Congresso PRC
tesi della minoranza
UN PROGETTO COMUNISTA RIVOLUZIONARIO NELLA NUOVA FASE STORICA
INTRODUZIONE - SINTESI
Il
capitalismo
mondiale
riversa
sempre
più
la
propria
crisi
sulla
condizione
generale
dell'umanità,
minacciando
una
vera
e
propria
regressione
storica
di
civiltà.
La
ripresa
delle
guerre
che
ha
segnato
l'ultimo
decennio
-prima
in
Irak,
poi
nei
Balcani,
oggi
in
Afghanistan,
ne
è
il
riflesso
materiale
e
simbolico.
La
rappresentazione
della
cosi
detta
"globalizzazione"
capitalistica
come
avvento
di
un
"nuovo
capitalismo"
capace
di
superare
le
sue
antiche
contraddizioni,
è
stata
smentita
dalla
realtà.
La
crisi
che
da
un
quarto
di
secolo
segna
l'economia
del
mondo
non
solo
non
è
superata
ma
si
ripropone
oggi
nella
forma
classica
della
recessione.
Le
contraddizioni
tra
i
blocchi
capitalistici
non
solo
non
si
sono
dissolte
in
un
"impero"
indistinto
e
omogeneo
ma
si
ripropongono
acuite
dopo
il
crollo
dell'URSS
e
sotto
la
spinta
della
crisi.
La
contraddizione
tra
capitale
e
lavoro,
lungi
dall'essere
superata
o
ridimensionata,
è
riproposta
nella
sua
centralità
dalla
crisi
e
dalla
nuova
competizione
globale
capitalistica.
Lo stesso sviluppo del militarismo e della guerra in corso -con i suoi effetti regressivi sul terreno delle libertà democratiche e delle conquiste sociali- è inseparabile dal contesto generale della crisi capitalistica. Lungi dall'essere un conflitto tra "due fondamentalismi" ideologici (il Mercato e il Terrore) è una guerra dell'imperialismo contro i popoli oppressi: mira al controllo del Medio Oriente e dell'Asia centrale; vuole intimidire i movimenti di liberazione nazionale (a partire dal popolo palestinese); mira a contrastare la recessione economica col grande rilancio delle spese militari; risponde all'interesse dell'imperialismo americano a controbilanciare l'ascesa economica europea con il rilancio della propria indiscussa egemonia militare.
Su un altro piano, gli sviluppi politici e le dinamiche del capitale degli anni novanta sono stati devastanti per l'ambiente. Tutti i vecchi problemi si sono estesi, sono emerse nuove emergenze su scala planetaria. A fronte di tutto questo, tanto gli approcci etico-culturali quanto il riformismo verde si sono rivelati inadeguati e impotenti: nessun nuovo modello di sviluppo sarà possibile senza un nuovo modo di produzione, senza il rovesciamento del capitalismo.
In definitiva, a dieci anni dal crollo dell'URSS, la ricomposizione capitalistica dell'unità del mondo non si è affatto tradotta in un universo pacificato e più stabile, ma in un'accentuazione della crisi internazionale.
Questo
quadro
generale
di
crisi
e
regressione
rivela
una
volta
di
più
il
carattere
utopico
di
ogni
progetto
riformistico.
L'idea
di
"governi
riformatori"
favorevoli
ai
lavoratori;
di
un
possibile
capitalismo
"equo"
imbrigliato
dalle
regole
di
una
"società
civile
progressista";
di
una
riforma
pacifista
dell'ordine
mondiale,
fondata
su
una
rivalutazione
dell'ONU
e
sospinta
dalla
cultura
gandhiana
della
"non-violenza",
rappresentano,
oggi
più
che
mai,
un'illusione
impotente.
Non
una
via
concreta
di
costruzione
di
un
altro
mondo
possibile,
ma
la
rassegnazione
di
fatto
a
questo
mondo
reale,
seppur
nutrita
di
sogni.
Il
V
Congresso
del
nostro
partito
è
chiamato
dunque
a
rimuovere
e
a
contrastare
ogni
utopia
riformista
assumendo
un
nuovo
orizzonte
strategico,
apertamente
anticapitalista
e
rivoluzionario.
Un
altro
mondo
è
possibile.
Si
chiama
Socialismo.
Non
si
tratta
solo
di
evocarne
il
nome
ma
di
recuperarne
il
programma
generale
quale
unica
vera
risposta
alla
crisi
dell'umanità.
Solo
l'abolizione
della
proprietà
privata,
a
partire
dai
duecento
colossi
multinazionali
che
oggi
dominano
l'economia
del
mondo.
Solo
una
economia
mondiale
democraticamente
pianificata
liberata
dal
dominio
del
profitto;
solo
la
conquista
del
potere
politico
da
parte
delle
classi
subalterne
come
leva
decisiva
della
transizione,
possono
creare
le
condizioni
di
un
nuovo
"modello
di
sviluppo":
che
liberi
nuove
relazioni
tra
gli
uomini
e
i
popoli,
un
nuovo
rapporto
dell'uomo
con
l'ambiente,
un
controllo
degli
indirizzi
e
delle
applicazioni
della
scienza
in
funzione
delle
qualità
della
vita
quale
nuova
frontiera
del
progresso.
Recuperare
e
attualizzare
dunque
il
programma
originario
del
comunismo
e
della
rivoluzione
d'Ottobre
come
scenario
di
liberazione
dell'umanità,
scevro
da
ogni
retaggio
burocratico
staliniano,
è
compito
centrale
dei
comunisti
e
del
nostro
partito.
Assumendolo
come
bussola
di
una
nuova
impostazione
strategica
che
riconduca
gli
obiettivi
immediati
di
ogni
lotta
e
di
ogni
movimento
alla
necessità
della
rivoluzione
sociale.
Peraltro proprio l'inizio di ripresa oggi della lotta di classe e dei movimenti di massa nel mondo (ciò che nel partito abbiamo chiamato "il disgelo") -sintomo dopo vent'anni dalla crisi di egemonia delle politiche dominanti - rappresenta una straordinaria occasione di rilancio della prospettiva socialista presso la giovane generazione: come risposta rivoluzionaria nel cuore dei movimenti, alle loro stesse domande sociali ambientali, democratiche, di pace, tutte incompatibili, nelle loro istanze profonde, con l'attuale ordine borghese. Non si tratta allora di abbandonarsi alla mistica retorica dei movimenti, tantomeno di disperdere la centralità di classe: si tratta di ricondurre il prezioso sentimento antiliberista della giovane generazione ad una chiara prospettiva di classe anticapitalista. La sola che possa offrire un futuro ai movimenti stessi; la sola che possa svilupparli oggi sul terreno della mobilitazione contro l'imperialismo e la guerra fuori da ogni illusione pacifista; la sola che possa fondare il riferimento alla classe operaia a al mondo del lavoro nella sua nuova composizione ed estensione, quale soggetto centrale del blocco storico alternativo. Da qui la necessità di una battaglia nei movimenti per l'egemonia di classe: che non è autoimposizione burocratica ma lotta aperta e leale per la prospettiva socialista contro quelle culture neoriformiste che conducono i movimenti stessi nel vicolo cieco della sconfitta. Il complesso lavoro di rifondazione di un'internazionale comunista e rivoluzionaria che assuma la battaglia per l'egemonia anticapitalistica su scala mondiale è tanto più oggi una necessità di fondo per i comunisti.
Ma
questa
nuova
impostazione
strategica
implica
una
svolta
profonda
di
linea
e
di
scelte
sul
piano
nazionale.
Entro
il
nuovo
scenario
politico
italiano,
la
ripresa
delle
dinamiche
di
movimento
sul
versante
operaio
e
giovanile
e
la
crisi
verticale
e
deriva
liberale
dei
D.S.,
creano
le
condizioni
di
un
forte
e
necessario
rilancio
del
nostro
partito
quale
unico
possibile
riferimento
politico
alternativo
per
vasti
settori
di
lavoratori
e
di
giovani.
Ma
ciò
implica
un
nuovo
indirizzo
di
fondo
del
PRC.
Per
10
anni
il
nostro
partito
ha
respinto
la
proposta
di
costruzione
del
polo
autonomo
di
classe
per
perseguire
una
linea
di
"condizionamento"
dell'apparato
D.S.
e
delle
sue
coalizioni
(polo
progressista
e
centrosinistra)
sulla
base
di
un
"programma
di
riforme":
sia
dal
governo,
che
dall'opposizione,
sia
sul
piano
nazionale
che
sul
piano
locale.
E'
onesto
riconoscere
che
questa
linea
ha
registrato
un
sostanziale
fallimento.
Essa
infatti
non
ha
dato
risultati:
né
dal
punto
di
vista
della
costruzione
del
PRC
e
della
sua
influenza
elettorale
e
di
massa;
né
soprattutto
dal
punto
di
vista
degli
interessi
e
delle
prospettive
del
movimento
operaio,
che
proprio
il
Centrosinistra
e
l'apparato
D.S.,
alfieri
degli
interessi
della
grande
borghesia
per
tutta
la
precedente
legislatura
hanno
condannato
alla
sconfitta
sociale
e
politica.
L'unico
effetto
pratico
della
linea
di
"contaminazione"
del
centrosinistra
è
stato,
al
contrario,
il
coinvolgimento
del
PRC
per
metà
della
legislatura
dell'Ulivo
nel
sostegno
a
politiche
antioperaie
e
antipopolari
(varo
del
lavoro
interinale
col
"Pacchetto
Treu",
privatizzazioni,
tagli
della
spesa
sociale)
del
tutto
opposte
alle
ragioni
sociali
del
nostro
partito.
La prospettiva avanzata per il dopo Berlusconi di un "governo della sinistra plurale" sulla base di un "programma riformatore", non solo rimuove ogni bilancio ma ripropone di fatto l'ispirazione fallita di dieci anni. E' quanto viene esplicitato nel documento precongressuale votato dalla maggioranza del partito nel CPN di ottobre che afferma: "(…) questo non significa che non si possa costruire una sinistra plurale, in Italia e in Europa, capace di proporsi il tema della conquista della maggioranza dei consensi e della candidatura al governo ai fini di realizzare un programma riformatore, ma vuol dire che per arrivarci bisogna battere strade diverse da quelle della tradizionale politica unitaria, in primo luogo facendo irrompere nell'intero campo delle sinistre e dei rapporti tra di loro, la novità e la rottura del movimento." Questa prospettiva non solo quindi preserva il riferimento all'esperienza negativa della gauche plurielle di Jospin ma la ripropone con un apparato D.S. che nella sua larga maggioranza ha rotto con la funzione della stessa socialdemocrazia. Assumere questa prospettiva come finalità di sbocco dei movimenti significherebbe contraddire le potenzialità anticapitaliste dei movimenti stessi e subordinarli ad un accordo coi liberali.
Il V Congresso respinge dunque questa prospettiva politica a partire da una svolta di fondo: quella della costruzione del PRC attorno alla linea del polo autonomo di classe e anticapitalistico, alternativo sia al Centrodestra reazionario sia al Centrosinistra liberale. Questo orientamento implica innanzitutto una coerenza di collocazione politica del nostro partito come forza di opposizione. Non può esservi contraddizione tra le ragioni sociali che il PRC esprime e la sua collocazione politica istituzionale: ciò vale in prospettiva sul piano nazionale, come vale anche sul piano locale dove va superata la collaborazione di governo nelle giunte di Centrosinistra, a partire dalle Regioni e dalle grandi città, dove siamo di fatto subordinati a politiche e interessi del tutto estranei alle ragioni dei lavoratori. Ma più in generale la proposta del polo autonomo di classe è rivolta all'insieme del movimento operaio e dei movimenti di massa. L'esperienza dell'ultima legislatura, ha dimostrato a milioni di lavoratori il disastro sociale e politico della collaborazione del movimento operaio con le forze sociali e politiche del Centro Borghese. "Rompere col Centro" non è allora una petizione astratta: fa leva sull'esperienza di massa per rivendicare l'autonomia di classe dei lavoratori e delle lavoratrici di fronte agli interessi delle altre classi e delle loro rappresentanze. Per dire che solo una mobilitazione indipendente dei lavoratori e dei movimenti sul terreno anticapitalistico può difendere le loro ragioni e aprire il varco ad un'alternativa vera.
Questa
esigenza
di
autonomia
è
più
attuale
che
mai.
Di
fronte
alle
destre
e
a
Berlusconi
tutte
le
forme
di
alleanze
con
le
forze
di
Centro
hanno
fallito.
Solo
la
grande
mobilitazione
indipendente
della
classe
operaia
nel
'94
riuscì
a
piegare
il
governo
Berlusconi
e
a
porre
le
condizioni
della
sua
caduta.
Il
nostro
partito
deve
costruire
tra
le
masse
la
memoria
di
questa
esperienza,
e
assumerla
come
riferimento
per
la
propria
azione.
Il
nuovo
governo
Berlusconi
ha
un
insediamento
sociale
e
istituzionale
più
forte
che
nel
94;
ma
proprio
per
questo
la
sua
eventuale
stabilizzazione,
come
si
è
visto
a
partire
da
Genova,
comporta
un
rischio
reazionario
più
elevato.
Il
PRC
non
può
vivere
allora
la
propria
opposizione
come
routine
istituzionale
combinata
con
l'affidamento
alla
spontaneità
dei
movimenti.
Ha
l'onere
di
una
proposta
al
movimento
operaio
e
della
costruzione
attiva
di
uno
sbocco
politico.
In
questo
senso
il
V
Congresso
del
PRC
assume
l'obiettivo
della
cacciata
del
governo
Berlusconi-Bossi-
Fini
per
una
alternativa
di
classe
come
terreno
di
mobilitazione
unitaria
del
movimento
operaio
e
dei
movimenti
di
massa
e
di
tutte
le
tendenze
politiche
e
sindacali
che
su
di
essi
si
basano.
Perché
solo
una
vera
esplosione
sociale
concentrata
contro
il
padronato
e
il
governo
delle
destre
può
realmente
scompagnare
lo
scenario
politico
italiano
e
porre
le
condizioni
dell'alternativa
di
classe.
Da
qui
la
proposta
di
una
vertenza
generale
attorno
ai
temi
di
un
forte
aumento
salariale
per
tutto
il
lavoro
dipendente,
del
salario
minimo
garantito
intercategoriale,
di
un
vero
salario
garantito
ai
disoccupati
e
ai
giovani
in
cerca
di
prima
occupazione,
dell'abolizione
delle
leggi
di
precarizzazione
del
lavoro
(v.
"Pacchetto
Treu"
e
le
ulteriori
leggi
in
materia
introdotte
dal
governo
Berlusconi)
con
l'assunzione
a
tempo
indeterminato
di
tutti
i
lavoratori
precari,
della
riduzione
generalizzata
dell'orario.
Questa
proposta
di
mobilitazione
può
e
deve
essere
avanzata
dal
nostro
partito
in
tutti
i
luoghi
di
lavoro,
in
tutte
le
organizzazioni
sindacali,
sul
territorio,
nello
stesso
movimento
antiglobalizzazione:
sostenendo
le
tendenze
interne
del
movimento
che
già
oggi
spingono
per
un
suo
impegno
diretto
a
fianco
dei
lavoratori
e
delle
lavoratrici.
E'
proprio
dalla
ricomposizione
unitaria
di
lotta
della
giovane
generazione,
dal
versante
operaio
in
primo
luogo
come
dal
versante
antiglobalizzazione
che
può
innescarsi
la
dinamica
dell'esplosione
sociale
contro
il
governo
delle
destre
e
le
classi
dominanti.
Ricondurre
a
questo
sbocco
tutto
il
lavoro
di
massa
del
partito,
estendere
il
quadro
delle
rivendicazioni
ad
ogni
settore
sociale
colpito
dalle
politiche
dominanti
(v.
Immigrazione
e
Scuola),
collegare
il
quadro
delle
rivendicazioni
immediate
a
un
programma
più
generale
di
rottura
con
la
proprietà
capitalistica
e
lo
Stato,
sviluppare
in
ogni
movimento
la
coscienza
politica
anticapitalistica,
questo
è
l'impegno
necessario
dell'opposizione
comunista
per
l'alternativa
di
classe.
E
in
questo
ambito
il
nostro
partito
non
può
teorizzare
un
principio
di
adattamento
silenzioso
nei
movimenti
affidandosi
passivamente
a
orientamenti
e
scelte
delle
loro
direzioni
ma
deve
elaborare
capacità
di
proposta
su
scelte
politiche
piccole
e
grandi,
in
funzione
della
prospettiva
anticapitalistica.
La
tematica
delle
forme
di
lotta,
a
partire
dalla
necessaria
difesa
del
diritto
di
manifestare
in
piazza,
contro
ogni
tentazione
di
ripiegamento;
le
questioni
legate
all'autodifesa
di
manifestazioni
pacifiche
e
di
massa
contro
le
aggressioni
violente
da
qualunque
parte
provengano;
la
tematica
delle
forme
di
organizzazione
dei
movimenti
e
del
loro
sviluppo
democratico
oggi
centrale
nel
movimento
antiglobalizzazione:
sono
terreni
su
cui
il
nostro
partito
non
può
tacere
in
nome
di
un
blocco
incondizionato
con
le
direzioni
egemoni
dei
movimenti.
Ma
deve
avanzare
indicazioni,
certo
collegate
alla
sensibilità
degli
interlocutori
e
alla
concretezza
dei
problemi,
ma
sempre
ispirate
a
un
unico
criterio
di
fondo:
lo
sviluppo
della
forza
autonoma
delle
classi
subalterne
e
dei
movimenti
di
massa
in
direzione
di
un'alternativa
di
società
e
di
potere.
Come
affermava
Rosa
Luxemburg:
"La
conquista
del
potere
politico
resta
il
nostro
scopo
finale
e
lo
scopo
finale
resta
l'anima
della
nostra
lotta.
La
classe
operaia
non
deve
porsi
nell'ottica
[di
chi
dice]
'Lo
scopo
finale
non
è
niente,
è
il
movimento
che
è
tutto.'
No,
al
contrario:
il
movimento
in
quanto
tale,
senza
rapporto
con
lo
scopo
finale,
il
movimento
come
fine
in
sé
non
è
niente,
è
lo
scopo
finale
che
è
tutto."
(1898).
Solo questo programma di alternativa anticapitalistica fonda la ragione politica organizzativa del partito nel suo rapporto con i movimenti e la lotta di classe. Un partito che si viva come pura rappresentanza istituzionale di domande sociali, in funzione di una prospettiva di governo riformatore, si priva di una funzione strategica indipendente e perciò mette a rischio, al di là di ogni intenzione, la ragione stessa della sua esistenza. Privo di uno specifico progetto anticapitalistica il partito smarrisce la ragione di una propria distinzione rispetto al movimento. E così l'invito dell'apertura al movimento, in sé importantissima, si trasforma in un rischio di dissoluzione nel movimento stesso, o di trasformazione delle proprie strutture in indistinti "luoghi di movimento". Il risultato paradossale non è così il rafforzamento del partito nel movimento ma all'opposto un principio di dispersione delle forze e di loro sradicamento: a tutto danno sia del partito che del movimento stesso, privato di un riferimento organizzato capace di indicazione e proposta.
La logica proposta dalla maggioranza dirigente del PRC va dunque esattamente capovolta. Il partito ha sì l'esigenza prioritaria di partecipazione piena ai movimenti, senza distacchi dottrinari e anzi con la massima concentrazione in essi delle proprie forze. Ma ne ha esigenza come partito cioè come specifico progetto collettivo anticapitalista e rivoluzionario: ciò che richiede una specifica strutturazione, specifici strumenti che possano organizzare nei movimenti, a partire dalla classe operaia, la battaglia collettiva per quel progetto. Ed anche il più ampio sviluppo della democrazia interna del partito, condizione decisiva dell'elaborazione collettiva e della stessa formazione dei quadri. In questo senso la funzione d'avanguardia del partito non come imposizione burocratica, ma come progetto programmatico su cui sviluppare consenso ed egemonia, è la condizione stessa del suo radicamento e rafforzamento organizzativo.
Tesi
1
-
CRISI
DELL'UMANITÀ
I
dieci
anni
che
sono
trascorsi,
dopo
la
svolta
d'epoca
segnata
dal
crollo
dell'URSS,
hanno
interamente
smentito
le
profezie
liberali
che
accompagnarono
quell'evento.
Il
capitalismo
mondiale
riversa
sempre
più
la
propria
crisi
sulla
condizione
generale
dell'umanità,
minacciando
una
vera
e
propria
regressione
storica
di
civiltà.
La
ripresa
della
guerra
che
ha
segnato
l'ultimo
decennio
-prima
in
Irak,
poi
nei
Balcani,
oggi
in
Afghanistan-
col
suo
carico
di
morti
e
distruzioni
ne
è
il
riflesso
materiale
e
simbolico.
La perdurante crisi economica capitalistica, le ripetute sconfitte del movimento operaio degli anni '80 e '90, il venir meno col crollo dell'URSS di un contrappeso statuale per quanto distorto alla potenza dell'imperialismo, i vasti processi di restaurazione capitalistica che hanno investito, in forme diverse, vaste aree del mondo, hanno prodotto come effetto congiunto un arretramento delle condizioni di vita e di lavoro della maggioranza dell'umanità.
Nei
paesi
imperialisti
di
tutti
i
continenti
(USA,
Europa,
Giappone),
la
caduta
dei
salari,
il
degrado
del
lavoro,
lo
smantellamento
progressivo
delle
protezioni
sociali,
descrivono
nel
loro
insieme
un
attacco
profondo
ai
livelli
acquisiti
di
sicurezza
sociale.
Nei
paesi
a
capitalismo
restaurato
(Russia
ed
est
Europa)
o
in
via
di
restaurazione
(Cina)
la
reintroduzione
del
dominio
del
mercato
procede
alla
distruzione
di
ogni
forma
di
difesa
sociale
producendo
un
drammatico
salto
regressivo
nella
vita
di
centinaia
di
milioni
di
uomini
e
di
donne.
Nel
blocco
dei
paesi
dipendenti,
interi
continenti,
a
partire
dall'Africa
e
da
larga
parte
dall'America
Latina,
conoscono
una
ulteriore
precipitazione
della
condizione
di
massa,
assieme
ad
un
aggravamento
dei
livelli
di
dipendenza
coloniale
dall'imperialismo.
Più
in
generale
l'intera
dimensione
della
vita
è
investita
da
una
profonda
tendenza
regressiva,
segnata
dal
moltiplicarsi
dei
sintomi
del
degrado,
dell'intolleranza,
dell'irrazionalismo.
Il
ritorno
della
guerra,
che
ha
costellato
il
decennio,
è
il
riflesso
eloquente
di
questa
drammatica
regressione.
Anche
solo
venti
anni
fa
la
previsione
di
una
guerra
nel
cuore
dell'Europa
sarebbe
apparsa
un
fantasioso
azzardo.
Venti
anni
dopo
non
solo
la
guerra
ritorna
materialmente
nello
stesso
vecchio
continente,
col
suo
carico
terribile
di
morte
e
distruzione
(Balcani):
ma
si
rilegittima
progressivamente
nell'immaginario
collettivo
di
settori
di
massa.
Ed
oggi
il
potente
rilancio
del
militarismo
internazionale
a
guida
anglo-americana,
trainato
dalla
guerra
imperialistica
all'Afghanistan,
lo
stesso
riarmo
della
Germania
e
del
Giappone,
segnano
anche
simbolicamente
la
svolta
d'epoca
del
nostro
tempo.
Su
un
altro
piano,
si
fanno
di
anno
in
anno
più
drammatiche
le
manifestazioni
e
le
conseguenze
della
crisi
ambientale
planetaria,
una
drammatica
conferma
dell'incapacità
dell'attuale
ordine
sociale
di
operare
in
modi
non
distruttivi
nei
confronti
dell'ambiente.
E
le
conseguenze
sociali
di
questa
crisi
tendono
sempre
più
a
combinarsi
con
quelle
della
crisi
sociale
e
politica
in
cui
sprofondano
molti
paesi
del
cosiddetto
Terzo
mondo,
ciò
che
provoca
vere
e
proprie
"catastrofi
umanitarie"
e
sospinge
masse
crescenti
di
uomini
e
di
donne
a
migrare
in
una
sorta
di
disperata
"fuga
per
la
sopravvivenza".
Per la prima volta dal dopoguerra, ad ogni latitudine del mondo, l'orizzonte delle nuove generazioni non si presenta come orizzonte di progresso ma come preannuncio di nuove regressioni. Non si tratta peraltro di uno scenario eccezionale. Al contrario, se guardiamo le cose col raggio di visuale del lungo periodo osserviamo il ritorno del capitalismo alla normalità storica del proprio declino. Ciò che semmai è superata è l'eccezionalità di quella parentesi storica postbellica che agli occhi di più generazioni era apparsa la norma.
Tesi
2
-
CRISI
CAPITALISTICA
E
"GLOBALIZZAZIONE"
Le
tesi
emergenti
negli
anni
Novanta
circa
la
nascita
di
"un
nuovo
capitalismo"
capace
di
superare
le
sue
antiche
contraddizioni,
sono
state
smentite
dalla
realtà.
La
crisi
economica
capitalistica
ripropone
più
che
mai
l'attualità
della
lettura
marxista
della
"globalizzazione"
fuori
da
ogni
"apologia"
del
capitale.
Negli anni Novanta -sullo sfondo del crollo dell'URSS, dell'arretramento del movimento operaio, della prosperità economica USA, di una vasta innovazione tecnologica- è venuta affermandosi una rappresentazione dominante della realtà del mondo come "globalizzazione", spesso intendendo con questo termine l'emergere di un "nuovo capitalismo", strutturalmente diverso dal capitalismo "tradizionale" e per questo capace di superare le proprie vecchie contraddizioni. Nella versione liberista il mito della globalizzazione è stato impugnato come annuncio di una nuova era di prosperità. Nella versione opposta di tanta parte del pensiero critico alternativo come l'avvento di una nuova dominazione totalizzante. Nell'un caso come nell'altro il nuovo capitalismo è stato presentato come l'alba di un nuovo regno e come riprova del fallimento o dell'invecchiamento della lettura marxista.
Queste
rappresentazioni
ideologiche
hanno
per
molti
aspetti
capovolto
la
realtà
delle
cose:
e
la
realtà
ha
finito
col
confutarle.
L'economia
capitalistica
internazionale
vive
da
un
quarto
di
secolo
un'onda
lunga
di
crisi,
segnata
dall'esaurimento
storico
della
spinta
propulsiva
del
secondo
dopo-guerra
e
dal
prevalere
di
una
spinta
alla
stagnazione.
La
caduta
del
saggio
medio
del
profitto
su
scala
mondiale
ne
rappresenta
il
riflesso.
A
partire
dall''89-'91,
il
crollo
dell'URSS
e
i
processi
di
restaurazione
capitalistica
che
si
sono
affermati
nell'insieme
dell'Est
europeo,
assieme
alle
emergenti
tendenze
restaurazionistiche
che
si
sono
sviluppate
in
altri
Paesi
non
capitalistici
(Cina)
hanno
configurato
certamente
un
processo
di
ricomposizione
capitalistica
dell'unità
del
mondo.
Ma
la
riconquista
compiuta
o
tendenziale,
di
tanta
parte
del
pianeta
non
ha
significato
il
rilancio
storico
dell'economia
capitalistica.
L'Est
europeo,
più
che
volano
di
un
nuovo
sviluppo
economico
internazionale,
rappresenta
in
larga
misura
una
semicolonia
del
sottosviluppo:
la
massiccia
concentrazione
di
miseria
sociale
e
il
basso
livello
di
consumi
che
ne
deriva
rappresentano
un
freno
all'espansione
del
mercato
capitalistico.
Parallelamente
la
forte
riduzione
dei
margini
di
manovra
dei
Paesi
dipendenti,
conseguente
al
crollo
dell'URSS,
ha
finito
con
l'integrarli
più
direttamente
nella
stagnazione
mondiale:
così
il
sottoconsumo
del
Terzo
mondo
sospinto
dal
calo
o
dal
crollo
delle
materie
prime
ha
costituito
un
ulteriore
fattore
della
stagnazione
medesima.
Complessivamente,
nonostante
l'espansione
del
mercato
capitalistico,
il
peso
del
commercio
internazionale
nell'economia
mondiale
è
analogo
a
quello
del
1914.
Così
nonostante
i
nuovi
processi
di
decentramento
internazionale
della
produzione,
le
stesse
multinazionali
concentrano
tuttora
il
grosso
del
proprio
volume
di
investimenti
entro
il
perimetro
degli
Stati
dominanti
e
dei
propri
mercati
regionali
piuttosto
che
in
un
mondo
indifferenziato.
La
globalizzazione
economica
dunque
ha
investito
essenzialmente
non
la
produzione
reale
ma
l'economia
finanziaria,
dove
ha
realmente
raggiunto
un
livello
storicamente
nuovo:
ma
proprio
l'espansione
abnorme
del
parassitismo
finanziario
-che
conferma
oltre
le
sue
stesse
previsioni,
l'analisi
di
Lenin
dell'imperialismo-
riflette
la
crisi
del
saggio
medio
di
profitto
nella
produzione.
Come
all'inizio
del
Novecento
lungi
dall'essere
misura
della
prosperità
capitalistica,
il
parassitismo
dei
rentier
è
figlio
della
crisi
di
stagnazione
e
concausa
della
stessa.
La
forte
concentrazione
di
innovazione
tecnologica
(rivoluzione
informatica)
e
la
diffusione
di
nuove
forme
di
organizzazione
del
lavoro
(il
cosiddetto
toyotismo)
si
collocano
e
si
spiegano
in
questo
contesto.
Come
in
altre
epoche
storiche
(si
pensi
allo
sviluppo
del
fordismo
negli
anni
Venti-Trenta),
l'innovazione
tecnologica
intensa
e
le
nuove
sperimentazioni
nell'organizzazione
produttiva
non
promanano
dal
benessere
del
capitalismo
ma
dalla
sua
crisi:
come
tentativo
di
rilancio
del
saggio
di
profitto
attraverso
l'incremento
di
produttività
e
la
configurazione
di
nuovi
mercati
trainanti.
Ma
contrariamente
all'ottimismo
borghese
degli
anni
Novanta,
la
rivoluzione
informatica
e
le
sue
applicazioni
tecnologiche,
per
quanto
rilevanti
non
hanno
esercitato
la
forza
di
trascinamento
economico
che
potevano
avere,
in
un
altro
contesto,
le
ferrovie
del
secolo
scorso
o
l'automobile
degli
anni
Cinquanta.
Non
solo
non
hanno
garantito
l'uscita
dalla
stagnazione
ma,
oltre
una
certa
soglia,
hanno
concorso
paradossalmente
ad
aggravarla:
la
crisi
profonda
della
new
economy
oggi
nel
cuore
del
capitalismo
americano,
è
esattamente
un'espressione
classica
di
sovrapproduzione
i
cui
effetti
recessivi
più
generali
sono
direttamente
proporzionali
all'intensità
dello
sviluppo
economico
precedente
del
settore.
La
teoria
di
un
"nuovo
capitalismo"
capace
di
superare
il
ciclo
economico
non
poteva
trovare
smentita
più
clamorosa.
Tesi
3
-
IMPERIALISMO
L'imperialismo
è,
oggi
più
che
mai,
il
quadro
dominante
della
realtà
del
mondo.
