indagine da cui non si può prescindere.
Anche a costo di imporre con la forza della persuasione (politica, diplomatica, economica e militare) ai regnanti sauditi di rivedere e rendere più trasparente la propria legislazione societaria, bancaria e finanziaria interna. Cosa questa che solo gli Stati Uniti hanno la forza e la possibilità di fare.
Il canale terminale della rete finanziaria di Bin Laden va invece ricercato in alcuni specifici paradisi fiscali, in particolare delle Bahamas e del Liectesthein, ove vanno cercati i suoi collegamenti con
esponenti della mafia russa (già proprio di quella Russia tanto odiata e combattuta da Osama). A Vaduz ed a Nassau ancora oggi esistono e prolificano alcuni studi legali e fiduciari di comodo conosciuti e conoscibilissimi per chi è del mestiere e conosce un po' la storia delle transazioni finanziarie internazionali (anch'io ho avuto modo di individuarli ai tempi di Mani Pulite) che fanno da schermo impenetrabile alle più smaccate operazioni di riciclaggio del denaro provenente dalla droga e destinato al commercio delle armi. Perché bisognerebbe indagare su costoro? Ma perché Bin Laden deve tutti i giorni comprare armi e munizioni ed in Afganistan l'unica cosa che ha
a disposizione per farvi fronte è l'oppio e l'eroina. E perché la mafia russa? Perché è l'unica organizzazione "vicina" territorialmente all'Afganistan in grado di fornire ogni tipo di armi a Bin Laden (più dell'Iraq, più del Sudan che pure sono suoi abituali fornitori ma le cui operazioni sono sotto il costante controllo degli USA). Che fare allora, in concreto? Bisogna setacciare ed acquisire ogni documentazione esistente presso gli studi legali e finanziari sospetti con sede nei predetti paradisi fiscali, con operazioni non giudiziarie ma dei servizi segreti. Non è possibile, infatti, ricorrere alla Magistratura di quei paesi per avere regolari mandati perché è troppo ingessata da una
legislazione di favore e di copertura, dovuta al fatto che quei paradisi fiscali si mantengono e ingrassano proprio e solo per questo particolare tipo di economia.
Lo so, i "puristi" del diritto inorridiranno di fronte a questa proposta ed anche a me, da ex magistrato, ripugna ma, come ha detto il Presidente degli Stati Uniti, siamo in guerra e questa guerra va combattuta anche con "armi non convenzionali". Tra queste può e deve rientrarci l'apertura anche forzata ed occulta dei forzieri e dei documenti depositati nei paradisi fiscali, al di la' e al di fuori dei conniventi vincoli di legge di quei paesi. Non a caso, d'altronde, il Governo statunitense, pochi giorni dopo l'attentato alle Torri Gemelle ha istituito un apposito organismo investigativo, il Foreign Terrorist Asset Tracking Center (FTATC), alle dipendenze del Ministero del Tesoro ( ed anche questo la dice lunga) con lo specifico scopo di dirigere e coordinare il lavoro di intelligence nazionale ed internazionale per rintracciare banche, finanziarie e fiduciari che in
qualche modo forniscono sostegno ai criminali. Probabilmente questo organismo dovrà "saltare" le procedure delle "rogatorie" se vuole che il suo lavoro abbia successo ma, d'altronde, trattasi per stessa ammissione di Bush di una "guerra sporca" e individuare e sequestrare la contabilità occulta degli "gnomi" (così vengono chiamati in gergo i fiduciari che operano nei paradisi fiscali) è un atto
necessitato
per
tagliare
le
vie
di
rifornimento
economico
ai
terroristi.
I RAPPORTI CON GLI STATI "CANAGLIA"
Un altro cordone ombelicale che consente a Bin Laden ed ai suoi seguaci di armarsi e guerreggiare è il rapporto di sangue che lo lega ad alcuni rais e dittatori che ancora spadroneggiano in Medio Oriente (Saddam Hussein in particolare). Insomma ci sono in Medio Oriente nazioni, produttori di petrolio, che sponsorizzano e foraggiano il terrorismo. Sono i cosiddetti "Stati canaglia" (ad esempio Iran, Iraq, Libia, Siria, Sudan) che aggirano gli embarghi e le sanzioni dell'ONU con triangolazioni di comodo al fine di fare soldi e di destinarne una parte a favore di quei terroristi disponibili ad azioni criminali nei confronti di quei paesi occidentali che hanno decretato l'embargo.
Come avvengono le triangolazioni illegali ? Ad esempio, in Iraq, l'ONU ha autorizzato Baghdad ad esportare 90 mila barili di greggio al giorno in Giordania in cambio di cibo e medicine. Nell'oleodotto che collega i due paesi, però transitano oltre 150 mila barili al giorno di petrolio ed allora Damasco tiene per sé il petrolio iracheno ed esporta il proprio. C'è da scommettere che Saddam utilizzi il maggior denaro incassato per attività del tutto diverse da quelle umanitarie.
Ecco, l'Occidente deve smetterla di tollerare simili furbizie e richiamare Stati amici e moderati come la Giordania a non fare i "furbi, a non fare il "doppio gioco". Certo per farlo, molti paesi
occidentali
(Italia
compresa)
devono
darsi
una
"regolata"
anche
loro
e
non
fare
i
furbi
a
propria
volta.
Che
senso
ha,
ad
esempio,
decretare
l'embargo
del
petrolio
dall'Iraq
e
poi
acconsentire
e
incentivare
la
presenza
in
quel
paese
di
primarie
compagnie
petrolifere
come
l'Elf,
l'Agip,
la
Mobil
per
estrarre
maggior
petrolio?
E
che
dire
delle
laute
commesse
per
infrastrutture
che
vengono
commissionate
e
realizzate
da
multinazionali
occidentali
proprio
negli
"Stati
canaglia"?
L'IPOCRISIA DELL'OCCIDENTE
Insomma, fino ad oggi vi è stata, in Occidente, anche tanta ipocrisia nella lotta ai paesi finanziatori del terrorismo: a parole molte condanne, nei fatti parecchi affari. Ed allora ritorna il dilemma di
sempre: ma chi comanda nei paesi occidentali? Il Governo reale corrisponde al governo reale? Non è che nella realtà le lobby economiche e finanziarie condizionano le attività e le decisioni
politiche? Ma questa è un'altra storia ed è bene tornare alla nostra virtuale caccia al tesoro di Bin Laden. Per esempio, con una indagine mirata sulla compravendita in borsa di alcuni titoli a rischio nei giorni a cavallo della strage di New York (azioni di compagnie aeree e di società assicurative). Si sa che qualcuno ha speculato su questi titoli con il sistema dei "future", vale a dire "vendendo oggi quel che si paga al prezzo di domani". Ad esempio comprando un'azione delle United Airlanes (la compagnia aerea proprietaria dei velivoli abbattuti) che il giorno prima della strage poteva valere (mettiamo) 1000, il giorno dopo valeva 100. Ciò vuol dire che solo chi conosceva in anticipo cosa sarebbe successo di lì a poco poteva arrischiarsi a commerciare in simili tipi di "future", speculando in borsa. Cose queste che potevano sapere solo i fiancheggiatori, i finanziatori e i mandanti dei terroristi che hanno agito. Un'indagine mirata su queste speculazioni potrebbe portare a scoprire il "terzo livello" dell'organizzazione ( e magari ed è probabile che così sia individuando insospettabili magnati dell'odiato Occidente in combutta con i fondamentalisti islamici di Bin Laden).
Come
si
può
notare,
i
filoni
di
indagine
da
coltivare
possono
essere
tanti
e
quelli
descritti
sono
solo
alcuni.
E
nemmeno
i
più
sofisticati.
Ma
lasciamo
ai
specialisti
fare
il
loro
mestiere
e
non
anticipiamo
i
tempi,
anche
per
non
disperdere
il
vantaggio
del
"fattore
sorpresa".
Antonio
Di
Pietro
"LA VENDETTA? NON IN NOME DI NOSTRO FIGLIO"
Copia della lettera inviata al New York Times
Nostro figlio Greg è tra i tanti dispersi dell'attentato al World Trade Center. Da quando abbiamo avuto la notizia, abbiamo condiviso momenti di dolore, di conforto, di speranza, di disperazione, e i bei ricordi, con sua moglie, con le nostre famiglie di origine, con i nostri amici, con i vicini, con i suoi affettuosi colleghi del Cantor Fitzgerald/ Espeed, e con tutte le famiglie in lutto che giornalmente si incontrano al Pierre Hotel. Vediamo la nostra ferita e la nostra rabbia riflesse in tutte le persone che incontriamo. Non riusciamo a prestare attenzione al quotidiano fiume di
notizie su questo disastro, ma ne leggiamo abbastanza per renderci conto che il nostro governo va nella direzione della vendetta violenta, e la prospettiva è che altri figli, figlie, genitori, amici, andranno in terre lontane a morire, soffrire e finiranno per portare rancore contro di noi.
Non è questo che si deve fare. Questo non vendicherà la morte di nostro figlio. Non si farà in nome di nostro figlio.
Morendo, nostro figlio è diventato una vittima dell'ideologia umana. Le nostre azioni non devono seguire lo stesso scopo.
Uniamoci nel lutto. Riflettiamo e preghiamo. Pensiamo ad una risposta razionale che porti vera pace e giustizia nel nostro mondo. Ma non contribuiamo, come nazione, alla disumanità dei nostri tempi.
Phyllis e Orlando Rodriguez
(Greg, figlio di Phyllis e Orlando Rodriguez, è una delle vittime del World Trade Center)
Copia della lettera alla Casa Bianca
Egregio Presidente Bush,
Nostro figlio è una delle vittime dell'attacco di martedì scorso al World Trade Center. Abbiamo letto della Sua reazione negli scorsi giorni e della risoluzione, sottoscritta da entrambe le Camere, che Le conferisce poteri illimitati per rispondere agli attentati terroristici.
La Sua reazione a questo attacco, però, non ci fa sentire meglio davanti alla morte di nostro figlio. Anzi, ci fa sentire peggio. Ci fa sentire come se il Governo stesse usando la memoria di nostro figlio come giustificazione per arrecare sofferenze ad altri figli e genitori in altri paesi.
Non è la prima volta che una persona, nelle Sue condizioni, ha ricevuto poteri illimitati e poi se ne è pentita. Non è il momento per gesti vuoti di significato per farci sentire meglio. Non è il momento di agire da prepotenti.
La invitiamo a pensare a come potrebbe il nostro Governo trovare soluzioni pacifiche e razionali al terrorismo, soluzioni che non ci facciano sprofondare allo stesso disumano livello dei terroristi.
Con osservanza,
Phyllis
e
Orlando
Rodriguez
Fonte: Solidarity4ever
http://www.igc.topica.com/lists/Solidarity4Ever@igc.topica.com/read/message.html?mid=1708255258
APPELLO URGENTE DALLE DONNE AFGANE
Messaggio inviato da Maria Santagata (dotsan@tin.it)
Subject:
Dalle
donne
afghane
URGENTE
Il gruppo femminista internazionalista Iemanja' ci ha chiesto di dare massima diffusione al comunicato che segue, scritto da RAWA, l'organizzazione femminista afghana che è una delle poche entità che resistono alla dittatura dei talebani. Ci pare un comunicato di grande valore visto che l'Occidente sta preparando una guerra contro quel popolo, una guerra che dobbiamo fermare ad ogni costo. Vi chiediamo di rigirare questa mail anche ad altre/i compagni/e e amiche/i, dato che vi
è il pericolo di una adesione popolare ad una sorta di crociata occidentale contro l'Islam. Vi segnaliamo che dal sito di Iemanja' (http://www.ecn.org/reds/donne.html) si accede ad una pagina con molti materiali sulla situazione in Afghanistan, la lotta del RAWA, la storia di quel Paese. Vi raccomandiamo di visitarlo e diffonderne i materiali. La mailing list di REDS è per alcuni nominativi sovrapposta a quella di Iemanja' per cui e' possibile che un messaggio simile vi giunga anche dalle compagne che pure stanno cercando di diffonderlo il più possibile, nel caso scusateci l'ingorgo. Vi segnaliamo che il sito di REDS (http://www.ecn.org/reds) e' stato aggiornato con un'analisi politica sulla fase che si apre dopo gli attentati in USA.
---------------------------------------------
LA GENTE DELL'AFGHANISTAN NON HA NIENTE A CHE FARE CON OSAMA BIN LADEN E I SUOI COMPLICI. COMUNICATO UFFICIALE DEL RAWA SUGLI ATTENTATI IN USA E SULLE
RESPONSABILITA' DEGLI STATI UNITI, APPELLO ALLA POPOLAZIONE
da RAWA. Traduzione a cura di Iemanja'
14 settembre 2001
L'11 settembre 2001 il mondo è rimasto scioccato dagli orribili attacchi terroristici agli Stati Uniti. RAWA esprime con il resto del mondo il proprio dolore e la condanna di questo atto barbarico di violenza e terrore. RAWA aveva già avvertito che gli Stati Uniti non avrebbero dovuto sostenere i più infidi, i più criminali, i più antidemocratici e misogini partiti fondamentalisti islamici, perché dopo che i Jehadi (l'Alleanza del Nord di Massud, ndr.) e i Talebani avevano commesso ogni possibile sorta di orrendi crimini contro la nostra gente, essi non avrebbero provato alcuna vergogna nel commettere tali crimini contro il popolo americano che considerano "infedele". Allo scopo di raggiungere e mantenere il proprio potere, questi delinquenti crudeli sono pronti a rivolgersi a qualsiasi forza criminale. Ma sfortunatamente noi dobbiamo dire che è stato il governo degli Stati Uniti a sostenere il dittatore pakistano gen. Zia-ul Haq nel creare migliaia di scuole religiose dalle quali sono emersi i germi dei Talebani. Allo stesso modo, come è evidente per tutti, Osama Bin Laden è stato il pupillo della CIA. Ma ciò che è più penoso è che i politici americani non hanno tratto una lezione dalle loro politiche a favore dei fondamentalisti nel nostro paese e stanno ancora continuando ad appoggiare questo o quel gruppo o leader fondamentalista. Secondo noi, ogni tipo di sostegno ai fondamentalisti Talebani e Jehadies significa in realtà calpestare i valori democratici, i diritti delle donne e i diritti umani.
Se è provato che i presunti autori degli attacchi terroristici si trovano fuori dagli Stati Uniti, il nostro grido costante che i terroristi fondamentalisti avrebbero finito per ritorcersi contro i loro creatori, è confermato una volta di più.
Il governo degli USA dovrebbe considerare le cause di fondo di questo terribile evento, che non è stato il primo e non sarà l'ultimo. Gli USA dovrebbero smettere di appoggiare i terroristi afghani e i loro sostenitori una volta per tutte.
Adesso che i Talebani e Osama sono i primi indiziati dalle forze americane dopo gli attacchi criminali, gli USA sottoporranno l'Afghanistan a un attacco militare simile a quello del 1998 e uccideranno migliaia di innocenti afghani per i crimini commessi dai Talebani e da Osama? Pensano gli USA che attraverso questi attacchi, con migliaia di diseredati, poveri e innocenti afghani come vittime, saranno in grado di cancellare le cause del terrorismo o piuttosto diffonderanno il terrorismo su più larga scala?
Dal nostro punto di vista vasti e indiscriminati attacchi militari ad un paese che da più di due decenni è sottoposto a disastri permanenti, non sarebbero un motivo d'orgoglio. Non pensiamo che una tale aggressione sarebbe l'espressione della volontà della gente americana. Il governo degli USA e il loro popolo dovrebbero sapere che c'è una grande differenza tra la gente povera e martoriata dell'Afghanistan e i terroristi criminali Talebani e Jehadi.
Mentre noi manifestiamo ancora una volta la nostra solidarietà e il profondo cordoglio al popolo degli Stati Uniti, crediamo anche che attaccare l'Afghanistan e uccidere la sua gente più derelitta e sofferente, non allevierà in alcun modo il lutto del popolo americano.
Speriamo sinceramente che il popolo americano sia in grado di DISTINGUERE tra la gente dell'Afghanistan e un pugno di terroristi fondamentalisti. I nostri cuori si rivolgono alla gente degli Stati Uniti.
ABBASSO
IL
TERRORISMO!
Appello
delle
Donne
per
i
Diritti
Umani
in
Afghanistan
A
Kofi
Annan,
Segretario
Generale
delle
Nazioni
Unite
New
York
"L'Afghanistan
sta
gridando
per
la
pace.
Donne
e
uomini
stanno
soffrendo
per
la
fame
e
per
le
brutalità
del
regime
talebano
e
altri
gruppi
fondamentalisti.
La
situazione
è
molto
tesa
dopo
la
tragedia
a
New
York
e
Washington.
Il
7
di
Ottobre
un'altra
guerra
è
stata
imposta
sulla
gente
afghana.
Ma
ogni
persona
che
ama
la
libertà
e
la
democrazia,
dentro
e
fuori
l'Afghanistan,
sanno
e
dovrebbero
ricordare
come,
venti
anni
fa,
i
terroristi
di
oggi
e
i
loro
sostenitori
occidentali,
cominciarono
le
loro
azioni
brutali
contro
la
popolazione
afghana
a
tutti
i
livelli.