Le
tesi
del
suo
superamento
in
direzione
di
una
globalizzazione
indistinta
non
trovano
alcuna
conferma
nel
mondo
reale.
Riattualizzare
l'analisi
marxista
dell'imperialismo
oggi,
nelle
sue
profonde
contraddizioni
e
sullo
sfondo
dell'attuale
instabilità
internazionale
è
condizione
decisiva
per
la
comprensione
delle
tendenze
storiche
future.
Negli
anni
Novanta
in
significativi
settori
intellettuali
della
"sinistra
critica"
e
nella
stessa
Direzione
nazionale
del
nostro
partito,
è
venuta
emergendo
la
tesi
del
superamento
della
categoria
stessa
dell'imperialismo
in
direzione
della
rappresentazione
di
un
"impero"
globale,
omogeneo
ed
uniforme,
a
esclusiva
dominazione
nord-americana,
capace
di
dissolvere
ruolo
e
funzioni
dei
vecchi
Stati
nazionali.
Da
qui
anche
la
rappresentazione
dell'Europa
come
semplice
articolazione
subalterna
dell'Impero
e
la
relativa
rivendicazione
di
una
sua
autonomia
su
base
"sociale
e
democratica".
Questa
concezione
generale
da
un
lato
si
basa
su
un'incomprensione
profonda
della
complessità
del
mondo
contemporaneo;
e
dall'altro
lato,
negando
il
carattere
imperialistico
dell'Europa,
disorienta
gravemente
la
stessa
azione
politica
dei
comunisti.
Lungi dal ricomporre le contraddizioni intercapitalistiche, il crollo dell'Urss dell'89-'91 le ha in qualche modo liberate, entro uno scenario storico profondamente nuovo. I giganteschi processi di restaurazione capitalistica nell'Est europeo e, in forma incompiuta, nella stessa Cina, i nuovi rapporti di forza nei confronti dei Paesi dipendenti, la necessità di ridefinire complessivamente equilibri geostrategici e zone di influenza, hanno alimentato inevitabilmente una nuova competizione mondiale tra gli Stati capitalistici dominanti. E i terreni della competizione stanno interamente dentro il quadro storico dell'imperialismo: riguardano il controllo dei mercati di sbocco, i settori di investimenti e di esportazione del capitale, il controllo di materie prime e mano d'opera a basso costo, i livelli di concentrazione monopolistica del capitale finanziario, il controllo politico-militare delle aree strategiche.
La
superiorità
oggi
dell'imperialismo
USA
è
obiettivamente
indiscutibile:
sia
sul
versante
della
concentrazione
di
capitale
finanziario,
sia
sul
versante
della
forza
militare,
dove
proprio
il
crollo
dell'URSS
ha
rafforzato
il
tradizionale
primato
americano
e
il
suo
impiego
criminale
nel
mondo.
Ma
l'Europa
è
tutt'altro
che
una
semplice
area
dipendente.
All'opposto,
sia
la
vasta
restaurazione
capitalistica
nell'Est
Europa
e
nei
Balcani,
sia
il
declino
non
congiunturale
del
Giappone,
hanno
alimentato
un
vero
e
proprio
sviluppo
dell'imperialismo
europeo
come
polo
economico
concorrente
con
gli
USA.
La
stessa
costruzione
dell'Unione
Europea
a
partire
dal
'92,
lungi
dal
rappresentare
un
puro
fatto
di
ingegneria
istituzionale
"non
democratica
e
liberista",
ha
costituito
e
costituisce
il
tentativo
strategico,
non
privo
di
contraddizioni,
di
assicurare
all'imperialismo
europeo
un
quadro
politico
unificante
all'altezza
delle
sue
nuove
ambizioni.
Il
potente
sviluppo
dei
livelli
di
concentrazione
monopolistica
europea
in
settori
strategici
(banche,
assicurazioni,
telecomunicazioni,
industria
militare…)
che
proprio
il
quadro
di
Maastricht
ha
incoraggiato;
l'egemonia
economica
europea
(in
particolare
tedesca
e
italiana)
nella
penisola
balcanica
e
nell'Est
Europa;
le
nuove
entrature
dell'imperialismo
europeo
nei
Paesi
arabi
e
in
Medio-Oriente
(v.
Irak
e
Iran)
e
in
larga
parte
dell'America
Latina;
il
decollo
di
un
militarismo
europeo
con
lo
sviluppo
del
progetto
della
difesa
comune
descrivono,
nel
loro
insieme,
un
nuovo
e
più
forte
posizionamento
europeo
negli
equilibri
mondiali.
Il
forte
sviluppo
dell'iniziativa
bellica
dell'imperialismo
USA
negli
anni
Novanta
(in
Irak,
nei
Balcani,
in
Afghanistan)
è
stato
ed
è
anche
un
tentativo
di
riequilibrare
con
la
propria
egemonia
militare
l'ascesa
economica
europea
e
di
limitare
il
nuovo
spazio
di
manovra
della
UE.
Di
converso
la
partecipazione
dei
Paesi
europei
alle
imprese
militari
a
egemonia
americana
non
ha
rappresentato
un
puro
atto
di
"servilismo",
ma
la
volontà
di
partecipare
alla
conquista
di
bottini
coloniali
precostituendo
le
migliori
condizioni
per
il
proprio
interesse
imperialistico
nel
momento
della
loro
spartizione.
Anche
l'unità
d'azione
dei
Paesi
imperialistici
maschera
dunque,
come
sempre,
la
loro
competizione.
E
i
diversi
Stati
nazionali
capitalistici,
lungi
dall'essere
assorbiti
da
un'indistinta
globalizzazione,
costituiscono
lo
strumento
decisivo
-politico,
diplomatico,
militare
ma
anche
economico-
delle
diverse
borghesie
imperialistiche
concorrenti.
Peraltro proprio il quadro delle nuove contraddizioni intercapitalistiche sospinge l'emergere di nuove potenze regionali o di nuove ambizioni. L'imperialismo britannico lavora a utilizzare le contraddizioni tra USA e UE ponendosi come crocevia delle relazioni diplomatico-militari tra i due poli ai fini del proprio rafforzamento. La Russia borghese di Putin entra nel varco aperto dalla competizione tra USA ed UE per rilanciare un proprio spazio strategico internazionale. La burocrazia cinese a sua volta mira a capitalizzare il declino del Giappone per investire la propria eccezionale potenza economica in un disegno di egemonia su larga parte dell'Asia: entro un progetto di restaurazione capitalistica interna che, ancora incompiuto, pone incognite serie sulla futura stabilità sociale e politica di quel Paese.
In definitiva l'intero quadro internazionale capitalistico porta il segno dominante non dell'omogenea uniformità "unipolare", ma di una crescente instabilità potenziale.
Tesi
4
-
GUERRA
La
ripresa
della
guerra
e
delle
guerre
negli
anni
Novanta
ha
caratteri
e
finalità
imperialistiche.
Non
riflette
un
generico
"fondamentalismo
del
mercato
globale"
contrapposto
al
"fondamentalismo
del
terrore".
Riflette
il
grande
rilancio
delle
politiche
coloniali
del
capitalismo,
liberate
dal
crollo
dell'URSS,
sospinte
dalla
crisi
economica
internazionale,
alimentate
dalle
stesse
contraddizioni
tra
i
diversi
blocchi
capitalistici.
Oggi
la
guerra
contro
l'Afghanistan
rientra
pienamente
in
questo
quadro.
Per
questo
la
lotta
contro
la
guerra
e
"per
la
pace",
va
assunta
dai
comunisti
come
lotta
di
massa
anticapitalistica
oltre
un
puro
orizzonte
pacifista.
Senza
alcun
avallo
al
ruolo
filo-imperialistico
dell'ONU
e
senza
riconoscere
all'imperialismo
alcun
"diritto
di
polizia
internazionale".
Dopo il crollo dell'URSS, il ricorso alla guerra ha costituito uno strumento centrale di definizione del nuovo ordine imperialistico del mondo. La guerra all'Irak, alla Serbia, all'Afghanistan riflettono ad un tempo la nuova potenza dell'imperialismo e la nuova instabilità del mondo: entro una relazione contraddittoria in cui il dispiegamento della forza più criminale dell'imperialismo è anche la risposta alla sua crisi di egemonia, alla difficoltà di riorganizzare sotto il proprio controllo un assetto stabile dei nuovi equilibri mondiali.
I
fatti
d'America
dell'11
settembre
e
i
successivi
sviluppi
si
collocano
in
questo
quadro
generale:
e
vanno
analizzati
col
metodo
marxista,
non
con
le
categorie
dell'impressionismo
o
del
pacifismo
astratto.
L'atto
terroristico
di
New
York
e
più
in
generale
il
terrorismo
panislamista
non
riflettono
semplicemente
un
principio
ideologico
("il
fondamentalismo
del
terrore"):
rappresentano
una
risposta
distorta
e
inaccettabile
alla
barbarie
capitalistica,
in
particolare
alla
oppressione
criminale
dei
popoli
del
Medio-Oriente,
a
partire
dalla
nazione
araba
e
dal
popolo
palestinese.
Una
barbarie
la
cui
portata
e
i
cui
crimini
a
tutte
le
latitudini
del
mondo
sono
infinitamente
più
grandi
del
peggiore
atto
terroristico.
Il
fondamentalismo
islamico
è
da
sempre
storicamente
un
avversario
delle
aspirazioni
sociali
e
democratiche
dei
popoli
oppressi
e
della
nazione
araba.
Per
questo,
nel
contesto
dell'ordine
mondiale
del
dopo-guerra,
esso
è
stato
ripetutamente
sostenuto
dalle
potenze
coloniali
contro
i
movimenti
di
liberazione
e
le
tendenze
laico-democratiche
dei
Paesi
dipendenti.
Dopo
il
crollo
dell'URSS
il
fondamentalismo
islamico
ha
perso
la
propria
funzionalità
filo-occidentale
e
si
è
trasformato
in
un
fattore
obiettivo
di
destabilizzazione.
Parallelamente
la
crescente
disperazione
sociale
e
politica
di
larghi
settori
di
masse
oppresse,
unita
alla
più
organica
subalternità
all'imperialismo
dei
regimi
borghesi
arabi,
ha
purtroppo
trasformato
di
fatto
il
fondamentalismo
nel
canale
distorto
di
una
pressione
diffusa
di
rivolta.
La
reazione
militare
degli
Stati
dominanti
ai
fatti
dell'11
settembre
ha
qui
la
propria
radice.
Come
nel
'91
contro
l'Irak,
come
nel
'98
contro
la
Serbia,
la
guerra
contro
l'Afghanistan
non
riflette
un
astratto
"fondamentalismo
del
mercato"
e
una
"risposta
sbagliata"
al
terrorismo.
Rappresenta
invece
la
volontà
di
riaffermare
il
controllo
imperialistico
sul
mondo
contro
ogni
fattore
possibile
di
ingovernabilità.
Da
qui
il
tentativo
di
utilizzare
l'atto
terroristico
dell'11
settembre
e
le
sue
enormi
ricadute
emotive
come
occasione
di
rilancio
degli
interessi
imperialistici
in
aree
strategiche
del
pianeta.
Molteplici
sono
le
finalità
concrete
dell'operazione:
a)
consolidare
ed
estendere
il
controllo
diretto
su
Medio-Oriente
ed
Asia
centrale,
zona
cruciale
per
gli
equilibri
internazionali;
b)
intimidire
i
movimenti
di
liberazione
dei
Paesi
dipendenti;
c)
colpire
il
movimento
operaio
internazionale,
compreso
quello
occidentale,
cogliendo
il
pretesto
della
guerra
per
operare
massicce
ristrutturazioni
(con
licenziamenti
di
massa),
attaccare
diritti
sociali
e
cercare
di
disperdere
la
ripresa
internazionale
dei
movimenti
di
lotta;
d)
combattere
la
recessione
economica
con
il
rilancio
delle
spese
militari.
Entro
questo
quadro
di
finalità
comuni
imperialistiche
(sostenute
per
interesse
proprio
dalla
Russia
borghese
e
dalla
burocrazia
cinese)
si
conferma
il
quadro
mobile
delle
contraddizioni
internazionali:
tra
l'imperialismo
americano
e
l'imperialismo
europeo;
tra
l'imperialismo
britannico
e
l'Europa
continentale;
tra
l'area
di
testa
dell'imperialismo
europeo
(Germania,
Francia
e
Inghilterra)
e
l'imperialismo
italiano;
tra
la
nuova
Russia
di
Putin
e
gli
interessi
contraddittori
di
USA
ed
Europa;
tra
le
mire
nuove
della
Cina
e
l'espansione
imperialistica
in
Asia
centrale.
Ciò
che
ancora
una
volta
configura
non
un
quadro
pacificato
di
globalizzazione
unipolare
ma,
all'opposto,
la
nuova
instabilità
mondiale
e
il
peso
in
essa
degli
interessi
statuali
nazionali
e/o
di
area.
In
questo
quadro
generale
il
PRC
deve
ridefinire
la
propria
impostazione
politica
di
fronte
alla
guerra.
Importante
e
preziosa
è
stata
ed
è
l'opposizione
del
nostro
partito
all'intervento
militare
in
Serbia
ed
oggi
in
Afghanistan.
Ma
va
superato
l'approccio
pacifista
in
direzione
di
una
chiara
battaglia
antimperialistica.
L'appello
all'ONU,
al
"diritto
internazionale",
all'intervento
alternativo
di
"polizia
internazionale"
sono
stati
e
sono
profondamente
errati.
L'ONU
ha
sostenuto
e
coperto
lungo
tutto
l'arco
degli
anni
Novanta
le
peggiori
piraterie
dell'imperialismo
sino
a
promuovere
l'odioso
embargo
genocida
anti-irakeno.
Esso
non
rappresenta
né
può
rappresentare,
neppure
in
forma
distorta,
la
cosiddetta
sovranità
internazionale.
In
una
società
di
classe
e
tanto
più
nell'epoca
dell'imperialismo
non
è
mai
esistito
e
non
potrà
esistere
un
diritto
internazionale
neutro,
al
di
sopra
delle
classi
e
degli
Stati.
Il
diritto
internazionale
è
solo
la
copertura
giuridica
degli
interessi
degli
Stati
dominanti.
E
l'unico
diritto
che
gli
Stati
dominanti
esercitano
e
rivendicano
è
il
diritto
a
piegare
col
terrore
ogni
forma
di
resistenza
al
proprio
dominio
sul
mondo.
Per
questo
i
comunisti
devono
sviluppare
la
lotta
contro
la
guerra
come
lotta
di
classe
anticapitalistica
ed
antimperialistica
al
fianco
dei
popoli
oppressi
aggrediti.
Non
vi
è
alcuna
"polizia
internazionale"
da
rivendicare
"contro
il
terrorismo";
l'unica
polizia
internazionale
da
invocare
contro
la
barbarie
del
capitalismo
è
la
prospettiva
rivoluzionaria
internazionale
delle
masse
oppresse.
Che
è
l'unica
vera
risposta
alternativa
al
fondamentalismo
terrorista.
Tesi
5
-
UTOPIA
DEL
RIFORMISMO
L'idea
della
riforma
sociale
e
umanitaria
del
capitalismo,
da
sempre
fallita,
è
oggi
più
utopica
che
mai.
L'idea
di
"governi
riformatori"
che
in
Italia,
in
Europa,
nel
mondo
possano
operare
una
riforma
antiliberista
in
ambito
capitalistico,
costituisce
oggi
più
che
mai
non
solo
un'illusione
ma
una
trappola
per
le
classi
subalterne
e
i
movimenti.
Il
sostegno
che
il
PRC
ha
dato
all'esperienza
di
governo
francese
della
"gauche
plurielle"
ha
costituito
un
errore
profondo.
Proprio
la
svolta
storica
del
nostro
tempo
ripropone
l'attualità
di
una
rottura
strategica
col
riformismo
come
fondamento
decisivo
di
una
rifondazione
comunista
rivoluzionaria.
L'attuale
quadro
internazionale
conferma
più
che
mai
l'esaurimento
di
uno
spazio
storico
riformistico.
Già
l'esperienza
storica
di
due
secoli
avvalora
la
posizione
originaria
di
Marx
e
del
marxismo
rivoluzionario
contro
ogni
illusione
riformistica
e
"governativa".
E
smentisce
nella
maniera
più
radicale
la
svolta
strategica
impressa
dallo
stalinismo
al
movimento
comunista
internazionale
a
partire
dalla
metà
degli
anni
Trenta
attorno
alla
prospettiva
dei
cosiddetti
"governi
riformatori"
o
di
"democrazia
progressiva".
Quand'anche
consentiti
da
condizioni
eccezionali
di
prosperità
economica
e
da
grandi
movimenti
di
massa,
i
governi
riformatori
sono
stati
sempre,
senza
eccezione,
avversarsi
dei
lavoratori:
le
stesse
concessioni
riformatrici,
talora
strappate
dalla
pressione
di
massa,
sono
state
elargite
in
funzione
del
contenimento
delle
spinte
più
radicali
dei
movimenti
e
della
conservazione
della
società
borghese.
Proprio
per
questo
lungi
dal
rappresentare
una
fase
della
transizione
al
socialismo,
i
governi
riformatori
hanno
spesso
spianato
la
strada
a
svolte
reazionarie
o
a
profondi
arretramenti
del
movimento
operaio.
Così
è
stato
per
i
governi
riformatori
di
fine
'800,
primo
'900
(giolittismo);
così
è
stato
per
i
governi
riformatori
di
"fronte
popolare"
negli
anni
30
(v.
Francia
e
Spagna).
Così
è
stato
per
i
governi
riformatori
in
Europa
nei
primi
anni
70
(v.
Portogallo).
Ma tanto più oggi l'illusione governista è smentita alla radice dall'assenza di uno spazio storico riformistico. La crisi capitalistica e il crollo dell'URSS, nella loro combinazione, hanno eroso i presupposti materiali delle concessioni riformatrici in Occidente quali erano maturate nel secondo dopoguerra. Ovunque le classi dominanti lavorano a riprendersi con gli interessi quanto in precedenza avevano concesso. Ovunque i governi borghesi - siano essi di centrodestra, di centrosinistra o socialdemocratici - gestiscono le medesime politiche antipopolari, di restrizioni e sacrifici per le grandi masse. Ovunque, anche se in forme e con intensità diverse, i vecchi partiti riformisti del movimento operaio assumono culture e pose liberali in rottura con la propria stessa tradizione. Ovunque l'eventuale presenza al governo di "partiti comunisti" non solo non muta per nulla l'indirizzo strategico del governo ma corresponsabilizza quegli stessi partiti a pesanti politiche controriformistiche esponendoli al logoramento dei loro rapporti di massa.
In
particolare
va
riconosciuto
onestamente,
in
questo
quadro,
il
profondo
errore
compiuto
dal
nostro
partito
nel
sostegno
all'esperienza
del
governo
Jospin
in
Francia.
L'analisi
proposta
dal
IV
Congresso
del
PRC
a
sostegno
della
"anomalia
francese"
è
stata
smentita
dai
fatti.
Come
sono
state
smentiti
l'elogio
della
legge
francese
sulle
35
ore
e
più
in
generale
le
ripetute
esaltazioni
del
governo
Jospin
sul
nostro
quotidiano
di
partito
("Svolta
a
sinistra
in
Francia",
"Un
socialista
in
Europa"…).
In
realtà
il
governo
Jospin
ha
gestito
e
gestisce
gli
interessi
organici
dell'imperialismo
francese
sia
sul
piano
interno
(con
il
record
di
privatizzazioni
e
una
politica
di
flessibilità
a
favore
del
padronato)
sia
sul
piano
della
politica
estera
(con
l'attiva
gestione
degli
interventi
di
guerra
nei
Balcani
e
in
Afghanistan).
Lungi
dal
rappresentare
un'alternativa
antiliberista,
esso
rappresenta
un
governo
controriformatore,
basato
su
un
liberismo
temperato:
ciò
che
spiega
sia
la
crescita
della
contestazione
sociale
delle
politiche
del
governo,
sia
la
crisi
drammatica
del
PCF
che
sostiene
criticamente
quelle
politiche.
L'aver
assunto
a
riferimento
la
sinistra
plurale
francese
è
stato
tanto
più
paradossale
a
fronte
del
fatto
che
l'unica
sinistra
che
oggi
cresce
in
Europa
è
quell'estrema
sinistra
francese
che
si
oppone
al
governo
della
sinistra
plurale.
Pertanto proprio la profondità della crisi capitalistica e la svolta storica del nostro tempo ripropone l'attualità di una rottura strategica col riformismo come fondamento decisivo di una vera rifondazione comunista. Non solo come recupero della posizione originaria del marxismo e di rottura reale con la tradizione staliniana. Ma come risposta necessaria oggi alla barbarie del capitalismo, alla regressione di civiltà che la sua crisi trascina.
Tesi
6
-
ATTUALITA'
DEL
SOCIALISMO
Il
rilancio
internazionale
di
una
prospettiva
socialista
e
rivoluzionaria,
nella
sua
complessità,
è
il
tema
centrale,
sinora
rimosso,
dalla
rifondazione.
"Un
altro
mondo
è
possibile":
non
come
riforma
del
capitale
ma
come
alternativa
di
sistema,
come
socialismo.
Esso
non
risponde
ad
una
petizione
"ideologica",
né
riguarda
solamente
l'identità
dei
comunisti:
risponde
invece
all'interesse
generale
delle
classi
subalterne,
dei
popoli
oppressi,
della
larga
maggioranza
dell'umanità.
La crisi congiunta di capitalismo e riformismo rilancia l'attualità storica della prospettiva socialista come unica via d'uscita dalla crisi dell'umanità.
Nel quadro della crisi capitalistica e del dominio dell'imperialismo, tutte le questioni decisive che attengono alla condizione del genere umano e al suo futuro, non solo non possono trovare soluzione, ma sono destinate ad aggravarsi. Di converso tutte le esigenze e domande di emancipazione e liberazione cozzano sempre più entro la morsa della crisi con la proprietà borghese e la natura borghese dello Stato.
Le
domande
sociali
più
elementari
(difesa
dei
salari,
salvaguardia
o
conquista
del
lavoro,
difesa
delle
protezioni
sociali)
si
scontrano
ovunque,
quotidianamente,
con
gli
opposti
imperativi
del
profitto
e
della
competizione
globale.
Le
rivendicazioni
nazionali
dei
popoli
oppressi,
a
partire
dal
popolo
palestinese,
confliggono
sempre
più,
tanto
più
dopo
il
crollo
dell'URSS,
col
monopolio
del
controllo
imperialistico
sul
mondo
e
col
più
stretto
allineamento
ad
esso
delle
stesse
borghesie
nazionali
dei
Paesi
dipendenti.
Le
rivendicazioni
ambientaliste
sono
frustrate
dalla
crescente
assimilazione
della
natura
al
mercato
capitalistico
e
dallo
spietato
abbattimento
dei
costi
indotto
dalla
crisi.
Le
rivendicazioni
di
pace
e
antimilitariste
confliggono
più
che
mai
coi
venti
di
guerra
del
capitale,
con
le
nuove
rincorse
coloniali,
con
il
keynesismo
militare
degli
Stati
imperialisti.
Le
stesse
domande
democratiche
cozzano
con
le
restrizioni
delle
libertà,
le
nuove
spinte
xenofobe,
l'involuzione
del
diritto
trascinati
dalla
crisi
sociale
e
dalle
intossicazioni
belliciste.
Su
ogni
terreno
e
da
ogni
versante
tutte
le
petizioni
di
progresso
richiamano
oggi
obiettivamente
un
nuovo
ordine
del
mondo,
una
nuova
organizzazione
della
società
umana,
liberata
dal
capitalismo
e
dalle
sue
compatibilità.
Non
si
tratta
di
chiedere
al
capitale
di
essere
sociale,
democratico,
ambientalista
e
pacifico.
Si
tratta
di
impugnare
ogni
rivendicazione
di
classe,
democratica,
ambientalista,
di
pace,
contro
il
capitale
per
il
suo
rovesciamento.
"Un
altro
mondo
è
possibile".
Non
come
riforma
del
capitale,
del
tutto
utopica
e
impossibile
invece.
Ma
come
socialismo:
come
abolizione
della
proprietà
capitalistica;
come
acquisizione
alla
proprietà
sociale
dei
mezzi
di
produzione,
di
comunicazione
e
di
scambio;
come
organizzazione
di
una
economia
mondiale
democraticamente
pianificata
in
cui
lo
stesso
modello
di
sviluppo
possa
essere
ridefinito
in
base
al
primato
della
qualità
della
vita,
dei
bisogni
sociali,
della
relazione
con
l'ambiente
e
tra
i
popoli.
Nulla
è
più
irrazionale
di
un
sistema
economico
in
cui
la
crescita
della
povertà
(recessione
e
disoccupazione)
viene
determinata
da
un
eccesso
di
ricchezza
prodotta
(sovrapproduzione).
Nulla
è
più
ipocrita
di
una
celebrata
"democrazia"
internazionale
in
cui
un
pugno
di
duecento
colossi
multinazionali
in
lotta
per
il
controllo
dell'economia
del
mondo
concentra
nelle
proprie
mani
un
potere
incontrollato
e
incontrollabile.
Solo
una
rivoluzione
socialista
può
cancellare
queste
autentiche
mostruosità.
Lo
stesso
sviluppo
impetuoso
della
scienza
e
della
tecnica
(nel
campo
dell'informatica,
della
biotecnologia…)
pone
più
che
mai
l'esigenza
di
un
nuovo
ordine
sociale
mondiale.
Asservite
alla
proprietà
privata
e
agli
imperativi
del
profitto,
le
innovazioni
tecnologiche
e
scientifiche,
fonte
potenziale
di
nuovi
orizzonti
di
progresso,
si
tramutano
paradossalmente
in
strumenti
di
nuova
subordinazione
e
di
nuovo
colonialismo
(v.
i
brevetti).
Peraltro
lo
stesso
indirizzo
della
ricerca
scientifica
e
tecnologica,
le
sue
strutture
di
gestione
e
finanziamento
sono
sempre
più
incorporati
al
capitale
finanziario
e
ai
consigli
d'amministrazione
delle
grandi
imprese,
e
quindi
subordinati
alle
leggi
capitalistiche.
Solo
un'economia
democraticamente
pianificata
può
dunque
segnare
una
svolta
storica
nel
rapporto
tra
l'umanità
e
la
scienza.
Solo
abolendo
la
proprietà
privata,
solo
affermando
il
controllo
sociale
di
produttori
e
consumatori
su
"cosa,
come,
per
chi
produrre",
in
ogni
Paese
e
su
scala
mondiale,
sarà
possibile
liberare
le
straordinarie
potenzialità
della
scienza
per
la
vita
della
specie.
In definitiva il superamento della proprietà privata e del mercato - cioè l'essenziale del programma del Manifesto di Marx ed Engels - resta inevitabilmente un punto centrale della prospettiva comunista.
Certo: il recupero di questo programma generale non esaurisce, ovviamente, la rifondazione comunista. Il programma marxista va infatti continuamente sviluppato, arricchito sulla base dei mutamenti storici prodottisi e delle grandi esperienze del movimento operaio di questo secolo. Ma proprio l'aggiornamento del programma presuppone prima di tutto il suo recupero e il suo riscatto dalle profonde distorsioni di cui è stato oggetto.
Tesi
7
-
IL
NODO
DEL
POTERE
Un'economia
democraticamente
pianificata
presuppone
e
richiede
la
conquista
del
potere
politico
da
parte
delle
classi
subalterne.
Rimuovere
la
questione
del
potere,
aggirare
la
questione
della
sua
conquista
e
della
rottura
rivoluzionaria
dello
Stato
borghese,
significa
rimuovere,
al
di
là
delle
parole,
la
prospettiva
socialista
e
l'idea
stessa
di
rivoluzione.
In
questo
senso
il
PRC
è
chiamato
a
superare
il
richiamo
gandhiano
alla
"non
violenza"
come
proprio
riferimento
culturale.
Nell'ultimo decennio diverse tendenze politico-culturali "neoriformistiche" hanno teso a teorizzare il superamento degli Stati nazionali e del loro potere come corollario del "nuovo capitalismo". Ne è scaturita l'esplicita cancellazione del tema stesso del potere politico e della sua conquista (v. Revelli), in nome del recupero più o meno aggiornato di antiche suggestioni "cooperativistiche", quale leva di "un'altra società possibile". In realtà queste teorie non solo non sviluppano il marxismo ma regrediscono a un premarxismo ingenuo, talora subalterno nelle traduzioni pratiche alle stesse politiche liberiste (v. il ruolo del Terzo settore come frequente surrogato del servizio pubblico e luogo di concentrazione di manodopera flessibile).
Invece natura e crisi del capitalismo contemporaneo e dell'imperialismo ripropongono più che mai il tema dello Stato e del potere come nodo strategico decisivo. Contro l'ipocrisia ideologica del liberismo, gli Stati nazionali e i governi borghesi che li gestiscono sono e restano un supporto decisivo del profitto: sia nella promozione attiva delle politiche di flessibilità, privatizzazione, compressione salariale e di spesa sociale; sia nell'espansione abnorme del sostegno finanziario diretto al capitale in crisi come si evince oggi sempre più scopertamente dal nuovo corso della politica economica americana. Ma soprattutto la ripresa del militarismo e le politiche di restrizioni antidemocratiche e di repressione diretta sul versante interno dell'ordine pubblico -connesse alla crisi di consenso sociale- ripropongono oggi più che mai il cuore autentico e profondo della natura dello Stato borghese: quello di "un corpo d'uomini in armi" (Engels) detentore del monopolio della violenza: contro i popoli oppressi del mondo e contro le classi subalterne nelle stesse metropoli imperialistiche. L'esperienza della repressione di Genova ne è un manifesto vissuto. Come lo sono le politiche di terrore dispiegate dall'imperialismo, in tempi di guerra come "di pace".
Nessun nuovo ordine sociale, nessun socialismo, potrà affermarsi all'ombra dell'apparato dominante dello Stato borghese. Né è pensabile che quell'apparato possa essere strumento delle classi subalterne nella transizione ad una società di liberi e di eguali. Al contrario la rottura dell'apparato statale e il suo rovesciamento rappresentano la condizione necessaria di un processo di liberazione sociale. In questo senso la rottura dell'apparato statale borghese è il principio fondante della concezione stessa della rivoluzione. E viceversa l'evocazione della categoria della rivoluzione fuori dal richiamo strategico alla rottura rivoluzionaria con lo Stato si riduce ad una "frase scarlatta" priva di ogni contenuto reale.