Non
l'hanno
cominciata
adesso,
con
attacchi
terroristici
alla
comunità
internazionale.
Noi,
donne
afghane,
abbiamo
ricordato
di
tempo
in
tempo
all'ONU
di
avere
un
ruolo
attivo
e
di
fermare
le
violazioni
dei
diritti
umani
e
delle
stragi
perpetrate,
ma
gli
appelli
sono
stati
finora
ignorati.
Quindi,
noi
delle
"Donne
per
i
Diritti
Umani",
ancora
una
volta,
ci
appelliamo
alle
Nazioni
Unite
e
alla
comunità
internazionale
perché
prendano
tutte
le
iniziative
necessarie
per
fermare
la
guerra
e
il
flusso
delle
armi
e
munizioni
alla
regione
e
evitare
un'altra
catastrofe
umana."
Donne
per
i
Diritti
Umani
P.O.
Box
231
Roa
0702
Oslo
Norvegia
(Fonte: http://www.unimondo.org/)
IL RISCHIO DELL'INTOLLERANZA RELIGIOSA
"Trattate con rispetto gli arabi di origine americana e i musulmani. Non sfogate su di loro la vostra rabbia", aveva detto qualche giorno fa il presidente George Bush.
Parole preoccupate, già consapevoli della nuova emergenza. In molti erano stati facili profeti, ieri il dramma. Ora ha un nome e un volto anche la prima vittima della caccia all'arabo, di quell'insensata corsa alla giustizia sommaria che ricorda tanto gli episodi più brutti dell'epopea del Far West. E così un altro morto si aggiunge ai tanti, troppi cadaveri di quel terrificante martedì. Anche lui è un innocente, anche lui non c'entrava nulla. Balbir Singh Sodhi aveva 49 anni, era proprietario di una pompa di benzina a Phoenix in Arizona e per tutta la settimana era stato minacciato da qualcuno che parlava di vendetta, di giustizia.
Balbir era di religione sikh. Nulla a che vedere con i musulmani, con gli arabi, con gli attentatori delle Torri gemelle. A condannarlo a morte il turbante e la barba. "Molti non comprendono - spiega il fratello - che i sikh portano la barba e il turbante e quindi assomigliano a Osama Bin Laden, ma non solo non hanno nulla a che vedere con il miliardario saudita, non sono nemmeno musulmani". Non lo sapeva chi è entrato in macchina a tutta velocità nella piccola stazione di servizio e ha sparato contro di lui aggiungendo morte a morte, dolore a dolore. Ora la polizia interroga un uomo, gravemente indiziato e indaga su altri episodi successi nei dintorni. Pochi minuti dopo, infatti, sembra che il presunto assassino abbia sparato, questa volta fortunatamente senza conseguenze, contro altre due stazioni di servizio, una delle quali gestita da un cittadino americano di origine libanese.
Un episodio terribile come quello capitato sempre ieri nel New Jersey dove un imam è stato aggredito da un invasato che urlava frasi senza senso. Il religioso è stato salvato da una donna incinta che passava di lì. Una donna come la pakistana inseguita nel parcheggio di un centro commerciale da un ubriaco che la voleva investire e il quale si è così giustificato: "Sta distruggendo il mio paese".
Tratti somatici, barbe, capelli e vestiti che ricordino i presunti kamikaze di New York e Wahington sono diventati, quindi, terribili marchi d'infamia. Le scuole coraniche sono vuote, nelle tante moschee poche voci recitano le preghiere. Inevitabile, dopo gli attacchi ai luoghi di culto islamici. Qualcuno ha scagliato una bomba incendiaria contro la moschea di Denton, in Texas. La polizia ha arrestato un uomo che cercava di dare fuoco a quella di Seattle. Sconosciuti a Lynnwood, nello stato di Washington, hanno deturpato con vernice nera il muro di un tempio musulmano. A Evansville, in Indiana, un uomo è andato a sbattere con la sua auto contro un centro culturale islamico. E' sceso dalla vettura e ha rotto i vetri dell'edificio a pugni. A Bridgeview, sobborgo di Chicago, la polizia è intervenuta per respingere una folla di trecento persone che, infuriate, marciavano verso una moschea. Altro qualcuno ha scagliato sacchetti pieni di sangue di maiale. Nel sobborgo di Palos High un uomo è stato arrestato per aver attaccato a colpi di machete un benzinaio marocchino. A Los Angeles sono stati denunciati almeno undici episodi di intolleranza anti-araba, molti dei quali con uso di armi da fuoco.
"La nostra non è una guerra contro l'Islam, né contro il popolo arabo - ha stigmatizzato il vicepresidente Dick Cheney in un'intervista -, la violenza che vogliamo combattere è frutto di una perversione di questo credo religioso da parte di un gruppo estremista".
Non basterà a fermare la caccia all'arabo, ma è comunque una posizione chiara e ferma".
Giannino Della Frattina ("Il Giornale", 17/9/01)
"I quotidiani regalano poster a doppia pagina del nemico numero uno. "Wanted dead or alive" è stampatoi sulle t-shirt in vendita per dieci dollari all'angolo della Sesta avenue e 34' street, un mirino incornicia il terrorista miliardario mentre si accarezza la lunga barba. Alla fine tanto battere sull'odio ha scatenato la cieca violenza dell'America esasperata. Prime vittime sono stati gli indiani sikh che, da una settimana a questa parte, stanno cercando inutilmente di spiegare all'opinione pubblica che, nonostante barba e turbanti, non hanno nulla a spartire con l'Islam e talebani. Il fatto più grave risalke a sabato scorso: il tranquillo cittadino Frank S. Rocque è arrivato in pick up a una stazione di rifornimento Chevron a Mesa, in Arizona, e ne ha ucciso il proprietario. Perché? Semplicemente perché il signor Balbir Singh Sodhi, un sikh di 49 anni, portava in testa un turbante e aveva la pelle un po' troppo scura. Non soddisfatto della "missione", ha poi sparato a un musulmano e ha aperto il fuoco irrompendo in casa di una famiglia afghana, fortunatamente senza ammazzare più nessuno. Ma a fare riflettere è soprattutto la giustificazione che Rocque ha dato al suo gesto: "Sono un patriota, sono un dannato americano. Voi poliziotti mi arrestate e lasciate che i terroristi siano liberi di compiere stragi quando e come vogliono".
Dal tragico 11 settembre di New York, Washinghton e Pittsburgh, molte persone che sono o semplicemente assomigliano a mediorientali e indiani sono state picchiate, insultate, inseguite e per l'appunto assassinate. L'Fbi sta indagando su altri 2 omicidi che sono sicuramente riconducibili all'ondata di razzismo che si è impadronita di un paese civile.
Il primo è quello di Adel Karas, un egiziano cristiano copto di 48 anni, freddato nel suo negozietto di droghiere a San Gabriel in California. Il figlio che era nel retrobottega ha sentito una voce gridare: "Sporco arabo terrorista" e quindi l'esplosione di due colpi di revolver. Il secondo è invece quello di un pakistano musulmano, Waquar Pasan, 46 anni, che è stato trovato riverso sul pavimento con una pallottola in fronte nel suo piccolo supermercato nel quartiere Pleasant Grove di Dallas. Gli investigatori escludono la rapina: "Nella cassa c'erano tremila dollari e nessuno li ha toccati, inoltre non ci risulta che la vittima avesse nemici. Il movente sembra essere l'odio razziale".
In giro per gli States si contano poi cinque moschee bruciate e innumerevoli molotov lanciate contro aziende ed esercizi commerciali che appartengono ad arabi. Ma sono soprattutto i pacifici sikh a essere presi di mira perché più degli altri assomigliano al presunto mandante delle stragi, Bin Laden. Ieri pomeriggio erano 250 i sikh che hanno denunciato di aver subito violenze da parte di americani, ben 120 hanno dovuto fare ricorso alle cure degli ospedali e 10 sono in condizioni serie. Per esempio Guardshan Singh, un sacerdote sikh a Rockville nel Maryland, che stava andando a donare il sangue per i feriti del World Trade Center quando due uomini lo hanno aggredito a sprangate spaccandogli una gamba: "Che devo dire? Capisco la rabbia, so che c'è ignoranza sulla nostra religione ma la gente dovrebbe usare la testa e non solo gli occhi".
Una donna, Shari Mitchell, è stata arrestata a Eugene nell'Oregon perché armata di coltello ha strappato dalla testa di due indiani che stavano passeggiando i loro turbanti all'urlo "estremisti assassini". E ancora a Cleveland e West Sacramento bande di vandali hanno distrutto con mazze da baseball i loro templi, a San Matteo, in California, ignoti hanno lanciato una bottiglia incendiaria nella casa di una famiglia sikh colpendo alla tempia un bambino di tre anni. Solo per caso la bomba non è esplosa. "Non odio gli americani, perché mi considero americano anch'io - dice Lakhwindet Singh, fratello dell'indiano ucciso a Mesa - dico solo che avevamo chiesto ai media di chiarire immediatamente che non siamo musulmani, nessuno ha nosso un dito ed ecco il risultato".
Sia a Chicago sia a New York i tassisti indiani, che sono la maggioranza, tengono sbarrato il vetro che divide il posto di guida dai passeggeri, ed erano anni che non si vedevano simili misure di sicurezza. La situazione è talmente grave che il primo ministro indiano Atal Bihari Vajpayee ha dovuto telefonare al presidente Bush chiedendo i proteggere i suoi connazionali. Se il mezzo milione di sikh che vivono negli Usa accettassero di rinunciare al turbante, il problema sarebbe forse risolto, ma la loro religione non lo consente. "Potete anche strapparmi anche lo scalpo - dice combattivo Prabhjot Singh, 22 anni, consulente tecnologico di Manhattan - ma per togliermi il turbante prima dovete uccidermi"."
Carlo
Piano,
inviato
a
New
York
de
"Il
Giornale"
(20/9/01)
"Ali Abu Shwaima punta il dito sul Corano: "Chiunque uccida un uomo è come se uccidesse tutta l'umanità, mentre chi salva una vita è come se la salvasse a tutta l'umanità". E chi pensa di trovare nel presidente del centro islamico della Lombardia almeno una lontanissima giustificazione dell'ecatombe americana, rimane deluso: "Condanno il gesto, i suoi autori, esprimo sgomento per questa immensa tragedia che sconvolge l'umanità. Qui non c'è neppure l'ombra di Allah". Cosa ne pensa della vita come sacrificio al Misericordioso, al Clementissimo? Quella vita cioè che i kamikaze delle Torri genelle e del Pentagono hanno perso in nome del loro Dio? "Nulla di tutto questo fa parte dell'Islam che dà valore prioritario alla vita. No al suicidio, no all'omicidio. Pensi solo che la nostra religione considera musulmani tutti i bambini fino all'età della reagione. Anche quelli cattolici. Mai e poi mai può essere tollerato l'assassinio, soprattutto di giovani vite, come è successo a New York".
Cosa pensa di questi kamikaze? "Penso che si tratti di persone disperate, di gente ridotta all'ultimo stadio esistenziale, di uomini depressi o malati o sconvolti. Gente che non ha più nulla da perdere, da chiedere, e che quindi fa un ragionamento di questo tipo: tu mi hai tolto tutto, mi hai annientato, distrutto, umiliato, tu mi stai uccidendo e io mi uccido da solo e porto anche te, mio nemico, nella stessa tomba". In questo senso, riesce dunque ad accettare l'eliminazione fisica? "No, mai. Nulla può giustificarla". E' risoluto e impenetrabile. Shwaima fa dunque l'americano? "Nient'affatto. Per me la verità non è quella di Bush - graffia - Siamo proprio sicuri che il responsabile della strage sia Osama Bin Laden? I manuali di guerra e di criminologia non insegnano forse di puntare il dito su chi ottiene i maggiori benefici da un certo crimine? E vi sembra forse che Bin Laden ne esca bene da una simile, gigantesca, operazione di guerra? No, io penso che dietro a tutto questo ci sia la mano di un grande regista". Ma qui, a Milano, come va? "Per il momento non abbiamo avuto problemi, anche se qualche lettera di minaccia l'ho ricevuta". E scuote la testa: "Purtroppo voi non conoscete il nostro mondo".
Andrea Pasqualetto, "Il Giornale", cronaca di Milano, 17/9/01
LO STAFF DEL PRESIDENTE
Laboratorio didattico di simulazione realizzato fra il 19 settembre e il 26 settembre 2001 in tre classi di scuola media superiore a cura di Alessandro Marescotti, docente di Italiano e Storia.
Vi vorrei raccontare l'esperienza didattica che ho realizzanto a scuola con i miei studenti e che prende spunto dalla grave situazione internazionale in cui sono in corso i preparativi per una guerra che si preannuncia complessa, imprevedibile e tragica.
Tale esperienza ruota attorno ad una metodologia attiva e interattiva che coinvolge l'intera della classe: il gioco di simulazione. Gli studenti devono infatti simulare lo staff dei consiglieri del Presidente degli Stati Uniti. Per quanto il termine "gioco di simulazione" sia quello tecnicamente più adatto, in classe ho cercato di usare il meno possibile il termine "gioco" per parlare solo di "simulazione": "Facciamo una simulazione", ho detto. Infatti la progettazione di una guerra non può essere simulata come un gioco, almeno dal mio punto di vista, per il suo carattere tragico. E tuttavia la simulazione, proprio perché può prendere in considerazione diverse opzioni porta ad esaminare anche opzioni alternative alla guerra: misure politiche e diplomatiche volte a garantire la sicurezza. E quindi la simulazione può servire anche a verificare che non sempre la guerra è lo strumento più efficace e "più forte" per essere forti e per raggiungere gli obiettivi che ci si prefigge. In tal senso la simulazione può ritornare ad essere un "gioco" che ha come mezzo di elaborazione il miglior software di cui l'uomo dispone, la ragione, e come fine la pace.
Premetto che questo "laboratorio didattico" di simulazione che vi "racconterò" è stato sperimentato ieri nella 2F, nella 4Bm e nella 5Bm dell'Istituto Tecnico Industriale Righi di Taranto. Esso si ispira al gioco "Wall Street" contenuto nel bel libro di Matteo Morozzi e Antonella Valer "L'economia giocata", uscito ad agosto per le edizioni EMI (gli indirizzi e-mail degli autori sono antonella.valer@unimondo.it e bottegadelmondo@tiscalinet.it). E infatti ad agosto ho avuto modo di "addestrarmi" su questo gioco di ruolo con l'autrice Antonella Valer in un corso di aggiornamento sull'educazione alla mondialità organizzato a Trodena (BZ) dall'AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau). L'esito veramente coinvolgente di quell'esperienza mi aveva convinto della bontà e necessità di introdurre nella scuola anche i giochi di simulazione.
Pur partendo da "Wall Street", questo laboratorio didattico di simulazione introduce delle varianti che lo rendono sostanzialmente nuovo e che lo spostano dal settore dell'economia a quello della geopolitica e della elaborazione delle opzioni di guerra e di pace.
Lo "staff del presidente" è un laboratorio di simulazione che ha come obiettivo quello di far prendere al Presidente degli Stati Uniti - alla luce delle informazioni oggi disponibili - le scelte più efficaci per combattere il terrorismo e rispondere adeguatamente ai tragici fatti recentemente accaduti negli Stati Uniti.
La simulazione ha le seguenti regole:
- i consiglieri hanno il compito di elaborare delle proposte militari e politiche;
- il Presidente ha il compito di ascoltare tutti senza esprimere pareri ma ponendo solo domande per poi alla fine elaborare degli scenari ed esprimere delle valutazioni in merito sui pro e sui contro, indicando il suo giudizio complessivo;
- ogni consigliere dispone di un voto che può andare ad una o due opzioni al massimo;
- il presidente dispone di 5 voti e spesso è determinante per il successo di una opzione; può scegliere solo una opzione.
Fin qui la simulazione è piuttosto semplice ed è un addestramento didattico all'ascolto, all'elaborazione orale in modo logico e stringente delle proprie argomentazioni, all'elaborazione di scenari alternativi, alla considerazione di punti di vista plurimi e alla valutazione secondo la bilancia "costi/benefici" secondo un approccio non deterministico ma probabilistico, basato sulla valutazione del rischio.
Gli studenti-consiglieri non discutono tutti insieme ma si riuniscono in tre gruppi: uno che discute ed elabora le opzioni militari, uno che valuta le conseguenze di tali opzioni sulla borsa e sull'economia e uno che valuta le ripercussioni di tutto ciò sull'opinione pubblica (nazionale e internazionale) e quindi sul consenso che ogni opzione produrrebbe in termini di appoggio al Presidente.
Ma a turbare questo ideale "parlamento della logica", con le commissioni degli esperti intenti a valutare i pro e i contro, intervengono fattori segreti e preoccupazioni inconfessabili, in buona parte tratte dal gioco "Wall Street" ma rielaborate nel contesto specifico.
Infatti nel corso della simulazione ho chiamato da parte, con i pretesti più svariati, alcuni studenti e ho loro consegnato di nascosto un bigliettino "top-secret" dicendo di non rivelare a nessuno ciò che stavano leggendo. Ecco il contenuto dei bigliettini:
1) Il primo viene consegnato al Presidente: "Top-Secret per il Presidente: la CIA ti ha informato che fra i consiglieri che incontrerai forse c'è una spia. Sarebbe riconoscibile perché cercherà di convincerti usando le parole "pace", "giustizia", "occorrono le prove". Questa spia avrebbe il compito di creare disaccordo fra i tuoi consiglieri e di portare così alle lunghe i lavori del tuo staff.
2) Un altro bigliettino viene consegnato ad una "finta spia": "Sei uno dei nuovi consiglieri dello staff del Presidente. Cerchi di fare carriera. Hai saputo che il Presidente vuole dichiarare la guerra con un solenne discorso ma che non riesce a trovare le frasi giuste per inserire in modo convincente le parole "pace", "giustizia" e l'espressione "possiamo fornire le prove". Alcuni amici ti consigliano pertanto di intervenire per offrire le idee più azzeccate per elaborare il discorso alla Nazione del Presidente.
3) Ed ecco il bigliettino passato alla "vera spia" che si è inserita nello staff presidenziale in veste di consulente: "Sei una spia di una società segreta che gioca in borsa e che ha lo scopo di far crollare la borsa di Wall Street con una manovra arrischiata. Se Wall Street cade allora il dollaro affonda e la società segreta ha acquistato oro in enormi quantità perché l'oro andrà alle stelle e tu realizzerai enormi guadagni. Il tuo scopo è pertanto quello di dare al Presidente i consigli peggiori.
4) Infine due bigliettini vengono dati a due consiglieri ben collegati alla lobby delle armi: "Sei un consigliere dello staff presidenziale. Hai acquistato in borsa forti quantitativi di azioni di aziende che producono armi. Premi sul Presidente perché scateni una guerra in modo che le tue azioni salgano in borsa: con una guerra realizzerai enormi guadagni".
La durata della simulazione è stata di due ore più un'ora per scrivere i commenti su ciò che hanno provato. I bigliettini sono rimasti rigorosamente segreti (come pure i ruoli "inconfessabili") e sono stati letti solo dopo la votazione, generando stupore e "colpi di scena".
La simulazione nelle due classi è andata benissimo forse perché i ragazzi sono stati presi di sorpresa e trascinati per due ore nei panni di chi ora sta decidendo il futuro del mondo. I giudizi finali sono stati di estremamente positivi in quanto il "laboratorio" imponeva loro di astrarsi dalle loro convinzioni per spingerli ad informarsi, porsi nei panni degli altri, ascoltare e valutare diversi punti di vista, costruire le ipotesi finali su cui effettuare la votazione conclusiva.
Ed ecco come è andata in 2F (16 studenti). Ogni consigliere poteva esprimere un voto anche per una o due opzioni. Le opzioni elaborate sono state le seguenti:
1) No alla guerra per le ripercussioni negative sulla borsa. Proposta: collaborazione attraverso l'ONU di tutte le polizie del mondo per sconfiggere il terrorismo. 6 voti.
2) Guerra massiccia per piegare ogni resistenza con i bombardamenti aerei, anche mettendo a rischio la vita dei civili. L'altro rischio è quello di una disperata reazione di terroristi kamikaze in tutto il mondo. Ma questi rischi vengono messi nel conto e l'opzione è considerata inevitabile per sradicare definitivamente le basi del terrorismo. 5 voti
3) Intervento mirato con truppe di terra. Si mette nel conto la perdita di soldati Usa e l'incremento delle spese militari. 9 voti
4) Minaccia dell'uso della bomba atomica. 4 voti
Il Presidente (lo avevo scelto io fra i ragazzi più saggi e preparati) ha puntato i suoi 5 voti sulla 3' opzione, che è risultata vincente. Rivelato a sorpresa il contenuto dei bigliettini segreti, il Presidente si è accorto che la spia (che doveva dargli i "consigli peggiori" per far crollare Wall Street) aveva premuto sia per l'opzione 2 sia per l'opzione 3. "Chi pensavi fosse la spia?", ho chiesto. Il Presidente ha indicato il consigliere carrierista, che gli aveva proposto alla fine l'opzione 1.
I consiglieri collegati alla lobby militare hanno votato per la 2 e la 3 (uno) e per la 2 e la 4 (l'altro).
Molto interessante è stato il fatto che il "pregiudizio" del Presidente, creato ad arte da informazioni sibilline e pilotate, ha generato effetti catastrofici portando a confondere un carrierista con una spia e perdendo di vista il vero sabotatore.
In 5Bm le ipotesi elaborate sono state 5:
1) attaccare solo obiettivi militari e non obiettivi civili; distruggere riserve carburante; non usare la bomba atomica; questa opzione ha prevalso con 9 voti più i 5 del Presidente;
2) contatti con terroristi rivali per catturare Bin Laden (nessun voto)
3) prendere Bin Laden con infiltrati "puliti" (4 voti)
4) attacco globale (5 voti)
5) soluzione pacifica, uso solo delle polizie mondiali coordinate (3 voti).
Da notare: questa è la classe più "pacifista" che ho (in un sondaggio segreto dello scorso anno la maggioranza degli studenti simpatizzava per Rifondazione Comunista) e tuttavia ho affidato agli studenti più dotati di maggiore dialettica i ruoli degli infiltrati, i quali hanno fatto un buon lavoro. I lobbisti delle armi hanno votato rispettivamente per le opzioni 1-3 e 1-4, l'infiltrato vero che voleva far crollare Wall Street ha votato per l'opzione 4 mentre il carrierista ha scelto la 1 e la 4.
In 4Bm (una classe nuova che non conoscevo) i ragazzi-consiglieri hanno elaborato 5 proprie ipotesi e i voti attribuiti sono stati questi:
1) attacco globale e massiccio: 4 voti
2) infiltrazione di corpi speciali in Afghanistan e spionaggio per catturare Bin Laden, anche con accordi con guerriglieri delle fazioni rivali: 6 voti
3) attacco aereo alle basi militari: 4 voti
4) attacco con truppe di terra; azioni mirate preparate dallo spionaggio 4 voti
5) collaborazione tra le polizie e i servizi segreti di tutto il mondo mediante il coordinamento dell'ONU: 4 voti
I 5 voti determinanti del Presidente sono andati sulla 5' opzione. Il Presidente, che era stato eletto dai ragazzi, era uno dei ragazzi più preparati e alla fine ha dimostrato una saggezza che speriamo sappia trovare anche Bush. La finta spia è stata individuata ma non ha condizionato il Presidente. Il sabotatore infiltrato dalla società segreta che aveva comprato oro ha agito in segreto con molta determinazione, forse troppa, tanto che il gruppo della "borsa" ha detto: "Ma che stai dicendo, sei pazzo? Così fai crollare la borsa!" Aveva consigliato infatti al Presidente l'attacco globale all'Afghanistan. La finta spia aveva consigliato l'opzione 2 mentre i consiglieri collegati alle lobby militari avevano scelto l'attacco globale.
La cosa da segnalare è che io non ho influenzato in alcuno modo le due classi (non avevo espresso le mie opinioni, siamo all'inizio dell'anno scolastico e questi sono i primi incontri) e in particolare la 4 Bm non la conosco (è nuova per me).
Riporto sinteticamente alcune frasi che hanno scritto come riflessione finale:
Antonio: "Attività abbastanza interessante capace di sviluppare caratteristiche innovative e di aprire la mente ad altre opinioni. Lo scopo finale di questo gioco, oltre al coinvolgimento, è quello di non trarre conclusioni affrettate e di non basarsi sui pregiudizi".
Damiano: "Affrontando l'argomento della guerra attraverso un gioco di simulazione ho capito ed elaborato con i miei compagni nuove opinioni".
Luca: "Questo gioco o, per meglio dire, questa simulazione, ci è servita ad analizzare i problemi da molteplici punti di vista. Senza arrivare a conclusioni affrettate abbiamo cercato diverse soluzioni a questo delicato problema. Dopo una votazione è emerso che la soluzione preferibile era quella di mantenere la pace. In seguito il professore ci ha rivelato di aver distribuito dei biglietti a dei ragazzi e in questi biglietti c'erano scritti dei compiti da svolgere e delle "parti da recitare". In conclusione dico che il lavoro ci è servito anche a discutere in gruppo, condividendo le nostre idee con gli altri".
Michele: "In questa simulazione si può dire che ognuno di noi cercava di guardare i problemi da vari punti di vista, senza sottovalutare i pro e i contro. Siamo riusciti ad analizzare un problema molto grave, cercando di trovare soluzioni a questioni certamente molto più grandi di noi".
Nicola: "E' stato un "gioco" interessante e allo stesso tempo educativo perché ha evidenziato che anche dei pregiudizi possono comportare una guerra".
Enrico: "Grazie a questa specie di "gioco" abbiamo capito che non bisogna fidarsi dei pregiudizi della gente perché alle volte in situazioni simili a questa (in condizioni reali) ci può essere sempre chi fa il doppio gioco con il solo scopo di arricchirsi alle spalle della gente che lotta come in questo caso per trovare una soluzione più pacifica possibile".
Attilio: "Questa attività di simulazione mi è servita molto per approfondire le vicende accadute da vari punti di vista (politico, economico e sociale) e soprattutto per responsabilizzarmi".
Emilio: "Questa attività ci è servita ad aprirci la mente. Siamo abituati a seguire i "media" ma oggi abbiamo imparato a non avere pregiudizi. Ogni scelta deve essere motivata e deve interessarsi dei possibili riscontri".
Marco: "E' stata una simulazione interessante poiché si interagisce con molte opinioni e bisogna ragionare sui pro e sui contro prendendo così la decisione più giusta. Ma insegna anche a non fidarsi di persone importanti che possono essere spie che cercano di far valere la propria opinione per propri scopi".
Cosimo M.: "Sono molto contento di aver potuto partecipare a questa attività di simulazione che è riuscita a coinvolgere tutta la classe attorno ad un compito comune, rendendo quanto più reale possibile una immedesimazione nella situazione attale che gli Usa e il resto del mondo stanno affrontando in questi giorni".
Cosimo Q.: "Questa attività ci è servita ad entrare meglio nel problema della guerra. Infatti alcuni non sapevano bene tutto ciò che sta accadendo e poi abbiamo capito che non bisogna molto fidarsi degli altri e soprattutto che non bisogna farsi pregiudizi".
Alessio: "Con questa simulazione ho capito quanto possa essere difficile prendere una decisione, soprattutto quando questa scelta comporta il sacrificio di vite umane da parte del Presidente. Dall'altra parte è stato bello perché è interessante provare a far parte dello staff presidenziale. Spero che si possa ripetere questa esperienza perché la ho reputata interessante".
Ma chi ha saputo riassumere con la massima semplicità il senso di tutto è stato Christian, che ha scritto: "Abbiamo imparato con la nostra testa come comportarci dopo questa tragedia".
Infatti di una tragedia si tratta e il nostro pensiero si inchina in silenzio di fronte a tante persone innocenti cancellate dalla follia e dal fanatismo.
Alessandro Marescotti
docente di Lettere della 2F e 4Bm dell'Istituto Tecnico Industriale "Righi" di Taranto
PS - Ringrazio profondamente gli amici dell'AIFO , Matteo Morozzi e Antonella Valer per avermi dato l'opportunità di entrare in modo critico ed educativo nel mondo dei giochi di simulazione.
SARA' UNA GUERRA DI PAROLE
di
Edward
Luttwak
(Consigliere
militare
del
Pentagono)
Gli
Stati
Uniti
stanno
ammassando
un
imponente
potenziale
militare,
facendo
convergere
sull'oceano
Indiano
nord-occidentale
quattro
flotte
con
altrettante
portaerei.
L'impressione
prevalente
è
che
si
preparino
a
invadere
l'Afganistan
o
a
colpire
di
nuovo
l'Iraq
con
bombe
questa
volta
più
intelligenti
del
1991.
Nessuna delle due opzioni in realtà è probabile. Non quella irachena, a meno che non emergano prove inconfutabili contro Saddam Hussein, indicato come uno dei principali finanziatori di Osama Bin Laden (meno ricco di quanto si favoleggi). In questo caso, ma solo in questo caso, si
materializzerebbe
l'ipotesi
di
una
rappresaglia
su
larga
scala,
preceduta
da
una
vasta
preparazione
diplomatica.
Anche l'opzione afgana non appare possibile né necessaria. Non è possibile in quanto costringerebbe a richiamare almeno 3mila riservisti. Non è necessaria in quanto per sconfiggere i talebani sarà sufficiente, da un lato, tagliare i rifornimenti militari provenienti dal Pakistan e,
dall'altro,
riarmare
massicciamente
i
loro
mortali
nemici
dell'Alleanza
settentrionale
(che
la
stragrande
maggioranza
dei
governi
mondiali
riconosce
tuttora
come
il
legale
governo
afgano).
Di
conseguenza
ritengo
che
la
risposta
americana
agli
attacchi
dell'11
settembre
non
possa
che
essere
al
50%
per
cento
diplomatica
e
al
50%
per
cento
militare.
A
questa
previsione
sono
indotto
da
una
semplice
constatazione:
in
Afganistan
non
ci
sono
obiettivi
validi
per
un
bombardamento
aereo
o
per
azioni
di
commando.
Non è un obiettivo valido Al Qaeda, la cui struttura è frammentata e mobile. Non ci sono quartieri generali. I depositi di armi sono baracche di sperduti villaggi. I campi di addestramento sono appunto solo campi. O sono in Paesi stranieri, per esempio gli Usa nei quali si addestrarono i piloti
suicidi.
Bombardare
quelle
baracche
e
quei
campi
sarebbe
inutile
in
termini
materiali
e
controproduttivo
in
termini
politici.
I
più
insignificanti
danni
inflitti
all'Afganistan
verrebbero
immediatamente
rapportati
alle
stragi
disastrose
di
New
York
e
Washington.
Non molto più promettente sarebbe una campagna di bombardamenti sui talebani. Anche costoro non formano un esercito vero e proprio. Se il Pakistan tagliasse loro le forniture militari ne risentirebbero. E potrebbero perdere qualche dozzina di carri armati e qualche centro di
comando
a
Kabul,
Kandahar,
Jalalabad
in
caso
di
battaglia
con
gli
americani.
Tutto
qui.
(…)
Già
in
area
di
operazione
di
trovano
i
Rangers
del
75esimo
battaglione
di
fanteria
e
la
Delta
Force
dei
paracadutisti.
Non
dovrebbero
avere
alcun
problema
a
entrare,
anche
perché
i
talebani
non
dispongono
di
un
efficace
sistema
radar
e
di
forze
di
intercettazione.
L'Afganistan può essere penetrato da ordinari aerei da trasporto, che sono quelli usati dalle forze speciali. I Combat Talon C 3 volano a basse quote, con ogni tempo, di giorno e di notte, e atterrano anche su piste desertiche. I massimi comandi americani sono però riluttanti a ordinare, come fanno invece israeliani e britannici, operazioni di commando. Ricordano ancora la debacle di Mogadiscio, nel 3, quando Rangers e Delta furono uccisi. E da allora, se premuti dai politici, hanno sempre posto
come
precondizione
una
vasta
raccolta
di
intelligence.
Ora
forse
saranno
più
disposti
a
rischiare
la
vita
dei
loro
uomini.
Non
rimane
da
sperare
che
agenti
locali
o
pakistani
guidino
i
commandos
americani
nelle
tane
di
Osama
Bin
Laden,
da
prendere
vivo
o
morto.
Fonte: Il Resto del Carlino Online
IL TESTO DEL TRATTATO NATO FIRMATO A WASHINGTON IL 4 APRILE 1949
Le Parti del presente Trattato, riaffermarmando la propia fede negli scopi e nei principi della Carta delle Nazioni Unite, ed il desiderio di vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i governi, decisi a salvaguardare la libertà dei propri popoli, il proprio retaggio comune e la propria civiltà, fondati sui principi della democrazia, sulle libertà individuali e sul predominio del diritto, desiderosi di favorire nella regione dell'Atlantico settentrionale il benessere e la stabilità, decisi a riunire i loro sforzi per la loro difesa collettiva e per il mantenimento della pace e della sicurezza, hanno siglato d'intesa il presente Trattato del Nord Atlantico:
Articolo 1
Le Parti si impegnano, in ottemperanza alla Carta delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale nella quale possano essere implicate, in modo da non mettere in pericolo la pace, la sicurezza e la giustizia internazionali, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all'impiego della forza in modo incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite.
Articolo 2
Le Parti contribuiranno al futuro sviluppo di relazioni internazionali pacifiche ed amichevoli rafforzando le proprie istituzioni libere, diffondendo i principi sui quali tali istituzioni si basano e promuovendo stabilità e benessere. Esse cercheranno di eliminare i conflitti nelle rispettive politiche economiche internazionali ed incoraggeranno le reciproche relazioni economiche.
Articolo 3
Al fine di conseguire con maggiore efficacia gli obiettivi del presente Trattato, le Parti, individualmente e congiuntamente, nello spirito di una continua e effettiva autodifesa e assistenza reciproca, manterranno e svilupperanno la propria capacità individuale e collettiva di resistenza ad un attacco armato.
Articolo 4
Le Parti si consulteranno quando, secondo il giudizio di una di esse, ritengano che l'integrità territoriale, l'indipendenza politica o la sicurezza di una di esse siano minacciate.