Il PRC è dunque chiamato a superare il richiamo gandhiano alla "non violenza" come principio culturale di riferimento. In primo luogo questo riferimento, coerentemente assunto, costituirebbe un atto di rottura con la storia stessa della lotta di classe come leva universale del progresso: ed in particolare con due secoli di lotta del movimento operaio e dei popoli oppressi contro il capitalismo e l'imperialismo. L'esercizio della forza delle classi subalterne ha costituito e costituisce nella storia del mondo un ricorso spesso insostituibile per difendere o conquistare libertà democratiche elementari, diritti sindacali, conquiste sociali, autodeterminazioni nazionali. Equiparare la violenza delle classi dominanti e la violenza delle classi subalterne in nome di un indistinto rifiuto della "violenza" in generale, significherebbe attestarsi su un pacifismo metafisico. Ma soprattutto la metafisica della "non violenza" costituisce un fattore di rottura con la prospettiva stessa della rivoluzione. L'apparato dello Stato borghese si è sempre contrapposto e si contrapporrà sempre con tutti i mezzi disponibili, alla prospettiva di emancipazione delle classi subalterne. E questo tanto più nell'epoca dell'imperialismo, del rilancio del militarismo, del diffuso rafforzamento delle tendenze repressive (v. Genova). Per questo il problema della forza resta inscritto, in tutta la sua complessità, nell'orizzonte strategico della rivoluzione. Pensare di eluderlo attraverso il richiamo filosofico alla "non violenza" significherebbe riproporre vecchie illusioni riformistiche che grandi masse e i comunisti stessi hanno già pagato a caro prezzo: come nel Cile del 1973. Forte naturalmente è la denuncia delle teorie e pratiche del terrorismo, così come, su un piano diverso, di culture e pratiche violentiste di tipo nichilistico-distruttivo (Black Block). Ma questa denuncia va mossa non da un'angolazione pacifista, tantomeno da un'identificazione nello Stato o nella sua azione repressiva, bensì da un'angolazione rivoluzionaria: da una politica protesa a costruire nelle lotte di classe la consapevolezza profonda della necessità strategica della rivoluzione come processo di massa, e proprio per questo irriducibilmente avversa a forme d'azione che invece rafforzano lo Stato, danneggiano i movimenti, distorcono l'identità stessa della prospettiva rivoluzionaria nella percezione della maggioranza dei lavoratori e dei giovani.
Tesi
8
-
RIVOLUZIONE
D'OTTOBRE
E
DEGENERAZIONE
BUROCRATICA
Il
recupero
del
programma
della
rivoluzione
d'Ottobre
è
condizione
decisiva
della
rifondazione.
Ciò
che
è
fallito
nell'URSS
non
è
la
pianificazione
economica
dello
Stato
ma
la
gestione
burocratica
dell'economia
pianificata.
Ciò
che
è
fallito
nell'URSS
non
è
il
potere
dei
lavoratori
ma
la
casta
burocratica
che
l'ha
distrutto.
La rifondazione comunista deve recuperare a pieno il programma originario della Rivoluzione d'Ottobre.
Ciò
che
è
fallito
nell'URSS
non
è
la
pianificazione
economica
di
Stato
al
posto
del
mercato
capitalistico.
Al
contrario
l'esproprio
della
borghesia
e
la
concentrazione
nelle
mani
dello
Stato
delle
leve
della
produzione
ha
garantito
a
quelle
popolazioni
grandi
conquiste
sociali,
non
a
caso
oggi
nel
mirino
della
restaurazione
capitalistica.
La
insospettabile
Banca
Mondiale
oggi
dichiara:
"La
pianificazione
ha
dato
risultati
impressionanti:
crescita
della
produzione,
industrializzazione,
educazione
di
base,
cure
sanitarie,
abitazione
e
lavoro
per
l'intera
popolazione…
Nel
sistema
a
pianificazione
i
Paesi
del
COMECON
erano
società
con
alto
livello
di
educazione…
Anche
in
Cina
i
livelli
dei
risultati
educativi
erano,
e
sono
ancora,
eccezionali
se
comparati
con
i
Paesi
in
via
di
sviluppo…
In
URSS
e
nei
Paesi
del
COMECON
le
aziende
erano
spinte
ad
impiegare
il
massimo
di
persone
possibile,
e
perciò
era
molto
più
comune
avere
scarsità
di
mano
d'opera
che
disoccupazione…"
Ciò
che
è
fallita
è
la
gestione
burocratica
dell'economia
pianificata,
che
ha
espropriato
progressivamente
i
lavoratori
e
i
loro
organismi
democratici
di
ogni
funzione
di
gestione
e
controllo,
a
tutto
vantaggio
di
uno
strato
sociale
privilegiato
e
parassitario.
Uno
strato
sociale
che
ha
concluso
la
sua
parabola
storica
trasformandosi
in
agente
della
restaurazione
capitalistica
e,
quindi,
in
una
nuova
classe
borghese
sfruttatrice.
Un
processo
che
ha
confermato
la
validità
dell'analisi
marxista
sulla
degenerazione
dell'URSS
così
sintetizzata
da
Trotsky
nel
1938:
"Il
pronostico
politico
ha
un
carattere
alternativo:
o
la
burocrazia,
diventando
sempre
di
più
l'organo
della
borghesia
mondiale
nello
Stato
operaio,
distrugge
le
nuove
forme
di
proprietà
e
respinge
il
Paese
nel
capitalismo,
o
la
classe
operaia
schiaccia
la
burocrazia
e
si
apre
una
via
verso
il
socialismo."
(Programma
di
transizione).
E ancora: ciò che è fallito in URSS non è la conquista del potere politico, la rottura della macchina statale borghese, il potere dei soviet. Ed anzi il superamento rivoluzionario della falsa democrazia borghese e la costruzione di una democrazia nuova e superiore ha rappresentato non solo un'esperienza storica straordinaria ma anche un riferimento decisivo, teorico e pratico, per la stessa nascita del movimento comunista di questo secolo. Ciò che è fallito al contrario, è il potere di una burocrazia che ha via via smantellato la democrazia dei soviet e del partito, trasformando la dittatura del proletariato nella dittatura della burocrazia sul proletariato. I suoi crimini efferati contro lavoratori e comunisti, nell'URSS e nel movimento comunista internazionale, non hanno rappresentato una astratta patologia del "potere" in quanto tale: ma un mezzo brutale di difesa del privilegio burocratico contro il programma originario della rivoluzione d'Ottobre. Per questo rimuovere la categoria stessa della conquista rivoluzionaria del potere politico nel nome della "rottura con lo stalinismo" significherebbe paradossalmente celebrarne, di fatto, la vittoria postuma.
Occorre invece trarre le lezioni dall'esperienza dell'URSS, rilanciando il programma fondamentale di Lenin e Trotsky e, in Italia, di Gramsci: quello che combina l'abolizione della proprietà borghese con la costruzione di un nuovo potere, della democrazia dei consigli. Una democrazia che ridefinisce natura e soggetto del potere, supera la scissione tra masse e istituzioni, abolisce i privilegi dei rappresentanti eletti, sancisce la revocabilità permanente di questi ultimi. Una democrazia che supera e rimuove quella rete di poteri legali e illegali, palesi e occulti, che restano il cuore di ogni democrazia borghese come strumento di intimidazione permanente contro i lavoratori. Una democrazia, infine, che è superiore proprio perché supera e rimuove la separatezza burocratica dello Stato borghese e perché coniuga il rispetto del pluralismo politico con il carattere pubblico della proprietà.
In definitiva, dal fallimento dello stalinismo occorre uscire non in direzione di un "socialismo di sinistra" riformistico-pacifista, ma nella direzione opposta della rifondazione comunista rivoluzionaria.
Tesi
9
-
CENTRALITA'
STRATEGICA
DELLA
CLASSE
OPERAIA
La
classe
operaia
e
il
mondo
del
lavoro,
nella
sua
nuova
composizione
ed
estensione,
rappresenta
il
soggetto
centrale
di
una
prospettiva
socialista.
La
crisi
di
egemonia
del
liberismo
e
l'affacciarsi
di
una
giovane
generazione
di
lavoratori
segnano
l'attuale
disgelo
delle
lotte,
che
conferma
e
rilancia
le
grandi
potenzialità
del
movimento
operaio.
A
sua
volta
la
classe
lavoratrice
potrà
assolvere
il
ruolo
storico
di
"classe
generale"
solo
ricomponendo
su
un
terreno
anticapitalistico
l'insieme
delle
domande
di
emancipazione
e
liberazione.
Nell'ultimo
decennio
in
particolare,
più
in
generale
negli
ultimi
vent'anni,
sullo
sfondo
dell'avanzata
capitalistica
i
circoli
dominanti
internazionali
hanno
dispiegato
una
vasta
offensiva
politico-culturale
tesa
ad
affermare
la
crisi
strutturale
o
la
"scomparsa"
della
classe
operaia.
Non
solo
la
socialdemocrazia
internazionale,
ma
vasti
settori
politici
e
intellettuali
della
stessa
"sinistra
critica"
hanno
accolto
e
riproposto,
in
forme
diverse,
questa
leggenda.
Lo
stesso
nostro
partito,
che
pur
ha
respinto
giustamente
le
conclusioni
ultime
di
quella
impostazione
non
ha
sviluppato
contro
di
essa
una
controffensiva
adeguata.
La
realtà
mondiale
smentisce
radicalmente
la
propaganda
dominante.
Lungi
dal
registrare
la
scomparsa
o
il
ridimensionamento
della
classe
lavoratrice,
lo
scenario
mondiale
è
segnato
da
un
vasto
processo
di
proletarizzazione
che
accresce
complessivamente
la
massa
sociale
del
lavoro
dipendente
modificando
al
tempo
stesso
la
sua
composizione.
Nei
paesi
imperialistici
la
riduzione
del
livello
di
concentrazione
della
classe
operaia
industriale,
colpita
da
una
vasta
offensiva
capitalistica,
si
combina
con
processi
di
proletarizzazione
di
vasti
settori
impiegatizi
nel
campo
dell'istruzione,
dei
servizi,
dei
trasporti,
delle
assicurazioni
e
del
credito,
delle
comunicazioni,
e
con
una
integrazione
nel
lavoro
salariato,
nella
forma
particolarmente
oppressiva
del
precariato,
di
settori
crescenti
di
giovani
disoccupati.
Gli
stessi
rapporti
di
lavoro
para-subordinato
formalmente
autonomo
sono
di
fatto
espressioni
di
lavoro
salariato.
Nei
paesi
dipendenti
lo
stesso
processo
internazionale
di
decentramento
produttivo
determina
una
massiccia
concentrazione
di
classe
operaia
industriale,
spesso
sottoposta
ai
più
classici
meccanismi
di
sfruttamento
taylorista.
Complessivamente
dunque
la
stessa
classe
operaia
dell'industria
conosce
sul
piano
mondiale
un'indubbia
estensione.
Ugualmente
infondata
è
la
teoria
della
crisi
di
ruolo
della
classe
operaia
e
della
marginalizzazione
della
lotta
di
classe.
La
contraddizione
tra
capitale
e
lavoro
permea
come
non
mai
tutti
gli
ambiti
della
società
capitalistica
contemporanea.
Da
un
lato
la
crisi
capitalistica
spinge
le
classi
dominanti
ad
una
continuità
della
propria
offensiva
centrale
contro
il
lavoro,
al
di
là
di
ogni
variazione
del
ciclo
economico
congiunturale.
Dall'altro
lato
il
mondo
del
lavoro,
che
pur
ha
subito
ripetute
sconfitte
e
un
arretramento
profondo
negli
anni
80
e
90,
conserva
un
gigantesco
potenziale
di
lotta:
nessuna
delle
principali
sconfitte
subite
negli
ultimi
vent'anni
è
stata
determinata
di
per
sé
dalla
cosiddetta
"crisi
strutturale
della
classe
lavoratrice"
bensì
dalle
responsabilità
politiche
e
sindacali
delle
sue
burocrazie
dirigenti.
Certo
ogni
volta
la
sconfitta
subita,
con
l'arretramento
sociale
e
gli
effetti
di
demoralizzazione
che
ne
conseguivano,
si
rifletteva
sui
rapporti
di
forza
e
spesso
indirettamente
sulla
composizione
sociale
proletaria.
Ma
non
era
quest'ultima
a
determinarla,
semmai
ne
era
in
larga
parte
determinata.
La
lotta
di
classe,
entro
la
contraddizione
tra
capitale
e
lavoro,
resta
dunque
più
che
mai
l'asse
centrale
di
formazione,
scomposizione,
ricomposizione
dei
blocchi
sociali
e
dei
rapporti
di
forza
in
ogni
paese
capitalistico
e
su
scala
internazionale.
Peraltro
contro
ogni
profezia
disfattista
(v.
Marco
Revelli),
la
tendenza
alla
ripresa
del
movimento
di
classe
segna
oggi,
in
forme
diverse,
larga
parte
del
quadro
mondiale.
Già
negli
anni
90,
pur
in
un
contesto
complessivamente
negativo,
le
mobilitazioni
operaie
sviluppatesi
nell'Europa
capitalista
(Italia
'94
e
Francia
'95)
e
in
Asia
(Corea
'95)
indicavano
le
potenzialità
dell'azione
sociale
concentrata
e
di
massa
del
movimento
operaio,
smentendo
radicalmente
le
tesi
sociologiche
di
tanta
parte
della
letteratura
"postfordista".
Oggi
l'affacciarsi
di
una
nuova
generazione
operaia
su
scala
internazionale
si
accompagna
ad
una
ripresa
più
visibile
e
diffusa
delle
lotte
dei
lavoratori.
Il
"disgelo"
è
un
fenomeno
mondiale
ed
ha
una
base
materiale
profonda:
la
crescente
crisi
di
egemonia
delle
politiche
liberiste,
dopo
vent'anni,
presso
la
maggioranza
della
popolazione
mondiale.
Le
classi
dominanti
hanno
accresciuto
per
vent'anni
il
proprio
potere
sui
lavoratori
e
il
proprio
dominio
nella
società:
ma
a
scapito
del
consenso
sociale.
Il
loro
potere
è
aumentato,
la
loro
egemonia
si
è
ridotta.
Ed
oggi
la
crisi
di
egemonia
della
borghesia
internazionale
alimenta
una
nuova
reazione
di
lotta
che
trova
nei
giovani
lavoratori
la
propria
leva
naturale.
Milioni
di
giovani
lavoratori
e
lavoratrici
non
si
rassegnano
più
ad
un
futuro
peggiore
di
quello
dei
loro
padri.
Ed
il
capitale
in
crisi
non
ha
nulla
da
offrire
loro
se
non
un
peggioramento
ulteriore
delle
condizioni
di
lavoro
e
di
vita.
Questa
contraddizione
segnerà
nel
profondo
tutta
la
prossima
fase
storica.
Il
rilancio
e
l'estensione
delle
mobilitazioni
di
classe,
al
di
là
delle
imprevedibili
dinamiche
contingenti
e
dei
possibili
riflussi
temporanei,
tenderà
a
pervadere
lo
scenario
internazionale.
Il
rilancio
di
una
prospettiva
socialista
e
rivoluzionaria
può
e
deve
trovare
la
propria
radice
centrale
in
questa
ripresa
del
movimento
operaio
internazionale,
quale
soggetto
centrale
dell'alternativa
anticapitalistica.
Ciò
non
significa
né
deve
significare
un
ripiegamento
"operaistico-sindacalistico".
Il
movimento
operaio
internazionale
potrà
configurarsi
come
leva
centrale
di
un'alternativa
rivoluzionaria
alla
condizione
di
non
limitarsi
ad
una
pura
azione
sindacale
o
di
fabbrica:
ma
ricomponendo
su
un
terreno
anticapitalistico
e
di
classe
l'insieme
delle
domande
di
emancipazione
e
liberazione,
l'insieme
dei
soggetti
portatori
di
tale
domande
su
scala
mondiale.
Sotto
questo
profilo
le
cosiddette
teorie
del
"policentrismo"
(abbracciate
dallo
stesso
PRC),
che
assimilano
la
contraddizione
tra
capitale
e
lavoro
all'insieme
indistinto
delle
altre
contraddizioni
(ambientali,
di
pace,
di
genere…),
capovolgono
il
nodo
strategico
reale.
Non
si
tratta
di
accostare
alla
"cultura
di
classe"
la
"cultura
ambientale",
la
"cultura
di
genere",
la
"cultura
di
pace"
spesso
assunte
nella
loro
espressione
ideologica
neoriformistica.
Si
tratta,
all'opposto,
di
sviluppare
l'egemonia
anticapitalistica
e
di
classe
sul
terreno
dell'ambiente,
della
pace,
della
liberazione
della
donna,
entro
un
processo
di
ricomposizione
unificante
per
l'alternativa
di
sistema.
Tesi
10
-
MOVIMENTO
ANTIGLOBALIZZAZIONE
L'affacciarsi
di
una
giovane
generazione
sul
terreno
della
lotta
(movimento
antiglobalizzazione),
ripropone
tanto
più
oggi
l'attualità
del
rilancio
di
una
prospettiva
storica
rivoluzionaria.
La
conquista
della
giovane
generazione
alla
prospettiva
socialista
è
un
compito
difficile
ma
decisivo
della
Rifondazione.
La nascita e lo sviluppo del movimento antiglobalizzazione su scala mondiale non è separato dalla ripresa della lotta di classe. Riflette la stessa crisi di egemonia del liberismo che alimenta la ripresa delle lotte sociali. Così come riflette quello stesso risveglio di ampi settori di giovani, che segna la svolta nella mobilitazione dei lavoratori. La stessa composizione sociale del movimento è spesso segnata da un'ampia presenza di giovani precari.
Ma
l'importanza
del
movimento
antiglobalizzazione
non
è
data
solo
dal
sintomo
che
riflette,
ma
dalle
conseguenze
che
produce.
Le
mobilitazioni
massicce
contro
i
vertici
capitalistici
internazionali,
lungo
l'itinerario
di
Seattle,
Praga,
Nizza,
Genova,
hanno
mostrato
con
grande
potenza
simbolica
alle
classi
subalterne
del
mondo
intero
che
le
politiche
dominanti
possono
essere
contestate,
che
una
massa
crescente
di
giovani
ne
fa
oggetto
di
una
aperto
rifiuto.
Questo
fatto
ha
favorito
un
consenso
largo
e
diffuso
attorno
alle
ragioni
del
movimento,
un
salto
netto
della
sensibilità
critica
antiliberista
di
ampi
settori
di
massa;
un
incoraggiamento
obiettivo
alla
stessa
ripresa
di
lotta
della
classe
operaia
in
molti
paesi.
Peraltro
in
diversi
Paesi,
le
mobilitazioni
antiglobalizzazione
hanno
visto,
in
forme
diverse,
la
partecipazione
diretta
di
settori
di
classe
e
di
loro
organizzazioni
sindacali
e/o
politiche.
Più
in
generale
il
movimento
antiglobalizzazione
ha
capitalizzato
e
incanalato
in
un
quadro
largo
tutte
le
istanze
di
contestazione
dell'attuale
ordine
del
mondo
(sociali,
democratiche,
ambientali,
di
pace)
da
un
lato
riflettendo,
dall'altro
incentivando
un
mutamento
diffuso
della
percezione
pubblica
del
capitalismo.
Le
potenzialità
anticapitaliste
di
questo
movimento,
per
quanto
latenti,
sono
dunque
di
grande
rilevanza.
Tuttavia
limitarsi
alla
lode
del
movimento
antiglobalizzazione
o
addirittura
promuovere
un
culto
della
sua
spontaneità,
come
di
fatto
fa
oggi
il
nostro
partito,
costituisce
un
errore
profondo.
Decisiva
infatti
è
e
sarà
la
direzione
di
marcia
del
movimento,
in
ordine
agli
orientamenti
programmatici
che
vi
prevarranno,
alle
scelte
politiche
che
ne
derivano,
al
segno
di
egemonia
sociale
che
esse
riflettono.
Larga
parte
delle
culture
oggi
egemoni
nel
movimento
antiglobalizzazione
internazionale
sono
di
tipo
neoriformistico.
Non
si
tratta
di
"disprezzarle"
ma
di
coglierne
la
radice
storico/sociale
e
la
ricaduta
profondamente
negativa
per
le
ragioni
del
movimento
stesso.
Sullo
sfondo
dell'arretramento
del
movimento
operaio
degli
anni
'80-'90,
entro
una
situazione
storica
segnata
congiuntamente
dalla
crisi
di
egemonia
del
liberismo
e
dalla
crisi
di
credibilità
del
"socialismo"
(nella
sua
rappresentazione
storica
ereditata)
si
è
determinato
un
vasto
campo
di
sviluppo
di
culture
"critiche"
del
capitalismo
ma
non
anticapitaliste:
di
culture
e
"programmi"
tesi
a
ricercare
un
altro
mondo
possibile
entro
il
capitalismo
e
non
in
alternativa
ad
esso.
Queste
culture
politiche
non
sono
omogenee
ed
anzi
sono
segnate
da
differenze
profonde:
comprendono
tendenze
apertamente
collaborative
con
forze
e
istituti
del
capitalismo
mondiale
in
una
logica
di
pressione
critica
sul
loro
operato;
tendenze
neokeynesiane
votate
alla
ricerca
di
una
razionalizzazione
antispeculativa
del
capitale
(v.
i
vertici
di
ATTAC);
tendenze
basate
sulle
esperienze
di
terzo
settore
e
sul
recupero
culturale
di
antiche
suggestioni
cooperativistiche
(neoproudhoniane);
tendenze
anarco/ribelliste
portatrici
di
una
sorta
di
"neo-luddismo
"
(Black
block).
Ma
il
loro
tratto
comune
è
o
la
ricerca
illusoria
di
un
capitalismo
"equo",
o
la
rivendicazione
di
un
proprio
spazio
antagonistico
all'interno
del
capitalismo:
comunque
la
negazione
di
una
prospettiva
socialista
e
della
centralità
della
contraddizione
tra
capitale
e
lavoro
come
leva
di
un'alternativa
sociale.
In
questo
senso
tali
culture
minacciano
di
deviare
l'anticapitalismo
latente
del
movimento
e
i
sentimenti
antiliberisti
di
milioni
di
giovani
verso
un
orizzonte
al
tempo
stesso
utopico
e
subalterno:
ostacolando
obiettivamente
lo
sviluppo
della
coscienza
politica
del
movimento
e
la
sua
convergenza
di
lotta
con
la
classe
operaia
internazionale
e
con
i
movimenti
di
liberazione
dei
popoli
oppressi.
I
comunisti
debbono
radicarsi
a
fondo
nel
movimento
antiglobalizzazione,
partecipare
attivamente
alla
sua
costruzione
e
alle
sue
strutture,
legarsi
profondamente
ai
sentimenti
di
massa
antiliberisti,
cogliendone
le
straordinarie
potenzialità:
ogni
atteggiamento
di
distacco,
di
sufficienza
dottrinaria
verso
il
movimento
va
contrastato
apertamente.
Ma
la
lotta
contro
le
posizioni
riformiste,
per
un'egemonia
alternativa
è
la
ragione
stessa
della
presenza
dei
comunisti
nel
movimento.
Egemonia
non
è
né
predicazione
ideologica
né
imposizione
burocratica:
egemonia
è
lotta
aperta
per
la
conquista
politica
e
ideale
del
movimento
a
un
programma
anticapitalista;
per
collegare
tutte
le
ragioni
di
fondo
che
il
movimento
esprime,
nel
vivo
della
sua
esperienza
quotidiana
(ragioni
sociali,
ambientali,
democratiche,
di
pace)
alla
prospettiva
socialista;
per
ricondurre
di
conseguenza
tutte
le
istanze
di
fondo
del
movimento
all'incontro
strategico
con
la
classe
operaia.
L'affermarsi
nel
movimento
antiglobalizzazione
di
un'egemonia
anticapitalistica
della
classe
operaia,
quale
soggetto
centrale
di
un
blocco
storico
alternativo
su
scala
mondiale,
è
tanto
più
oggi
una
esigenza
vitale
per
il
movimento
stesso.
Il
nuovo
scenario
di
guerra
imperialistica
pone
il
movimento
di
fronte
a
una
prova
impegnativa
che
richiede
un
salto
di
coscienza
politica
e
di
orizzonte.
Lo
scontro
tra
imperialismi
e
popoli
oppressi
tenderà
ad
aggravarsi.
Lo
scontro
di
classe
sul
fronte
interno
tenderà
ovunque
ad
inasprirsi.
Il
movimento
non
può
più
vivere
di
iniziative
simboliche,
di
critiche
intellettuali
delle
ingiustizie
del
mondo,
di
ricette
accademiche
utopiche
o
minimali,
senza
rischiare
di
logorare
la
propria
forza.
Né
può
affidarsi
ad
una
pratica
generica
di
"disobbedienza".
Una
pagina
del
movimento
si
è
in
ogni
caso
chiusa.
E'
necessaria
una
scelta
chiara
di
collocazione
sociale
e
di
orizzonte
strategico
in
ogni
paese
e
su
scala
mondiale.
Non
è
sufficiente
una
critica
del
liberismo
senza
schierarsi
apertamente
a
fianco
dei
lavoratori
e
delle
loro
lotte.
Non
è
sufficiente
una
critica
dei
poteri
dominanti
del
mondo
senza
schierarsi
al
fianco
dei
popoli
dominati.
Su
ogni
terreno
l'alternativa
tra
opzioni
riformiste
e
anticapitaliste,
pacifiste
o
antimperialiste,
sarà
posta
dai
fatti
nel
dibattito
stesso
del
movimento.
I
comunisti
possono
e
debbono
impegnarsi
su
un
terreno
più
difficile
ma
più
avanzato
perché
un
ampio
settore
della
giovane
generazione
maturi
una
coscienza
politica
rivoluzionaria
e
di
classe.
Per
questo
la
costruzione
di
una
tendenza
rivoluzionaria
internazionale
nel
movimento
antiglobalizzazione
è
tanto
più
oggi
una
necessità
inaggirabile.
Tesi
11
-
CAPITALE
E
QUESTIONE
AMBIENTALE
Gli
sviluppi
politici
e
le
dinamiche
del
capitale
degli
anni
novanta
sono
stati
devastanti
per
l'ambiente.
Tutti
i
vecchi
problemi
si
sono
estesi,
sono
emerse
nuove
emergenze
su
scala
planetaria.
E'
sempre
più
stretto
l'intreccio
fra
questioni
ambientali
e
questioni
sociali.
A
fronte
di
tutto
questo,
tanto
gli
approcci
etico-culturali
quanto
il
riformismo
verde
si
sono
rivelati
inadeguati
e
impotenti.
La
costruzione
di
un
efficace
movimento
ambientalista
richiede
l'allargamento
della
sua
base
sociale
e
un
programma
di
obiettivi
chiaramente
anticapitalistici:
in
ultima
analisi,
un
nuovo
modello
di
sviluppo
non
sarà
possibile
senza
un
nuovo
modo
di
produzione,
senza
il
rovesciamento
del
capitalismo.
E'
questo
l'approccio
strategico
che
i
comunisti
devono
portare
anche
nel
loro
intervento
nel
movimento.
Il
capitalismo
non
è
in
grado
o
non
è
interessato
a
porre
rimedio
ai
problemi
ambientali;
viceversa,
la
devastazione
ambientale
è
oggi
un
portato
intrinseco
della
logica
del
profitto
e
del
libero
mercato.
Gli
anni
novanta
hanno
visto
moltiplicarsi
problemi
e
crisi
ambientali,
con
una
relazione
sempre
più
stretta
fra
involuzione
delle
condizioni
politiche
e
sociali
e
peggioramento
della
condizioni
ambientali.
Il
fatto
è
che
le
dinamiche
oggettive
del
modo
di
produzione
capitalistico
-
sempre
meno
frenate
dai
vincoli
sociali
e
politici
che
nei
decenni
precedenti
avevano
portato
alla
crescita
dei
movimenti
ambientalisti
e
all'adozione
di
tutta
una
serie
di
interventi
di
protezione
ambientale
-
hanno
portato
all'estensione
e
all'aggravamento
dei
vecchi
problemi
(inquinamento,
nocività
delle
fabbriche,
devastazione
del
territorio,
sviluppo
di
tecnologie
ad
alto
rischio,
degradazione
degli
ambienti
naturali
e
storici,
ecc.)
e
alla
creazione
di
nuove
emergenze
su
scala
sempre
più
estesa,
tendenzialmente
planetaria
(problema
dei
rifiuti,
buco
nell'ozono,
effetto
serra,
deforestazione,
impoverimento
della
biodiversità,
ecc.).
Le
sconfitte
operaie
e
la
ricerca
della
produzione
al
più
basso
costo
porta
infatti
ad
abbattere
anche
le
misure
di
protezione
ambientale
e
di
prevenzione
sanitaria,
a
sfruttare
le
risorse
e
il
territorio
nel
modo
più
distruttivo,
a
ignorare
i
vincoli
sociali
e
le
compatibilità
ambientali.
La
liberalizzazione
del
commercio
tende
a
generalizzare
lo
sfruttamento
incontrollato
e
illimitato
delle
risorse
ambientali
minando
i
sistemi
di
regolazione
locale.
Con
la
privatizzazione
dei
servizi
la
logica
del
profitto
si
appropria
dei
beni
comuni
come
l'acqua
e
tramite
i
brevetti
essa
arriva
a
monopolizzare
le
risorse
biologiche
e
gli
avanzamenti
scientifici
e
tecnologici,
scavalcando
ogni
controllo
democratico
e
ogni
preoccupazione
di
ordine
sociale
(esemplari
le
vicende
degli
Ogm
e
dei
farmaci
anti-Aids).
La
stessa
sicurezza
alimentare
è
diventata
un
problema
drammatico
non
solo
nei
paesi
del
Terzo
mondo,
dove
è
sempre
stata
il
prodotto
dello
sfruttamento
imperialistico,
ma
anche
nei
paesi
avanzati
(caso
"mucca
pazza"),
dove
è
il
risultato
del
produttivismo
esasperato
e
incontrollato
che
domina
il
settore
agro-alimentare,
sotto
la
spinta
della
competitività
e
del
profitto.
D'altra
parte,
i
rapporti
di
forza
su
scala
internazionale
consentono
alle
multinazionali,
tramite
le
scelte
dei
governi
degli
Stati
imperialisti,
di
imporre
i
propri
desiderata
nelle
negoziazioni
degli
accordi
internazionali
in
materia
ambientale
(v.
l'attitudine
del
governo
Usa
nel
caso
del
protocollo
di
Kyoto
sulle
emissioni
dei
gas-serra).
Così
restano
senza
efficaci
risposte
lo
sfruttamento
irrazionale
e
la
distruzione
delle
foreste,
l'impoverimento
della
risorse
biologiche,
l'avanzamento
dei
deserti,
i
cambiamenti
climatici
e
le
sempre
più
frequenti
"catastrofi
naturali"
che
da
tali
mutamenti
derivano.
Sempre
più
il
futuro
dell'umanità
si
identifica
nell'alternativa
"socialismo
o
barbarie",
essendo
la
tendenza
alla
barbarie
senz'altro
accelerata
dal
progressivo
degrado
della
capacità
del
pianeta
di
sostenere
lo
sviluppo
umano.
Di
fronte
a
questi
sviluppi,
in
cui
si
intrecciano
sempre
più
strettamente
questioni
sociali
e
questioni
ambientali,
si
dimostrano
sempre
più
inadeguati
e
impotenti
tanto
gli
approcci
meramente
etico-culturali
quanto
le
tradizionali
politiche
di
riformismo
verde.
Oggi
i
movimenti
ambientalisti
sono
di
fronte
a
una
duplice
sfida:
da
un
lato
riuscire
ad
allargare
e
a
unificare
la
propria
base
sociale,
integrando
i
bisogni
e
le
domande
dei
diversi
soggetti
che
sono
vittime
delle
tendenze
distruttive
del
capitale;
dall'altro
riuscire
a
formulare
obiettivi
di
lotta
e
una
prospettiva
credibili.