Articolo 5
Le Parti convengono che un attacco armato contro una o più di esse, in Europa o nell'America settentrionale, costituirà un attacco verso tutte, e di conseguenza convengono che se tale attacco dovesse verificarsi, ognuna di esse, nell'esercizio del diritto di legittima difesa individuale o collettiva riconosciuto dall'art.51 dello Statuto delle Nazioni Unite, assisterà la parte o le parti così attaccate, intraprendendo immediatamente, individualmente e di concerto con le altre parti, l'azione che giudicherà necessaria, ivi compreso l'impiego della forza armata, per ristabilire e mantenere la sicurezza nella regione dell'Atlantico settentrionale.
Qualsiasi attacco armato siffatto, e tutte le misure prese in conseguenza di esso, verrà immediatamente segnalato al Consiglio di Sicurezza. Tali misure dovranno essere sospese non appena il Consiglio di Sicurezza avrà adottato le disposizioni necessarie per ristabilire e mantenere la pace e la sicurezza internazionali (1).
Articolo 6
Ai sensi dell'articolo 5, per attacco armato contro una o più parti si intende un attacco armato:
contro il territorio di una di esse in Europa o nell'America settentrionale, contro i Dipartimenti algerini di Francia (2), contro il territorio della Turchia o contro le isole situate sotto la giurisdizione di una delle parti della regione dell'Atlantico settentrionale a nord del Tropico del Cancro;
contro le forze, le navi o gli aeromobili di una delle parti che si trovino su detti territori o in qualsiasi altra regione d'Europa nella quale alla data di entrata in vigore del presente Trattato siano stazionate forze di occupazione di una delle parti, o che si trovino nel Mare Mediterraneo o nella zona dell'Atlantico a nord del Tropico del Cancro, o al di sopra di essi.
Articolo 7
Il presente Trattato non pregiudica e non dovrà essere considerato come pregiudicante in alcun modo i diritti e gli obblighi derivanti dallo Statuto alle parti che sono membri dell'ONU, o la competenza primaria del Consiglio di Sicurezza per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionali.
Articolo 8
Ogni parte dichiara che nessuno degl'impegni internazionali ora in vigore tra essa ed ogni altra parte o tra essa e qualsiasi altro Stato è in contrasto con le disposizioni del presente Trattato e si obbliga a non assumere alcun impiego internazionale in contrasto con il presente Trattato.
Articolo 9
Le Parti con il presente Trattato costituiscono un Consiglio, con diritto alla rappresentanza di ognuna di esse, per decidere le questioni in connessione al presente Trattato. L'organizzazione del Consiglio dovrà permettere una convocazione in ogni momento. Il Consiglio potrà creare gli organi che riterrà necessario; in particolare esso dovrà immediatamente costituire un comitato di difesa che dovrà raccomandare le misure per l'implementazione degli articoli 3 e 5.
Articolo 10
Le Parti potranno decidere all'unanimità di invitare ogni altro Stato Europeo di adottare le norme del presente Trattato, contribuendo così alla sicurezza dell'area nord atlantica. Gli Stati così invitati potranno diventare Parte del presente Trattato depositando i propri strumenti di adesione presso il Governo degli Stati Uniti d'America. Il Governo degli Stati Uniti d'America informerà tutte le Parti di tale deposito.
Articolo 11
Il presente Trattato dovrà essere ratificato ed attuato dalle Parti in accordo con le norme costituzionali di ciascuna delle Parti. Gli strumenti di ratifica dovranno essere depositati il più presto possibile presso il Governo degli Stati Uniti d'America, che notificherà tale atto a tutte le Parti. Il Trattato entrerà in vigore tra gli Stati che l'avranno ratificato non appena la maggioranza degli Stati firmatari, ivi comprese le ratifiche di Belgio, Canada, Francia, Lussemburgo, Olanda, Gran Bretagna e Stati Uniti d'America, avranno depositato le ratifiche, ed entrerà in vigore rispetto agli altri Stati nel momento del deposito delle loro ratifiche.
Articolo 12
Dopo 10 anni dall'entrata in vigore del Trattato, o in ogni momento successivo, le Parti dovranno avviare le consultazioni circa la revisione del Trattato, qualora una di esse ne faccia richiesta, tenendo in considerazione la pace e la sicurezza dell'area nord atlantica, ivi incluso lo sviluppo degli assetti regionali ed universali secondo la Carta delle Nazioni Unite, per il mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
Articolo 13
Dopo 20 anni dall'entrata in vigore del Trattato ciascuna delle Parti potrà ritirare la propria adesione dopo un anno dal deposito del relativo avviso Stati Uniti d'America, il quale provvederà a notificare alle altre Parti il deposito di tale avviso.
Articolo 14
Il
presente
Trattato,
nelle
versioni
francese
ed
inglese
facenti
ugualmente
fede,
sarà
depositato
presso
il
Governo
degli
Stati
Uniti
d'America.
Copie
debitamente
autenticate
saranno
trasmesse
ai
Governi
delle
parti
contraenti.
Note:
1. La definizione dei territori ai quali è applicabile l'articolo 5 è stato modificato dall'articolo 2 del Protocollo del Trattato del Nord Atlantico con l'ingresso della Grecia e della Turchia e i Protocolli firmati all'ingresso della Repubblica Federale della Germania e della Spagna.
2. Il 16 gennaio 1963, il Consiglio del Nord Atlantico ricevette una dichiarazione del Rappresentante Francese che segnalava che, a seguito del voto del 1 luglio 1962 sull'autodeterminazione, il popolo algerino si era pronunciato in favore dell'indipendenza dell'Algeria in cooperazione con la Francia. Di conseguenza, il Presidente della Repubblica Francese il 3 luglio 1962 riconobbe ufficialmente l'indipendenza dell'Algeria. Ne risultò che i "Dipartimenti algerini della Francia" cessarono di esistere, e che allo stesso tempo la loro menzione nel Trattato del Nord Atlantico non aveva più significato. Il Consiglio prese dunque atto che, per quel che riguardava gli ex Dipartimenti algerini di Francia, gli articoli interessati di questo Trattato erano divenuti inapplicabili a partire dal 3 luglio 1962.
Nota di Studi per la Pace: Traduzione non ufficiale. Per la versione originale, cfr. la pagina web dell'Organizzazione del Nord Atlantico (NATO).
IL MOVIMENTO PER LA PACE NEGLI STATI UNITI
Di Alice Dembner e David Abel, inviati del Globe, 18/9/2001
NEW YORK - Si stanno radunando sommessamente in veglie, non organizzano proteste. E in gran parte li sta soffocando un'ondata febbrile di retorica di guerra.
Ma in tutto il paese, le voci a favore del pacifismo e di un atteggiamento di calma diventano sempre più forti.
A poco più di un miglio dal "ground zero" del World Trade Center, ormai ridotto in cenere, a Union Square una veglia per le vittime si è già trasformata in un centro ad hoc per il nascente movimento pacifista. Il monumento a George Washington che si trova sulla piazza non solo è coperto di bandiere americane, ma anche di slogan contro la guerra.
Veglie per la pace sono state organizzate da Portland, nell'Oregon, a Cambridge, nel Massachussetts, e nelle prossime settimane se ne terranno moltissime dappertutto.
Più di 100 organizzazioni religiose e per i diritti civili hanno intenzione di riunirsi giovedì a Washington per organizzare una risposta ampia agli atti terroristici della settimana scorsa, nella speranza di mitigare il sostegno governativo ad attacchi armati all'estero e ad un ampliamento dei
poteri di imposizione delle leggi negli USA.
Separatamente, gruppi pacifisti si incontreranno venerdì a New York per pianificare un'azione nazionale contro la "guerra al terrorismo" dichiarata da Bush, sostenendo che la guerra non è la risposta giusta e che porterà solo ad una escalation di violenza.
"Stiamo mobilitando la comunità pacifista perché si faccia un appello a favore della riconciliazione e non della rappresaglia", ha dichiarato Judith Mahoney Pasternak della War Resisters League. "Prima iniziamo a intonare canti di pace per contrastare i tamburi di guerra, meglio sarà".
Mentre la War Resisters League ha detto che i propri sforzi organizzativi sono stati ostacolati da problemi con telefoni e posta elettronica presso i loro uffici a solo 1 miglio e mezzo dal luogo dell'attentato, altri gruppi dichiarano di essersi mossi con cautela per rispetto nei confronti delle
vittime.
"Vogliamo costruire un'opinione pubblica nelle nostre comunità, e passare molto rapidamente a esprimerla a livello nazionale", ha detto Judith McDaniel, dell'ufficio nazionale del Comitato American Friends Service di Philadelphia. Ha confermato che l'ufficio ha ricevuto diverse minacce di attentati da quando ha lanciato una campagna nazionale per la pace chiamata "No More Victims" (Niente più vittime).
Intanto, all'interno del Congresso qualcuno si chiede se i legislatori si stiano affrettando a intraprendere azioni che danneggeranno gli USA. Il senatore Patrick Leahy, un democratico del Vermont, ha dichiarato ieri di essere preoccupato che la spinta ad allentare le restrizioni sulle
intercettazioni potrebbe ledere le libertà civili.
"Non vogliamo legare le mani dei servizi di intelligence, ma non abbiamo nemmeno intenzione di limitare i diritti di milioni di americani", ha detto. E il deputato Barbara Lee, il democratico californiano unico membro del Congresso a votare contro la risoluzione della settimana scorsa che
autorizzava il presidente Bush all'utilizzo della forza contro il terrorismo, dice che la sua posizione sta guadagnando sempre più sostenitori.
"La gente inizia a capire che dobbiamo mostrare una certa calma, che non vogliamo che la spirale degli eventi ci sfugga di mano", ha dichiarato la Lee. "Dobbiamo garantire che la democrazia venga mantenuta e che il nostro paese sia sicuro".
Non sono solo i pacifisti ad essersi schierati contro la retorica bellica, ma anche altre persone che guardano alla storia e vedono i fallimenti e le violenze seguiti ad un intervento degli Stati Uniti non accuratamente ponderato.
Nel 1998, fanno notare, gli USA bombardarono un presunto stabilimento di armi chimiche in Sudan, che si rivelò essere un'industria farmaceutica. E durante la Seconda Guerra Mondiale, l'isteria collettiva condusse gli americani a deportare i giapponesi-americani in campi di internamento. "L'analogia della guerra è un vero problema per me", dice Stephen Zunes,
presidente del programma di studi per la pace e la giustizia dell'Università di San Francisco. "Non si è trattato di un atto di guerra ma di un atto criminale. Dobbiamo pensare in termini di risposta da parte delle forze di polizia. Ma non credo sarebbe poco realistico organizzare operazioni di commando su scala ridotta per neutralizzare le cellule terroristiche."
Noam Chomsky, pacifista di lunga data e professore del MIT, si oppone anche a questa azione. "Un appello perché si faccia vendetta senza pensare a quello che ci aspetta è un regalo per i terroristi", ha detto. "In pratica garantisce una escalation di violenza. Un'alternativa a breve termine è
seguire lo stato di diritto attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite o il Tribunale Mondiale."
Lo storico Howard Zinn, in passato in servizio presso la Boston University, suggerisce che la risposta al terrorismo sta da qualche altra parte. "Dobbiamo trasformarci da una nazione belligerante in una nazione che usa le proprie risorse a scopo costruttivo… per arrivare al dolore e alla miseria che alimentano il terrorismo," dice.
Nella zona di Boston, sono in programma veglie pacifiste per oggi a mezzogiorno presso il Palazzo Federale JFK e domani alle 18 a Copley Square, con un incontro organizzativo in merito a ulteriori eventi. Alla Tufts University, i membri del programma di studi per la pace e la giustizia stanno facendo circolare una petizione per chiedere che "la ricerca della giustizia" si concentri solo su chi ha commesso l'orrendo crimine, evitando di colpire popolazioni intere, nel rispetto delle libertà
civili. A Union Square a New York, giovani e vecchi, ebrei e gentili, bianchi e neri si sono raccolti attorno a migliaia di candele votive, bandiere americane e fotografie dei dispersi per rendere loro omaggio e cantare slogan come "La vendetta non è giustizia" e "Spezzate il circolo della violenza: La guerra è debolezza, la pace è forza".
"La gente ha bisogno di sapere che esistono altri sentimenti in America, che non siamo tutti falchi in attesa di scambiare occhio per occhio", ha detto Josh Torpey, 24 anni, un insegnante di Manhattan che ha incontrato un gruppo di amici a Union Square domenica sera.
Ted Lawson, un artista di Boston di 31 anni, stava creando un'immagine della bandiera americana con le impronte delle dita dei passanti per rappresentare l'unità dell'America, ma ha dichiarato di domandarsi se le azioni di guerra condotte dagli Stati Uniti avessero incoraggiato il
terrorismo. In tutto il parco si sono accesi infuocati dibattiti fra chi mette in discussione la politica degli USA e chi ritiene che gli Stati Uniti dovrebbero annientare qualsiasi gruppo o stato che abbia fornito aiuto nell'organizzazione degli attacchi.
Ma altri erano spaventati dalla prospettiva di una guerra. Mentre accendeva una candela vicino a una fila di rose sistemate in modo da ricordare le Torri Gemelle, Christine Andriopoulos ha detto di essere spaventata. "Il messaggio dovrebbe essere uno stop alla violenza", dice. "Qui. Ora. Per
sempre.
Questo articolo è stato pubblicato sul Boston Globe del 18/9/2001; traduzione dall'americano di Paola Manca.
PALESTINESI FELICI PER GLI ATTENTATI AGLI AMERICANI?
Articolo scritto dal giornalista Nigel Parry (riprodotto su PeaceLink News)
12 settembre 2001 - Ieri e oggi, di seguito alle immagini relative agli aerei di linea inumanamente usati come missili per attaccare la gente in visita o al lavoro nei palazzi del World Trade Center a New York e nel Pentagono a Washington, la maggior parte dei media ha mandato in onda servizi che ritraevano festeggiamenti in territorio palestinese.
La breve sequenza è stata programmata ciclicamente e utilizzata come spunto per un'intervista, durante la quale i giornalisti hanno sondato tra rappresentanti del governo USA e non opinioni sulle suddette immagini.
Quasi in tutti i networks statunitensi i giornalisti hanno presentato il servizio come se fosse rappresentativo della reazione di tutti i Palestinesi, senza preoccuparsi di aggiungere alcun contesto alle immagini.
E' doveroso fare alcune osservazioni, innanzitutto sulle immagini effettive.
1. tre milioni di Palestinesi vivono tra la striscia di Gaza e West Bank, Gerusalemme compresa, un milione di loro vivono all'interno dei confini di Israele, e altri 4 milioni di palestinesi sono rifugiati in altre parti del mondo, Stati Uniti inclusi. Le immagini in questione mostravano un massimo di 40 individui.
2. I Palestinesi raffigurati nella sequenza di immagini sono per la maggior parte bambini. Gran parte dei comportamenti e degli atteggiamenti mostrati nel servizio non sono sembrati diversi dalle reazioni che i bambini palestinesi hanno sempre avuto in presenza di giornalisti stranieri, urla e
grandi sorrisi alla telecamera, segno di vittoria, che è stato il simbolo della risolutezza palestinese sotto l'occupazione militare di Israele fin dalla prima Intifada nel 1987. Non c'è un solo reporter che abbia girato immagini differenti da queste della West Bank palestinese, sia che fosse una circostanza particolare, sia che fosse un qualsiasi altro giorno nei territori occupati.
3. In questi servizi, in cui tutto fa sembrare quei comportamenti una reazione gioiosa agli attacchi sferrati pochi minuti prima alle torri gemelle e al Pentagono, i giornalisti che hanno commentato la sequenza non si sono mai azzardati a offrire un contesto o un background alle immagini, né hanno cercato di separare quei pochi individui dai restanti milioni di Palestinesi. (…)
4. Gran parte dei Palestinesi, come è successo per molta altra gente di ogni nazionalità, è stata disgustata e scioccata dagli eventi di New York e Washington. Tutti i Palestinesi con parenti a New York e Washington hanno passato la giornata di ieri cercando di telefonare per assicurarsi che
fossero salvi, esattamente come molti americani hanno fatto. Tra le vittime della tragedia sono presenti anche cittadini palestinesi. In ogni caso, un gruppo di 20-40 bambini palestinesi non è più rappresentativo dell'intera popolazione palestinese di quanto il Klu Klux Klan rally lo possa essere
per la popolazione americana (…)
I media americani ieri hanno mandato in onda quella sequenza di immagini senza spiegare una sola ragione di queste, cose che non sono né nuove né accettabili alla luce del sentimento anti-Palestinese, anti-Arabo e anti-Musulmano che hanno creato. Nessuna associazione di giornalisti che
intendesse fornire ai suoi spettatori una rappresentazione accurata e quanto più reale dei fatti dovrebbe diffondere immagini non rappresentative di una maggioranza e per di più senza contesto, immagini che servirebbero soltanto ad alimentare ed incoraggiare il razzismo verso una nazionalità e i gruppi etnici ad essa associati (….)
Chi vive negli Stati Uniti prova giustamente rabbia verso i responsabili degli orribili e devastanti eventi di ieri, ma non deve commettere l'errore di attribuire la responsabilità dell'accaduto a un'intera popolazione che continua a soffrire attraverso uno dei periodi più bui della sua già desolata storia.
MESSAGGIO FINALE DELLA CONFERENZA INTERNAZIONALE SU
“CRISTIANI E MUSULMANI IN EUROPA: RESPONSABILITA’ E IMPEGNO RELIGIOSO IN UNA SOCIETA’ PLURALISTA”
Sarajevo 12-16 settembre 2001
La Conferenza delle Chiese Europee (KEK) e il Consiglio delle Conferenze episcopali europee (CCEE) hanno invitato Cristiani e Musulmani impegnati in attività interreligiosa ad incontrarsi a Sarajevo, città altamente simbolica per gli scambi religiosi e culturali. Nell’attuale nuova fase multireligiosa e multiculturale della storia d’Europa, Musulmani e Cristiani da 26 paesi durante tre giorni si sono scambiate le loro preoccupazioni su tre diversi ambiti:
· le sfide che vengono dal vivere insieme in una società largamente pluralista e secolarizzata;
· la guarigione delle ferite delle memorie storiche dei Cristiani e Musulmani cosicché possano impegnarsi per la giustizia e la pace per tutti;
· la condivisione dei valori con i quali le nostre comunità possono attivamente contribuire a costruire una società migliore.
Considerando la nostra riunione come un dono di Dio, abbiamo condiviso le nostre convinzioni e le nostre speranze, consapevoli della responsabilità delle nostre comunità religiose di dare un contributo alla formazione dell’Europa futura.
Insieme vogliamo contribuire a un’identità dinamica del nostro continente. Fedeli alle nostre ispirazioni religiose ci impegniamo a
- Intraprendere azioni coraggiose a sostegno della vita umana, della libertà, della religione, della proprietà, della dignità e della giustizia;
- Dare a noi e alle nostre comunità di fede una chiara consapevolezza della nostra comune umanità che ci rende fratelli e sorelle aldilà delle diverse appartenenze religiose e politiche;
- Rifiutare la giustificazione della violenza nel nome della religione.
Il nostro impegno per il dialogo ci porta a fare le seguenti raccomandazioni:
- Portare i giovani a conoscere e rispettare ciascuno la fede e la comunità dell’altro attraverso programmi educativi;
- Promuovere nelle scuole pubbliche un’educazione interreligiosa che preveda anche corsi interreligiosi;
- Sostenere gruppi interreligiosi di laici a livello locale per accrescere la consapevolezza di tutto ciò che ostacola la cooperazione;
- Incoraggiare al dialogo e all’incontro interreligioso preti, pastori, teologi, imam e laici, attraverso scambi tra facoltà e seminari cristiani e musulmani;
- Fondare o sostenere in ogni paese europeo istituzioni che si propongano di promuovere il dialogo interreligioso a servizio dei valori etici, sociali e politici delle nostre società;
- Continuare i nostri sforzi per sviluppare la consapevolezza dei nostri comuni valori.
Alla luce delle crescenti dimensioni dell’attacco terroristico negli Stati Uniti, sentiamo il bisogno di reiterare il nostro documento approvato in precedenza:
“Siamo
immensamente
colpiti
dai
tragici
massacri
a
New
York
e
a
Washington
D.C.,
ed
esprimiamo
il
nostro
profondo
dolore
e
sofferenza
per
le
migliaia
di
vittime
uccise
o
ferite,
e
partecipiamo
alla
sofferenza
dei
loro
familiari
ed
amici.
Unanimemente
condanniamo
questo
atto
di
violenza,
come
pure
ogni
distruzione
di
vita
umana
come
una
violazione
della
volontà
di
Dio
e
un
peccato
contro
l’umanità.
Riconoscendo
il
potenziale
di
violenza
che
risiede
in
tutti
noi,
preghiamo
che
questo
avvenimento
privo
di
senso
non
provochi
una
risposta
di
ritorsione
indiscriminata.
Nello
spirito
di
questa
conferenza
ci
impegniamo
a
essere
strumenti
di
dialogo,
a
contribuire
a
costruire
giustizia
e
pace
e
a
lavorare
per
la
riconciliazione
nelle
nostre
società”.
Questo testo ci è stato gentilmente inviato da Gianni Novelli (novelli@gianni@tiscalinet.it) del Centro Interconfessionale per la Pace.
INTERVISTA A CHOMSKY
(4
ottobre
2001)
Fonte: http://www.zmag.org/Italy/albert-int-chomsky.htm
Michael Albert intervista Chomsky
"Ho spedito sei domande a Noam Chomsky. Le sue risposte per e-mail..."
C'è stato un immenso movimento di truppe ed un uso estremo della retorica militare, fino a giungere a commenti sulla possibilità di porre termine a governi ecc. Eppure a molta gente sembra che ci sia ancora un contenimento eccessivo... cosa è successo?
Dal primo giorno dopo l'attacco, l'amministrazione Bush è stata messa in guardia dai leaders della NATO, da esperti di quella regione e presumibilmente dai suoi stessi servizi segreti (per non
parlare di tanti come te e me) che se reagisse attaccando massicciamente e uccidendo molti innocenti, esaudirebbe le preghiere più fervide di Bin Laden.
Cadrebbero in una "trappola diabolica", come ha detto il ministro degli esteri francese. Ciò sarebbe vero - e forse ancora di più - se gli riuscisse di uccidere Bin Laden senza aver fornito delle prove
credibili del suo coinvolgimento nei crimini dell'11 settembre. Bin Laden diventerebbe in questo modo un martire anche tra la maggioranza dei musulmani che li condannano, come lo stesso
Bin Laden ha fatto, per ciò che può valere, negando qualunque coinvolgimento in essi o anche solo di esserne a conoscenza, e condannando "l'uccisione di donne, bambini ed altri essere umani
innocenti" come un "atto che l'Islam proibisce recisamente... anche nel corso di una battaglia" (BBC, 29 settembre). La sua voce continuerà a risuonare su decine di migliaia di cassette che
già circolano nel mondo musulmano ed in molte interviste, anche di questi giorni. Un attacco che uccida afgani innocenti - non i Talebani ma le loro vittime terrorizzate - sarebbe virtualmente un
appello ad arruolarsi per la causa dell'organizzazione di Bin Laden e di altri "laureati" di organizzazioni terroristiche costituite dalla CIA e dai suoi compagni venti anni fa per combattere la Guerra Santa contro l'Unione Sovietica (…) Comunque, "contenimento" mi sembra una parola opinabile. Il 16 settembre, il New York Times ha scritto che "Washington ha anche richiesto [al Pakistan] l'interruzione delle forniture di carburante,... e la soppressione dei convogli di autocarri che riforniscono la popolazione civile dell'Afganistan della maggior parte del cibo ed altro". Stupefacentemente, questo annuncio non ha suscitato alcuna reazione percepibile in Occidente (…) Il 27 settembre, lo stesso corrispondente del NYT riferì che ufficiali pakistani "hanno dichiarato oggi che non si lasceranno smuovere dalla decisione di sigillare i 2000 chilometri di confine con l'Afganistan, una mossa richiesta dall'amministrazione Bush perché, dicono gli ufficiali, volevano essere sicuri che nessuno degli uomini di Bin Laden potesse nascondersi nella marea immensa dei rifugiati" (John Burns, Islamabad). Secondo i giornali principali del mondo, dunque, Washington ha chiesto che il Pakistan macelli numeri ingenti di afgani, milioni di loro già sul punto di morire per fame, tagliando il limitato sostentamento che li teneva in vita. Quasi tutte le missioni si sono ritirate o sono state espulse sotto la minaccia di bombardamenti. Numeri elevatissimi di miserabili si sono dati alla fuga oltre il confine per il terrore, dopo la minaccia di Washington di bombardare i brandelli di esistenza che ancora resistono in quel paese (…) Quando i rifugiati raggiungono le frontiere sigillate, sono intrappolati, destinati a morire in silenzio. Solo un rivolo può fuggire attraverso gli incerti passi di montagna. Non possiamo sapere quanti sono già morti e pochi sembrano interessarsene. Escludendo gli enti di soccorso non ho visto fare tentativi di una stima. Entro poche settimane un inverno duro arriverà. Ci sono alcuni reporter ed aiutanti nei campi
di rifugiati oltre il confine. Ciò che descrivono è abbastanza orribile, ma essi sanno, e noi con loro, che quelli sono i fortunati, i pochi che sono stati in grado di fuggire e che esprimono la loro
speranza che "finanche i crudeli Americani possano provare pietà per il nostro paese in rovina", e commuoversi per questo selvaggio genocidio silenzioso (Boston Globe, 27 settembre).
Forse la descrizione più appropriata è stata data dalla meravigliosa e coraggiosa scrittrice ed attivista indiana Arundhati Roy, facendo riferimento all'Operazione Giustizia Infinita proclamata
dall'amministrazione
Bush:
"Guardate
la
giustizia
infinita
del
nuovo
secolo.
Civili
che
stanno
morendo
di
fame
mentre
aspettano
di
essere
uccisi"
(Guardian,
29
settembre).
Le Nazioni Unite hanno indicato che la minaccia di morte per fame in Afganistan è enorme. Le critiche internazionali per questa ragione sono cresciute e ora gli USA e la Gran Bretagna parlano di fornire aiuti alimentari per scacciare la fame. Stanno accogliendo le posizioni del dissenso nei fatti o solo in apparenza? Quale è la loro motivazione? Quale sarà la scala e l'impatto dei loro sforzi?
L'ONU stima che circa 7-8 milioni di persone corrono il rischio imminente di morire di fame. Il NY Times riferisce in un piccolo pezzo (25 settembre) che circa sei milioni di afgani dipendono dagli
aiuti alimentari dell'ONU, così come 3.5 milioni nei campi per rifugiati al di là del confine, molti dei quali sono scappati giusto prima che quest'ultimo fosse sigillato. L'articolo riportava che del
cibo viene inviato ai campi oltre confine. Se la gente a Washington e le redazioni hanno anche una sola cellula grigia funzionante, si renderanno conto che devono presentarsi come umanitari che
cercano di prevenire la tragedia crudele che ha fatto immediatamente seguito alla minaccia di bombardamenti e di attacco militare e alla chiusura dei confini che loro stessi avevano imposto. "Gli esperti spronano gli Stati Uniti a migliorare la loro immagine incrementando gli aiuti ai rifugiati afgani, così come aiutando nella ricostruzione economica" (Christian Science
Monitor, 28 settembre). Anche senza specialisti di pubbliche relazioni, i funzionari dell'amministrazione devono capire che devono spedire del cibo ai rifugiati che ce l'hanno fatta a superare il confine, e per lo meno parlare di lanci aerei di cibo per la gente che sta morendo di fame all'interno: allo scopo di "salvare le vite" ma anche di "aiutare lo sforzo per individuare i gruppi terroristici all'interno dell'Afganistan" (Boston Globe, 27 settembre, citazione di un ufficiale del Pentagono che descrive questa cosa come "conquistare i cuori e le menti della gente"). I redattori del NY Times hanno ripreso lo stesso tema il giorno seguente, 12 giorni dopo che il giornale aveva riportato che l'operazione omicida stava per essere realizzata".
Circa l'entità dell'aiuto, uno può solo sperare che sia enorme, o la tragedia umana può diventare immensa in poche settimane. Ma dovremmo anche tenere a mente che non c'è stato nulla che
impedisse massicci lanci di aiuti alimentari sin dall'inizio e che non possiamo nemmeno provare ad indovinare quanti siano già morti, o moriranno presto. Se il governo è ragionevole, ci sarà almeno una parvenza dei "massicci lanci aerei" che gli ufficiali menzionano.
Le istituzioni legali internazionali approverebbero probabilmente tentativi di arrestare e processa Bin Laden ed altri, supponendo che la colpevolezza possa essere dimostrata, comprendendo l'uso della forza. Perché gli USA evitano questa possibilità? È solo il desiderio di non legittimare un approccio che potrebbe essere usato, allo stesso modo, contro i nostri atti di terrorismo, o ci sono altri elementi in gioco?
Gran parte del mondo ha chiesto agli USA di fornire qualche evidenza del collegamento tra Bin Laden ed il crimine, e se tale evidenza potesse essere fornita, non sarebbe difficile radunare un
sostegno amplissimo ad un'azione internazionale, sotto l'egida dell'ONU, per arrestarlo e processare lui ed i suoi collaboratori. Ma non è comunque una cosa semplice. Anche se Bin Laden e la sua
organizzazione fossero coinvolti nei crimini dell'11 settembre, potrebbe essere molto difficile fornirne prove credibili. Come la CIA sa molto bene, avendo nutrito e controllato da vicino queste
organizzazioni per venti anni, esse sono diffuse, decentralizzate, non gerarchiche, probabilmente con pochissimi flussi informatici o direzione diretta. E per quello che sappiamo, la gran parte degli
esecutori può essersi suicidata nella loro missione orrenda.
Ci sono altri problemi sullo sfondo. Per citare ancora Roy, "la risposta dei Talebani alle richieste di estradizione di Bin Laden da parte degli USA è stata insolitamente ragionevole: producete le
prove e ve lo daremo. La risposta del presidente Bush è la che richiesta non è negoziabile". Roy aggiunge inoltre una delle molte ragioni per cui questo quadro è inaccettabile per Washington:
"Mentre si parla dell'estradizione dei capi, può l'India inserire a margine la richiesta di estradizione dagli USA per Warren Anderson? Era il capo della Union Carbide, responsabile della perdita di gas di Bhopal che uccise 16 mila persone nel 1984. Abbiamo raccolto le prove necessarie. È tutto nella richiesta. Possiamo averlo, per favore?" Questi confronti suscitano la collera estrema delle frange estreme dell'opinione occidentale, alcuni di loro li chiamano "la sinistra": Ma per gli occidentali che hanno conservato la loro integrità morale e mentale e per un gran numero tra le vittime di sempre, sono piuttosto significativi. I leader di governo presumibilmente lo capiscono.
Ed il singolo esempio che Roy cita è solo l'inizio, chiaramente, ed uno degli esempi minori, non solo per la scala dell'atrocità, ma perché non fu espressamente un crimine di stato. Supponiamo che
l'Iran dovesse richiedere l'estradizione di alti ufficiali delle amministrazioni Carter e Reagan, rifiutandosi di presentare un'ampia evidenza dei crimini che costoro avevano messo in
pratica - e questa sicuramente esiste. O supponiamo che il Nicaragua dovesse richiedere l'estradizione dell'ambasciatore USA all'ONU, recentemente incaricato di condurre la "guerra contro il terrore", un uomo la cui storia include il servizio come "proconsole" (come si indicava il più delle volte) nel dominio feudale virtuale dell'Honduras, dove di sicuro era al corrente delle atrocità dei terroristi che egli stava appoggiando, e che sovrintendeva anche la guerra terroristica per la quale gli USA erano stati condannati dalla Corte Mondiale e dal Consiglio di Sicurezza (in una risoluzione contro la quale gli USA esercitarono il diritto di veto). O molti altri.
Si sognerebbero mai gli USA di rispondere a queste richieste presentate senza prove, o anche se ampie prove fossero presentate?
Queste porte è meglio lasciarle chiuse, così come è meglio mantenere il silenzio sulla nomina di una figura leader nella gestione di operazioni condannate in quanto terroristiche dai più alti organismi internazionali per condurre una "guerra al terrorismo". Pure Johnathan Swift rimarrebbe senza parole.
Questa può essere la ragione per cui gli esperti in pubblicità dell'amministrazione hanno preferito l'utilmente ambiguo termine "guerra" al più esplicito "crimine", "crimine contro l'umanità come
Robert Fisk, Mary Robinson ed altri l'hanno accuratamente descritto. Ci sono procedure ben definite per occuparsi di crimini, per quanto possano essere orrendi. Richiedono la prova e
l'aderenza al principio secondo cui "coloro che sono colpevoli di questi atti" siano "giudicati responsabili una volta che l'evidenza sia stata prodotta, ma non altri" (Giovanni Paolo II, NYT 24 settembre).
Non, per esempio, il numero sconosciuto di miserabili che stanno morendo di fame nel terrore all'interno dei confini sigillati, benché anche in questo caso stiamo parlando di crimini contro l'umanità.
Se i Talebani cadessero e Bin Laden o qualcuno ritenuto responsabile fosse catturato o ucciso, cosa succederebbe in seguito? Cosa succederà all'Afganistan? Cosa succederà più in generale nelle altre regioni?
Il piano di un'amministrazione intelligente sarebbe perseguire il programma di genocidio silenzioso in corso, combinandolo con gesti umanitari per suscitare l'applauso del solito coro che ha il
compito di cantare le lodi dei nobili leaders dediti a "principi e valori" e in grado di condurre il mondo verso una "Nuova era" liberata dalla disumanità (…) Un attacco USA non potrebbe essere
comparato alla fallita invasione da parte sovietica negli anni '80. I sovietici fronteggiavano un esercito cospicuo di forse 100 mila uomini o più, organizzati, addestrati e pesantemente armati dalla
CIA e i suoi compagni. Gli USA si trovano di fronte un'accozzaglia di persone in un paese che è stato già virtualmente distrutto da 20 anni di orrore, per la qual cosa portiamo una responsabilità non leggera. Le forze dei Talebani, così come sono, potrebbero cedere rapidamente fatta eccezione per un nucleo ristretto. E ci si aspetterebbe che la popolazione sopravvissuta dia il benvenuto ad
una forza di invasori se appena non fosse associata troppo strettamente alle bande assassine che hanno ridotto il paese a brandelli prima della presa del potere dei Talebani. A questo punto,
la maggior parte della gente darebbe probabilmente il benvenuto finanche a Gengis Khan.