Ciò
è
possibile
soltanto
in
un'ottica
anticapitalistica:
infatti,
un
nuovo
modello
di
sviluppo
non
sarà
possibile,
in
ultima
analisi,
senza
un
nuovo
"modo
di
produzione",
ossia
senza
passare
per
il
rovesciamento
del
capitalismo.
Questo
è
tanto
più
vero
se
si
considera
l'intrinseca
dimensione
internazionale
dei
problemi
ambientali.
E'
questo
l'approccio
strategico
che
i
comunisti
devono
portare
anche
nell'intervento
e
nella
costruzione
del
movimento.
Su
un
altro
piano,
la
questione
ambientale
pone
alla
rifondazione
comunista
la
sfida
e
il
compito
di
un
aggiornamento
dei
propri
strumenti
teorici
e
della
concezione
del
socialismo.
Anche
in
questo
campo,
tuttavia,
non
si
parte
da
zero.
Rispetto
al
primo
compito,
il
recupero
della
riflessione
originaria
del
marxismo
sul
nesso
capitalismo-natura
è
un
passaggio
indispensabile
per
lo
sviluppo
di
strumenti
adeguati
per
affrontare
i
temi
ambientali
del
presente
e
per
un
confronto
proficuo
con
i
contributi
critici
del
pensiero
ecologico.
Per
un
altro
verso,
è
importante
riscoprire
e
rileggere
l'eccezionale
esperienza
dei
primi
anni
del
potere
sovietico
quando,
anche
per
merito
della
lungimiranza
di
Lenin,
si
sviluppò
in
URSS
una
vera
e
propria
"primavera
dell'ecologia"
che
pose
questioni
essenziali,
quali
il
varo
di
una
legislazione
ambientale,
lo
sviluppo
di
un
movimento
popolare
indipendente
per
la
protezione
della
natura
e
l'introduzione
della
sostenibilità
ambientale
fra
i
vincoli
della
pianificazione
economica.
Questa
esperienza
straordinaria
e
precorritrice
fu
prima
interrotta
e
poi
rimossa
dalla
repressione
staliniana
all'inizio
degli
anni
trenta
ma
essa
resta
la
prova
vivente
che,
non
l'ispirazione
marxista
o
il
fine
del
socialismo,
ma
semmai
la
loro
negazione
staliniana
sono
responsabili
del
fallimento
del
cosiddetto
"socialismo
reale"
in
campo
ambientale
e
della
rimozione
per
molti
anni
del
tema
dell'ambiente
dal
campo
di
riflessione
del
movimento
comunista.
Tesi
12
-
PROGRAMMA
TRANSITORIO
La
stessa
ricomposizione
del
blocco
sociale
alternativo
richiede
l'elaborazione
di
un
sistema
di
rivendicazioni
e
di
un
metodo
che
sappiano
connettere
gli
obiettivi
immediati
dell'azione
alla
prospettiva
unificante
dell'alternativa
anticapitalistica.
Superando
quelle
concezioni
neoriformistiche
che,
in
forme
diverse,
ripropongono
la
vecchia
separazione
tra
"programma
minimo"
(obiettivi
immediati)
e
"programma
massimo"
(socialismo),
cara
alla
II
Internazionale
di
fine
Ottocento
inizio
Novecento
e
contro
la
quale
nacque
il
movimento
comunista.
La svolta d'epoca attuale rende del tutto improponibile la vecchia separazione tra programma minimo e programma massimo del movimento operaio. Entro la crisi capitalistica ogni obiettivo immediato, ogni reale movimento di massa tende a cozzare con le ristrette compatibilità del capitale. Mentre la coscienza politica delle masse e dei loro stessi movimenti di lotta, tanto più dopo le sconfitte subite, è profondamente al di sotto delle implicazioni oggettive delle loro esigenze.
Questa contraddizione di fondo riattualizza la concezione comunista del programma di transizione: di un programma che sia capace di individuare un ponte tra coscienza attuale delle masse e necessità della rottura anticapitalistica.
Il programma transitorio non può ridursi ad uno schema scolastico e rigido. Ed anzi per sua stessa natura esso richiede un'articolazione duttile, capace di rapporto con la concreta dinamica della lotta di classe. Ma l'essenziale è il suo metodo: è la riconduzione agli scopi rivoluzionari di tutta la politica quotidiana, in ogni ambito di insediamento sociale, territoriale, sindacale, fuori da ogni logica settorialista, localista o sindacalista. Proprio per questo non si può richiedere a un programma di transizione il rispetto delle compatibilità: al contrario esso si fonda sul presupposto che le esigenze generali delle masse sono, in questa epoca di crisi, incompatibili con la struttura capitalistica della società.
Oggi l'aggravarsi della crisi capitalistica mondiale, il riemergere su scala internazionale di una diffusa spinta di classe, l'affacciarsi del movimento antiglobalizzazione, definiscono un nuovo quadro di riferimento per l'articolazione di un programma transitorio: non come astratta accademia ma in risposta ai nuovi livelli di scontro sociale e alle nuove domande che milioni di giovani si pongono.
Sul
versante
centrale
della
lotta
di
classe
l'aggravarsi
della
crisi
capitalistica
pone
l'esigenza
obiettiva
di
un
più
elevato
livello
di
risposta:
sia
in
relazione
all'unificazione
internazionale
delle
lotte,
sia
in
rapporto
al
programma
d'azione
del
movimento
operaio
internazionale.
Le
rivendicazioni
tradizionali,
cosiddette
difensive,
attorno
ai
temi
della
salvaguardia
dei
salari,
del
posto
di
lavoro,
delle
protezioni
sociali,
conservano
naturalmente,
tanto
più
oggi,
tutta
la
loro
immediata
centralità.
Ma
domandano
un
riferimento
unificante
e
di
prospettiva,
che
metta
apertamente
in
discussione
le
basi
capitalistiche
della
regressione
sociale
e
indichi
un'alternativa
complessiva.
Per
esemplificare:
a) L'attacco internazionale all'occupazione ripropone in tutta la sua valenza storica l'obiettivo della riduzione generale dell'orario di lavoro per l'intera classe lavoratrice mondiale, fuori da ogni logica di negoziazione con la flessibilità e interamente pagata dai profitti. Non si tratta di ridurre la tematica dell'orario a semplice rivendicazione sindacale o, peggio, di affidarla a governi borghesi presunti "riformatori", ma invece di assumerla come obiettivo generale anticapitalistico. "Il lavoro che c'è va distribuito fra tutti sino al completo assorbimento dei disoccupati": questa rivendicazione di scala mobile delle ore di lavoro prefigura in definitiva un'organizzazione socialista dell'economia basata su un principio di razionalità elementare che l'irrazionalità del capitalismo ignora. Per questo essa va posta con forza nella giovane generazione operaia internazionale: come esemplificazione "popolare" di un'alternativa di sistema.
b) La precarizzazione mondiale del lavoro, come asse strategico dell'attacco capitalistico, richiede una risposta generale di carattere internazionale. Una pura attestazione difensiva categoria per categoria, Paese per Paese; logiche di negoziazione e scambio tra "lavoro minimo" e sussidio (work to welfare); rappresentano forme diverse di accettazione del terreno posto dall'avversario. I comunisti debbono invece avanzare, in ogni Paese, un complesso di rivendicazioni unificanti: l'abolizione di tutte le leggi di precarizzazione e discriminazione del lavoro, a partire dal principio universale "a parità di lavoro parità di salario"; un salario minimo garantito intercategoriale per tutti i lavoratori e le lavoratrici, al di là di ogni barriera nazionale, settoriale, aziendale; un salario garantito ai disoccupati e ai giovani in cerca di prima occupazione, fuori da ogni scambio col lavoro "minimo" (cioè precario). L'insieme di queste rivendicazioni non solo indica un possibile terreno di ricomposizione strategica tra lavoratori e disoccupati, ma perciò stesso cozza frontalmente con le politiche strutturali del capitale internazionale in crisi, assumendo tanto più oggi un'obiettiva valenza anticapitalistica.
c) La chiusura di aziende e le relative espulsioni di mano d'opera, portato naturale della crisi capitalistica e dei processi di ristrutturazione indotti dalla competizione globale pone un problema centrale di orientamento del movimento operaio. La moltiplicazioni di azioni di resistenza, in ordine sparso, o, peggio, la logica delle burocrazie sindacali di svendita negoziata e "ammortizzata" dei posti di lavoro, azienda per azienda, settore per settore, hanno accompagnato in questi anni nei vari Paesi il processo di arretramento del movimento operaio, delle sue conquiste sindacali, della sua stessa forza sociale. E' decisiva l'unificazione internazionale delle lotte di resistenza attorno a un possibile obiettivo unitario da perseguire in ogni Paese: la nazionalizzazione, senza indennizzo, e sotto il controllo dei lavoratori e delle lavoratrici delle industrie che licenziano. In Francia, attorno al caso Danone, settori rilevanti di giovane generazione operaia hanno impugnato in manifestazioni di massa questa rivendicazione elementare: "licenziare i licenziatori". I comunisti possono e debbono assumerla e rilanciarla come indicazione esemplare: che lega la domanda concreta e drammatica della difesa del lavoro alla messa in discussione della proprietà capitalista.
Più
in
generale,
questo
metodo
transitorio
può
e
deve
rispondere
da
un
versante
di
classe
all'insieme
delle
domande
emergenti
dai
nuovi
movimenti
e
dalla
giovane
generazione,
riconducendole
sempre
alla
questione
decisiva
della
proprietà
e
del
potere.
Ad
esempio:
1)
La
domanda
di
protezione
sanitaria,
di
sicurezza
alimentare,
di
risanamento
e
qualità
ambientale
è
espressa
dall'insieme
del
movimento
antiglobalizzazione
internazionale
e
incontra
un
sostegno
vastissimo
nell'opinione
pubblica
dei
lavoratori
e
dei
consumatori.
Eppure
la
risposta
programmatica
che
le
leadership
egemoni
del
movimento
danno
ai
problemi
che
esse
stesse
denunciano
resta
interna
ad
una
logica
riformista:
campagne
di
educazione
pubblica
della
proprietà
a
"comportamenti
umanitari",
campagne
anti-marchio,
di
boicottaggio,
di
"consumo
critico".
L'elemento
comune
di
tali
proposte
che
pure
racchiudono
una
critica
positiva
del
profitto,
è
la
rimozione
strategica
del
nodo
della
proprietà
e
della
lotta
di
classe.
E
questo
le
condanna
ad
un
vicolo
cieco
strategico
che
contrasta
con
la
loro
apparente
concretezza
o
visibilità
mediatica.
La
stessa
Naomi
Klein
riconosce
esplicitamente
questa
impasse
con
grande
onestà
intellettuale
(v.
"No
Logo").
I
comunisti
devono
allora
elevare
nel
movimento
l'ordine
di
riflessione
e
di
indirizzo
ricollocando
le
tematiche
poste
sul
terreno
degli
obiettivi
anticapitalisti.
Ad
esempio:
a)
L'apertura
dei
libri
contabili
delle
industrie
farmaceutiche
e
delle
industrie
alimentari,
perché
siano
aboliti
quei
segreti
commerciali,
industriali,
finanziari
che
nascondono
alla
società
le
speculazioni
del
profitto.
b)
La
rivendicazione
della
nazionalizzazione
senza
indennizzo
e
sotto
controllo
sociale
delle
industrie
farmaceutiche,
agroalimentari
e
inquinanti
a
partire
dai
grandi
colossi
monopolistici
dei
rispettivi
settori:
perché
salute
e
alimentazione,
beni
elementari
della
vita,
siano
recuperati
al
controllo
pubblico.
c)
L'abolizione
dei
brevetti:
perché
i
brevetti
sono
un
sequestro
per
il
profitto
di
pochi
di
scoperte
utili
o
decisive
per
la
vita
di
tutti;
la
loro
abolizione
è
condizione
decisiva
per
un
controllo
e
uso
sociale
della
scienza.
2)
La
domanda
di
pace
e
antimilitarista
sarà
alimentata
sempre
più
dalla
prevedibile
piega
degli
avvenimenti
mondiali.
Anche
su
questo
terreno
l'impostazione
pacifista
delle
leadership
egemoni
del
movimento,
oltre
a
rimuovere
la
dimensione
antimperialista
e
ad
avallare
la
funzione
dell'ONU
rimuove
ogni
terreno
programmatico
di
fondo
che
leghi
l'istanza
di
pace
alla
lotta
per
l'abbattimento
degli
interessi
capitalistici
che
sospingono
la
guerra.
I
comunisti
devono
muovere
invece
da
un'angolazione
opposta.
Oggi
lo
sviluppo
dell'industria
bellica
e
il
suo
crescente
livello
di
concentrazione
capitalistica
(in
USA,
in
Europa,
in
Giappone)
è
sospinto
sia
dal
rilancio
imperialistico,
sia
dalla
ripresa
del
keynesismo
militare
in
funzione
anti-crisi.
Nella
più
ampia
mobilitazione
unitaria
contro
la
guerra,
si
tratta
allora
di
porre
apertamente
la
questione
dell'industria
militare
e
degli
interessi
di
guerra
avanzando
rivendicazioni
conseguenti:
a)
L'apertura
dei
libri
contabili
delle
industrie
di
guerra
e
delle
attività
connesse
alle
speculazioni
di
guerra:
perché
l'intera
società
ha
diritto
di
vedere
e
di
leggere
i
cinici
arricchimenti
di
tanti
capitalisti
"patrioti"
grazie
ai
bombardamenti
umanitari
sulle
popolazioni
povere
del
pianeta.
b)
La
nazionalizzazione
senza
indennizzo
e
sotto
il
controllo
dei
lavoratori
dell'industria
militare:
perché
è
condizione
elementare
di
igiene
sociale
oltre
che
di
una
possibile
riconversione
a
produzioni
civili
con
piena
garanzia
per
l'occupazione
dei
lavoratori.
3)
La
lotta
contro
la
povertà
dei
cosiddetti
Paesi
del
Terzo
mondo
è
uno
degli
elementi
di
massima
attenzione
e
aggregazione
nel
movimento
antiglobalizzazione
su
scala
mondiale.
Ma
un
significativo
settore
dell'intellettualità
dirigente
del
movimento
propone
una
visione
riduttiva
del
problema
e
soprattutto
suggerisce
terapie
devianti.
O
soluzioni
regressive
di
tipo
precapitalistico,
che
indipendentemente
dal
loro
dubbio
realismo
finirebbero
addirittura
col
peggiorare
le
condizioni
di
vaste
masse
(v.
le
soluzioni
neo-protezionistiche
di
Latouche);
o
soluzioni
velleitarie
per
di
più
integrabili
e
in
parte
integrate
in
modo
subalterno
nell'economia
capitalistica
(v.
il
commercio
equo
e
la
finanza
equa);
oppure
ancora
politiche
di
compromesso
negoziale
con
l'imperialismo
(come
il
sostegno
alla
negoziazione
del
debito
da
parte
di
Giubileo
2000).
I
comunisti,
nel
mentre
costruiscono
una
sintonia
profonda
con
la
sensibilità
di
milioni
di
giovani
impegnati
nella
lotta
alla
povertà,
possono
e
debbono
contrastare
queste
false
soluzioni,
avanzando,
entro
una
prospettiva
generale
di
riorganizzazione
socialista
dell'economia
del
mondo,
precise
rivendicazioni
transitorie:
a)
l'abolizione
reale
e
totale
del
debito
pubblico
dei
Paesi
dipendenti:
perché
se
il
debito
è
un
cappio
al
collo
di
quei
Paesi
la
sua
negoziazione
si
rivela
un
secondo
cappio,
attraverso
lo
scambio
tra
riduzione
del
debito
e
certezza
del
pagamento,
tra
riduzione
del
debito
e
cessione
di
pacchetti
azionari
strategici
(come
la
stessa
Susan
George
ha
dovuto
riconoscere).
b)
L'esproprio
sotto
il
controllo
dei
lavoratori
e
dei
consumatori
dei
200
colossi
multinazionali
che
sono
al
vertice
dell'economia
mondiale:
perché
sono
gli
agenti
diretti
e
i
massimi
beneficiari
delle
politiche
di
rapina
e
di
saccheggio
internazionale.
Non
vi
sarà
alcun
riscatto
dalla
povertà,
nessun
nuovo
modello
di
economia
sostenibile
nel
mondo,
senza
rimuovere
l'enorme
potere
di
quei
colossi.
Paese
per
Paese
va
sviluppata
una
vasta
campagna
per
l'apertura
dei
loro
libri
contabili,
la
trasparenza
dei
loro
conti
bancari,
la
nazionalizzazione
dei
loro
beni.
Tesi
13
-
LIBERAZIONE
DELLA
DONNA
La
Rifondazione
può
e
deve
recuperare
la
tematica
decisiva
della
liberazione
della
donna,
entro
la
prospettiva
del
comunismo.
Contro
ogni
sua
riduzione
economicistica
così
come,
all'opposto,
contro
ogni
sua
deriva
idealistica.
Contro ogni sua riduzione economicistica, la rifondazione deve riconoscere apertamente la specificità dell'oppressione femminile, che per le donne proletarie si somma allo sfruttamento di classe. Un'oppressione che, attraverso la schiavitù domestica, è organicamente funzionale alla riproduzione capitalistica.
Al tempo stesso la rifondazione è chiamata a criticare e respingere le teorie idealistiche oggi presenti in una parte rilevante del pensiero femminista che concepiscono l'oppressione femminile come fatto dovuto all'imposizione da parte dell'uomo sulla donna del proprio codice simbolico. Questa tesi, che rimuove l'origine storica (comunque complessa) dell'oppressione femminile per attribuirla ad una radice in ultima analisi biologica, spesso riduce la liberazione della donna ad una rivoluzione simbolica e culturale (la riappropriazione del proprio linguaggio rimosso) separandola di fatto da un contenuto sociale, e prescindendo in tal modo da un terreno concreto di lotta.
Al contrario, il rilancio di una prospettiva di liberazione della donna è inseparabile da una lettura di classe del mondo contemporaneo. La crisi congiunta di capitalismo e riformismo si scarica con raddoppiata violenza sulla condizione delle donne. Nei paesi imperialisti disoccupazione di massa, precariato, flessibilità, privatizzazione dei servizi, riguardano spesso prima di tutto la popolazione femminile. Nei Paesi dell'Europa orientale, sottoposti all'introduzione brutale delle leggi del mercato, si registra un drastico abbassamento del livello di vita delle donne. Nei Paesi del cosiddetto Terzo e Quarto mondo, guerre e miseria provocate e fomentate dalle politiche neocolonialiste dell'occidente, aggravate dal fondamentalismo religioso dei Paesi a regime teocratico (Iran e Afghanistan…) rendono la condizione della donna letteralmente disumana. Le donne immigrate in particolare rappresentano internazionalmente l'anello più debole della catena dell'oppressione femminile. Ovunque l'arretramento del movimento operaio trascina con sé conquiste sociali e democratiche delle donne, strappate nella precedente fase di ascesa. E la distruzione di tali conquiste ha esteso e acuito l'oppressione femminile nella sua stessa specificità.
Non a caso oggi, mentre procede lo smantellamento dei sistemi pubblici di wellfare, conosce un forte rilancio l'ideologia familistica che esalta la "naturale" vocazione femminile per il lavoro di cura, allo scopo di scaricare di nuovo sulle donne il peso delle persone inferme, anziane, disabili, ecc. di cui si vuole sgravare il bilancio pubblico e in ultima analisi l'impresa.
Proprio per queste molteplici ragioni la svolta d'epoca di fine secolo rilancia lo stretto vincolo tra liberazione delle donne e alternativa anticapitalistica.
La ripresa di un forte movimento di liberazione della donna su scala internazionale, che intrecci rivendicazioni democratiche e di genere e lotta all'oppressione sociale, è una componente decisiva del rilancio di una prospettiva socialista. Al tempo stesso solo una prospettiva socialista, che spezzi il dominio del capitale nel mondo, può creare le condizioni necessarie, non sufficienti, per un'effettiva liberazione delle donne dalla loro specifica oppressione. Per questo liberazione della donna e lotta di classe sono inscindibili nell'ottica della prospettiva rivoluzionaria.
Duplice è allora il compito della Rifondazione: sviluppare nel movimento operaio la coscienza dell'essenzialità della liberazione della donna contrastando ogni forma di pregiudizio; sviluppare nel movimento delle donne la consapevolezza della centralità della lotta di classe e del movimento operaio come riferimento strategico per la propria liberazione: promuovendo in questa prospettiva il massimo impegno nella lotta quotidiana delle donne per la difesa e l'ampliamento dei propri diritti sociali e di genere.
Tesi
14
-
INTERNAZIONALE
COMUNISTA
La
rifondazione
comunista
si
presenta
più
che
mai
come
necessità
internazionale:
come
rifondazione
di
un'internazionale
comunista
basata
sul
programma
del
marxismo
rivoluzionario,
capace
di
raggruppare
su
questo
programma
tutte
le
organizzazioni
e
correnti
rivoluzionarie
del
movimento
operaio
e
antimperialista
del
mondo.
L'approfondirsi della crisi sociale e politica mondiale e l'attualità storica della prospettiva socialista quale unica risposta reale e progressiva; lo scarto ampio tra le potenzialità anticapitaliste inscritte nella ripresa dei movimenti e i limiti della loro coscienza politica, ripropongono oggi più che mai come questione centrale la prospettiva della rifondazione di un'internazionale comunista rivoluzionaria: quale strumento indispensabile di direzione alternativa, di sviluppo della coscienza politica di massa, di ricomposizione anticapitalistica dell'avanguardia.
Il movimento marxista si è sempre concepito come movimento internazionale non solo sul piano della prospettiva strategica ma anche sul piano organizzativo. Proprio il carattere internazionale del programma comunista fondava necessariamente il carattere internazionale del partito dei comunisti. Già il Manifesto di Marx ed Engels del 1848 fu redatto quale piattaforma internazionale di un'associazione internazionale di lavoratori (Lega dei Comunisti). Così il carattere internazionale del partito fu riaffermato con la I Internazionale (1864-1876) e con la II Internazionale (nata nel 1889). La deriva riformista di quest'ultima, culminata nell'appoggio ai crediti di guerra da parte della sua maggioranza (1914), fu contrastata dalla sinistra rivoluzionaria dell'Internazionale (guidata da Lenin, Trotsky, Luxemburg, Liebnecht) che già nel 1915 lanciò la prospettiva di una nuova internazionale rivoluzionaria: quella Terza Internazionale comunista che sarà formalmente costituita dopo la vittoria della rivoluzione russa (salutata da Lenin come "iniziò della rivoluzione mondiale").
Lo stalinismo ruppe radicalmente con la tradizione internazionale del marxismo rivoluzionario: con la sua tradizione programmatica e, quindi, con la sua tradizione organizzativa. A partire dall'inedita teoria antimarxista del "socialismo in un solo Paese" -espressione ideologica degli interessi di un nuovo strato sociale burocratico- lo stalinismo condusse l'Internazionale prima alla collaborazione di classe e di governo con le "borghesie progressiste" (i "fronti popolari"), poi al suo scioglimento formale nel 1943. La rappresentazione dello stalinismo come una sorta di fondamentalismo dogmatico marxista -rappresentazione prevalente nella maggioranza uscente del PRC- si rivela dunque, anche da questo versante, l'esatto capovolgimento della verità storica.
Oggi non c'è rottura vera e profonda con lo stalinismo senza recuperare la prospettiva dell'internazionale comunista come partito mondiale della classe lavoratrice. Il rifiuto di assumere questa prospettiva, persino come terreno di discussione, ha rappresentato e rappresenta un errore profondo della maggioranza dirigente del PRC. Sia che il rifiuto muova da culture di tipo "campista", che assumono come asse di prospettiva internazionale l'alleanza inter-statuale "antimperialista" tra Russia, Cina e India, prospettiva del tutto priva di una base di classe e radicalmente smentita dalla presente guerra. Sia che il rifiuto muova -come prevalentemente avviene- dalla sovrapposizione di vecchie posizioni della socialdemocrazia di sinistra (i "governi riformatori") con vecchie suggestioni della "nuova sinistra" antileninista, così da combinare l'enfasi movimentista con il sostegno al governo Jospin.
In realtà solo una svolta strategica e programmatica del PRC può recuperare la prospettiva dell'internazionale: una prospettiva che è parte ineliminabile della rifondazione. L'internazionale per cui lavorare non può che essere un raggruppamento ampio e democratico ma su chiare basi politiche. Come affermava Lenin: "senza teoria rivoluzionaria non c'è movimento rivoluzionario". Un'internazionale comunista non potrà quindi che basarsi sulla teoria e sulle posizioni programmatiche del marxismo rivoluzionario, posizioni sostenute in particolare nel loro sviluppo storico, dai grandi teorici del marxismo: Marx, Engels, Lenin, Trotsky, Luxemburg e, in Italia, Gramsci. Posizioni teoriche e programmatiche che vanno ovviamente sempre aggiornate sulla base dell'evoluzione storica, ma come dichiarava Gramsci "sulle loro proprie basi" e non contro di esse.
La
difficoltà
della
rifondazione
di
un'internazionale
rivoluzionaria
su
base
ampia
è
stata
documentata
dall'esperienza
storica
di
decenni.
Ma
questa
difficoltà
non
deve
costituire
una
remora
bensì
uno
stimolo
a
perseguire
tale
prospettiva,
tanto
più
nel
contesto
storico
nuovo
che
si
dischiude,
certo
complesso
ma
anche
ricco
di
nuove
potenzialità.
Dopo
il
crollo
dell'URSS
vasti
processi
di
ricomposizione
investono
le
rappresentanze
politiche
del
movimento
operaio.
Le
vecchie
direzioni
del
movimento
operaio
e
antimperialista
hanno
fatto
completa
bancarotta,
documentata
una
volta
di
più
dal
dramma
della
guerra.
La
crescente
ribellione
delle
classi
subalterne
e
dei
giovani
del
mondo
contro
l'attuale
ordine
internazionale
pone
tanto
più
oggi
l'esigenza
di
un
punto
di
riferimento
rivoluzionario.
Al
"capitale
globale"
può
e
deve
contrapporsi
il
partito
globale
della
classe
operaia
e
della
sua
avanguardia.
Il
PRC
deve
dunque
avanzare
al
più
presto
una
proposta
di
discussione
organizzata
finalizzata
al
raggruppamento
internazionale,
sulle
basi
indicate,
dell'insieme
delle
organizzazioni
e
correnti
rivoluzionarie
del
movimento
operaio
ed
antimperialista
del
mondo.
Tesi
15
-
IMPERIALISMO
ITALIANO
Il
capitalismo
italiano
ha
carattere
imperialistico.
Negli
anni
Novanta
la
transizione
alla
Seconda
Repubblica
e
l'integrazione
nell'imperialismo
europeo
hanno
trainato
l'allargamento
delle
sue
basi
materiali
e
una
sua
più
forte
proiezione
internazionale.
Il capitalismo italiano da molto tempo non solo non rappresenta più un "capitalismo straccione" ma partecipa al consesso dei Paesi dominanti su scala mondiale e quindi alla spartizione di materie prime, zone di influenza, aree di dominio. In questo quadro le pressioni della crisi capitalistica internazionale, il crollo dell'URSS, lo sviluppo del polo imperialistico europeo hanno esercitato un effetto decisivo sulla crisi della I Repubblica a partire dal '92. Da un lato, la crisi capitalistica internazionale e il rilancio delle contraddizioni interimperialistiche hanno indotto l'imperialismo italiano ad affrontare il fardello strutturale dei propri "ritardi" e "distorsioni". Dall'altro lato, il crollo dell'URSS ha dissolto, parallelamente, il vero fondamento storico della discriminazione borghese verso il vecchio gruppo dirigente del PCI in ordine al suo possibile accesso al governo: perciò stesso ha consentito al capitale finanziario un distacco dalle proprie vecchie rappresentanze della I Repubblica, e l'avvio di una profonda ricomposizione dei propri assetti politici e istituzionali.
Sul piano economico la grande borghesia ha consolidato, in misura rilevante, nel decennio trascorso, le proprie basi materiali. Il processo di privatizzazione di settori strategici dell'economia come il credito, l'energia e le telecomunicazioni, la ristrutturazione e concentrazione del sistema del credito, concorrono a rafforzare la base del capitale finanziario e il peso specifico dei grandi monopoli, principali beneficiari delle privatizzazioni. Al momento del varo della "moneta unica" europea l'imperialismo italiano si presenta con un peso strutturale sensibilmente accresciuto, cui corrisponde, non a caso, un'accresciuta proiezione nella politica estera.
Parallelamente, la borghesia italiana ha dovuto affrontare il problema dell'impatto sociale delle politiche indotte dal suo ulteriore salto imperialistico. L'impoverimento materiale e la frammentazione di vasti settori di classe; le dinamiche di proletarizzazione di strati inferiori della piccola borghesia; il precipitare delle condizioni sociali di vaste masse del Mezzogiorno; configurano, agli occhi della borghesia, la massa critica potenziale di una pericolosa esplosione sociale. Peraltro la divaricazione che investe la piccola e media borghesia nel quadro dell'integrazione europea, con l'emergere soprattutto al Nord-Est di un suo strato superiore arricchito, autonomistico e corporativo, produce elementi di contraddizione nuova nello stesso blocco sociale dominante.
Tesi
16
-
ANNI
NOVANTA
E
CENTROSINISTRA
Il
centrosinistra
non
ha
rappresentato
semplicemente
una
cattiva
politica
della
"sinistra
italiana"
ma
ha
costituito
un'espressione
politica
dell'imperialismo
italiano
e
il
suo
investimento
strategico
degli
anni
Novanta.
L'insieme
dei
governi
di
centrosinistra
ha
configurato
il
più
pesante
attacco
sociale
alle
classi
subalterne
degli
ultimi
trent'anni,
organizzando
così
la
rivincita
di
Berlusconi.
La
coalizione
col
centro
borghese
ha
così
condannato
il
movimento
operaio
a
una
pesante
sconfitta
sociale
e
politica.
Negli anni Novanta entro la scelta bipolare, il centrosinistra si è configurato come riferimento privilegiato delle grandi famiglie capitalistiche: ciò in funzione della pacifica subordinazione del movimento operaio alle compatibilità della crisi e dell'integrazione europea. Il personale politico di centrosinistra seppur diversamente organizzato era già riferimento essenziale della borghesia italiana nel '92 e nel '93 allorché i governi Amato e Ciampi iniziarono la "transizione" italiana. La sconfitta del polo dei progressisti e la vittoria delle destre nel 94 rappresentò un momento di contraddizione che indusse la borghesia per un breve periodo a verificare sul campo la carta Berlusconi. Ma anche in quel breve passaggio il rapporto del capitale finanziario con le destre fu di utilizzo strumentale, non di riferimento strategico. E proprio la sconfitta strategica del primo governo Berlusconi - rivelatosi incapace di gestire sia una concertazione stabile, sia uno scontro risolutivo vincente - ha riattivato l'investimento borghese nel centrosinistra: nel governo Prodi, nel governo D'Alema, nel governo Amato.