Cosa accadrà dopo? Gli espatriati afgani e, apparentemente, alcuni elementi che non fanno parte dei circoli più interni dei Talebani hanno invocato un'iniziativa dell'ONU per insediare un qualche
governo di transizione, in un processo che potrebbe aver successo nel tentativo di ricostruire qualcosa di accettabile a partire da questi rottami, se solo fosse predisposto un sostanzioso aiuto alla
ricostruzione, convogliato attraverso istituzioni indipendenti come l'ONU o ONG credibili. Tutto questo dovrebbe essere la responsabilità minima da parte di coloro che hanno trasformato
questo paese povero in una terra di terrore, disperazione, cadaveri e vittime mutilate. Potrebbe succedere, ma non senza degli sforzi sostanziosi delle popolazioni dei paesi ricchi e potenti. Al
momento, un qualunque corso di questo genere è stato escluso dall'amministrazione Bush, che ha annunciato che non si impegnerà nel "costruire la nazione" (…) Ma il rifiuto attuale di considerare questo processo non è scolpito nella pietra.
Cosa accadrà in altre regioni dipende da fattori interni, dalle politiche di agenti stranieri (soprattutto gli USA tra questi, per ragioni ovvie) e dalla maniera in cui le cose procedono in Afganistan. Difficilmente si può essere fiduciosi, ma per molti dei possibili andamenti è possibili fare delle valutazioni ragionevoli sugli esiti, e ci sono tantissime possibilità, troppe per cercare di
passarle
in
rassegna
in
brevi
commenti.
Quale credi sia il ruolo e la priorità degli attivisti sociali preoccupati per la giustizia in questo momento? Dovremmo tenere a freno la nostra critica, come alcuni sostengono, o è ora il momento, al contrario, di sforzi rinnovati e più ampi, non solo perche si tratta di una crisi su cui possiamo tentare di avere un impatto positivo, ma anche perché larghi settori dell'opinione pubblica sono di fatto più recettivi del solito alla discussione ed alla esplorazione, anche se altri settori sono ostili in maniera intransigente?
Dipende da ciò che questi attivisti sociali stanno cercando di ottenere. Se l'obiettivo è di innescare una spirale di violenza ed aumentare la probabilità di ulteriori atrocità come quella dell'11
Settembre - e, rincresciosamente devo dire anche di peggiori, che sono già ben familiari al mondo - allora dovrebbero senz'altro trattenersi dalle analisi e dalle critiche, rifiutarsi di pensare, e
ridurre il loro coinvolgimento nelle serissime questioni in cui si sono impegnati. Lo stesso consiglio è giustificato se vogliono aiutare gli elementi più reazionari e retrogradi del sistema di potere politico-economico a realizzare i loro piani, che saranno di gran danno per la popolazione generale qui e in gran parte del mondo, e potranno finanche mettere in pericolo la sopravvivenza.
Se, al contrario, l'obiettivo degli attivisti sociali è di ridurre la probabilità di ulteriori atrocità e di far avanzare le speranze di pace, per i diritti umani e la democrazia, allora dovrebbero seguire
l'andamento contrario. Dovrebbero intensificare i loro sforzi di indagare sui fattori che stanno sullo sfondo di questi ed altri crimini e dedicarsi con ancora maggior energia alle giuste cause cui si
sono già interamente dedicati. Le opportunità esistono sicuramente.
Lo shock per questi crimini orrendi ha già aperto anche settori elitari ad una riflessione di un genere che sarebbe stato difficile da immaginare solo poco tempo fa, e per l'opinione pubblica in generale
ciò è ancora più vero. Chiaramente ci sono quelli che richiedono l'obbedienza silenziosa. Questo ci aspettiamo dall'estrema destra, ma chiunque con un po' di familiarità con la storia se lo aspetterà
altresì da parte di taluni intellettuali di sinistra, forse addirittura in una forma più accesa. Ma è importante non lasciarsi intimidire dallo sbraitare isterico e dalle bugie e tenersi il più vicini possibile al corso della verità e dell'onestà e alla preoccupazione per le conseguenze di ciò che si fa, o non si riesce a fare (…)
LA CIA E L'ESTREMISMO ISLAMICO
John K.Cooley, "Una guerra Empia. La Cia e l'estremismo islamico". Edizioni Eleuthera, luglio 2000.
Recensione
di
Carlo
Gubitosa
Un libro che, se venisse pubblicato oggi, suonerebbe come una facile dietrologia, ma che nel 1999, data di uscita dell'edizione originale, è stato un tentativo concreto di prevenire gli attentati di cui oggi subiamo le conseguenze, un contributo efficace alla prevenzione del terrorismo che purtroppo è rimasto ignorato dai sedicenti "esperti" di geopolitica che appaiono sui nostri teleschermi. Vale la pena di riportare integralmente il testo della quarta di copertina:
Per
opporsi
all'invasione
sovietica
dell'Afganistan,
nel
1979,
gli
Stati
Uniti
strinsero
in
funzione
anti-comunista
una
sorprendente
alleanza
con
gli
estremisti
islamici.
Cooley
racconta
i
retroscena
di
questa
alleanza
e
del
modo
in
cui
la
Cia
pianificò
la
"guerra
santa"
in
Afganistan.
racconta
anche
di
come,
con
l'aiuto
dell'Arabia
Saudita,
dei
servizi
segreti
militari
pakistani
e
persino
con
il
coinvolgimento
della
Cina,
vennero
armati,
addestrati
e
finanziati
duecentocinquantamila
mercenari
islamici
di
ogni
parte
del
mondo.
Inoltre,
con
un'impressionante
mole
di
prove,
Cooley
traccia
le
dirompenti
conseguenze
di
quell'operazione:
il
trionfo
dei
talebani,
la
diffusione
mondiale
del
terrorismo
islamico,
la
destabilizzazione
dell'Algeria
e
della
Cecenia,
gli
attentati
al
World
Trade
Center...
e
in
tutto
ciò
spicca
curiosamente
il
ruolo
di
Usama
(ndr
e'
scritto
proprio
Usama)
Bin
Laden,
già
protetto
della
Cia
ed
ora
"nemico
pubblico
numero
uno".
MANUALE PER LA PROPAGANDA DI GUERRA
L'informazione in tempo di guerra.
Ho provato a calarmi nei panni di un esperto militare per riassumere in alcuni punti chiave le strategie mediatiche utilizzate negli ultimi anni dalle nostre Forze Armate e dall'Alleanza Atlantica per legittimare i conflitti armati che hanno avuto come protagonista anche l'Italia. Il risultato è un "manuale per la Propaganda di Guerra" che comprende un elenco impressionante di strategie e tecniche di manipolazione dell'informazione e delle coscienze, a cui il movimento per la Pace dovrà rispondere con altrettanta lucidità ed efficacia per evitare di essere schiacciato dall'"informazione a senso unico" che è già entrata in azione ben prima dei pacifisti, come dimostra l'editoriale di Lucio Caracciolo su "Repubblica" del 26 settembre, un articolo che ho letto solamente dopo aver realizzato questo scritto, ritrovando le tecniche da me descritte applicate con sapiente maestria.
Di Carlo Gubitosa <c.gubitosa@peacelink.it>
Piccolo manuale per la Propaganda di Guerra.
"La prima battaglia e' quella che si vince sul teleschermo"
(Anonimo)
Il punto fondamentale da cui partire è la ricerca della "Giusta Causa", un fatto reale ampiamente condannabile dal punto di vista etico e politico, a partire dal quale compiere azioni che di etico hanno ben poco. (Esempi di "Giuste Cause": Invasione del Kuwait, repressione della popolazione albanese del Kossovo, azioni terroristiche)
Si passerà in seguito all'individuazione, personalizzazione e demonizzazione del "Nemico". Negare o nascondere ogni legame passato o presente, economico o politico con il nemico. Togliere ogni visibilità mediatica alle domande scomode: Chi ha venduto le armi a Saddam ? Chi ha fatto affari con Milosevic e Bin Laden prima che si trasformassero nel "nuovo Hitler" e nel capo del nuovo "Impero del Male"? Far sfogare sul nemico personalizzato l'odio e la rabbia creata ad arte nell'opinione pubblica dimenticandosi che fino a ieri il "nemico" era anche nostro partner di affari e che continua a gestire i suoi soldi tramite le nostre banche. Affrontare la questione del segreto bancario con molta delicatezza. Anche se l'eliminazione dei paradisi fiscali e del segreto bancario sulle transazioni internazionali sarebbero decisive per "ostacolare" il "nemico", il terrorismo, il narcotraffico e il commercio delle armi, queste soluzioni non vanno assolutamente menzionate.
Bisognerà poi prestare particolare attenzione alla ricerca di un eufemismo per non impiegare mai l'uso della parola "guerra" (Operazione di Polizia Internazionale, Missione Umanitaria, Operazione antiterrorismo)
Ricordarsi di presentare all'opinione pubblica una sola verità al giorno. In ogni conferenza stampa Nato o nelle dichiarazioni pubbliche dei capi di Governo dei paesi in guerra va presentata una sola idea chiave che sarà il titolo dei giornali del giorno successivo. Questo ha il compito di semplificare il lavoro dei portavoce che devono gestire una situazione molto complessa, più facile da descrivere se trasformata in una affermazione monodimensionale.
In seguito alle prime reazioni si adotterà come risposta l'ostracismo e accuse di collaborazionismo con il nemico verso i giornalisti colpevoli di aver dato voce alle vittime dell'azione militare. Il teorema è: chi non è mio amico è necessariamente amico del mio nemico. Quando i giornalisti presenti "sul campo" manifestano opinioni critiche o non allineate, precisare che nei paesi dove vengono realizzate queste trasmissioni vige una strettissima censura militare che rende quelle testimonianze prive di valore.
Davanti ai crimini di guerra documentati, agli "effetti collaterali" e alle responsabilità dell'"Alleanza" negare l'evidenza. E' una tecnica efficacissima perché ormai l'opinione pubblica è abituata ad affermazioni anche grossolanamente inesatte da parte delle autorità militari e politiche e perché comunque i giornali danno più risalto alle menzogne "amiche" che alle affermazioni del "nemico" indipendentemente dal fatto che siano vere o meno. Quello che sembra solamente faccia tosta e sfrontatezza nella menzogna è in realtà una spietata strategia di comunicazione ampiamente collaudata.
Un altro punto chiave è la spettacolarizzazione e trasfigurazione della guerra. Anni e anni di "lavoro culturale" realizzato a testa bassa dai vari Stallone e Shwarzenegger hanno dato i loro frutti trasformando ogni azione militare in un pulito videogame. Inquadrare preferibilmente aerei, carri armati, alta tecnologia, soldati "amici" puliti e contenti e far vedere il meno possibile il volto del "nemico", che non va considerato nella sua umanità, evitare il più possibile riferimenti o inquadrature sulla popolazione civile.
Sarà opportuno utilizzare come al solito un "pool" di giornalisti amici, i soli ad essere abilitati ai "briefing" Nato, per dare l'impressione di un controllo democratico da parte della stampa dietro il quale si nasconde una censura e una selezione preventiva dei soggetti abilitati a fare domande. Ad essi va affiancato il lavoro certosino degli "intellettuali" allineati e degli editorialisti compiacenti, con particolare riguardo per Ernesto, Angelo, Lucio, Gianni, Paolo, Vittorio e altri che si sono già distinti in passato per i servigi resi con le loro penne a beneficio della "Giusta Causa".
Cercare a tutti i costi la polarizzazione delle posizioni senza lasciare spazio alle sfumature. E' molto più efficace ridurre la dialettica a un semplice "guerra sì - guerra no" per includere nel "guerra sì" anche le posizioni "guerra sì ma come intervento militare dei Caschi Blu ONU", "guerra sì ma senza impiego di armi radioattive", "guerra sì ma non dal cielo con bombardamenti a tappeto", "guerra sì ma senza violare le convenzioni di Ginevra scegliendo obiettivi civili come ponti o palazzi della televisione", "guerra sì ma non con bombe a grappolo che violano i trattati per la messa al bando delle mine". Ovviamente una volta cooptate queste posizioni nel semplice "Guerra si'", il fronte del "guerra no" sarà messo forzatamente in minoranza.
Se le reazioni dovessero persistere bisognerà adoperarsi per la ridicolizzazione e la banalizzazione delle posizioni espresse del movimento pacifista. Utilizzare la tecnica "hai ragione ma e' meglio fare come dico io", ovvero "quello che dici è un'utopia molto bella e auspicabile, che io condivido, ma ora c'è un'emergenza e va gestita con realismo e con i piedi per terra". Nei dibattiti pubblici selezionare figure "deboli", con una scarsa preparazione teorica e politica, e mediaticamente poco efficaci per dare l'impressione di una totale assenza di proposte concrete da parte di chi critica l'intervento armato. Altre categorie utili in cui inquadrare i pacifisti sono le seguenti: figli dei fiori, "quelli del G8", Black Bloc, popolo di Seattle, ex-sessantottini, preti idealisti affetti da "buonismo" cronico, ex-comunisti o veterocomunisti, ragazzini che non hanno ancora capito la dura realtà della vita. Evitare assolutamente personaggi legati al mondo accademico, ai centri di ricerca sulla Pace, alle reti di formazione per la nonviolenza o a qualunque realtà in grado di contrapporre una solida base teorica alla teoria dell'intervento armato. Utilizzare la tecnica del "dov'erano": "dov'erano i pacifisti quando tizio faceva questo?", utilissima per dimostrare ad arte che il pacifismo è una cosa che si rispolvera solo in caso di guerra e che non ha nessuna valenza nel campo della prevenzione e della risoluzione pacifica dei conflitti.
Cercare per quanto possibile di utilizzare immagini con un forte impatto emotivo, in grado di far scattare i meccanismi mentali che regolano l'istinto, la rabbia e l'aggressività, in modo da rendere cieca l'opinione pubblica ad ogni discorso razionale, negato nei cuori e nelle coscienze da una emotività esasperata artificialmente attraverso il video. Anche se non è di nessuna utilità dal punto di vista informativo, si consiglia di riproporre più volte al giorno sugli schermi televisivi la sequenza dell'aereo che si schianta sulle torri gemelle per mantenere vivo lo shock emotivo che può mantenere l'opinione pubblica saldamente dalla nostra parte.
Un'altra tecnica efficace è la negazione e l'occultamento delle alternative grazie ad un falso senso di informazione. Dare la maggior quantità di informazione possibile, anche nel caso in cui non si tratti di dati rilevanti, purché favorevoli alla nostra posizione e all'intervento armato. Far perdere la visione d'insieme con una cronaca dettagliatissima di aspetti marginali. In questo modo è possibile soffocare le proposte alternative alla guerra in un mare di informazioni, impossibili da gestire se non con una necessaria semplificazione che va a nostro vantaggio, in quanto la maggior quantità di informazioni in circolazione spinge in direzione della guerra. In quest'ottica sarà favorita la produzione a ritmo serrato di una grande quantità di notizie brevi, evitando il più possibile l'approfondimento, i dossier, le retrospettive storiche e il coinvolgimento di persone direttamente coinvolte nei problemi trattati, ai quali vanno preferiti gli "pseudo-esperti" che dall'alto della loro notorietà o in virtù di un titolo prestigioso sono pronti a riempire i palinsesti dei nostri programmi televisivi.
Curare la gestione "umanitaria" dei profughi. L'inevitabile flusso di profughi generato da ogni azione militare va gestito con molta attenzione dal punto di vista mediatico, trasformando una massa umana costretta alla fuga da un attacco militare in una popolazione sottratta a un regime repressivo e finalmente approdata nella civiltà dove potrà ricevere tutte le cure e le attenzioni necessarie, ovviamente fino allo spegnimento delle telecamere.
Successivamente andrà curata l'enfatizzazione della vittoria e la gestione della "mancata deposizione" del leader nemico. Saddam è ancora lì, e Milosevic è stato cacciato dalle elezioni, non certo dalle nostre bombe. Poiché probabilmente anche Bin Laden rimarrà in piedi sui cadaveri dei suoi seguaci e delle vittime civili della guerra, al termine dell'azione armata, enfatizzare il raggiungimento di altri obiettivi (che andranno individuati al momento) e affermare in ogni caso l'idea che "abbiamo vinto", "il nemico si è arreso", "sono state accettate incondizionatamente tutte le nostre condizioni".