Il
centrosinistra
non
ha
dunque
rappresentato
semplicemente
una
cattiva
politica
del
movimento
operaio
e
della
"sinistra
italiana",
ma
un'espressione
politica
della
grande
borghesia.
A
sua
volta
l'apparato
DS,
come
architrave
del
centrosinistra,
ha
costituito
un
tassello
decisivo
del
disegno
borghese
degli
anni
Novanta:
quale
mezzo
di
arruolamento
subalterno
nel
centrosinistra
di
una
parte
importante
delle
masse
lavoratrici.
E'
sbagliato
affermare
semplicemente
che
"il
centrosinistra
ha
fallito".
Dal
punto
di
vista
della
borghesia
i
governi
di
centrosinistra
hanno
tutti
rappresentato
eccellenti
comitati
d'affari.
Sia
in
ordine
alle
politiche
di
sostegno
economico
diretto
alle
grandi
imprese
(incentivazioni,
rottamazioni…).
Sia
in
ordine
ai
loro
interessi
strutturali
e
strategici
in
campo
nazionale
e
internazionale
(precarizzazione
del
lavoro,
privatizzazioni…).
Sia
in
ordine,
in
particolare,
alla
preservazione
di
una
straordinaria
pace
sociale.
E'
vero
invece
che
proprio
l'organicità
delle
politiche
borghesi
del
centrosinistra
ha
minato
progressivamente
le
sue
basi
politiche
e
sociali.
Sul
piano
politico,
proprio
l'evoluzione
liberale
della
socialdemocrazia
DS
e
la
crescente
ramificazione
delle
sue
relazioni
dirette
coi
poteri
forti,
ha
acuito
progressivamente
la
concorrenza
interna
tra
apparato
DS
e
centro
borghese
tradizionale
dell'Ulivo:
la
lotta
per
l'egemonia
di
un
costituendo
"partito
democratico"
quale
rappresentanza
centrale
con
base
di
massa
della
borghesia
italiana
ha
rappresentato
un
elemento
di
instabilità
tellurica
della
coalizione.
Ma
soprattutto
sul
piano
sociale
le
politiche
del
centrosinistra
hanno
logorato
progressivamente
la
base
su
cui
si
reggeva.
Il
blocco
tra
grande
borghesia
e
burocrazia
del
movimento
operaio
organizzato
si
è
rivelato
incapace
di
egemonia
nella
società
italiana.
Da
un
lato
ha
amplificato
gli
spazi
di
fronda
di
settori
organizzati
di
piccola
e
media
borghesia
industriale
contro
i
cosiddetti
privilegi
delle
grandi
imprese
e
i
favori
particolari
loro
accordati
dai
governi
dell'Ulivo
o
dalla
burocrazia
CGIL.
Dall'altro
lato
la
profonda
demotivazione
della
base
di
massa
del
centrosinistra,
prevalentemente
concentrata
nel
lavoro
dipendente
ha
prodotto
fenomeni
crescenti
di
passivizzazione
politica,
distacco,
rifiuto.
La
vittoria
del
Polo
delle
Libertà
il
13
maggio
è
dunque
la
capitalizzazione
della
crisi
del
corso
politico
dominante
di
un
decennio
(del
Polo
progressista
e
del
centrosinistra)
e
del
suo
blocco
sociale.
Proprio
per
questo
la
vittoria
di
Berlusconi
e
la
nuova
stagione
politica
che
apre,
ripropone
una
lezione
antica,
inscritta
in
tutta
la
vicenda
del
Novecento
e
nella
stessa
storia
del
movimento
operaio
italiano:
ogni
collaborazione
di
classe
col
centro
borghese
è
fattore
di
sconfitta
per
i
lavoratori
e
le
lavoratrici.
Sia
dal
punto
di
vista
sociale
e
sindacale,
sia
dal
punto
di
vista
politico
più
generale.
E'
un
fatto:
l'alleanza
col
centro
che
doveva
"battere
la
destra"
le
ha
spianato
la
strada.
Questa
è
la
lezione
del
decennio.
E'
una
lezione
che
accusa
gli
apparati
dirigenti
dei
DS
e
dei
sindacati
come
autentici
organizzatori
della
sconfitta.
Ma
è
una
lezione
che
interroga
inevitabilmente,
su
un
piano
diverso,
anche
il
corso
politico
di
dieci
anni
del
nostro
partito.
Tesi
17
-
BILANCIO
DI
LINEA
DEL
PRC
Il
ciclo
lungo
della
politica
del
PRC,
segnato
dalla
ricerca
del
condizionamento,
pervasione,
contaminazione
prima
del
"polo
progressista"
poi
del
Centrosinistra,
ha
registrato
un
sostanziale
insuccesso;
sia
dal
punto
di
vista
dell'interesse
generale
del
movimento
operaio,
sia
dal
punto
di
vista
della
costruzione
del
nostro
partito.
E'
la
verifica
del
fallimento
nel
quadro
nazionale,
di
una
politica
riformista,
e
la
misura
della
necessità
di
una
svolta.
Dopo
dieci
anni
della
nostra
storia
un
bilancio
di
fondo
non
è
più
rinviabile.
Il
nostro
partito,
con
la
sua
stessa
nascita
ha
costituito
sicuramente
un
importante
argine
ai
processi
di
riflusso
dei
primi
anni
90
e
un
fattore
prezioso
di
ricomposizione
politica
di
forze
d'avanguardia.
Il
nostro
partito
ha
resistito
positivamente
ai
ripetuti
tentativi
di
annientamento
istituzionale
che
si
sono
susseguiti
negli
anni
90
(specie
da
parte
dei
vertici
di
D.S.
e
del
Centrosinistra).
Tuttora
il
PRC
rappresenta,
nell'attuale
panorama
politico,
il
riferimento
naturale
e
prezioso
di
dinamiche
di
movimento,
tra
i
lavoratori
e
i
giovani,
altrimenti
prive
di
sponde,
o
comunque
di
riferimenti
più
consistenti
e
credibili.
Ma
un
bilancio
serio
ed
onesto
non
può
davvero
ridursi
a
questo.
Un
partito
comunista
non
può
concepirsi
come
fine
di
se
stesso
ma
come
strumento
di
classe
in
funzione
di
un
progetto
di
egemonia
alternativa.
E
ciò
chiama
in
causa
inevitabilmente
il
bilancio
di
dieci
anni
dell'indirizzo
politico
prescelto.
Per
dieci
anni,
in
forme
e
in
contesti
diversi,
la
maggioranza
dirigente
del
PRC
ha
costantemente
respinto
la
proposta
di
costruzione
del
partito
come
forza
strategicamente
alternativa,
contrapponendovi
la
scelta
di
fondo
di
una
politica
di
pressione
e
condizionamento
"riformatore"
dell'apparato
D.S.
e
degli
schieramenti
politici
dell'alternanza
borghese
(prima
il
polo
progressista,
poi
il
centrosinistra).
Questa
politica
non
ha
avuto
un'applicazione
lineare
ed
anzi
ha
registrato
lungo
il
suo
corso
svolte
brusche
e
cambi
repentini
di
collocazione
parlamentare
(dall'opposizione
alla
maggioranza
di
governo
e
dalla
maggioranza
di
governo
all'opposizione).
Ma
ha
mantenuto
costante
la
propria
rotta
strategica
di
fondo.
Infatti
ogni
volta
le
stesse
collocazioni
di
opposizione
sono
state
finalizzate
a
riaprire
il
varco
a
ricomposizioni
di
governo
(potenziali
o
reali)
con
lo
schieramento
dell'alternanza.
Così
è
stato
in
occasione
della
formazione
del
polo
progressista
nella
primavera
del
'94
attorno
ad
un
programma
elettorale
comune
di
governo.
Così
è
stato
nel
'95-'96
nel
brusco
passaggio
dall'opposizione
radicale
al
governo
Dini
alla
realizzazione
di
una
maggioranza
di
governo
con
Prodi
e
Dini.
Così
è
stato,
dopo
lo
strappo
col
governo
Prodi:
col
tentativo
prima
di
ricomporre
la
vecchia
maggioranza
di
governo
dopo
una
auspicata
fase
di
"decantazione";
poi
dopo
il
fallimento
imprevisto
di
quel
tentativo
(e
la
precipitazione
dello
scontro
con
il
governo
D'Alema
sulla
guerra
nei
Balcani)
con
la
realizzazione
di
14
accordi
regionali
di
governo
(su
15)
in
occasione
delle
elezioni
amministrative
del
99,
operazione
di
evidente
proiezione
politica
nazionale
ma
distrutta
dalla
sconfitta
clamorosa
del
Centrosinistra.
Persino
dopo
il
tramonto
ormai
inevitabile
di
quella
prospettiva
di
ricomposizione,
la
scelta
della
non
belligeranza
verso
il
centrosinistra
nelle
elezioni
politiche,
e
l'estensione
delle
collaborazioni
locali
di
governo
con
l'Ulivo
sancivano
in
forme
diverse
la
continuità
di
fondo
di
un
indirizzo
strategico.
Questo
indirizzo
si
è
rivelato
profondamente
errato.
Rivendicato
in
nome
di
un
principio
di
"realismo"
e
di
"concretezza"
dei
possibili
risultati,
esso
non
ha
prodotto
alcun
risultato
concreto
e
reale.
La
ricerca
della
contaminazione
riformatrice
prima
del
polo
progressista,
poi
del
Centrosinistra,
sia
dal
governo
che
dall'opposizione,
è
stata
smentita
dalla
deriva
liberale
D.S.,
dai
legami
di
fondo
del
Centrosinistra
con
la
borghesia
italiana.
Di
più:
quella
ricerca
si
è
convertita,
entro
un
passaggio
drammatico,
in
un
risultato
opposto:
nella
grave
corresponsabilizzazione
di
governo
del
nostro
partito
per
oltre
metà
della
legislatura
precedente
nel
momento
più
intenso
della
sua
politica
antipopolare:
con
gravi
effetti
non
solo
sulla
condizione
materiale
dei
lavoratori
ma
sulla
stessa
evoluzione
dei
rapporti
di
classe
(calo
verticale
delle
ore
di
sciopero
e
stabilizzazione
della
pace
sociale).
Peraltro
la
continuità
della
nostra
collaborazione
di
governo
nelle
giunte
locali
di
Regioni
e
grandi
città
ha
riproposto
su
un
piano
diverso,
la
continuità
di
una
nostra
concertazione
politica
di
privatizzazioni,
riduzioni
delle
spese
sociali,
politiche
di
flessibilità
che
è
del
tutto
contraddittoria
col
nostro
ruolo
nazionale
di
opposizione.
L'indirizzo
prescelto
ha
mancato
inoltre
lo
stesso
obbiettivo
di
crescita
del
nostro
partito.
Rivendicato
formalmente
anche
in
funzione
di
un'espansione
del
consenso
elettorale
e
del
radicamento
sociale
del
PRC,
questo
indirizzo
ha
mancato
entrambi
gli
obiettivi.
Dopo
10
anni
il
partito
ha
registrato
un
risultato
elettorale
obiettivamente
inferiore
a
quello
della
sua
nascita.
E
questo
certo
in
anni
difficili,
ma
anche
sullo
sfondo
di
un
passaggio
storico
che
ha
visto
la
massima
deriva
e
crisi
dei
DS,
la
massima
esplosione
della
sua
crisi
politica
e
del
suo
insediamento
organizzato.
Lo
spazio
liberato
a
sinistra
dei
D.S.
non
è
stato
capitalizzato
dal
PRC.
Gli
stessi
straordinari
sorpassi
realizzati
nel
'93
come
"cuore
dell'opposizione"
nelle
città
operaie
di
Torino
e
Milano,
misura
di
una
grande
potenzialità,
sono
stati
successivamente
dispersi
dalla
politica
ondivaga
degli
anni
seguenti.
E
il
mancato
sviluppo
di
un'egemonia
alternativa
nelle
classi
subalterne
non
ha
rappresentato
solamente
un
insuccesso
del
nostro
partito,
ma
un
fatto
carico
di
conseguenze
pesanti
sull'intera
situazione
italiana:
come
la
rivincita
del
centrodestra
documenta.
Tesi
18
-
SUL
"GOVERNO
DELLA
SINISTRA
PLURALE"
La
prospettiva
avanzata
del
governo
della
sinistra
plurale
sulla
base
di
un
programma
riformatore
come
soluzione
post-Berlusconi
non
solo
nega
la
necessità
di
un
bilancio
ma
ripropone,
nella
sua
sostanza
di
fondo,
la
politica
di
10
anni.
Il
fatto
di
perseguirla
dal
versante
dei
movimenti,
non
solo
non
muta
la
sua
natura,
ma
rappresenta
un
danno
profondo
per
i
movimenti
stessi
e
per
il
futuro
delle
loro
ragioni.
La proposta strategica della sinistra plurale di governo rappresenta un errore profondo ed è gravida di grandi rischi per il nostro stesso partito. Dopo aver perseguito per dieci anni senza successo la contaminazione prima del polo progressista poi del Centrosinistra, non possiamo riproporre, come se nulla fosse accaduto, il medesimo indirizzo di fondo; se non ripercorrendo un sentiero già battuto e già fallito. Non solo in Italia ma nel mondo.
Sul piano nazionale l'esperienza della sinistra plurale è già stata vissuta dal nostro partito in occasione del blocco col Polo progressista del '94 (DS, Verdi, Rete di Orlando, PRC). Il programma testuale su cui si realizzò (v. Liberazione, 4/2/94) rivendicava entro "una competizione per il governo del Paese" "una presenza autorevole e solida dell'Italia sui mercati e nel contesto internazionale" e l'appello "a quelle forze del mondo imprenditoriale che hanno a cuore la crescita sociale, civile, democratica dell'Italia". Su questa base proponeva di "coniugare l'equità sociale con le ragioni dell'efficienza e del mercato" di "promuovere quando sia il caso le privatizzazioni", di operare il "risanamento del disavanzo che implicherà austerità" seppur con "l'impegno a garantire che i sacrifici siano ripartiti con giustizia". La vittoria elettorale di Berlusconi impedì la sperimentazione di questo programma di governo, preservando il PRC all'opposizione sino al '96. Ma quel programma rifletteva e riflette l'unico profilo possibile di una sinistra plurale di governo con l'apparato DS: quello che subordina gli interessi del movimento operaio alle esigenze del capitalismo italiano.
Sul piano internazionale l'esperienza in corso della sinistra plurale di governo in Francia (PS-PCF- Verdi) è stata ed è inequivocabile. Se il primo governo della sinistra plurale francese ('81-'83) sotto la guida di Mitterand aveva accompagnato austerità e sacrifici dei lavoratori col linguaggio formale della tradizione riformista, il governo Jospin ha accompagnato austerità e sacrifici col linguaggio liberale (temperato) delle privatizzazioni e della flessibilità. E' la riprova che nel quadro attuale della crisi capitalistica e della competizione globale, un governo di "sinistra plurale" non differisce, nella sostanza del suo indirizzo, da un ordinario governo borghese liberale. Anche per questo aver invocato dopo le ultime elezioni politiche un "Mitterand italiano", aver a lungo esaltato il governo Jospin (che "contesta l'intera logica della flessibilità e introduce direttamente nell'economia il parametro della difesa degli interessi dei lavoratori" come dichiara il segretario del PRC sull'editoriale di prima pagina del 29/9/99) ha rappresentato un errore profondo che è giusto riconoscere.
In Italia oltretutto la prospettiva della sinistra plurale di governo avrebbe oggi un profilo ancor più arretrato che in Francia o rispetto allo stesso Polo progressista del '94. A differenza del partito di Jospin, l'apparato D.S., nella sua larga maggioranza, ha rotto con il ruolo e funzione di socialdemocrazia per progettarsi come rappresentanza diretta della borghesia italiana, in concorrenza aperta con la Margherita e, su un altro versante, con Forza Italia. Una coalizione di "sinistra plurale" in Italia sarebbe dunque di fatto la riproposizione di un Centrosinistra.
Il fatto di perseguire la prospettiva del governo riformatore di sinistra plurale come sbocco dei movimenti e della loro azione "contaminante" non muta minimamente la valenza negativa della proposta. Anzi, per molti aspetti, l'aggrava. Invece di orientare il lavoro di massa in direzione dell'autonomia dei movimenti dal Centro borghese liberale, assume i movimenti come leva di pressione sull'apparato D.S. e dell'Ulivo. Invece di liberare il movimento e i movimenti da ogni illusione di poter contaminare i liberali, si promuove nel movimento quella stessa illusione. E' l'esatto capovolgimento di una politica autonoma di classe. E soprattutto è un danno profondo al movimento e alle sue ragioni: perché nessuna delle ragioni di fondo dei movimenti di massa, sia dal versante operaio, sia dal versante antiglobalizzazione, potrebbe trovare soddisfazione in un governo borghese di sinistra plurale.
Per l'insieme di queste ragioni, quella prospettiva va apertamente ed esplicitamente respinta dal V Congresso del nostro partito.
Tesi
19
-
POLO
AUTONOMO
DI
CLASSE
Il
V
congresso
del
PRC
assume
come
nuovo
asse
strategico
della
politica
del
partito
lo
sviluppo
dell'indipendenza
del
movimento
operaio
da
ogni
forza
della
borghesia:
ciò
che
significa
l'autonomia
strategica
da
ogni
espressione
vecchia
e
nuova
del
Centro
borghese
(Centrosinistra
e/o
apparato
liberale
di
D.S.),
la
rottura
con
ogni
ipotesi
di
governo
di
alternanza
con
tali
forze,
l'assunzione
della
prospettiva
dell'alternativa
anticapitalistica
e
di
classe
quale
sbocco
strategico
dell'opposizione
di
massa
e
della
ricomposizione
nelle
lotte
del
nuovo
blocco
storico
L'esperienza
politica
di
10
anni
del
nostro
partito
l'analisi
di
classe
della
situazione
politica,
la
ripresa
dei
movimenti
di
massa,
richiedono
nel
loro
insieme,
una
svolta
politica
di
fondo
del
nostro
indirizzo:
una
svolta
che
assume
come
asse
di
fondo
l'autonomia
del
movimento
operaio
e
dei
movimenti
di
massa
da
ogni
forza
della
borghesia,
e
quindi
la
rivendicazione
di
un
polo
autonomo
di
classe,
apertamente
contrapposto
alle
classe
dominanti
e
alle
loro
alternanti
espressioni
di
governo
(Centro
destra
e
Centrosinistra).
La
politica
del
"polo
autonomo
di
classe"
non
riguarda
solamente
la
certezza
e
chiarezza
di
una
collocazione
strategica
autonoma
di
opposizione
del
nostro
partito
rispetto
ai
due
poli
borghesi
d'alternanza,
ciò
che
pure
ne
rappresenta
una
condizione
necessaria.
Riguarda
innanzitutto
una
linea
di
proposta
tra
le
grandi
masse
che
recupera
un
principio
elementare
del
marxismo:
la
contrapposizione
degli
interessi
dei
lavoratori
e
,
di
tutti
i
soggetti
di
un
blocco
sociale
alternativo
agli
interessi
delle
classi
dominanti,
e
di
tutte
le
loro
rappresentanze
politiche
in
funzione
della
prospettiva
della
rivoluzione
sociale.
La
rottura
col
"Centro"
in
ogni
sua
espressione,
vecchia
o
nuova,
non
è
solo
dunque
un
principio
vincolante
per
il
PRC,
ma
una
rivendicazione
fondamentale
dei
comunisti
nei
movimenti.
Non
solo
non
ha
una
valenza
di
autorecinzione
settaria
ma
indica
nell'autonomia
del
movimento
operaio
e
dei
movimenti
di
massa
il
terreno
stesso
della
loro
più
larga
unità
di
lotta
contro
la
borghesia
per
l'alternativa
anticapitalistica.
La
proposta
del
polo
autonomo
di
classe
alternativo
è
tanto
più
attuale
dopo
la
lunga
stagione
del
centrosinistra:
milioni
di
lavoratori
e
lavoratrici
sono
stati
subordinati
all'Ulivo
nel
momento
stesso
in
cui
questi
costituiva
il
canale
prescelto
di
rappresentanza
della
borghesia
italiana.
Milioni
di
lavoratori
e
lavoratrici
hanno
sperimentato
il
fallimento
sociale
e
politico
della
collaborazione
con
la
borghesia.
La
rivendicazione
della
rottura
col
Centro
può
dunque
far
leva
su
questa
viva
esperienza
e
aprirsi
un
ampio
varco
nella
giovane
generazione
che
rialza
la
testa.
Peraltro ogni giorno dimostra, anche dopo l'affermazione del governo di centrodestra, la relazione organica dell'Ulivo con le classi dominanti. La politica bypartisan verso Berlusconi, commissionata dai poteri forti della società italiana, la rivendicazione di una politica "più liberista" di quella praticata dal governo, su terreni strategici per l'accumulazione capitalistica (v. privatizzazioni); il voto a favore della guerra imperialista in Afghanistan accompagnata dall'assunzione del ministro FIAT Ruggiero come interlocutore privilegiato (v. vicenda Airbus) non indicano "errori" o "divergenze strategiche" con i comunisti: indicano la base materiale di interessi nella quale il centrosinistra affonda le proprie radici. Una base materiale di riferimento che non cambia col passaggio "all'opposizione", ma che anzi resta l'ancoraggio indissolubile della prospettiva borghese cui "l'opposizione" viene finalizzata. Per questo la rottura con il centrosinistra rappresenta una permanente necessità di classe per l'insieme del movimento operaio e dei movimenti di massa.
Tesi
20
-
CRISI
E
DERIVA
DS
L'apparato
burocratico
DS,
da
sempre
agenzia
della
classe
dominante
nel
movimento
operaio,
ha
oggi
rotto
nella
sua
maggioranza
con
la
stessa
funzione
e
ruolo
di
socialdemocrazia
per
avviare
la
mutazione
del
partito
verso
una
forza
liberale
borghese
in
rappresentanza
diretta
di
poteri
forti
della
società.
Questa
evoluzione
rafforza
la
necessità
di
un
politica
di
polo
autonomo
di
classe
in
alternativa
ad
ogni
ipotesi
di
sinistra
plurale.
La
crisi
verticale
del
D.S.
che
a
quella
evoluzione
si
accompagna,
crea
uno
spazio
storico
nuovo
per
lo
sviluppo
autonomo
del
partito
comunista
e
di
una
sua
egemonia
alternativa.
I
DS
attraversano
la
crisi
più
profonda
della
loro
storia
politica.
Questa
crisi
non
nasce
dalla
gravità
della
sconfitta
elettorale
o
dall'esito
fallimentare
della
prima
esperienza
di
governo.
Nasce
dal
fatto
che
quella
sconfitta
si
produce
nel
momento
più
delicato
di
un
processo
di
mutazione
storica
dei
DS:
da
partito
socialdemocratico,
strumento
di
controllo
del
movimento
operaio
per
conto
della
borghesia,
a
partito
democratico
liberal
borghese
rappresentanza
diretta
di
poteri
forti
della
società.
La
prolungata
esperienza
di
governo
dei
DS
nel
corso
degli
anni
Novanta
è
stata
il
volano
di
quel
processo
di
mutazione.
Sullo
sfondo
della
crisi
della
Prima
Repubblica,
della
crisi
della
rappresentanza
politica
centrale
della
borghesia
italiana,
dell'investimento
strategico
del
grande
capitale
nel
centrosinistra
l'apparato
burocratico
DS
ha
conosciuto,
a
partire
dal
'95,
una
straordinaria
moltiplicazione,
ad
ogni
livello,
delle
proprie
relazioni
materiali
con
le
classi
dominanti.
Una
maggioranza
larga
della
burocrazia
dirigente
del
partito
ha
così
assunto
progressivamente
come
obiettivo
strategico
la
propria
trasformazione
in
rappresentanza
politica
centrale
(con
base
di
massa)
del
grande
capitale
in
Italia.
Il
congresso
del
Lingotto
ha
simbolicamente
coronato
questo
nuovo
orizzonte
liberale.
E
la
rottura
con
la
funzione
di
socialdemocrazia
non
si
riduce
a
puro
fatto
politico-culturale
ma
si
accompagna
a
mutamenti
rilevanti
circa
la
costituzione
materiale
del
partito,
le
sue
relazioni
con
le
organizzazioni
di
massa,
il
suo
rapporto
con
le
dinamiche
della
lotta
di
classe
e
col
suo
stesso
insediamento
territoriale
di
massa.
Ciò
non
significa
la
scomparsa
di
ogni
eredità
della
socialdemocrazia
(presenza
nel
quadro
attivo
del
movimento
operaio,
rapporto
con
l'apparato
sindacale,
presenza
all'interno
dello
stesso
apparato
DS
di
tendenze
socialdemocratiche
quali
l'area
di
Socialismo
2000
e
la
Sinistra
Ds).
Significa
che
quelle
presenze
e
funzioni,
per
quanto
rilevanti,
non
sono
più
il
baricentro
del
partito
né
la
base
materiale
della
relazione
dei
DS
con
la
borghesia.
L'aperto
contrasto
tra
l'apparato
DS
e
la
burocrazia
CGIL,
la
sostanziale
marginalità
del
ruolo
dei
DS
rispetto
alle
dinamiche
dei
nuovi
movimenti
di
classe
(metalmeccanici)
e
giovanili
(antiglobalizzazione)
sono
un
riflesso
dello
strappo
compiuto.
La
vittoria
congressuale
larga
di
Fassino
e
D'Alema
nella
burocrazia
del
partito
tanto
più
dopo
il
passaggio
all'opposizione
misura
la
consistenza
delle
basi
materiali
dello
strappo.
Peraltro
tutto
l'orientamento
attuale
dell'apparato
DS,
dal
pronunciamento
atlantista
a
sostegno
della
guerra
fino
all'apertura
alla
Confindustria
sulla
liberalizzazione
dei
licenziamenti
resta
attestato
non
solo
sulla
prospettiva
dell'alternanza
di
governo
ma
sulla
ricerca
e
preservazione
delle
relazioni
materiali
con
la
borghesia:
una
sorta
di
comitato
ombra
degli
affari
borghesi
in
attesa
di
chiamata.
Pertanto
la
caratterizzazione
dei
DS
come
"sinistra
moderata",
da
sempre
improprio,
è
tanto
più
oggi
totalmente
errata.
Ma
se
è
chiaro
il
distacco
dalla
socialdemocrazia
incerto
è
il
lido
d'approdo
dei
DS.
La
perdita
della
sponda
di
governo,
lo
sviluppo
di
una
nuova
temibile
concorrenza
sul
versante
del
centro
borghese
(Margherita),
i
fenomeni
di
lacerazione
interni
allo
stesso
apparato
liberale
del
partito,
pongono
nel
loro
insieme
ostacoli
nuovi
sul
terreno
della
continuità
del
progetto
borghese
liberale.
La
ricomposizione
del
blocco
industriale
attorno
al
governo
Berlusconi
è
un
ulteriore
fattore
di
crisi
del
progetto
dalemiano.
Tutto
ciò
non
produce
un
ripiegamento
di
tale
progetto
(reso
difficilmente
reversibile
dalle
sue
stesse
radici
nel
partito)
ma
certo
lo
espone
ad
un
più
alto
rischio
di
fallimento
sullo
stesso
versante
borghese.
Nel
mentre
il
suo
ostinato
perseguimento
moltiplica
i
fenomeni
di
scollamento
del
vecchio
insediamento
sociale
dei
DS.
La
deriva
DS
verso
il
liberalismo
borghese,
la
crisi
verticale
che
a
questa
deriva
si
accompagna,
misurano
congiuntamente
la
necessità
della
politica
di
un
polo
autonomo
di
classe
e
un
nuovo
spazio
storico
per
la
sua
costruzione.
Larghi
settori
di
massa
vivono
oggi
drammaticamente
non
solo
il
tradimento
delle
proprie
direzioni
ma
il
processo
di
crisi
e
dissoluzione
della
loro
vecchia
rappresentanza
politica.
La
stessa
ripresa
dei
movimenti
sul
versante
operaio
e
giovanile,
nel
mentre
coinvolge
forze
crescenti
del
popolo
della
sinistra
ne
accentua
lo
sbandamento
politico
e
moltiplica
nuove
domande
di
riferimento.
Il
nostro
partito
può
e
deve
rispondere
a
questa
domanda
nel
segno
della
più
ampia
apertura
di
massa,
con
la
proposta
del
polo
autonomo
di
classe.
Questa
proposta
offre
un
riferimento
alternativo
alla
crisi
di
rappresentanza
del
movimento
operaio,
indicando
ad
ampi
settori
di
massa
una
via
d'uscita
da
quella
crisi:
quello
della
rottura
con
l'apparato
liberale
DS
e
dell'Ulivo
in
funzione
dell'autonoma
unità
di
lotta
contro
il
governo
Berlusconi
e
la
borghesia
italiana.
In
questo
senso
la
rivendicazione
del
polo
autonomo
di
classe
sul
terreno
anticapitalistico
rappresenta
uno
strumento
di
costruzione
dell'egemonia
alternativa
dei
comunisti
tra
le
classi
subalterne
e
nei
loro
movimenti.
Tesi
21
-
PRC
E
GIUNTE
LOCALI
Lo
sviluppo
della
politica
del
polo
autonomo
di
classe
e
del
blocco
sociale
alternativo
implica
la
chiarezza
e
coerenza
di
una
collocazione
del
PRC
all'opposizione,
anche
sul
piano
locale;
da
qui
il
necessario
superamento
delle
collaborazioni
locali
di
governo
tra
PRC
e
Centrosinistra
a
partire
dalle
Regioni
e
dalle
grandi
città.
Una
svolta
tanto
più
attuale
sullo
sfondo
del
sostegno
dell'Ulivo
alla
guerra
e
dello
sviluppo
del
federalismo
istituzionale
liberista.
Lungo l'itinerario di dieci anni il nostro partito ha realizzato e perseguito come costante la linea della collaborazione di governo col Centrosinistra sul terreno delle amministrazioni locali. E' una linea che da un lato ha mancato l'obiettivo dichiarato di "battere le destre" come rivela la disfatta di tante coalizioni di governo tra Ulivo e PRC nelle elezioni amministrative del 16 aprile 2000 (a partire dalla Regione Lazio). Dall'altro lato -e soprattutto- ha corresponsabilizzato il PRC nella gestione e concertazione locale delle politiche liberiste in aperta contraddizione con le ragioni sociali del nostro partito. La nuova politica di polo autonomo di classe anticapitalistico richiede dunque una svolta profonda della nostra politica locale.
Il
Centrosinistra
a
livello
locale
non
è
altra
cosa
dal
Centrosinistra
nazionale:
linee
programmatiche,
riferimenti
sociali,
metodi
di
governo
sono
inevitabilmente
omogenei.
Spesso
anzi
negli
anni
90
proprio
le
amministrazioni
locali
dell'Ulivo
hanno
rappresentato
laboratori
d'"avanguardia"
nella
sperimentazione
delle
politiche
liberiste.
L'avvento
del
governo
Berlusconi
col
passaggio
dell'Ulivo
all'"opposizione"
non
ha
minimamente
mutato
il
profilo
delle
scelte
locali
del
Centrosinistra.
Proprio
il
tentativo
dell'Ulivo
di
riaccreditarsi
come
carta
di
ricambio
per
la
borghesia
sul
piano
nazionale
passa
anche
per
l'uso
delle
proprie
amministrazioni
locali,
spesso
esibite
come
modello
di
efficienza
manageriale
a
fronte
delle
presunte
incertezze
del
Polo
(v.
privatizzazioni).