Non stancare e non impaurire l'opinione pubblica. Gestire in maniera efficace il rientro alla normalità e la "chiusura della ferita". L'azione militare va chiusa nel più breve tempo possibile. Nel caso ciò non avvenga dare sempre meno rilevanza alle informazioni sugli sviluppi della guerra, relegandole in coda ai telegiornali o nelle ultime pagine dei quotidiani, in modo da non "tirare troppo la corda" rischiando il malcontento dell'opinione pubblica e l'adesione alle idee contrarie alla guerra. In nessun caso la popolazione dei nostri paesi deve sentirsi minacciata o avere l'impressione di trovarsi in uno stato di guerra o di forte militarizzazione, così come non vanno messi assolutamente in discussione i nostri privilegi, il nostro benessere o il nostro stile di vita. La guerra deve essere sempre vissuta come una parentesi, anziché come il normale svolgersi di eventi intercalati da periodi più o meno lunghi di "pacificazione" militare forzata. Questa tecnica è già stata sperimentata con successo durante la guerra contro la Jugoslavia, quando a bombardamenti ancora in corso siamo riusciti a far dare come notizia di apertura dei telegiornali la vittoria dello scudetto da parte del Milan. Al termine dell'intervento armato chiudere rapidamente ogni strascico relativo agli eventi in corso, senza approfondire le conseguenze dell'azione militare sulle condizioni della popolazione civile e dei profughi, sull'equilibrio ambientale e sulla situazione politica internazionale.
Tutte queste direttive vanno seguite scrupolosamente affinché anche questa guerra si trasformi in un eccezionale evento mediatico e in una grande prova di forza per la nostra civiltà e la nostra democrazia. Tutti gli operatori dell'informazione che proveranno a sottrarsi a questo progetto, attraverso la produzione di informazioni non allineate o l'utilizzo delle nuove tecnologie di comunicazione, verranno inesorabilmente marginalizzati e penalizzati nella loro attività lavorativa grazie al controllo capillare delle forze politiche, responsabili dell'intervento militare, sui grandi gruppi dell'informazione, un controllo che in Italia e' favorito anche dall'altissimo livello di concentrazione della proprietà nel settore dell'editoria, delle telecomunicazioni e del multimedia.
IL TERRORISMO SILENZIOSO
11 settembre 2001
Anche oggi 35.615 bambini sono morti di fame.
vittime: 35.615 (Fonte: FAO)
luogo: paesi poveri del pianeta
edizioni speciali del tg: zero
articoli della stampa: zero
messaggi del presidente della repubblica: zero
convocazioni delle commissioni d'emergenza: zero
manifestazioni di solidarietà: zero
minuti di silenzio: zero
commemorazioni delle vittime: zero
social forums organizzati: zero
messaggi del papa: zero
le borse internazionali: non vanno male
l'euro: in ripresa
livello d'allarme: zero
mobilizzazione dell'esercito: nessuna
ipotesi sull'identita dei criminali: nessuna
probabili mandanti: i paesi ricchi
Fonte: http://users.skynet.be/aden-news/
Lettera aperta ai pacifisti
Cari amici, abbiamo aderito alla marcia PerugiaAssisi di domenica prossima e quelli di noi che ci saranno, saranno lì ancora una volta perché tutti noi vogliamo, come voi, un futuro di pace, di giustizia, di libertà. Sfileremo insieme quindi, consapevoli della crisi drammatica che ha investito il mondo dopo le stragi dell'undici settembre e naturalmente delle differenze di giudizio emerse tra noi dopo la reazione militare contro il regime talebano di Kabul. I militanti dell'Ulivo ci saranno perché la marcia della pace è stata storicamente la sede di un impegno comune degli uomini e delle donne di buona volontà ma anche l'occasione per confrontare opinioni e culture diverse. E dunque con voi in primo luogo vogliamo dialogare per approfondire le ragioni di ciascuno.
Come sapete, noi non condividiamo la posizione che alcuni di voi hanno assunto dopo l'attacco americano all'Afghanistan. L'azione militare di questi giorni contro postazioni dei talebani è una reazione mirata e legittima dopo gli attentati di New York e Washington. In termini generali, è un dovere morale colpire strutture legate al terrorismo dotate di mezzi e risorse potenzialmente devastanti. E ciò è tanto più vero alla luce del proclama di Osama Bin Laden e del suo programma di guerra totale all'Occidente, ai suoi popoli, ai simboli della nostra cultura. Sappiamo bene che a dividerci non è il giudizio su questa manifestazione di fanatismo ma le politiche e gli strumenti necessari a neutralizzarlo. Ed è appunto su questo che dobbiamo confrontarci.
La prima considerazione riguarda la guerra, l'idea che abbiamo della guerra e soprattutto la sua data d'inizio. Da questo punto di vista, dovremmo evitare di ripetere gli errori già compiuti all'epoca della ex Jugoslavia. La guerra, la concreta guerra che insanguina l'Afghanistan, non è iniziata con i missili Cruise lanciati in questi giorni. La guerra è da anni quella dei talebani contro il popolo afgano. E prima ancora quella dell'invasione sovietica. Milioni di persone oppresse da una dittatura odiosa che costringe le donne a condizioni di vita inumane. Una guerra che ha già causato migliaia di vittime. Nel corso del tempo, quello stesso regime ha fornito basi operative, supporti logistici e protezione politica all'organizzazione terroristica di Bin Laden. Per settimane, dopo gli attentati di settembre, la comunità internazionale ha chiesto al regime di Kabul una totale collaborazione e la consegna dei terroristi ricevendo in cambio un rifiuto sprezzante. Solo a questo punto, e dopo che l'Onu ha legittimato con sue risoluzioni l'uso della forza contro esecutori, mandanti e complici delle stragi americane, è partita l'offensiva militare.
Si poteva agire diversamente? Crediamo di no. Riteniamo si fosse giunti a un punto tale da rendere necessaria un'azione di forza che fosse in grado di colpire le centrali logistiche del terrore e di isolare il regime talebano. Voi dite che l'azione è in sé illegittima perché “espressamente vietata dalla Carta delle Nazioni Unite”. E' una posizione contraddetta dal Consiglio di Sicurezza dell'Onu e dalle parole stesse del Segretario generale, Kofi Annan, il quale esprimendo sostegno all'iniziativa americana ha parlato esplicitamente di “legittima difesa” richiamando l'articolo 51 della Carta delle Nazioni Unite.
Abbiamo rammentato la tragedia jugoslava non a caso. Anche allora ci fu chi invocò l'intervento dell'Onu. Un intervento militare e non solo diplomatico. Quell'azione però non venne. E a Srebrenica - solo per citare l'orrore più indicibile - nell'estate del 1995 si compì il massacro di ottomila mussulmani deportati, uccisi e gettati in fosse comuni. Qualche giorno prima, i caschi blu olandesi che controllavano l'enclave bosniaca avevano invocato a più riprese un bombardamento dissuasivo della Nato sulle milizie serbe che accerchiavano la città. Ma, come ricorderete, nessun aereo si levò in volo e il mondo subì in silenzio l'onta di una tragedia e di una vergogna. Lo rammentiamo a ciascuno di noi per ammonirci dal cedimento a posizioni di principio discutibili nel merito ma soprattutto impotenti a risolvere il dramma concreto di milioni di persone disperate. L'uso della forza - questo è il punto - non può essere un tabù. Talvolta esso si manifesta come una dolorosa necessità per impedire che si consumino tragedie più grandi. In questo senso l'attacco ai talebani non è un'aggressione al popolo afgano né tantomeno una sfida all'Islam. E' la condizione per isolare un regime sanguinario e per rimuovere il pericolo di un attacco all'umanità mascherato sotto le sembianze di una sedicente guerra di religione e di civiltà.
La seconda considerazione investe più direttamente la politica e le sue responsabilità. Come si è detto da più parti gli eventi delle ultime settimane hanno cambiato il corso della storia. Questo può restituire alla politica una funzione centrale nella gestione di questa crisi e delle prospettive della globalizzazione. Non era un esito scontato. Vi ha contribuito, a diverso titolo, più di un protagonista. L'amministrazione americana, senza dubbio, con la decisione di non precipitare tutto in una reazione cieca e immediata. Arafat, scegliendo da subito la collocazione più difficile ma certamente più saggia e utile alla causa palestinese, e con lui la leadership israeliana consapevole dell'urgenza di una tregua. E ancora, la Russia di Putin, la Cina, una parte importante del mondo arabo e naturalmente l'Europa e il nostro paese; realtà e nazioni distanti ma unite per la prima volta in una coalizione mondiale che ridisegna lo scenario geopolitico del dopo guerra fredda. E' probabile che la grandezza di questi eventi si manifesterà in tutta la sua portata col passare degli anni. Ma qualcosa si può dire da subito. Le novità di queste settimane consentono di pensare all'azione militare in atto come a una sola delle articolazioni di una strategia che si sviluppa lungo piani diversi. E' ripreso, seppure in condizioni difficilissime, il dialogo tra israeliani e palestinesi. Sharon ha dovuto prendere atto dell'interesse strategico degli Stati Uniti a rilanciare, qui e ora, la convivenza tra la sicurezza dello Stato di Israele e il diritto a una patria per i palestinesi.
Anche questo è un risultato della politica perseguita in queste settimane dalla comunità internazionale. Lo stesso dovrà accadere, nei mesi a venire, per altre aree e contesti di crisi. Ciò a cui stiamo assistendo è la ricerca, faticosa e tormentata fin che si vuole, di un diverso ordine globale. Siamo tutti chiamati a fare i conti con questo mutamento. Possiamo leggere tutto questo come il modo concreto in cui la politica si riappropria delle sue prerogative assolvendo a una funzione storica di regolazione dei conflitti e di governo degli equilibri globali. Prosciugare i giacimenti dell'odio e della sofferenza, colpire lo sfruttamento dei più poveri e ripensare le strategie dello sviluppo e del benessere: questa può divenire la nuova agenda politica mondiale. La sfida è esserne protagonisti, condurre un'azione concreta perché prevalgano le ragioni della pace e della politica su scala europea e internazionale.
Dicendo questo noi riconosciamo non solo piena legittimità ma un ruolo prezioso alle posizioni di un pacifismo integrale. Ma dobbiamo anche dire, con la stessa sincerità, che non esiste un solo modo di concepire la lotta per la pace e che il nostro ruolo - quello di una coalizione che si è assunta in un passato recente la responsabilità di guidare il paese e che punta a farlo nuovamente in futuro - è un ruolo diverso, ma punta risolutamente al traguardo di una pace vera e stabile. E si misura con l'obbligo, in momenti difficili e drammatici, di assumersi la responsabilità di scelte che, per le ragioni indicate, non possono escludere un uso regolato della forza. Così è stato per il Kosovo e quella scelta ha contribuito a salvare migliaia di vite, a proteggere decine di migliaia di profughi, a combattere la dittatura di Milosevic e a portare la democrazia dove prima democrazia non c'era.
E' questo che ci spinge a confrontarci con voi su come legare indissolubilmente pace e giustizia, cessazione dei conflitti e rimozione delle ingiustizie che spesso li originano. In questa situazione è tanto più importante che nessuno pensi di interpretare da solo, e unicamente sulla base dei propri princìpi, le ragioni vere e gli obiettivi duraturi della pace. Diciamo che mai come adesso bisogna saper ascoltare e comprendere le ragioni degli altri. Come chi ha oggi la responsabilità della guida dell'Ulivo e chi in questi anni ha guidato il governo del paese, tanto ci sentivamo in dovere di dirvi per la stima e il rispetto reciproco tra noi.
Francesco Rutelli, Piero Fassino, Giuliano Amato, Massimo D'Alema, Lamberto Dini
(Repubblica 11/10/01)
SCHEDA:
PAROLE
SULLA
GUERRA
"E' stato un atto di guerra, non solo di terrorismo. Un nuovo tipo di guerra, per la quale noi chiameremo gli altri paesi ad unirsi a noi: ci è stata dichiarata guerra e noi guideremo il mondo alla vittoria".
"Sarà una battaglia lunga. Ma non abbiate dubbi: la vinceremo. Questa sarà una gigantesca lotta del bene contro il male, ma il bene prevarrà.
"Non ci sarà nessuna distinzione fra i terroristi che hanno compiuto l'attacco e gli Stati che li fiancheggiano".
George W. Bush, Presidente degli Stati Uniti
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"Abbiamo bisogno di giustizia, non di guerra. [...] Dobbiamo proteggere la nostra sicurezza, ma non distruggere Kabul: che vuol dire la politica di Bush? Vogliamo cancellare l'Afghanistan dalla carta geografica? Le risposte che sono necessarie sono politiche, chiudere il gap tra ricchi e poveri, tra bianchi e neri, tra nord e sud del mondo".
Cora Weiss, presidente dell'International Peace Bureau
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"E' certo l'inizio di una guerra globale, diversa da tutte quelle che abbiamo conosciuto, e con la particolarità che non ci sono soluzioni militari a questo conflitto. Eppure i leader occidentali hanno reagito subito in termini militari e il rischio e' che questa finisca per essere davvero una guerra tra civiltà, con conseguenze ben ancora più gravi e drammatiche di quelle che hanno avuto gli attacchi a New York e Washington. Ci potrebbe essere un dilagare della violenza a scala planetaria che non ha precedenti".
"I nuovi movimenti globali devono continuare a chiedere che che siano affrontati i problemi del pianeta, le sofferenze degli oppressi, le diseguaglianze, che le decisioni a scala globale siano prese in modo più democratico e rappresentativo. Se no la violenza, in un modo o nell'altro, sarà destinata a restare con noi".
Richard Falk, docente universitario a Princeton
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"Spiacevoli ma accettabili eventuali vittime civili in atti di rappresaglia, visto le perdite subite dai nostri".
Bill Bennett, senatore Usa
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"Non si possono sacrificare vittime innocenti per soddisfare la sete di potere dei governi imperiali e dei conflitti di coloro che si considerano padroni del mondo e pretendono di ripartire il pianeta come se fossero fette di una torta appetitosa. Gli attentati dell'11 settembre dimostrano che non c'è scienza e tecnologia capace di proteggere persone o nazioni. Inutile che gli Usa abbiano speso 400
miliardi di dollari quest'anno per la difesa. Sarebbe stato meglio che questa fortuna fosse stata destinata alla pace mondiale, che solo arriverà il giorno in cui sarà figlia della giustizia".
Frei Betto, sociologo e scrittore brasiliano
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"Questo dibattito è importante perché siamo di fronte a un attacco di proporzioni epocali. Non solo contro gli Stati uniti, ma anche contro i valore democratici in cui noi tutti crediamo cosi' appassionatamente. E' un attacco contro il mondo civilizzato".
Tony Blair, primo ministro inglese
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[Dissento da chi] "pensa che mostrare i muscoli e andare a colpire donne, bambini, vittime innocenti, cioé gli stessi obiettivi dei terroristi, sia la soluzione a questo problema. Il pericolo e' quello di una generazione in Irak e Medio oriente che sta crescendo nell'odio più assoluto degli Stati Uniti. Questo è il problema da affrontare e non con i bombardamenti visti nel passato".
Tam Dalylell, deputato più anziano della Camera dei Comuni inglese
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"Questi attentati richiedono una lotta senza quartiere contro il terrorismo. Sappiamo di difendere in questo modo i valori che sono alla base della civiltà e della pacifica convivenza fra i popoli. I popoli liberi debbono essere uniti e compatti nella risposta a questo atto di guerra contro il mondo civile".
Carlo Azeglio Ciampi, Presidente della Repubblica Italiana
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"C'è dietro l'idea che la civiltà sia unica, con la 'c' maiuscola, e tutto quello che è diverso da noi, sia alieno e barbarico. Questo ragionamento è antropologicamente inaccettabile; trovo gli stereotipi di questo genere dal punto di vista culturale e politico, molto pericolosi. Nessuno pensa che i terroristi siano delle brave persone, ma sta di fatto che il terrorismo è sempre un fatto politico, viene da una crisi, una mancanza, un fallimento della politica. La civiltà non c'entra".
Fabrizio Tonello, docente all'università di Padova
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"Questo è il copione dello scontro di civiltà, l'idea sviluppata qualche anno fa da Samuel Huntington, secondo cui gli Stati uniti devono scontrarsi con le civiltà del pianeta che hanno valori e orizzonti diversi da quelli occidentali, soprattutto con il mondo islamico. Una visione pericolosa che aggrava i problemi e le tensioni esistenti, a partire da quelli in Medio oriente, dove la politica degli Stati uniti ha aggravato il conflitto, con il sostegno incondizionato a Israele e nessun attenzione per i diritti e le sofferenze dei palestinesi".
Marcus Raskin, politologo, docente alla George Washington University, un tempo consigliere di John Kennedy alla Casa Bianca, fondatore dell'Institute for policy studies di Washington
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"Il risultato di questi attacchi è che Israele si ritrova un mandato in bianco per trattare a modo suo con i palestinesi, crea una situazione in cui tutti i governi repressivi hanno via libera nei confronti di qualunque sfida possano subire, aumenta insomma la legittimità di politiche di repressione. Il governo Usa è ora più forte nei confronti della propria società civile, i cittadini saranno pronti ad accettare limitazioni della libertà, a dare più poteri discrezionali alla polizia nei confronti dell'opposizione. Tutto questo rafforza quello che abbiamo visto con le maniere usate dal governo italiano nei confronti della protesta contro il G8 di Genova del luglio scorso".