Più
in
generale
le
giunte
locali
diventano
più
che
mai,
proprio
oggi,
uno
strumento
importante
di
consolidamento
o
ritessitura
delle
relazioni
dell'Ulivo
coi
poteri
forti
della
società
italiana.
Lo sviluppo del federalismo istituzionale liberista, varato dall'Ulivo e ulteriormente aggravato dal nuovo governo Berlusconi, concorre a rafforzare ed estendere gli indirizzi liberisti delle amministrazioni locali. Il vecchio argomento della distinzione di piano tra politiche nazionali e politiche locali (da sempre infondato), è oggi demolito alla radice dalla nuova realtà. Il trasferimento ai governi regionali di larga parte delle voci e materie relative al così detto stato sociale farà degli esecutivi regionali di Centrosinistra i nuovi agenti della concertazione nazionale col governo delle destre e al tempo stesso una prefigurazione sperimentale sempre più ampia dell'alternanza nazionale di governo.
Peraltro la dislocazione diffusa dei governi locali dell'Ulivo a sostegno delle scelte di guerra congiunte dell'Ulivo e del Polo sono l'ulteriore e più clamorosa riprova dell'omogeneo carattere di fondo, nazionale e locale, del liberalismo borghese.
Il nostro partito è chiamato anche su questo terreno a una svolta netta. Tanto più oggi il PRC non può assumere la centralità dell'opposizione alla guerra dichiarando che con la guerra "nulla sarà come prima" e poi continuare a sorreggere "come prima" governi regionali schierati con la guerra. Il PRC non può assumere la centralità del movimento dichiarando che dopo Genova nulla sarà come prima e poi continuare a sostenere come prima giunte contrapposte o latitanti verso istanze del movimento (a partire dalla giunta di Genova)
E'
necessario
un
coerente
orientamento
di
fondo:
la
collocazione
dei
comunisti
all'opposizione
anche
sul
piano
locale
a
partire
dalle
regioni
e
dalle
grandi
città.
Diversa
è
ovviamente
la
situazione
-ad
oggi
eccezionale-
in
cui
i
comunisti
fossero
parte
essenziale
di
giunte
locali
che
si
pongono
realmente
sul
terreno
dell'alternativa
anticapitalistica:
ove
diventa
fondamentale
un'azione
di
opposizione
al
governo
nazionale
fortemente
legato
agli
interessi
di
classe
fuori
da
ogni
falsa
neutralità
istituzionale.
Tesi
22
-
PER
LA
CACCIATA
DEL
GOVERNO
BERLUSCONI
Il
governo
Berlusconi
si
configura
come
governo
reazionario,
che
tende
a
risolvere
le
sue
contraddizioni
in
un
nuovo
attacco
generale
al
movimento
operaio.
L'opposizione
del
nostro
partito
al
governo
Berlusconi-Bossi-Fini
non
può
avere
carattere
ordinario,
ma
può
e
deve
porre
apertamente
l'obiettivo
della
sua
cacciata
sull'onda
di
una
grande
mobilitazione
operaia
e
popolare.
Assumendo
l'obiettivo
della
cacciata
del
governo
non
come
fine
a
sé
ma
come
leva
dell'alternativa
anticapitalistica
di
classe.
Il governo del Polo delle Libertà ha un carattere diverso dal primo esecutivo Berlusconi ('94). Sul piano politico registra un salto notevolissimo dell'insediamento di Forza Italia, un rapporto più stabile con la Lega, un vasto raccordo con amministrazione locali omogenee. Sul piano sociale conosce, a differenza del 94, l'appoggio della grande industria: che pur avendo sostenuto il centrosinistra per tutta la precedente legislatura, pur avendo lavorato per la riconferma dell'Ulivo, ha scelto di investire, dopo l'esito del voto, nel nuovo governo Berlusconi attraverso l'ingresso diretto di propri esponenti (Ruggiero): consapevoli della maggior forza del nuovo governo e quindi dell'opportunità di utilizzarlo, ma con la precisa volontà di porlo sotto la tutela del proprio personale fiduciario. Dal canto suo il governo lavora a conciliare la difesa degli interessi affaristici e familistici della Fininvest e di ambienti malavitosi del capitale con la rappresentanza generale dell'interesse borghese.
Il
programma
del
nuovo
esecutivo
ha
un
carattere
obiettivamente
reazionario:
esso
estende
e
sviluppa
in
forma
concentrata
le
linee
di
governo
della
legislatura
precedente,
sia
sul
piano
sociale,
sia
sul
piano
istituzionale.
Sul
piano
della
politica
estera,
il
più
stretto
fiancheggiamento
della
politica
americana
convive,
non
senza
contraddizioni,
con
la
continuità
della
collocazione
strategica
nell'imperialismo
europeo
(presidiata
in
particolare
dalla
FIAT
e
dal
suo
ministro
Ruggiero).
La
linea
di
gestione
di
questo
programma
generale
non
ha
ancora
conosciuto
un
assestamento
stabile,
oscillando
tra
la
ricerca
di
un
rapporto
concertativo
con
le
organizzazioni
del
movimento
operaio
e
tentativi
di
affondo
diretto.
Tuttavia
pesa
l'effetto
di
trascinamento
di
una
contraddizione
obiettiva:
da
un
lato
la
necessità
politica
di
finanziare
un
blocco
di
interessi
tanto
esteso
quanto
contraddittorio
e
costoso;
dall'altro
lato
la
necessità
di
farlo
entro
le
compatibilità
del
patto
di
stabilità
europeo
e
sullo
sfondo
della
crisi
economica
internazionale.
Questa
contraddizione
alimenta
tensioni
crescenti
nello
stesso
blocco
sociale
berlusconiano
(come
tra
industria
e
Confcommercio
in
fatto
di
politiche
fiscali).
Ma
proprio
per
questo
spinge
il
governo
lungo
la
china
dello
scontro
sociale
col
blocco
avversario:
perché
solo
l'affondo
contro
il
lavoro
dipendente
può
contenere
le
spinte
centrifughe
del
blocco
dominante
e
allargare
i
margini
di
una
mediazione
al
suo
interno.
Peraltro
la
paralisi
subalterna
della
CGIL
e
la
crisi
e
complicità
del
centrosinistra
incoraggiano
l'offensiva
sociale.
E
il
contesto
internazionale
di
guerra,
con
i
suoi
possibili
effetti
diversivi,
ha
suggerito
al
governo
una
anticipazione
dei
tempi
d'attacco.
Non
a
caso
l'affondo
su
contrattazione,
sistema
pensionistico,
sanità
e
scuola
è
già
iniziato,
culminando
nell'attacco
all'articolo
18
dello
Statuto
dei
lavoratori:
e
tenderà
a
combinarsi
con
nuove
politiche
di
restrizioni
antidemocratiche,
nel
campo
dei
diritti
sindacali
e
nella
gestione
dell'ordine
pubblico.
L'aperto
cavalcamento
da
parte
di
AN
delle
spinte
più
reazionarie
dell'apparato
repressivo
dello
Stato
come
è
emerso
dai
fatti
di
Genova,
è
la
misura
e
l'anticipazione
di
una
tendenza
profonda
che
è
incoraggiata
dalla
stessa
composizione
del
nuovo
governo.
In
conclusione:
più
si
stabilizza
l'attuale
governo
più
esso
tenderà
a
precipitare
"a
destra"
le
sue
contraddizioni
politiche
e
sociali.
L'obiettivo
della
cacciata
del
governo
Berlusconi
risponde
dunque
a
un
interesse
generale
del
movimento
operaio
e
di
tutto
il
blocco
sociale
alternativo.
Risponde
all'interesse
comune
di
liberare
il
campo
da
un'obiettiva
minaccia
reazionaria.
Assumere
questa
parola
d'ordine
non
significa
nutrire
illusioni
o
avanzare
previsioni.
La
maggior
forza
del
secondo
governo
Berlusconi,
i
colpi
subiti
dal
movimento
operaio
nella
legislatura
precedente,
le
stesse
dinamiche
internazionali
concorrono
a
favorire
la
tenuta
dell'esecutivo.
E
tuttavia
un
partito
comunista
non
può
determinare
livello
e
obiettivi
della
propria
proposta
di
opposizione
in
base
alla
constatazione
delle
difficoltà
di
partenza.
Può
e
deve
assumere
come
base
di
riferimento
le
necessità
del
movimento
operaio
e
agire
come
fattore
attivo
di
controtendenza.
Peraltro,
nonostante
le
difficoltà,
vasti
sono
gli
spazi
per
la
costruzione
di
un'opposizione
radicale
di
massa
al
governo
delle
destre.
Nonostante
il
suo
più
forte
insediamento,
il
governo
Berlusconi
non
è
nato
sull'onda
di
un'espansione
del
consenso
nella
società
italiana,
ma
sullo
sfondo
di
un
arretramento
della
coalizione
delle
destre
rispetto
al
'94
e
al
'96.
Parallelamente,
nonostante
i
colpi
subiti
si
moltiplicano
nell'ultima
fase
i
segni
di
ripresa
del
movimento
operaio
a
partire
dalla
grande
mobilitazione
dei
metalmeccanici
con
l'affacciarsi
sul
campo
di
una
nuova
generazione
operaia.
E
questa
ripresa
di
classe,
seppur
fragile
ancora,
si
combina
a
sua
volta
con
la
continuità
e
lo
sviluppo
di
un
movimento
antiglobalizzazione,
prevalentemente
giovanile,
che
ha
acquisito
in
Italia
un
carattere
di
massa
più
ampio
che
in
altri
Paesi
europei.
Inoltre,
in
particolare
a
ridosso
dei
fatti
di
Genova,
si
è
sviluppato
un
processo
di
attiva
sensibilizzazione
antigovernativa
di
settori
rilevanti
di
popolo
della
sinistra,
a
sostegno
del
movimento
antiglobalizzazione
e
richiamati
da
una
sincera
preoccupazione
democratica
(v.
le
manifestazioni
del
24
luglio).
Tutti
questi
fattori
non
innescano
di
per
sé
meccanicamente
l'opposizione
di
massa
al
governo,
ma
misurano
un
potenziale
di
controffensiva
al
suo
programma
reazionario
che
si
appoggia
su
una
base
sociale
e
politica
più
ampia
che
in
passato.
Il
nostro
partito
ha
il
compito
di
raccogliere
e
sviluppare
queste
potenzialità,
ricomponendole
attorno
a
un
programma
e
a
un
obiettivo
di
sbocco
unificante.
Per
questo,
tanto
più
oggi,
non
possiamo
attestarci
sulla
routine
dell'opposizione
parlamentare
combinata
con
la
lode
della
spontaneità
dei
movimenti.
Ma
dobbiamo
favorire
entro
l'esperienza
viva
dei
movimenti,
le
condizioni
di
un'esplosione
sociale
concentrata
contro
le
classi
dominanti
e
il
loro
governo.
Solo
un'esplosione
sociale
concentrata
può
ribaltare
i
rapporti
di
forza
tra
le
classi
e
aprire
il
varco
dell'alternativa
anticapitalistica.
E
solo
un'alternativa
anticapitalistica
può
rispondere
realmente
alle
ragioni
di
fondo
delle
classi
subalterne
e
delle
loro
lotte.
La
rivendicazione
della
cacciata
del
governo
Berlusconi
può
e
deve
essere
interna
alla
prospettiva
anticapitalistica,
come
una
delle
leve
della
sua
maturazione.
Per
questo
essa
va
posta
apertamente
all'interno
dei
movimenti,
senza
forzature
"politiciste"
ma
senza
autocensure,
in
un
rapporto
vivo
con
la
dinamica
obiettiva
delle
loro
lotte.
Tesi
23
-
OPPOSIZIONE
DI
CLASSE
A
BERLUSCONI
E
VERTENZA
GENERALE
La
classe
operaia
e
il
mondo
del
lavoro
è
il
soggetto
centrale
dell'opposizione
a
Berlusconi
e
la
leva
del
suo
possibile
ribaltamento.
Ma
alla
condizione
di
ricomporre
nella
lotta,
sul
terreno
di
una
vertenza
generale
unificante,
un
proprio
polo
di
classe
indipendente,
alternativo
al
centrosinistra
liberale.
L'esperienza stessa degli anni Novanta reca un insegnamento prezioso per i comunisti e per il movimento operaio italiano. Solo il movimento operaio, con la sua azione di classe concentrata, è stato capace di arrestare l'ascesa di Berlusconi, incrinare il suo blocco sociale, porre le condizioni della sua caduta: è l'esperienza dell'autunno '94. Questa lezione va recuperata alla memoria di vaste masse e assunta come bussola di una nostra nuova politica di fronte al secondo governo delle destre.
La
ricomposizione
di
un
movimento
unitario
di
lotta
della
classe
lavoratrice
non
ha
solo
valenza
sindacale
ma
una
valenza
politica
generale.
Per
questo
la
proposta
di
una
vertenza
generale
unificante
del
mondo
del
lavoro
e
dei
disoccupati
può
e
deve
costituire
l'asse
immediato
di
intervento
del
nostro
partito
sul
terreno
del
rilancio
di
un'azione
di
classe
indipendente.
Non
si
tratta
di
elencare
in
modo
ordinario
gli
obiettivi
della
nostra
opposizione
di
partito.
Si
tratta
di
selezionare
un
insieme
combinato
di
rivendicazioni
per
lo
sviluppo
dell'opposizione
di
massa,
per
una
sua
espressione
radicale
e
concentrata,
per
la
riunificazione
in
essa
del
blocco
sociale
alternativo.
La
proposta
di
una
vertenza
generale
del
mondo
del
lavoro
e
dei
disoccupati,
nella
prospettiva
dello
sciopero
generale
contro
governo
e
padronato,
risponde
tanto
più
oggi
a
questa
necessità.
La
rivendicazione
di
un
forte
aumento
salariale
unificante
per
tutto
il
lavoro
dipendente
è
tanto
più
oggi
in
diretta
contrapposizione
alla
politica
di
attacco
alla
contrattazione
nazionale
promossa
dal
nuovo
governo.
La
rivendicazione
dell'abolizione
del
"Pacchetto
Treu"
e
di
ogni
forma
di
lavoro
precario
(a
partire
dall'assunzione
a
tempo
indeterminato
di
tutti
i
precari
attuali),
cozza
frontalmente
più
che
mai
con
la
linea
strategica
di
frantumazione
del
lavoro
dipendente.
La
richiesta
del
salario
minimo
garantito
intercategoriale
(quantificabile
in
1000
Euro
al
netto
di
ogni
trattenuta,
punto
di
riferimento
anche
per
le
pensioni
dei
lavoratori)
per
l'insieme
del
lavoro
dipendente
si
contrappone
tanto
più
oggi
alla
politica
di
regionalizzazione
salariale
incorporata
al
federalismo
liberista.
La
rivendicazione
del
riconoscimento
ed
estensione
dei
diritti
sindacali
a
tutti
i
lavoratori
subordinati,
indipendentemente
dal
tipo
di
contratto
e
dalla
dimensione
dell'impresa,
è
in
aperta
collisione
con
i
programmi
congiunti
di
Confindustria
e
governo,
a
partire
dall'attacco
all'articolo
18
dello
Statuto
dei
Lavoratori.
La
rivendicazione
di
un
vero
salario
garantito
per
i
disoccupati
e
i
giovani
in
cerca
di
prima
occupazione
(quantificabile
nell'80%
del
salario
minimo
intercategoriale
o
di
quello
contrattuale
precedentemente
percepito),
finanziato
in
primo
luogo
con
l'abolizione
dei
trasferimenti
pubblici
alle
imprese,
fuori
da
ogni
logica
di
compromesso
col
lavoro
"minimo"
cioè
precario,
contrasta
con
le
politiche
di
precarizzazione
dilagante
e
indica
un'arma
di
resistenza
al
ricatto
della
scelta
tra
disoccupazione
e
supersfruttamento.
La
riduzione
generalizzata
dell'orario
di
lavoro
a
parità
di
salario
senza
flessibilità
e
annualizzazione,
con
l'abolizione
dello
straordinario,
indica
l'unica
via
per
una
lotta
efficace
contro
la
disoccupazione
di
massa.
La
rivendicazione
di
una
tassazione
progressiva
di
grandi
rendite,
profitti,
patrimoni
("paghi
chi
non
ha
mai
pagato")
come
fonte
di
ampliamento
e
riqualificazione
della
spesa
sociale
(a
partire
dalla
sanità
e
dalla
scuola)
può
e
deve
contrapporsi
alla
linea
governativa
di
detassazione
dei
profitti
pagata
dalla
distruzione
dello
stato
sociale.
Questa
piattaforma
rivendicativa
immediata
non
va
considerata
come
piattaforma
chiusa,
o
come
piattaforma
sostitutiva
delle
specifiche
rivendicazioni
di
settore
e
di
movimento.
Ma
va
assunta
nella
sua
logica
di
fondo
di
piattaforma
unificante
cui
ricondurre
l'intervento
di
massa
dei
comunisti:
nei
movimenti,
sul
territorio,
nelle
organizzazioni
di
massa.
La
sua
funzione
è
di
far
leva
sulla
piattaforma
reazionaria
di
padronato
e
governo
per
contrapporvi
la
radicalità
speculare
di
una
piattaforma
di
classe
alternativa.
E
di
far
leva
su
una
piattaforma
di
classe
alternativa
per
unire
attorno
alla
classe
lavoratrice
tutti
i
settori
e
frammenti
delle
masse
subalterne:
al
di
là
di
una
pura
logica
sindacale,
e
contro
l'attuale
dinamica
di
frantumazione.
In
questo
quadro
e
su
questo
terreno
il
PRC
avanza
la
proposta
più
generale
del
fronte
unico
di
classe
contro
il
governo
Berlusconi
e
il
padronato.
Il
suo
significato
è
semplice:
se
il
governo
ricompone
oggi
attorno
a
sé
l'unità
d'azione
della
borghesia,
occorre
realizzare
la
più
ampia
unità
d'azione
dei
lavoratori
e
delle
lavoratrici
contro
il
governo
e
il
blocco
di
interessi
che
lo
sostiene.
Si
tratta
di
rivendicare
la
più
ampia
unità
di
lotta
dei
lavoratori,
al
di
là
di
ogni
barriera
politica
e
sindacale,
favorendo
ovunque
possibile
la
convergenza
nell'azione
su
un
comune
programma.
Più
in
generale
va
rivolto
un
appello
a
tutte
le
forze
e
tendenze
che
si
richiamano
al
movimento
operaio
perché
convergano
nell'azione
attorno
a
un
programma
di
classe
indipendente,
in
aperta
rottura
con
le
forze
del
centro
borghese.
Se
la
subordinazione
del
movimento
operaio
al
centro
borghese
ha
preparato
in
cinque
anni
la
vittoria
di
Berlusconi,
solo
la
rottura
col
centro
borghese
può
consentire
al
movimento
operaio
di
cacciare
Berlusconi.
La
proposta
incalzante
di
unità
d'azione
del
movimento
operaio
contro
il
governo
va
quindi
apertamente
contrapposta
ad
ogni
proposta
frontista
con
le
forze
borghesi.
La
lotta
per
l'egemonia
di
classe
nell'opposizione
al
governo
delle
destre
in
alternativa
al
centrosinistra
borghese,
definisce
esattamente
il
nuovo
campo
di
battaglia
dei
comunisti.
Tesi
24
-
RIFONDAZIONE
SINDACALE
E'
necessario
sviluppare
una
battaglia
organizzata
classista
sia
nella
Cgil
che
nel
sindacalismo
di
base
extraconfederale
nella
prospettiva
della
"Costituente
di
un
sindacato
classista,
unitario,
confederale,
democratico,
di
massa".
E'
necessario
al
contempo
la
lotta
per
lo
sviluppo
di
strutture
di
autorganizzazione
di
massa
(dai
coordinamenti
dei
delegati
ai
comitati
di
lotta
e
di
sciopero,
ai
consigli).
E'
necessario
realizzare
una
svolta
profonda
della
nostra
politica
sindacale.
Essenziale
è
innanzitutto
un
giudizio
inequivoco
sulla
natura
delle
burocrazie
sindacali,
vere
agenzie
della
classe
dominante
all'interno
del
movimento
operaio.
La
politica
di
concertazione
dei
gruppi
dirigenti
confederali
e
segnatamente
della
Cgil
non
rappresenta
semplicemente
una
"politica
sbagliata"
per
quanto
grave.
Riflette
la
natura
profonda
degli
apparati
burocratici
del
sindacato:
un
"ceto
politico",
e
una
corrispondente
struttura,
la
cui
azione
permette
il
perpetuarsi
del
dominio
di
classe
del
capitale.
Il
primo
dovere
del
nostro
partito
è
quindi
quello
di
superare
l'ottica
sino
ad
ora
perseguita
di
"spostare
a
sinistra
l'asse
della
Cgil".
All'opposto
il
PRC
è
chiamato
ad
assumere
come
nuovo
asse
della
propria
politica
sindacale
una
lotta
aperta
per
cacciare
la
burocrazia
dal
movimento
sindacale,
a
partire
da
un
giudizio
di
"irriformabilità"
delle
strutture.
Ciò
non
esclude
il
lavoro
dei
comunisti
nelle
organizzazioni
tradizionali
e
segnatamente
nella
Cgil.
Ma
certo
implica
il
completo
abbandono
di
ogni
logica
di
pressione,
fosse
pure
radicale,
sulle
burocrazie
dirigenti,
e
lo
sviluppo
di
un'aperta
opposizione
di
classe
capace
di
sfidare
le
"regole"
dell'apparato
sindacale
e
di
configurarsi
come
riferimento
autonomo
per
l'insieme
dei
lavoratori/lavoratrici.
Anche
l'apertura
di
parziali
contraddizioni
all'interno
dell'apparato
e
la
necessità
imposta
dalla
presenza
del
governo
del
centrodestra
non
mutano
questo
quadro
generale.
Sabbatini
e
la
burocrazia
FIOM,
diventate
troppo
facilmente
un
punto
di
riferimento
e
un
interlocutore
privilegiato
per
la
attuale
maggioranza
del
partito,
non
esprimono
una
contrapposizione
strategica
alla
linea
di
collaborazione
di
classe
di
Cofferati
(espressa
anche
sul
terreno
della
guerra).
Le
cui
ultime
prese
di
posizione
non
costituiscono
che
l'espressione
tattica
della
autodifesa
obbligata
di
una
burocrazia
socialdemocratica
di
fronte
ad
un
attacco
che
mira
a
ridurne
drasticamente
il
ruolo
nella
concertazione.
Concertazione
che
viene
riconfermata
come
asse
strategico
della
burocrazia
CGIL
proprio
in
rapporto
all'offensiva
governativa
in
atto.
Come
per
il
gruppo
di
maggioranza
delle
Commisiones
Obreras
in
Spagna
l'obiettivo
di
Cofferati
è
quello
della
realizzazione
di
un
quadro
concertativo
anche
col
governo
di
centrodestra:
l'unico
problema
è
che
Berlusconi
non
è
Aznar
e
ciò
rende
difficile
la
praticabilità
dell'obiettivo.
La
costituzione
nella
CGIL
della
nuova
area
di
Lavoro
e
Società-Cambiare
rotta
è
certamente
un
fatto
positivo,
perché
supera
la
precedente
situazione
di
divisione
essenzialmente
indotta
da
una
pratica
del
nostro
partito
non
basate
su
presupposti
di
linea
politico-sindacale,
ma
sulla
necessità
di
avere
un
settore
"fedele"
alla
politica
del
partito,
in
particolare
nel
momento
della
sua
partecipazione
alla
maggioranza
di
centrosinistra
(non
a
caso
le
condizione
di
una
riunificazione
delle
aree
della
sinistra
sindacale
si
sono
poste
a
partire
dalla
nostra
rottura
col
governo
Prodi).
Tuttavia
la
positività
è
solo
organizzativa.
Infatti
non
viene
tratto
nessun
bilancio
della
incapacità
sia
dell'area
di
"Alternativa
Sindacale"
che
dell'"Area
dei
comunisti
in
CGIL"
di
rappresentare
una
conseguente
opposizione
di
classe
alla
linea
collaborazionista
della
maggioranza
della
Cgil.
Incapacità
riconfermata
di
fronte
al
tradimento
del
movimento
antigovernativo
rappresentato
dallo
"'sciopericchio"
di
dicembre
2001.
Mostrando
infatti
tutti
i
suoi
limiti
riformisti
Lavoro
e
Società
-
Cambiare
rotta
invece
di
contrapporsi
frontalmente
si
è
adattata
in
maggioranza
alle
scelte
della
burocrazia
dirigente.
E'
necessario
quindi
lavorare
allo
sviluppo
di
un'area
coerentemente
classista,
basata
sui
militanti
comunisti
ma
aperta
all'aggregazione
di
altri
settori
indipendenti,
che
si
candidi
all'egemonia
sull'insieme
della
sinistra
della
confederazione,
e
si
basi
su
un
programma
d'azione
anticapitalistico
in
aperta
opposizione
ai
gruppi
dirigenti.
Parallelamente
il
PRC
deve
lavorare
ad
un
collegamento
costante,
nell'azione,
tra
questa
sinistra
rifondata
della
Cgil
e
i
compagni/e
comunisti/e
che
sviluppano
la
propria
azione
nel
sindacalismo
di
base
extraconfederale:
un
sindacalismo
che
configura,
com'è
ovvio,
un
quadro
d'intervento
più
avanzato
sul
terreno
degli
obiettivi
politico-sindacali
e
che,
tuttavia,
su
basi
diverse,
è
anch'esso
segnato
da
limiti
reali,
ben
oltre
il
suo
limite
di
influenza:
quali,
ad
esempio,
la
tendenza
cronica
alla
frammentazione.
In
questo
quadro
la
battaglia
per
l'unificazione
del
sindacalismo
di
base
extraconfederale
è
un'azione
che
va
sviluppata
come
centrale
nella
prossima
fase
da
parte
dei
militanti
comunisti
in
esso
inseriti.
Il
PRC
non
può
illudersi
di
superare
"per
decreto"
l'attuale
dislocazione
dei
militanti
comunisti
in
diverse
organizzazioni
sindacali:
è
questa
una
realtà
sancita
e
"legittimata"
sia
dall'obiettiva
complessità
della
questione
sindacale,
sia
dalla
concreta
vicenda
del
sindacalismo
italiano,
e
che
solo
lo
sviluppo
della
lotta
di
classe
e
l'esperienza
della
lotta
antiburocratica
potrà
consentire
di
superare
in
avanti.
Il
PRC
può
e
deve
invece,
da
subito,
indicare
l'asse
generale
di
proposta
e
le
basi
programmatiche
che
debbono
unire
i
militanti
sindacali
comunisti,
siano
essi
collocati
nel
sindacato
confederale
o
nel
sindacato
di
base
extraconfederale.
L'asse
generale
che
il
V
Congresso
avanza
è
la
proposta
della
"costituente
di
un
sindacato
classista,
unitario,
confederale,
democratico
e
di
massa".
Con
questa
indicazione
i
comunisti
si
rivolgono
all'insieme
dei
lavoratori
e
delle
lavoratrici
per
realizzare
la
loro
unità
,
sulle
basi
più
larghe,
in
una
confederazione
sindacale
unitaria,
fondata
sulla
democrazia
dei
lavoratori
e
sulla
difesa
dei
loro
autonomi
interessi,
in
rottura
con
le
attuali
burocrazie
dirigenti.
Ciò
significa
avanzare
la
prospettiva
di
una
unità
dal
basso,
a
partire
da
assemblee
unitarie
di
iscritti
(e
non)
nei
luoghi
di
lavoro.
Le
forme
di
articolazione
di
questa
proposta
generale
potranno
variare
in
rapporto
allo
sviluppo
concreto
della
situazione.
Ma
essa
assume
come
riferimento
centrale
la
lotta
dei
comunisti
per
l'egemonia
sulle
masse
politicamente
e
sindacalmente
attive:
fuori
sia
da
una
logica
di
autoghettizzazione
su
basi
puramente
sindacalistiche,
sia
da
una
logica
di
subalternità
agli
attuali
apparati
sindacali.
In
questa
prospettiva
di
lavoro
comune
è
necessario
un
coordinamento
dei
militanti
sindacali
comunisti
al
di
là
delle
diverse
appartenenze
di
sigla.
Un
coordinamento
che
deve
porsi
da
ora
come
ambito
unificante
del
nostro
dibattito
sindacale,
ai
vari
livelli
territoriali
e
nei
diversi
settori.
Parallelamente,
sulla
base
della
proposta
della
"costituente",
dobbiamo
lavorare
al
raggruppamento
unitario
di
un
settore
più
largo,
che
vada
al
di
là
dei
soli
militanti
comunisti,
costruendo,
nei
luoghi
di
lavoro,
ovunque
possibile,
"comitati
per
la
rifondazione
sindacale",
che
coinvolgano
attivisti
sindacali
di
diversa
appartenenza,
e
cerchino
di
configurarsi
come
punto
di
riferimento
per
l'azione
antipadronale
e
antiburocratica.
E'
altresì
importante
che
il
PRC
lavori
al
rilancio
del
movimento
dei
delegati
Rsu.
Un
coordinamento
permanente
della
sinistra
larga
degli
eletti/e
nelle
Rsu
su
un
programma
immediato
di
natura
classista
può
essere,
infatti,
uno
strumento
importante
di
lotta
antiburocratica
e
per
lo
sviluppo
del
movimento
di
massa.
Da
questo
punto
di
vista
va
dato
il
pieno
appoggio
all'iniziativa
unitaria
del
sindacalismo
classista
che
ha
visto
un
suo
primo
importante
momento
nell'incontro
dei/delle
delegati/e
sindacali
del
1
dicembre
2001
a
Bologna
e
che
vedrà
il
successivo
passaggio
con
l'assemblea
dell'11
gennaio
2002
a
Milano.
Infine, pur considerando centrale la lotta nelle organizzazioni sindacali, i comunisti debbono evitare qualsiasi tipo di formalismo. In particolare, nei momenti di ascesa della lotta, sia generali che particolari, è decisivo lavorare allo sviluppo di forme di autorganizzazione di massa, sia nella forma di comitati di lotta, sia nella forma ben più elevata di strutture elette e controllate democraticamente (comitati di sciopero, consigli). E' in definitiva in queste strutture, più che nelle organizzazioni sindacali, che si giocherà la battaglia dei comunisti per la conquista della maggioranza della classe.
Tesi
25
-
INTERVENTO
NEL
MOVIMENTO
ANTIGLOBALIZZAZIONE
IN
ITALIA
Il
movimento
antiglobalizzazione
in
Italia
ha
conseguito
una
reale
dimensione
di
massa
e
racchiude
rilevanti
potenzialità
anticapitalistiche.
Ma
è
decisiva
la
sua
convergenza
di
lotta
con
la
classe
operaia
come
condizione
dell'affermazione
delle
sue
stesse
ragioni.
Lavorare
nella
classe
operaia
per
l'assunzione
delle
istanze
del
movimento
antiglobalizzazione
entro
un
programma
di
classe.
Lavorare
nel
movimento
antiglobalizzazione
per
la
sua
aperta
proiezione
di
lotta
verso
il
movimento
operaio
entro
il
conflitto
centrale
tra
capitale
e
lavoro.
Questa
è
oggi
una
necessità
centrale
della
battaglia
di
egemonia
dei
comunisti
per
la
ricomposizione
di
un
blocco
sociale
anticapitalistico.
Ma
richiede
un
impegno
di
lotta,
entro
la
costruzione
del
movimento,
contro
le
posizioni
prevalenti
nelle
sue
attuali
direzioni.
Il movimento antiglobalizzazione ha conquistato un ruolo obiettivo di grande rilevanza nello scenario italiano. Più che in altri Paesi europei esso ha conseguito una reale dimensione di massa, in particolare tra i giovani, testimoniata dalla grande manifestazione di Genova; ha coinvolto reali settori di avanguardia della classe lavoratrice e delle sue rappresentanze sindacali; ha esercitato ed esercita un rilevante impatto politico sull'intera situazione nazionale. Più in generale esso si circonda di una diffusa simpatia popolare, quale effetto indiretto della crisi di egemonia del liberismo presso ampi settori di massa. Per questo il movimento rivela un potenziale prezioso di ulteriore espansione, che gli eventi di guerra non hanno pregiudicato.
Ma
proprio
questa
realtà
e
potenzialità
sottolineano
i
problemi
irrisolti
dell'orientamento
del
movimento.
La
sproporzione
tra
il
livello
complessivamente
arretrato
della
coscienza
politica
diffusa
del
movimento
e
l'elevato
livello
di
scontro
con
l'apparato
dello
Stato
e
lo
stesso
governo,
documentata
dai
fatti
di
Genova;
lo
scarto
tra
l'elementare
pulsione
critica
antiliberista
e
il
livello
di
confronto
imposto
dalla
precipitazione
della
guerra
imperialistica
in
Afghanistan,
descrivono
una
contraddizione
obiettiva
e
pericolosa,
in
parte
inscritta
inevitabilmente
nell'inesperienza
della
giovane
generazione,
in
parte
amplificata
dalla
cultura
riformistico-paficista
della
direzione
maggioritaria
del
movimento.
Il
nostro
partito,
forte
di
una
presenza
diffusa
nel
movimento,
può
e
deve
impegnarsi
ad
affrontare
e
superare
in
avanti
quella
contraddizione,
nell'interesse
del
movimento
e
delle
sue
ragioni.
Non
può
concepire
il
proprio
ruolo
né
come
pura
rappresentanza
istituzionale
delle
istanze
di
movimento;
né
come
mediatore
tra
movimento
e
istituzioni;
né
come
puro
collante
dell'unità
del
movimento
intesa
come
blocco
politico-diplomatico
con
le
componenti
associative
centrali
della
sua
leadership.
Ma
deve
invece
combinare
un'azione
leale
di
costruzione
quotidiana
del
movimento
di
massa
antiglobalizzazione
con
un'aperta
battaglia
di
orientamento
politico
nel
movimento
stesso:
una
battaglia
tesa
a
sviluppare
la
coscienza
politica
del
movimento
sul
terreno
anticapitalistico
e
antimperialista
(v.
tesi…),
la
sua
autonomia
e
contrapposizione
a
centrodestra
e
centrosinistra,
la
sua
convergenza
di
lotta
con
la
classe
operaia
sul
terreno
del
blocco
sociale
alternativo.
Una
battaglia
aperta
di
egemonia
alternativa.
L'azione di costruzione del movimento implica innanzitutto un'aperta responsabilità di proposta sullo stesso terreno delle forme di lotta e di organizzazione del movimento. In questo ambito va contrastata ogni posizione, ciclicamente affiorante, che di fatto propone al movimento una sorta di ripiegamento seminariale e un arretramento dei suoi livelli di mobilitazione (come nella fase successiva alle manifestazioni di Genova, alla vigilia della manifestazione di Napoli contro la NATO, in relazione alla stessa manifestazione di Roma del 10 novembre). Va posta invece la centralità delle manifestazioni, pacifiche e di massa, quale terreno di lotta indispensabile ai fini dell'aggregazione, dell'impatto politico, della stessa visibilità e popolarizzazione delle ragioni del movimento. Va affrontata seriamente, in questo quadro, la problematica dell'autodifesa delle manifestazioni da qualsiasi forma di aggressione, quale strumento di tutela del carattere pacifico e di massa delle manifestazioni medesime (v. servizi d'ordine). Va inoltre affrontata la questione dell'organizzazione democratica nazionale di un movimento che proprio per la sua espansione, non può più reggersi su un puro patto di vertice inter-associativo, ma deve coinvolgere democraticamente la massa degli attivisti, oggi privi di ogni potere decisionale, nella definizione delle scelte del movimento stesso e delle sue rappresentanze ad ogni livello: pena il combinarsi di una crisi di democrazia, di un'elusione delle scelte, di una debole rappresentatività delle decisioni.
Sul
piano
politico
è
necessario
sviluppare,
nel
movimento
la
proposta
di
convergenza
di
lotta
con
la
classe
operaia,
sul
terreno
dell'opposizione
aperta
al
padronato
e
al
governo
Berlusconi.
Non
si
tratta
semplicemente
di
rappresentare
la
nostra
"sensibilità"
di
classe
entro
il
mosaico
del
movimento.
Si
tratta
di
lottare
per
conquistare
il
grosso
del
movimento
ad
una
prospettiva
di
classe,
quale
condizione
dell'affermazione
delle
sue
stesse
ragioni,
e
quale
terreno
di
valorizzazione
delle
sue
stesse
potenzialità
d'impatto.
Nell'attuale
quadro,
il
movimento
antiglobalizzazione,
già
forte
di
una
diffusa
simpatia
in
settori
vasti
della
società,
potrebbe
realmente
trasformarsi
nel
detonatore
di
un'esplosione
sociale:
ma
alla
condizione
che
dal
movimento
emerga
un
indirizzo
nuovo
e
una
proposta
nuova.
L'incontro
con
i
lavoratori
non
può
ridursi
ad
una
somma
di
buone
relazioni
con
le
rappresentanze
del
sindacalismo
di
classe,
né
ad
un'azione
di
pressione
su
Cofferati
o
alla
semplice
registrazione
dell'adesione
FIOM
al
GSF
(che
certo
è
importante).
Ma
può
e
deve
tradursi
in
una
pubblica
proposta
di
azione
comune,
basata
su
una
piattaforma
di
rivendicazioni
semplice
e
unificante,
che
sappia
stabilire
un
rapporto
di
sintonia
con
le
domande
sociali
delle
più
vaste
masse
e
che
proprio
per
questo
possa
sfidare
all'unità
d'azione
le
stesse
organizzazioni
sindacali
ponendo
ognuna
di
fronte
alle
proprie
responsabilità.
In
questo
senso
la
proposta
della
vertenza
generale
del
mondo
del
lavoro
e
dei
disoccupati
va
posta
apertamente
non
solo
tra
i
lavoratori
ma
nello
stesso
movimento
antiglobalizzazione,
indicando
così
da
entrambi
i
versanti,
il
possibile
terreno
comune
di
un'azione
di
lotta
unitaria
e
concentrata.
La
stessa
prospettiva
dello
sciopero
generale
contro
padronato
e
governo
va
indicata
come
occasione
straordinaria
di
una
preziosa
convergenza
di
lotta
tra
lavoratori
e
giovani,
in
una
dinamica
di
rottura
con
la
borghesia.
La lotta per l'egemonia di classe nel movimento antiglobalizzazione implica un'azione politica costante per la sua autonomia e alternatività al centrosinistra borghese. L'apparato DS e le forze dell'Ulivo lavorano a produrre un condizionamento esterno del movimento nel tentativo di sussumerlo come fattore subalterno di una futura alternanza liberale. L'operazione avviata in occasione della marcia Perugia-Assisi, attraverso la piattaforma della cosiddetta Tavola della Pace, si inquadra apertamente in questa strategia di fondo, che trova sponde e interlocutori in settori dirigenti del movimento o risposte deboli e difensive. Il PRC può e deve contrastare nel movimento, con tutte le proprie forze, le operazioni dei DS e del centrosinistra. Può farlo alla condizione di rivedere a fondo l'impostazione attuale e di prospettiva. Non si tratta di proporre ai liberali del centrosinistra una contaminazione di movimento nella logica della sinistra plurale. Si tratta di sviluppare nel movimento una politica di autonomia e di rottura col centrosinistra e l'apparato DS. Non si tratta di arginare e diplomatizzare le contraddizioni tra movimento e Ulivo, o di teorizzare la non ingerenza in questa contraddizione (come nel caso della marcia di Perugia): si tratta all'opposto di lavorare ad approfondirla. Combinando la più ampia proiezione di massa verso i lavoratori e i giovani, fuori da ogni cultura minoritaria, con la spiegazione costante dell'inconciliabilità tra le ragioni di fondo del movimento e i custodi liberali della società borghese e della sua barbarie. In questo quadro il voto dell'apparato DS e dell'Ulivo a sostegno della guerra imperialista contro il popolo afghano va assunto pubblicamente come riprova inequivocabile e definitiva di quella inconciliabilità. Più in generale la lotta per l'egemonia anticapitalistica e antimperialistica nel movimento antiglobalizzazione rappresenta il terreno centrale di azione per la difesa e lo sviluppo della sua autonomia.
Tesi
26
-
SCUOLA
La
scuola
è
un
terreno
nevralgico
dell'attacco
dominante.
Ma
è
anche
un
settore
strategico
per
la
ricomposizione
del
blocco
sociale
alternativo.
Il governo Berlusconi punta ad un autentico salto delle politiche reazionarie contro l'istruzione pubblica. Ancora una volta eredita le politiche sviluppate dalla legislatura di centrosinistra e i loro punti di sfondamento (si pensi alle scelte del governo D'Alema nel '98 in ordine alla parità scolastica) per estenderle e radicalizzarle contro l'insieme dei lavoratori della scuola e degli studenti, e contro l'interesse sociale delle classi subalterne. La scuola pubblica è colpita innanzitutto dai nuovi tagli operata dalla Finanziaria, direttamente travasati in investimento di guerra (5 mila mld); dalla programmata riduzione delle spese per il personale della scuola nell'arco di cinque anni, connessa anche ad una riduzione secca dell'occupazione nel settore; dall'estensione dei processi di "autonomia finanziaria" legati alla riduzione dei fondi pubblici; dalla programmata riduzione, da cinque a quattro anni, dell'istruzione superiore combinata con l'equiparazione della formazione professionale a liceo e istituti professionali, in funzione degli interessi d'impresa. Parallelamente il governo delle destre assume la rappresentanza diretta del blocco d'interessi della scuola privata, in piena sintonia col Vaticano, come articolazione del proprio blocco sociale di riferimento. La politica dei buoni scuola tende a generalizzarsi anche a livello territoriale per opera dei governi regionali. E il federalismo regionalista sottraendo allo Stato l'esclusiva competenza in fatto di istruzione cerca di produrre un vero e proprio sfondamento sia sul terreno della privatizzazione della scuola pubblica sia sul terreno complementare del privilegiamento della scuola privata, aziendale e confessionale.
Questo attacco alla scuola pubblica, combinato con l'analoga politica universitaria, è destinato tuttavia ad incontrare resistenze sociali crescenti. La scuola è il terreno su cui le politiche liberiste, persino nella fase della loro ascesa generale, hanno maggiormente faticato a conquistare un consenso sociale maggioritario. Oggi, nella nuova fase aperta dalla crisi più generale dell'egemonia liberista, la scuola si conferma come uno dei possibili terreni centrali di resistenza e controffensiva. La ripresa delle lotte degli insegnanti negli ultimi anni (dopo il lungo periodo di stasi intercorso dopo la stagione dell'87-'88) è rivelatrice di una controtendenza in atto, tanto più significativa a fronte della frammentazione della rappresentanza sindacale. Parallelamente, proprio l'affacciarsi di una nuova generazione sul terreno delle lotte trova un significativo riflesso nella ripresa del movimento degli studenti e soprattutto nel maturare al suo interno di più visibili spunti di politicizzazione. L'intersezione frequente tra movimento degli studenti e movimento antiglobalizzazione è sotto questo profilo indicativa.
Tanto
più
oggi
i
comunisti
devono
assumere
la
scuola
come
uno
dei
terreni
prioritari
di
ricomposizione
di
un
blocco
alternativo
anticapitalistico.
Per
questo
il
nostro
partito
non
può
limitarsi
a
sostenere
e
rivendicare
lo
sviluppo
del
movimento
e
dei
movimenti
contro
le
politiche
reazionarie
sull'istruzione,
cosa
naturalmente
preziosa
e
insostituibile.
Ma
deve
combinare
la
propria
partecipazione
alla
costruzione
attiva
del
movimento
con
una
assunzione
di
responsabilità
di
proposta
in
funzione
della
ricomposizione
unitaria
della
lotta
e
della
costruzione
di
uno
sbocco.
Occorre
innanzitutto
lavorare
a
una
piattaforma
unificante
delle
mobilitazioni
che
favorisca
la
ricomposizione
di
lotta
tra
insegnanti
e
studenti
e
leghi
le
rivendicazioni
immediate
a
un
programma
più
complessivo
di
alternativa
di
classe.
La
rivendicazione
degli
aumenti
salariali
per
i
lavoratori
della
scuola,
della
riduzione
del
numero
massimo
di
alunni
per
classe
e
di
classi
per
insegnante;
lo
sviluppo
e
risanamento
delle
strutture
scolastiche;
l'estensione
della
scuola
pubblica
(a
partire
dalla
scuola
per
l'infanzia)
e
del
suo
servizio
in
rapporto
alla
popolazione
adulta,
agli
immigrati,
agli
anziani;
vanno
nel
loro
insieme
collegate
all'obiettivo
dell'abolizione
di
ogni
forma
di
finanziamento
diretto
o
indiretto,
anche
a
livello
di
giunte
locali
(di
centrodestra
e
centrosinistra),
alla
scuola
privata
e
confessionale,
alla
prospettiva
di
una
riacquisizione
su
basi
pubbliche
e
gratuite
di
tutta
l'istruzione,
alla
rivendicazione
della
tassazione
progressiva
dei
grandi
patrimoni,
rendite
e
profitti,
come
fonte
di
finanziamento
della
scuola.
Così
la
lotta
contro
lo
smantellamento
degli
organi
collegiali
-promosso
dal
governo
Berlusconi-
va
sviluppata
non
in
una
logica
difensiva
e
conservativa
ma
in
nome
di
una
proposta
di
controllo
sociale
sull'istruzione
pubblica
basata
sulla
partecipazione
degli
insegnanti,
degli
studenti,
dell'insieme
della
popolazione
scolastica
in
alternativa
al
controllo
delle
imprese
e
dei
loro
interessi.
Congiuntamente i comunisti debbono avanzare la proposta di una unificazione del movimento studentesco in atto sul terreno dell'autorganizzazione democratica. Una situazione di atomizzazione del movimento e delle occupazioni, senza piattaforma unificata, senza un quadro democratico di verifica della rappresentatività delle diverse posizioni e proposte, sarebbe priva di sbocchi vincenti. Ed anzi spianerebbe la strada, come l'esperienza insegna, ai vertici dell'Uds e al relativo riflusso del movimento. Si può invece imparare dall'esperienza degli studenti francesi: proporre che ogni assemblea di scuola occupata designi democraticamente i propri delegati, permanentemente revocabili, e che i coordinamenti dei delegati, ai vari livelli, sino al livello nazionale siano la sede democratica di definizione della piattaforma rivendicativa del movimento. Solo così il peso delle diverse posizioni, organizzazioni ed aree sarà misurato dall'effettivo livello di rappresentatività democratica. Solo così potrà svilupparsi una vertenza nazionale vera tra movimento e governo. Solo così le stesse forme di lotta e la loro continuità saranno finalizzate su obiettivi chiari, rappresentativi, verificabili.
Tesi
27
-
QUESTIONE
MERIDIONALE
Le
masse
meridionali
sono
un
alleato
strategico
decisivo
della
classe
operaia
nella
prospettiva
anticapitalistica,
ed
una
forza
determinante
per
l'affermazione
di
tale
prospettiva.
La
questione
meridionale
si
ripropone
come
questione
centrale
della
vita
nazionale
e
uno
dei
punti
di
massima
intersezione
di
questione
sociale
e
questione
democratica.
Già la storia degli anni Ottanta ha segnato la continuità del processo di emarginazione economico e sociale del Sud all'interno della divisione nazionale e internazionale del lavoro. La svolta degli anni Novanta e l'avvio della II Repubblica ha indotto la situazione meridionale a una vera e propria precipitazione: il taglio dei trasferimenti assistenziali, il disegno liberista del federalismo, la flessibilizzazione dilagante (v. i contratti d'area esemplari di Manfredonia, Crotone, Castellamare) si pongono su uno sfondo sociale già segnato da una profonda deindustrializzazione e dall'ulteriore espansione di una disoccupazione di massa, specie giovanile già da tempo drammatica. L'ingresso nell'Europa di Maastricht consolida e accentua queste tendenze di fondo: confermando una volta di più che là crescente marginalità dell'economia meridionale lungi dall'essere un'espressione di arretratezza e di "ritardo" è il risvolto di una reale integrazione nel moderno mercato capitalistico e un laboratorio di sperimentazione delle forme più avanzate di sfruttamento.
Peraltro l'ulteriore declino del Sud produce al suo interno una polarizzazione della ricchezza e del contrasto di classe. Da un lato abbiamo una borghesia meridionale emergente legata alle costruzioni, al terziario e all'economia turistica, protagonista spregiudicata delle operazioni speculative sulle aree industriali dismesse e che moltiplica i propri capitali attraverso i meccanismi della rendita. Al polo opposto il pesante ridimensionamento della classe operaia industriale si accompagna ad un processo di più ampia pauperizzazione segnato dal peso crescente dei disoccupati, dalla precarietà del lavoro stagionale, dal declassamento del pubblico impiego, dal supersfruttamento del lavoro femminile.
In questo quadro la criminalità organizzata trova il suo spazio naturale di riproduzione sociale: essa si intreccia profondamente con la borghesia meridionale di cui è organica frazione, attraverso un complesso rapporto: da un lato esercita su di essa un prelievo fiscale illegale e diffuso, largamente sostitutivo del fisco statale, entrando così in contraddizione con l'interesse complessivo della borghesia nazionale, ma dall'altro le assicura protezione sociale e credito bancario (anche attraverso l'utilizzo di settori dello Stato). Inoltre la criminalità agisce come ufficio di collocamento di giovani disoccupati e quindi, paradossalmente, come ammortizzatore sociale, tanto più in una fase in cui lo Stato borghese, da sempre esattore e gendarme, giunge a negare persino l'assistenza. In questo quadro nessuna sentenza di tribunale o iniziativa giudiziaria, nessun proclama solenne di lotta alla mafia possono rimuovere peso sociale e radici della criminalità organizzata, obiettivamente incorporata al blocco storico dominante.
Il nuovo governo delle destre costituisce oggi un fattore di ulteriore aggravamento della situazione meridionale. Le politiche di flessibilizzazione selvaggia del lavoro e di attacco alle conquiste sociali ricadranno in forma concentrata sulle condizioni materiali di ampi settori di giovani e di donne meridionali. Parallelamente il rilancio delle politiche delle "grandi opere" mira a rafforzare il blocco affaristico speculativo con l'aperto coinvolgimento di settori malavitosi del capitale, a scapito dell'ambiente e della stessa occupazione (v. ponte sullo stretto).
La
piattaforma
di
lotta
per
la
vertenza
generale
unificante
di
lavoratori
e
disoccupati
acquista
dunque
una
valenza
centrale
per
le
masse
del
Mezzogiorno.
Le
rivendicazioni
del
salario
garantito
ai
disoccupati
e
ai
giovani
in
cerca
di
prima
occupazione,
della
trasformazione
dei
lavoratori
precari
in
lavoratori
a
tempo
indeterminato,
dell'abolizione
del
"Pacchetto
Treu"
e
delle
leggi
di
flessibilizzazione
del
lavoro
vanno
assunte,
tanto
più
oggi,
come
terreno
di
unificazione
del
blocco
sociale
alternativo
nel
sud
e
come
ambito
di
ricomposizione
in
esso
dell'egemonia
di
classe.
In
questo
senso
vanno
ricondotte
a
un
programma
anticapitalistico
più
complessivo,
basato
su
un
vasto
piano
di
rinascita
e
di
sviluppo
generale
del
Mezzogiorno,
e
sulla
necessita
di
un'azione
di
lotta
radicale
a
suo
sostegno
da
parte
dell'insieme
del
movimento
operaio,
in
rottura
con
la
logica
delle
politiche
concertative
adottate
fino
ad
oggi
dal
sindacato.
Occorre
organizzare
comitati
di
lotta
che
vedano
come
protagonisti
ovunque
possibile
lavoratori,
disoccupati,
precari,
migranti
e
studenti,
che
sostengano
scelte
occupazionali
in
netta
controtendenza
con
quelle
attualmente
dominanti,
ponendo
anche
l'obiettivo
della
nazionalizzazione
delle
fabbriche
che
licenziano,
evadono,
sfruttano
mano
d'opera
a
basso
costo
(con
scarse
norme
di
sicurezza,
bassi
salari,
scarsa
specializzazione,
part-time,
ecc.
Occorre
rivendicare
come
politica
sociale
per
la
rinascita
del
Mezzogiorno
l'eliminazione
dei
privilegi
di
classe
della
borghesia:
l'abolizione
del
segreto
bancario,
commerciale,
finanziario
quale
unica
condizione
per
la
lotta
all'elusione
ed
evasione
fiscale;
l'imposizione
di
una
patrimoniale
ordinaria
e
straordinaria
sulle
grandi
ricchezze;
la
tassazione
fortemente
progressiva
dei
profitti
e
delle
grandi
rendite;
l'abolizione
dei
trasferimenti
pubblici
alle
imprese,
vera
assistenzialismo
di
Stato
che
sottrae
ogni
anno
all'erario
pubblico
decine
di
migliaia
di
miliardi.
In conclusione al blocco storico dominante tra la grande borghesia del Nord e la borghesia meridionale, ivi inclusa la sua frazione criminale, occorre contrapporre il blocco storico tra la classe operaia e le masse popolari del Sud, a partire dai lavoratori e dai disoccupati, sulla base di un programma anticapitalistico. Ed anzi questo blocco di classe è il solo che può trasformare la questione meridionale in una leva decisiva dell'alternativa anticapitalista.
Tesi
28
-
PER
UN
MOVIMENTO
DI
MASSA
DELLE
DONNE
Il
PRC
può
e
deve
impegnarsi
per
lo
sviluppo
di
un
movimento
di
massa
delle
donne
sul
terreno
della
ricomposizione
dell'opposizione
di
classe
e
anticapitalistica.
Negli anni Settanta l'ascesa della classe operaia italiana aprì un varco importante allo sviluppo del movimento delle donne. E a sua volta la lotta delle donne fece un'irruzione forte nel dibattito politico, nella cultura, nella società italiana, favorendo la maturazione di una esperienza di massa più avanzata sullo stesso terreno democratico e ottenendo anche risultati importanti, seppur limitati, dal punto di vista del costume e del diritto (v. legislazione sulle lavoratrici madri, L. 194/78).
Con
gli
anni
Ottanta
l'arretramento
del
movimento
operaio
trascinò
con
sé
un'involuzione
più
generale
della
sensibilità
democratica
e
della
coscienza
di
massa
e,
con
esse,
un
arretramento
del
movimento
delle
donne.
Ma
soprattutto
su
quello
sfondo
si
svilupparono
nel
movimento
femminile
orientamenti
culturali
di
distacco
progressivo
dai
temi
sociali
e
di
classe,
di
rifiuto
della
contraddizione
capitale/lavoro,
di
ripiegamento
intellettualistico-elitario.
Le
teorie
idealistiche
oggi
presenti
in
una
parte
rilevante
del
pensiero
femminista
-che
riconducono
l'oppressione
femminile
a
una
radice
biologica
e
a
un
codice
simbolico
maschile-
nacquero
in
quel
clima
sociale
e
culturale.
Oggi l'inizio di una ripresa del movimento operaio, la crisi di egemonia delle politiche liberiste, l'affacciarsi di una giovane generazione, creano uno spazio nuovo per il possibile rilancio di un movimento di massa delle donne, capace di coinvolgere in primo luogo i settori più oppressi e sfruttati della popolazione femminile. E tanto più oggi il PRC deve impegnarsi in questa direzione fuori da ogni adattamento a espressioni elitarie del pensiero femminista.
Le
politiche
sociali
dell'intera
legislatura
di
centrosinistra
hanno
determinato
un
attacco
profondo
alle
condizioni
di
vita
di
milioni
di
donne
(Legge
40/98
del
governo
Prodi,
Legge
Bassanini
del
'97
a
favore
della
sussidiarietà,
purtroppo
sostenute
dal
voto
del
PRC).
Oggi
il
governo
Berlusconi
da
un
lato
dà
fiato
all'arroganza
del
peggiore
integralismo
cattolico
(v.
l'attacco
alla
194),
dall'altro
innesta
il
rilancio
della
"centralità
della
famiglia"
su
un
ulteriore
smantellamento
dello
Stato
sociale.
Attraverso
detrazioni
fiscali
e
assegni
irrisori
il
nucleo
familiare,
cioè
la
donna,
è
incentivato
a
farsi
carico
di
compiti
di
cura
prima
propri
del
Welfare
State.
La
privatizzazione
del
sistema
sanitario
e
degli
asili
nido
va
nella
medesima
direzione.
Le
donne
sono
costrette
a
subire
doppiamente
sulla
propria
pelle
il
carico
di
lavoro
di
cura
nei
confronti
dei
soggetti
a
rischio
e
marginalizzati
di
questa
società
(anziani,
malati
terminali,
sieropositivi,
portatori
di
handicap).
E
questo
nel
mentre
subiscono
come
prime
vittime
l'attacco
ai
posti
di
lavoro
(licenziamenti)
e
la
compressione
dei
salari.
Da
più
versanti
l'oppressione
di
milioni
di
donne
ha
sempre
più
un
contenuto
sociale
riconoscibile
e
inequivoco.
Su Questo terreno va costruito un intervento di classe teso a ricomporre la più vasta opposizione di massa, a partire dalle donne. La lotta alle privatizzazioni e contro l'attacco allo Stato sociale; la lotta per il diritto al lavoro e per un salario garantito quando il lavoro non c'è; la lotta per il diritto alla salute garantito dal servizio pubblico e gratuito; la lotta per gli asili nido e contro la chiusura dei consultori, possono coinvolgere, in prima fila, i settori più oppressi della popolazione femminile. Ma è essenziale che il movimento operaio assuma queste tematiche all'interno delle proprie lotte come terreno di egemonia e ricomposizione. E che il PRC ponga queste tematiche congiuntamente all'interno del movimento operaio (contro ogni logica concertativa) e come ambito di sviluppo di un movimento di massa delle donne.
Il PRC ha il compito di monitorare tutte le espressioni di lotta delle donne, di radicarsi al loro interno, di lavorare a estenderle e unificarle. Ma costruendo sempre una connessione viva tra obiettivi immediati e prospettiva anticapitalistica, entro la logica transitoria. E quindi riconducendo ogni lotta delle donne al processo più generale di emancipazione della classe lavoratrice, per un'alternativa di società e di potere.
Tesi
29
-
INTERVENTO
SULL'IMMIGRAZIONE
Il
fenomeno
dell¹immigrazione
uno
dei
prodotti
più
macroscopici
del
carattere
ineguale
e
squilibrato
dello
sviluppo
capitalistico
è
utilizzato
dalla
classe
dominante
per
dividere
e
indebolire
la
classe
operaia.
L¹impegno
dei
comunisti
per
i
diritti
sociali
e
politici
degli
immigrati
e
contro
la
xenofobia
e
il
razzismo
è
parte
integrante
della
lotta
per
la
ricomposizione
dell¹unità
della
classe
e
per
la
costruzione
del
blocco
sociale
alternativo.
Le
migrazioni
sono
uno
degli
effetti
più
macroscopici
delle
contraddizioni
dello
sviluppo
capitalistico,
ed
oggi
anche
delle
guerre
e
delle
catastrofi
ambientali.
Anche
l'Italia
conosce
da
tempo
una
presenza
crescente
di
lavoratori
provenienti
da
Paesi
dell¹Europa
dell'Est
e
del
Terzo
mondo
che
la
classe
dominante
punta
ad
utilizzare
come
forza
lavoro
disponibile
a
basso
costo
e
con
poche
pretese.
Chiusura
delle
frontiere,
flussi
programmati,
controllo
poliziesco
sono
i
punti
salienti
delle
politiche
dell'immigrazione
attuate
nell'ultimo
decennio
e
condivise,
al
di
là
delle
differenze
di
tono
e
di
accento,
dal
centrosinistra
e
dal
centrodestra.
Lungi
dal
disciplinare
il
fenomeno,
questa
linea
repressiva
aggrava
le
già
difficili
condizioni
di
vita
dei
migranti,
crea
i
cosiddetti
clandestini,
contribuisce
a
costruire
una
percezione
distorta
dell'immigrazione
come
fenomeno
criminale
e
criminogeno
e
ad
alimentare
la
xenofobia
e
i
pregiudizi
razzisti.
Peraltro,
la
condizione
di
clandestinità,
il
ricatto
dell'espulsione,
la
minaccia
della
xenofobia
sono
funzionali
a
rendere
gli
immigrati
disponibili
per
qualsiasi
lavoro
e
a
qualsiasi
condizione,
a
farne
cioè
un
elemento
di
indebolimento
e
di
divisione
della
classe
operaia.
Di
fronte
alla
novità
dell'immigrazione,
la
risposta
delle
forze
del
movimento
operaio
è
stata
del
tutto
subalterna
alle
tendenze
politiche
dominanti,
limitandosi
al
più,
a
generici
sussulti
di
impegno
umanitario.
Anche
il
PRC,
nel
quadro
dell'appoggio
al
governo
Prodi,
porta
la
responsabilità
della
legge
Turco-Napolitano
che
uniforma
il
nostro
Paese
alla
legislazione
poliziesca
di
Schengen
e
introduce
per
gli
immigrati
irregolari
i
campi
di
concentramento
e
la
deportazione.
I
comunisti
devono
essere
consapevoli
che
i
fenomeni
migratori
pongono
una
sfida
sul
terreno
della
ricomposizione
dell'unità
della
classe
operaia
e
della
costruzione
del
blocco
sociale
alternativo.
Nella
difesa
dei
lavoratori
immigrati
il
PRC
deve
saper
svolgere,
secondo
l'indicazione
leninista,
la
funzione
del
"tribuno
del
popolo"
che
dà
voce
a
coloro
che
in
questa
società
non
hanno
voce
perché
sono
i
più
oppressi.
Da
un
lato
occorre
battersi
per
realizzare
l'unità
fra
lavoratori
stranieri
e
italiani,
dall'altro
occorre
impegnarsi
risolutamente
contro
la
xenofobia
e
il
razzismo
e
per
costruire
la
risposta
militante,
unitaria
e
di
massa
alle
aggressioni
xenofobe.