Cora Weiss, presidente dell'International Peace Bureau
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"Ci stanno uccidendo lentamente giorno dopo giorno - sostiene Abed, palestinese, venti anni occhialetti da intellettuale in un buon inglese - e ormai il numero di giovani senza speranza cresce sempre di più".
"Tutti sono in bilico tra l'emigrazione, se ci riescono e se si hanno i soldi per farlo - sostiene dopo averci invitato nella sua casa dalle pareti e dal soffitto ammuffiti dove in due stanze vive con i suoi sei fratelli e sorelle e la madre malata - e il sacrificare la propria vita per il nostro paese. Non è fanatismo ma disperazione. Loro hanno armi potentissime, noi i nostri corpi. La politica degli Usa e di Israele, non sta lasciando a milioni di palestinesi, di arabi e di musulmani altra alternativa che una lotta senza quartiere. Di fare, in parte e su scala assai più ridotta, quel che loro in realtà hanno sempre fatto".
"Quello che ha buttato l'aereo contro le torri gemelle - sostiene poco dopo uno dei suoi fratelli, laureato in ingegneria ma costretto a vendere polli in un girarrosto ambulante - non è certo più colpevole dei piloti americani che hanno sganciato le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki o di Sharon che è arrivato a bruciare vivi con le bombe al fosforo tanti abitanti dei campi o di Beirut. Purtroppo il giudizio morale sulle bombe sembra dipendere solo dal fatto se uno ci sta sotto o sopra. Non se debbano essere usate o meno come dovrebbe essere. Questo è il mondo che hanno voluto gli Usa e che hanno ottenuto. E per capirlo bisogna guardarlo anche dalla parte dei poveri polli, non solo da quella dell'oste".
(da: Il Manifesto, servizio da Beirut)
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"Ogni attacco armato sul territorio di alleati, proveniente da qualsiasi direzione, darà luogo all'applicazione degli articoli 5 e 6 del trattato di Washington. La sicurezza dell'alleanza deve comunque tener conto anche del contesto globale. L'interesse alla sicurezza dell'alleanza può essere toccato da altri rischi di più ampia natura, compresi atti di terrorismo, sabotaggio, crimine organizzato, e dalla interruzione del flusso di risorse vitali. Anche il movimento incontrollato di un grande numero di persone, in particolare quale conseguenza di conflitti armati, può porre problemi per la sicurezza e la stabilità dell'alleanza. All'interno dell'alleanza esistono intese finalizzate alla consultazione fra gli alleati e al coordinamento dei loro sforzi, incluse le loro risposte a rischi di questo tipo".
Dal "Nuovo concetto strategico della Nato", sottoscritto dai paesi membri nell'aprile '99 durante la guerra del Kosovo, firmato per l'Italia da Massimo D'Alema e mai sottoposto a ratifica del Parlamento Italiano
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"Noi siamo pronti a pagare qualsiasi prezzo per difenderci, e a utilizzare tutti i mezzi per prenderci la rivincita".
Mohammad Omar, guida spirituale dei taleban, mullah della moschea Kandahar, Afghanistan
"Musulmani di tutto il mondo, dobbiamo unirci se gli Usa ci attaccano", un imam della moschea di Kabul
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"I mujahedin che proteggono Osama Bin Laden e fanno attentati per suo conto? Li abbiamo addestrati noi in Scozia".
"I mujahedin erano buoni soldati ma non avevano grandi abilità tattiche e di progettazione. [...] il risultato più grande che abbiamo ottenuto è stato quello di trasformare un gruppo di buoni soldati, ma disorganizzati, in una organizzatissima unità combattente".
Ken Connor, ex membro delle SAS, le teste di cuoio inglesi
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"E' questo il risultato di una politica perseguita dagli Stati uniti da Reagan, George Bush Senior, Clinton. Il contesto cambia, ma di poco. Gli americani, in Afganistan, in Algeria, in Arabia saudita, Egitto hanno negli ultimi dieci o quindici anni reclutato, addestrato e finanziato le persone sbagliate: la Cia, in Afganistan, ha condotto una operazione in funzione antisovietica, finanziando i Mujahiddin con 6 milioni di dollari. Venne considerata dai servizi segreti un vero successo. Mezze figure del fanatismo islamico vennero incoraggiate e "appaltate"".
Gabriel Kolko, Professor Emeritus alla York University di Toronto
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"Il dominio sul mondo ha come prezzo il venire in conflitto con tipi come Bin Laden i quali, lungi dall'essere "fuori della civilta'" sono un puro prodotto della politica estera americana di appena 15 anni or sono. Era di Reagan e di Bush padre, per quelli che hanno memoria".
Fabrizio Tonello, docente all'università di Padova
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"Il fondamentalismo islamico [...] ha i suoi inconfutabili alibi: mezzo secolo di guerre americane in Medio-oriente e no (talune con l'avvallo dei governi italiani, oltre a quello di tutte le altre nazioni del Patto, e sul quale ho trovato inutile sia dissentire che consentire) sono un alibi sacrosanto".
[Noi che] "proviamo sconcerto e pena e solidarieta' per le vittime dei terroristi kamikaze e che tuttavia non dimentichiamo lo sconcerto e la pena, e un senso di solidarieta' per quanto frustrata dal sistema, per i popoli affamati, calpesatati, sfruttati (e dai loro stessi capi e dall'accidente tutto) del Medio Oriente e dell' Africa e del Sud America: soltanto ci permettiamo, e non ci stancheremo di permetterci, di dire che il nostro non e' il Regno del Bene e il loro non e' l'Impero del Male".
Aldo Busi, scrittore
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"Su come reagire abbiamo la possibilità di una scelta. Possiamo esprimere un orrore giustificato; possiamo tentare di capire cosa può aver portato al gesto criminale, e ciò significa fare uno sforzo per entrare nella mente dei possibili autori dell'attentato. Se scegliamo questa seconda strada, non possiamo fare di meglio, credo, che ascoltare le parole di Robert Fisk, la cui diretta conoscenza e familiarità con gli affari interni della regione è incomparabile dopo tanti anni di studio. Descrivendo la "malvagità e la spaventosa crudeltà di un popolo oppresso e umiliato", egli scrive che "non è la guerra della democrazia contro il terrore che al mondo verrà chiesta di combattere nei giorni a venire. Ma si tratta anche dei missili americani che distruggono le case dei palestinesi, degli elicotteri Usa che centrano un'ambulanza libanese, e di bombe americane che esplodono su un paese di nome Qana, e ancora della milizia libanese - pagata e attrezzata dall'alleato israeliano dell'America - che rapisce, stupra e uccide nei campi profughi". E ancora molto di più. Di nuovo, abbiamo la scelta: possiamo tentare di capire, o rifiutarci di farlo, contribuendo al concretizzarsi dell'ipotesi che il peggio sia ancora davanti a noi".
Noam Chomsky, linguista, docente al MIT di Boston, nonché autorevole intellettuale radical americano
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"Le politiche economiche che gli Stati uniti e gli altri paesi ricchi hanno imposto al mondo hanno provocato disastri sociali. Negli USA e in molti paesi europei c'è prosperità, mentre nel resto del mondo è solo povertà, guerra, fame, malattie. Quando gli Stati Uniti si sono interessati a qualche problema nel mondo, hanno seguito due strade: o hanno puntato ad un controllo militare dell'area interessata dalla loro azione, o hanno imposto misure economiche che hanno spesso fatto aumentare la miseria e la povertà".
"Pensiamo ai biglietti lasciati a Manhattan dove si può leggere "peace, not war", "no more killing". Oppure al senso di solidarietà comune che c'è nelle veglie di preghiera. Sono semplici messaggi e pratiche che sono contro l'escalation della guerra. [...] Sono messaggi scritti da giovani e meno giovani, persone che vogliono immaginare una vita buona da vivere. Sono uomini donne che non vogliono la guerra. Posso sbagliare, ma spero di no, ma questi sono sentimenti fortemente presenti nell'opinione pubblica americani e che possono diventare il germe di un nuovo movimento contro l'escalation militare".
Saskia Sassen, economista, autrice del libro "Global City"
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"Dallo stesso senso di vulnerabilità di questi giorni può nascere un altro percorso. Se il mondo e' entrato in casa nostra con gli squarci nelle torri gemelle di New York, possiamo iniziare a vedere i problemi che ci sono nel mondo, possiamo metterci nei panni degli altri, smettere con l'amnesia per le conseguenze delle nostre azioni, pensare a un sistema commerciale più equo, ad uno sviluppo sostenibile, a un disarmo radicale, al divario crescente tra ricchi e poveri del pianeta. Ma per questo occorre un cambiamento profondo del nostro modo di pensare. Dovremmo abbandonare un modo di vivere basato sul principio che noi sappiamo fare meglio di chiunque altro, che dobbiamo essere i primi per forza. Dovremmo smetterla di imporre al resto del mondo le nostre idee e le nostre politiche. E' un percorso che si deve fare fuori dalla politica, dalle strategie del governo, ma che deve svilupparsi nella società civile, nelle reti transnazionali, per arrivare in sedi come le Nazioni Unite e da qui fare pressione sulla politica americana".
Marcus
Raskin,
politologo,
docente
alla
George
Washington
University,
un
tempo
consigliere
di
John
Kennedy
alla
Casa
Bianca,
fondatore
dell'Institute
for
Policy
Studies
di
Washington
Tutte le citazioni di questa scheda "parole sulla guerra" sono state tratte da interviste pubblicate su http://www.ilmanifesto.it/ eccetto: le dichiarazioni di Bush (http://www.repubblica.it/ ), le riflessioni di Tonello sulla civiltà (trascrizione dell'intervista di http://www.radiopopolare.it/ ), il pezzo di Chomsky (disponibile ormai su molti siti web). La scheda è a cura di Francesco Rizzi (franxe@katamail.com).
STORIA DELLE PAROLE SULLA GUERRA
"Disprezzo profondamente chi è felice di marciare nei ranghi e nelle formazioni militari al seguito di una musica: costui solo per errore ha ricevuto un cervello; un midollo spinale gli sarebbe più che sufficiente".
Albert Einstein (1879-1955), fisico tedesco
"Una sola cosa non ha sviluppato l'uomo: la caserma".
Joseph Ernest Renan (1823-1892), scrittore francese
"E' con i poveri che i ricchi si fanno la guerra".
Luis Blanc (1811-1882), uomo politico francese
"Una guerra perduta come pure una guerra vittoriosa porta un aumento delle banche e delle industrie".
Max Weber(1864-1920), sociologo tedesco
"L'uomo deve essere educato a far la guerra e la donna costituirà il passatempo del guerriero; tutto il resto è follia".
Friedrich Nietzsche (1844-1900), filosofo tedesco
"Chi vede come noi uomini siamo fatti e pensa che la guerra è bella o che valga più della pace è storpio di mente".
Cartesio (1596-1650), matematico e filosofo francese (Descartes René)
"I vantaggi della guerra, se ce n'è qualcuno, sono solo per i potenti della nazione vincente. Gli svantaggi ricadono sulla povera gente".
Bertrand Russel (1872-1970), matematico e filosofo inglese
"Le guerre si fanno per creare debiti. La guerra è il sabotaggio più atroce".
Ezra Pound (1885-1972), poeta e critico statunitense
"Combattere e vincere cento battaglie non è prova di suprema eccellenza; la suprema bravura consiste nel piegare la resistenza del nemico senza combattere".
Sun Tzu, stratega cinese vissuto 2500 anni fa
"Se i miei soldati cominciassero a pensare, nessuno rimarrebbe nelle mie file".
Federico II Hohenzollern, re di Prussia (1712-1786)
Elogio della guerra. "E' la salute etica dei popoli (...) è come il movimento dei venti per le acque del mare: evita che queste si putrefacciano".
Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1830), filosofo tedesco
"Abbiamo bisogni di cadaveri per lastricare le strade di tutti i trionfi".
Giovanni Papini (1881-1956), scrittore
Il trucco della guerra. "La guerra non è altro che una comoda elusione dei compiti della pace. In quanto sostituisce l'avventura esterna al lavoro e al miglioramento interno, essa è moralmente così screditata che si può ben pensare non sia mai stata altro che un mezzo di oppressione interna e di assoggettamento dei popoli, il grande mezzo ingannatore per indurli a gridare 'evvive' alla propria sconfitta di fronte al governo vittorioso".
Thomas Mann (1875-1955), scrittore tedesco
Esaltarsi alla guerra. "Quando ascontando vecchie canzoni o addirittura marce militari sento un brivido che comincia a serpeggiarmi per le vene, mi oppongo alla tentazione dicendomi che anche gli scimpanzé, per prepararsi o istigarsi alla lotta, emettono rumori ritmici".
Konrad Lorenz (1903-1989), etologo austriaco
Spietatezza bellica. "E' questione di umanità far la guerra in maniera feroce affinché finisca prima".
F. von Bernhardi
"Se la propensione alla guerra è un prodotto della pulsione distruttiva, contro di essa è ovvio ricorrere all'antagonista di questa pulsione: l'Eros. Tutto ciò che fa sorgere legami emotivi tra gli uomini deve agire contro la guerra (...) La psicoanalisi non ha bisogno di vergognarsi se qui si parla d'amore, perché la religione dice la stessa cosa: "Ama il prossimo tuo come te stesso". Ora, questo è un precetto facile da esigere, ma difficile da attuare. L'altro tipo di legame emotivo è quello per identificazione. Tutto ciò che provoca solidarietà significative tra gli uomini risveglia sentimenti comuni di questo genere, le identificazioni. Su di esse riposa in buona parte l'assetto della società umana".
Sigmund Freud (1856-1939), fondatore della psicoanalisi, lettera del 1932 ad Einstein
"Vi è una possibilità di dirigere l'evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino capaci di resistere alle psicosi dell'odio e della distruzione? Non penso qui affatto solo alle cosiddette masse incolte. L'esperienza prova che piuttosto la cosiddetta "intellighenzia" cede per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l'intellettuale non ha contatto diretto con la rozza realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata".
Albert Einstein (1879-1955), fisico tedesco, lettera del 1932 a Freud
"Facciamo la guerra per poter vivere in pace".
Aristotele (384-332 a.C.), filosofo greco
"La razza umana è diventata forte nella lotta perpetua, e non potà che perire in una perpetua pace". Adolf Hitler (1889-1945), fondatore del nazismo
"Tutti i popoli sono per la pace, nessun governo lo è".
Paul Leautaud (1872-1956), scrittore francese
"La sola garanzia di una lunga pace tra due stati è l'impotenza reciproca di nuocersi".
Duca di Lévis
"Fate mostra di essere pronti alla guerra e avrete la pace".
Tito Livio (59-17 d.C.), storico romano
"Io ammetto che la guerra sia spaventosa, ma non al punto di doversi sopportare ogni cosa pur di non affrontarla".
Polibio (202-120 a.C.), storico greco
"La pace è più importante di ogni giustizia; e la pace non fu fatta per amore della giustizia, ma la giustizia per amor della pace".
Martin Lutero (1483-1546), fondarore del movimento protestante
"La pace ha le sue vittorie non meno celebri di quelle della guerra".
John Milton (1608-1674), poeta inglese
"Dove fanno il deserto, quello chiamano pace".
Cornelio Tacito (54-120 d.C.), storico latino
"Il famoso "si vis pacem para bellum" non è che un giuoco di parole da oracolo di Delfo. Torniamo, signori, al senso comune, che dice: si vis pacem para pacem".
Filippo Turati (1857-1932), uomo politico socialista, discorso parlamentare del 12 giugno 1909
"Essere preparati alla guerra è uno dei mezzi più efficaci per preservare la pace".
George Washington (1732-1799), primo presidente degli Stati Uniti
"Sia ben chiaro che qualsiasi tipo di pace la diplomazia riesca a raggiungere si fonda sulla forza che deve essere pronta e disponibile".
Richard Nixon (1913), presidente degli Stati Uniti
"La grande illusione". Titolo del libro di Norman Angel in cui si dimostra che la guerra non porta vantaggio neanche al vincitore.
"La guerra rassomiglia al camaleonte perché cambia natura in ogni caso concreto".
Von Karl Clausewitz (1780-1831), teorico militare prussiano
"Non fare quello che hai voglia di fare. Fa' quello che il tuo avversario non vuole che tu faccia".
Sun Tzu, stratega cinese vissuto 2500 anni fa
"Quando vediamo (e lo vediamo così spesso!) il Male fatto agli altri dobbiamo combatterlo a viso aperto, ma dobbiamo anche e sempre contrastare in noi stessi ogni tentazione di intolleranza, di disprezzo, di negazione degli altri. Nessuna causa giusta può essere combattuta partendo dalla premessa della distruzione della persona umana".
Vittorio Foa (politico antifascista vivente, introduzione a "Se questo è un uomo" di Primo Levi)
"Ai soldati italiani che romanamente devoti all'onore della Patria a Dogali e a Sahaiti caddero da eroi".
Lapide del 1887 ancora affissa sul Municipio di Locorotondo (Bari)
Il presente dossier è curato e aggiornato da Alessandro Marescotti con la collaborazione di tutto lo staff redazionale di PeaceLink. Eventuali errori o inesattezze possono essere segnalate all'e-mail: a.marescotti@peacelink.it Si ringrazia il CIPAX (Centro Interconfessionale per la Pace) di Roma per la riproduzione e diffusione.
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