Occorre
rivendicare
innanzitutto
il
rispetto
del
diritto
d'asilo,
la
chiusura
dei
cosiddetti
centri
di
permanenza
temporanea,
la
regolarizzazione
di
tutti
gli
immigrati
presenti
sul
territorio
nazionale,
l'abolizione
delle
procedure
poliziesche
per
il
permesso
di
soggiorno
e
di
lavoro,
l'attuazione
di
concrete
misure
materiali
e
socio-culturali
di
accoglienza
e
integrazione;
ma
l'obiettivo
dev'essere
l¹abolizione
di
tutte
le
restrizioni
all¹ingresso
e
i
pieni
diritti
di
cittadinanza,
sociali
e
politici,
per
tutti
coloro
che
cercano
migliori
condizioni
di
vita
nel
nostro
Paese.
Nel
contempo
occorre
battersi
per
sottrarre
i
lavoratori
stranieri
al
lavoro
nero,
ai
bassi
salari,
al
supersfruttamento,
impegnandosi
per
la
loro
sindacalizzazione
e
la
piena
integrazione
nel
movimento
operaio
e
nelle
sue
organizzazioni.
In
questo
ambito
generale
assume
oggi
un
carattere
di
priorità
la
piò
ampia
mobilitazione
contro
la
legge
Bossi-Fini
e
l'ulteriore
salto
reazionario
che
essa
configura
(annullamento
del
diritto
d'asilo,
introduzione
del
reato
penale
di
immigrazione
clandestina,
condanna
del
lavoratore
migrante
alla
flessibilità
a
vita
in
subordine
all'impresa).
Ciò
che
richiede,
tanto
più
oggi,
la
diretta
assunzione
della
difesa
dei
diritti
dei
lavoratori
stranieri
da
parte
dell'insieme
del
movimento
operaio
come
parte
integrante
della
piattaforma
di
lotta
contro
il
governo
per
la
sua
cacciata.
Tesi
30
-
IMPOSTAZIONE
PROGRAMMATICA
DELL'ALTERNATIVA
DI
CLASSE
Il
PRC
è
e
deve
essere
in
prima
fila
nell'opposizione
all'aggressione
liberista.
Ma
non
può
limitarsi
ad
una
pura
azione
difensiva,
pur
prioritaria.
E'
invece
essenziale
collegare,
ovunque
possibile,
l'azione
di
difesa
e
ampliamento
dello
stato
sociale
e
dei
diritti
con
un
programma
anticapitalistico
contro
la
crisi
che
indichi
una
soluzione
di
classe
alternativa.
La
questione
della
proprietà
e
del
potere
non
può
essere
solo
enunciata:
dev'essere
posta
al
centro
dell'elaborazione
programmatica
del
partito
come
filo
conduttore
dell'intervento
dei
comunisti
nella
classe
operaia.
In questi anni il nostro partito ha assunto come proprio orizzonte programmatico d'intervento, un orizzonte di riforma della società capitalistica in direzione di un modello di sviluppo non liberista. Ogni rivendicazione immediata, dalla tassazione dei BOT alle 35 ore, ai diritti dei lavoratori, è stata ricondotta a un programma di riforma indicato come terreno realistico di un'alternativa di società oggi "possibile", e di una "sinistra plurale" di governo che la persegua. La rivendicazione della "Tobin Tax" per un'"Europa sociale" è l'esemplificazione attuale di questa impostazione .
Questa impostazione ad onta del suo presunto realismo, si è rivelata nei fatti profondamente utopica. Immaginare una soluzione riformistica complessiva, che sia ad un tempo compatibile col capitalismo e di carattere "progressivo", significa nelle condizioni storiche dell'oggi perseguire un'utopia. Lo riprovano le esperienze concretamente vissute o osservate negli anni '90. Dal versante del governo, sotto Prodi come sotto Jospin, quel programma di riforme possibili si è capovolto in una politica controriformatrice e in una pesante corresponsabilizzazione dei comunisti alle politiche liberiste del capitale. Dal versante dell'opposizione quello stesso programma, sistematicamente proposto come terreno di confronto alle forze politiche dominanti, e all'apparato liberale dei DS non ha ottenuto neppure un ascolto. Continuare a perseguire questa impostazione significa alimentare tra i lavoratori quelle illusioni neoriformistiche che i comunisti in quanto tali sono chiamati a combattere.
L'impostazione programmatica dell'intervento di classe va allora esattamente rovesciata. I comunisti non possono assumere come proprio orizzonte i cosiddetti obiettivi "tangibili e possibili". Debbono invece costruire la propria politica sulla spiegazione costante che nessun serio obiettivo di progresso sociale può essere raggiunto e consolidato senza mettere in discussione in ultima istanza i rapporti di proprietà e di potere. Non si tratta affatto, com'è ovvio, di rinunciare alle rivendicazioni immediate ed elementari, che anzi vanno articolate e ricomposte in una precisa proposta d'azione (vertenza generale). Si tratta di spiegare, sulla base dell'esperienza pratica dei lavoratori, che ogni riforma, ogni eventuale conquista parziale, ogni eventuale difesa di vecchie conquiste può realizzarsi solo come sottoprodotto di uno scontro generale con la società capitalistica e i suoi governi (comunque colorati). E che solo la rottura dei rapporti capitalistici, solo un governo dei lavoratori e delle lavoratrici, basato sulla loro forza organizzata, può dischiudere una reale alternativa di società.
Ma proprio per questo va superata ogni impostazione programmatica "compatibilista", apparentemente concreta, concretamente astratta. E' necessario individuare su ogni terreno un sistema di rivendicazioni che da un lato si raccordi alla specifica concretezza dello scontro di classe e dall'altro prefiguri la necessità di uno sbocco anticapitalistico complessivo, fuori da ogni illusione riformistica.
La
difesa
delle
conquiste
sociali
del
movimento
operaio
dalle
politiche
dominanti;
lo
sviluppo
e
l'estensione
dei
diritti
sociali
come
diritti
universali,
rappresentano
rivendicazioni
programmatiche
essenziali
del
PRC.
Ma
il
loro
perseguimento
implica
non
solo
la
richiesta
di
abolizione
delle
controriforme
liberiste
realizzate
bensì
una
ridislocazione
sul
versante
della
spesa
sociale
di
nuove
immense
risorse.
Non
è
realistico
pensare
che
la
rinegoziazione
del
patto
di
stabilità
entro
le
maglie
dell'Europa
imperialistica
possano
configurare
una
risposta
al
problema.
E'
necessario
invece
prospettare
la
liberazione
di
almeno
trecentomila
mld
attraverso
l'eliminazione
di
insopportabili
privilegi
di
classe
della
borghesia:
-
l'abolizione
del
segreto
bancario,
commerciale,
finanziario,
quale
unica
condizione
concreta
di
una
seria
lotta
all'elusione
ed
evasione
fiscale;
-
una
patrimoniale
straordinaria
e
ordinaria
sulle
grandi
ricchezze;
-
un
drastico
aumento
della
tassazione
dei
grandi
profitti
e
delle
rendite,
accresciuti
in
questi
anni
dalle
politiche
dominanti;
-
l'abolizione
dei
trasferimenti
pubblici
alle
imprese,
vero
e
proprio
assistenzialismo
statale
al
capitale
che
costa
ogni
all'erario
pubblico
decine
di
migliaia
di
miliardi;
-
l'abolizione
unilaterale
del
debito
pubblico
con
piene
garanzie
per
i
piccoli
risparmiatori;
queste
rivendicazioni
rappresentano
nel
loro
insieme
gli
strumenti
reali
e
possibili
per
finanziare
una
nuova
politica
sociale
al
servizio
delle
grandi
masse
lavoratrici,
dei
disoccupati,
dei
giovani,
dei
pensionati,
della
rinascita
del
Mezzogiorno.
Al
tempo
stesso,
tanto
più
in
quest'epoca
di
crisi
e
di
gigantesche
concentrazioni
capitalistiche,
ogni
serio
programma
redistributivo
della
ricchezza
cozza
contro
i
limiti
della
proprietà
borghese.
Ogni
disegno
di
nuovo
modello
di
sviluppo
conforme
ai
bisogni
delle
masse
lavoratrici,
dei
disoccupati,
delle
popolazioni
povere
del
Sud
richiede
la
messa
in
discussione
della
proprietà
nei
settori
strategici
dell'economia,
nel
quadro
di
un'alternativa
di
fondo
di
società
e
di
potere.
In
questo
senso
il
V
Congresso
impegna
il
PRC
a
sviluppare
una
coerente
campagna
anticapitalistica
non
in
termini
ideologici
ma
a
partire
dall'esperienza
delle
grandi
masse.
Ad
esempio:
l'inquinamento
dei
cibi
da
parte
della
grande
industria
alimentare
con
la
copertura
della
Commissione
Europea
pone
l'esigenza
di
un
controllo
dei
lavoratori
e
dei
consumatori
sulla
produzione
del
settore
e
l'abolizione
del
segreto
commerciale
quale
garanzia
di
autodifesa
sociale.
Le
speculazioni
dell'industria
petrolifera
sui
prezzi
della
benzina
richiedono
l'apertura
dei
libri
contabili
delle
compagnie
sotto
il
controllo
dei
consumatori
e
della
società.
Gli
scandali
cronici
e
ripetuti
della
grande
industria
farmaceutica
a
danno
della
salute
e
della
vita
richiedono
una
sua
nazionalizzazione
senza
indennizzo
sotto
controllo
sociale.
Ogni
episodio
di
criminalità
del
profitto
contro
la
larga
maggioranza
della
società
va
raccordato
all'esigenza
di
una
risposta
anticapitalistica
quale
unica
soluzione
di
fondo.
Parallelamente
la
questione
della
proprietà
va
posta
all'interno
delle
dinamiche
di
lotta
dei
movimenti
fuori
da
ogni
adattamento
alla
loro
pura
e
semplice
spontaneità.
Nel
movimento
per
la
pace,
entro
una
più
generale
impostazione
antimperialista,
va
posta
la
rivendicazione
dell'esproprio
dell'industria
bellica
senza
indennizzo
e
sotto
il
controllo
dei
lavoratori.
Nel
movimento
ambientalista
va
messa
in
discussione
la
proprietà
privata
della
grande
industria
inquinante
quale
condizione
di
una
sua
reale
riconversione.
Più
in
generale
la
questione
della
proprietà
è
obiettivamente
posta
dai
movimenti
di
resistenza
a
difesa
del
lavoro
entro
i
processi
di
crisi
e
ristrutturazione:
la
rivendicazione
della
nazionalizzazione
delle
industrie
in
crisi
senza
indennizzo
e
sotto
il
controllo
dei
lavoratori
può
costituire
un
elemento
di
ricomposizione
unitaria
di
un
fronte
strategicamente
centrale
seppur
oggi
disarticolato
e
disperso.
Va peraltro chiarito ai lavoratori che le nazionalizzazioni che noi proponiamo non hanno nulla a che vedere con le vecchie cattedrali dell'industria pubblica. Infatti i comunisti: si battono per nazionalizzazioni senza indennizzo (con la doverosa tutela dei piccoli risparmiatori), perché l'indennizzo è già stato "pagato" dallo sfruttamento dei lavoratori e dai trasferimenti pubblici; si battono perché contestualmente alla nazionalizzazione siano messi in campo strumenti di controllo operaio e popolare, terreno centrale di autorganizzazione di massa democratica e consiliare; si battono contro ogni illusione di economia mista e di democratizzazione del capitalismo collegando la rivendicazione delle nazionalizzazioni alla prospettiva dell'alternativa di sistema.
Tesi
31
-
RUOLO
DELLA
CHIESA
E
BATTAGLIA
ANTICLERICALE
L'opposizione
comunista
deve
recuperare
una
coerenza
di
proposta
sullo
stesso
terreno
sociale
delle
rivendicazioni
democratiche.
Con
l'apertura
di
una
campagna
per
l'abolizione
del
Concordato
tra
Stato
e
Chiesa,
modificando
l'orientamento
sinora
assunto
verso
il
papato
e
le
gerarchie
ecclesiastiche.
Il
PRC
deve
aprire
una
grande
campagna
politica
per
l'abolizione
del
Concordato
tra
Stato
e
Chiesa,
modificando
le
posizioni
contraddittorie
e
confuse
sino
ad
ora
sostenute
nei
confronti
della
Chiesa
cattolica.
L'avallo
ripetutamente
offerto
ad
un
presunto
"anticapitalismo"
del
papato,
in
una
logica
di
comune
"ricerca"
ha
rappresentato
un
errore
profondo
del
nostro
partito.
Il
Vaticano
rappresenta
tuttora,
come
sempre,
un
baluardo
storico
dell'ordine
esistente.
Gli
intrecci
materiali
tra
gerarchie
ecclesiastiche
e
proprietà
capitalistica
nel
settore
finanziario,
immobiliare,
terriero,
costituiscono
la
base
materiale
di
questa
funzione
conservatrice.
Le
formali
posizione
di
"apertura"
della
Chiesa
a
istanze
sociali
o
antiglobalizzazione,
così
come
la
critica
all'assolutismo
del
profitto
non
solo
non
rappresentano
un
anticapitalismo
reale
ma
rientrano
o
in
un
più
generale
antimaterialismo
ideologico
o
in
una
aperta
"concorrenza"
e
lotta
al
marxismo
all'interno
delle
masse
oppresse.
Inoltre
la
natura
integralistica
dell'istituzione
ecclesiastica
si
esprime
da
sempre
nelle
posizioni
reazionarie
del
papato
sul
terreno
dei
diritti
civili,
dell'autodeterminazione
della
donna,
dei
diritti
degli
omosessuali
e
delle
lesbiche,
dell'istruzione.
In
particolare
la
lotta
centrale
delle
donne
per
la
difesa
della
legge
194
trova
nell'apparato
della
Chiesa
il
proprio
nemico
frontale.
La saldatura politica oggi tra interessi ecclesiastici e governo Berlusconi su molteplici terreni rafforza sensibilmente l'importanza della lotta contro le gerarchie ecclesiastiche. Certo il PRC non è e non deve essere un partito "ideologico"; il marxismo stesso va concepito come programma di trasformazione, non come credo; la conquista di settori di massa cattolici ad una prospettiva socialista è un aspetto importante della strategia rivoluzionaria, tanto più in un contesto che vede oggi settori cattolici di giovane generazione ben presenti nel movimento antiglobalizzazione. Ma proprio questo implica il disvelamento delle contraddizioni enormi tra le esigenze progressive di quei settori e la natura reazionaria della Chiesa, a partire dalla lotta di classe e dalla stessa battaglia per le rivendicazioni democratiche.
In questo quadro, oggi, sull'onda dello scontro apertosi in ordine alla scuola privata e alla libertà delle donne, la rivendicazione dell'abolizione del Concordato, della fine dei privilegi materiali e simbolici che esso garantisce alla Chiesa, riconquista una forte attualità.
Tesi
32
-
NATURA
DEL
PARTITO
La
proposta
avanzata
di
"superamento
della
funzione
d'avanguardia"
del
partito,
a
favore
di
una
sua
"contaminazione"
di
movimento,
rappresenta
un
rischio
serio
per
il
PRC
e
un
danno
per
i
movimenti
stessi.
Il
bilancio
decennale
della
nostra
esperienza
di
partito,
il
varo
di
una
svolta
politica
e
strategica
indicano
la
necessità
della
costruzione
reale
del
partito
comunista
come
strumento
centrale
di
lotta
per
l'egemonia
anticapitalista.
La
natura
del
partito,
la
sua
funzione,
le
sue
forme
d'organizzazione
e
di
vita,
non
sono
separabili
dal
programma
che
il
partito
persegue
e
dai
caratteri
della
sua
politica.
Ed
anzi:
programma
e
politica
del
partito
selezionano
inevitabilmente
la
sua
stessa
natura.
Lungo
l'itinerario
di
dieci
anni
sullo
sfondo
delle
scelte
politiche
e
istituzionali
compiute
o
perseguite
e
della
rimozione
di
un
progetto
strategico
anticapitalista,
il
nostro
partito
ha
progressivamente
accumulato
un
insieme
di
patologie
largamente
riconoscibili:
la
ciclica
scissione
delle
rappresentanze
istituzionali
dal
partito,
a
vari
livelli;
uno
scarso
coinvolgimento
dei
militanti
nella
definizione
ed
elaborazione
delle
scelte,
una
insufficiente
trasparenza,
agli
occhi
degli
iscritti,
del
confronto
politico
interno
al
partito;
il
mancato
sviluppo
di
una
robusta
rete
di
quadri,
una
crisi
profonda
e
perdurante
del
radicamento
sociale
e
di
classe.
In
altri
termini,
il
nostro
partito
ha
difeso
la
sua
propria
esistenza,
ma
per
molti
aspetti
non
si
è
costruito.
Si
è
riprodotto
come
importante
luogo
d'aggregazione,
come
strumento
di
mobilitazione,
come
presenza
politica
istituzionale,
ma
non
ha
sviluppato
una
vita
collettiva
di
partito,
né
una
incidenza
reale
sulla
dinamica
della
lotta
di
classe.
Da
questo
bilancio
dovrebbe
derivare
la
necessità
di
una
svolta,
tesa
a
rimontare
il
tempo
perduto,
in
direzione
della
centralità
della
costruzione
del
partito
e
di
una
nuova
politica
che
la
trascini;
una
politica
di
alternativa
anticapitalistica
e
di
corrispondente
egemonia
nei
movimenti.
La
sola
politica
che
possa
motivare
realmente,
al
di
là
degli
appelli,
una
cultura
d'organizzazione,
formazione,
militanza,
radicamento..
Invece la proposta che viene avanzata ha un segno esattamente opposto: da un lato riconferma la continuità della linea politica e strategica, sul piano nazionale e locale; dall'altro lato, propone una maggiore diluizione del partito nei movimenti entro un attacco diretto, come mai in precedenza, alla concezione stessa dell'"egemonia". La tesi del "definitivo superamento" della funzione "d'avanguardia" del partito, il concetto di "pari dignità" tra sedi di partito e luoghi di movimento, la critica esplicita allo stesso concetto di "circolo" e di "federazione" da aprire invece alla "contaminazione" dei movimenti configurano nel loro insieme una linea di tendenza profondamente negativa. Invece che sviluppare finalmente una linea di egemonia del partito nei movimenti, si teorizza per la prima volta un principio di egemonia dei movimenti sul partito. E così l'invito dell'apertura ai movimenti, in sé importantissimo, si trasforma in un rischio di dissoluzione nel movimento stesso o di trasformazione delle proprie strutture in indistinti luoghi di movimento. Il risultato paradossale, non è il rafforzamento del partito nel movimento ma all'opposto, un principio di dispersione delle forze e di loro ulteriore sradicamento a tutto danno sia del partito che del movimento stesso.
Tesi
33
-
PARTITO,
EGEMONIA,
MOVIMENTO
E'
necessario
costruire
il
PRC
come
partito
comunista
nell'accezione
leninista
e
gramsciana
di
intellettuale
collettivo,
impegnato
nella
lotta
per
l'egemonia
anticapitalistica
nella
classe
operaia
e
nei
movimenti
di
massa.
Il
recupero
e
attualizzazione
della
concezione
leninista
del
partito
è
parte
decisiva
della
costruzione
reale
del
PRC,
tanto
più
nella
stagione
della
ripresa
dei
movimenti.
Fuori
e
contro
la
cultura
gramsciana
dell'egemonia,
ogni
difesa
della
"forma
partito"
si
riduce
a
evocazione
debole
e
retorica.
La lotta di classe e i movimenti di massa sono la leva centrale della trasformazione socialista: ciò significa che il lavoro di massa per la promozione dei movimenti di lotta, la loro estensione e sviluppo; il lavoro di radicamento profondo nei movimenti e nella loro dinamica, sono compiti elementari di un partito comunista. Ogni esternità ai movimenti di massa, ogni atteggiamento di distacco -comunque motivato- rappresenta non la "difesa" del partito ma, all'opposto, la compromissione di un progetto anticapitalista cioè della ragione stessa del partito comunista. Per questo simili atteggiamenti vanno seriamente contrastati, sul piano culturale e politico, all'interno del PRC.
Ma
l'inserimento
profondo
nei
movimenti
va
assunto
come
leva
di
una
battaglia
per
l'egemonia,
non
come
bandiera
della
sua
rimozione.
Nella
concezione
leninista
e
gramsciana
-antitetica
alle
impostazioni
teoriche
e
pratiche
dello
stalinismo-
"egemonia"
non
significa
"controllo
amministrativo",
pretesa
di
un
"primato"
del
partito
all'interno
dei
movimenti.
All'opposto
essa
significa
lotta
politica
e
ideale,
libera
e
leale,
per
la
conquista
dei
movimenti
a
una
prospettiva
rivoluzionaria:
in
aperta
contrapposizione
a
direzioni
politiche
e
culturali
burocratico-riformistiche.
Fuori
da
questa
azione
si
disperde
la
ragione
stessa
di
un
partito
comunista,
e
si
compromettono
le
ragioni
di
fondo
dei
movimenti
stessi.
L'intera
esperienza
del
900
dimostra
infatti
che
i
più
grandi
e
radicali
movimenti
di
massa,
privi
di
una
direzione
rivoluzionaria
cosciente
e
sotto
l'egemonia
di
forze
riformiste
sono
destinati
in
definitiva
alla
sconfitta.
L'antica
teoria
revisionistica
di
fine
800
secondo
cui
"il
movimento
è
tutto,
il
fine
è
nulla"
(Bernstein)
è
stata
confutata
radicalmente
dalla
storia.
Non
può
essere
riproposta,
in
nessuna
forma,
come
principio
"nuovo"
della
rifondazione
comunista.
L'argomento
avanzato
secondo
cui
la
concezione
leninista
e
gramsciana
dell'egemonia
sarebbe
oggi
superata
in
quanto
basata
sulla
separatezza
antica
tra
"movimenti
prepolitici"
e
"dottrina"
(a
fronte
invece
dell'anticapitalismo
latente
dei
movimenti
attuali)
fraintende
radicalmente
sia
il
passato
che
il
presente.
La
rappresentazione
dei
movimenti
come
massa
apolitica
e
del
partito
come
"dottrina"
distorce
in
modo
caricaturale
la
concezione
marxista
sia
dei
movimenti
che
del
partito.
Ogni
movimento
di
lotta
delle
classi
subalterne,
anche
limitato,
racchiude
una
potenzialità
politica:
muove
pulsioni
e
idee
nuove,
sviluppa
l'esperienza
dei
protagonisti,
arricchisce
la
loro
consapevolezza.
In
questo
senso
ogni
movimento
di
lotta
rivela
un
naturale
"anticapitalismo
latente".
La
funzione
decisiva
del
partito,
non
è
di
portare
dall'esterno
del
movimento
apolitico,
la
scolastica
della
dottrina:
ma
di
far
leva,
nel
profondo
del
movimento,
sui
sentimenti
progressivi
che
esso
esprime
e
sulla
dinamica
viva
di
lotta
che
li
accompagna,
per
sviluppare
l'anticapitalismo
latente
del
movimento
in
coscienza
politica
anticapitalista.
Questo
salto
della
coscienza
non
si
produce
"spontaneamente".
Richiede
il
lavoro
metodico
del
partito,
perché
solo
il
partito
comunista
detiene
una
memoria
storica
delle
lezioni
della
lotta
di
classe
che
nessun
movimento
contingente
può
possedere;
solo
il
partito
comunista
può
basarsi
su
un
progetto
strategico
complessivo
che
nessun
movimento
può
avere
e
che
da
nessun
movimento
si
può
pretendere;
solo
il
partito
comunista
può
lottare
in
forma
organizzata
e
concentrata
per
liberare
i
movimenti
dal
controllo
di
vecchi
apparati
o
dalle
influenze
culturali
neoriformiste
che
ipotecano
la
loro
sconfitta.
La
funzione
d'avanguardia
del
Partito
come
"intellettuale
collettivo"
trova
in
questo
compito
decisivo
la
propria
radice.
Peraltro
lungi
dall'essere
superata,
la
concezione
leninista
del
partito
è
tanto
più
attuale
nel
momento
storico
attuale.
In
una
situazione
segnata
da
un
lato
dalla
ripresa
dei
movimenti
della
nuova
generazione
e
dall'altro
dal
retaggio
della
lunga
cesura
storica
tra
marxismo
rivoluzionario
e
giovani
la
funzione
del
partito
è
più
che
mai
decisiva
come
costruttore
di
coscienza,
come
portatore
nei
movimenti
di
una
visione
politica
complessiva,
di
un
metodo
marxista
di
lettura
e
comprensione
della
realtà.
Parallelamente
proprio
i
processi
frantumazione
della
classe,
sotto
il
peso
delle
sconfitte
profonde
degli
ultimi
vent'anni-
processi
spesso
addotti
a
sostegno
del
"tramonto"
del
partito
ne
riprovano
più
che
mai
la
funzione
centrale:
come
fattore
di
controtendenza,
di
ricomposizione
sociale
del
blocco
alternativo
e
in
esso
di
un
egemonia
di
classe
anticapitalistica.
A
sua
volta
così
come
il
partito
è
lo
strumento
decisivo
dell'egemonia,
solo
la
politica
dell'egemonia
fonda
la
ragione
robusta
di
un
partito
comunista.
Fuori
e
contro
la
concezione
leninista
e
gramsciana
dell'egemonia
ogni
difesa
della
"forma
partito"
per
quanto
sincera,
si
riduce
a
evocazione
rituale.
Tesi
34
-
RIFORMA
DEL
PRC,
NON
DILUIZIONE
NEL
MOVIMENTO
Proprio
perché
portatore
nei
movimenti
di
un
progetto
anticapitalista
e
rivoluzionario
il
partito
non
può
diluire
le
proprie
strutture
nei
luoghi
di
movimento:
ma
invece
deve
difenderle
e
svilupparle
nella
loro
specificità,
come
strumento
di
intervento
di
massa.
Ciò
che
richiede
una
riforma
profonda
dell'attuale
costituzione
materiale
del
PRC.
Un
partito
comunista
come
"intellettuale
collettivo"
ha
l'esigenza
centrale
di
sviluppare
la
propria
organizzazione,
nella
sua
autonomia,
quale
strumento
d'azione
nella
lotta
di
classe.
La
tesi
avanzata
circa
"la
pari
dignità"
tra
luoghi
di
partito
e
luoghi
di
movimento
in
una
logica
di
osmosi
reciproca
e
di
reciproca
"contaminazione"
è,
in
questo
senso
profondamente
regressiva:
perché
dissolve
in
una
astratta
equivalenza
di
valori
un'obiettiva
diversità
di
funzioni
e
di
assetti.
Non
si
tratta
di
attentare
all'autonoma
sovranità
dei
movimenti
e
delle
loro
strutture,
che
va
invece
rispettata
e
difesa.
Né
si
tratta
di
negare
l'apporto
che
l'esperienza
di
movimento
può
portare
alla
formazione
del
partito,
che
invece
può
e
deve
arricchirsi
di
ogni
viva
relazione
di
massa.
Si
tratta
invece
di
portare
nel
profondo
dei
movimenti
e
delle
loro
autonome
sedi,
entro
la
partecipazione
attiva
alla
loro
costruzione,
il
progetto
rivoluzionario
dei
comunisti.
E
per
questo
è
indispensabile
l'organizzazione
del
partito
comunista,
il
suo
sviluppo
autonomo,
il
suo
radicamento
organizzato,
come
fatto
rigorosamente
distinto
dal
movimento.
Senza
la
comprensione
e
assimilazione
collettiva
di
questa
relazione
tra
organizzazione
d'avanguardia
ed
azione
di
massa
il
PRC
è
destinato
ad
oscillare,
nella
sua
vita
concreta,
tra
distacco
istituzionale
dai
movimenti
e
dissoluzione
politica
del
proprio
ruolo
in
essi
a
favore
di
un
ingenuo
movimentismo.
E
spesso
a
combinare
entrambi
gli
aspetti.
L'assunzione
della
politica
dell'egemonia
anticapitalista
nei
movimenti
richiede
a
sua
volta
una
riforma
profonda
del
nostro
partito.
Va
affermata
innanzitutto
la
concezione
di
un
partito
certo
capace
di
presenza
istituzionale,
ma
non
istituzionalista.
Un
partito
che
quindi
non
finalizza
la
politica
al
voto
ma
chiede
il
voto
a
una
politica:
che
non
subordina
la
propria
azione
di
massa
alla
propria
rappresentanza
istituzionale
ma
subordina
la
propria
rappresentanza
all'azione
di
massa,
allo
sviluppo
dell'opposizione
sociale,
alla
ricomposizione
di
un
blocco
anticapitalista.
Il
carattere
di
massa
del
partito
sta,
prima
di
tutto,
in
questa
sua
proiezione
quotidiana
verso
la
conquista
delle
classi
subalterne:
da
qui
la
necessità
di
un
radicamento
sociale
nei
luoghi
di
lavoro
e
sul
territorio,
della
costruzione
e
formazione
dei
militanti
e
dei
quadri,
del
controllo
vigile
e
costante
sui
propri
rappresentanti
istituzionali,
che
vanno
considerati
a
tutti
gli
effetti
rappresentanze
del
partito
nelle
istituzioni
e
non
delle
istituzioni
nel
partito.
Infine
va
affrontato
con
serietà
e
concretezza
il
problema
della
costruzione
organizzata
del
partito.
A
questo
proposito
occorre
educare
il
partito
e
i
suoi
organismi
dirigenti
a
tutti
i
livelli
a
formulare
progetti
definiti,
concreti
e
verificabili,
in
funzione
del
radicamento
sociale
e
della
vitalità
delle
strutture,
fuori
da
ogni
mera
proiezione
d'immagine
o
di
mero
inseguimento
delle
scadenze
elettorali.
Tesi
35
-
DEMOCRAZIA
DEL
PARTITO
Questa
riforma
politica
profonda
della
nostra
concezione
e
costruzione
del
partito
richiama
una
riforma
altrettanto
profonda
della
sua
democrazia,
quale
terreno
decisivo
della
stessa
rifondazione
comunista.
Abbiamo bisogno di rendere tutti i compagni "padroni di casa" nel proprio comune partito: di incoraggiare, non emarginare, le disponibilità dei giovani compagni; di valorizzare, non di comprimere, spirito d'iniziativa e indipendenza di giudizio, che sono lievito indispensabile per un partito vitale; e soprattutto di rendere tutti i militanti del partito partecipi delle elaborazioni e decisioni ai vari livelli del partito stesso: perché gli orientamenti democraticamente definiti sono anche quelli maggiormente sostenuti nell'azione pratica, mentre le scelte passivamente subite, quand'anche condivise, non mobilitano le energie e l'iniziativa.
Parallelamente va affermato il diritto di ogni compagno del partito a conoscere il dibattito, le deliberazioni, le posizioni diverse che emergono nel partito e di contribuirvi consapevolmente (e non per impressioni ricevute magari dalla stampa avversaria). E' essenziale in questo senso uno strumento di dibattito interno nazionale, con verbali e atti degli organismi direttivi, a partire dalla Direzione nazionale, ed un'ampia possibilità di contributi delle federazioni, circoli, singoli o gruppi di militanti. Al contempo Liberazione deve essere aperto agli interventi dell'insieme del partito e rispettarne la vita democratica, senza alcuna intromissione politica da parte di redattori o responsabili del giornale.
E' necessario inoltre che la formazione dei compagni - che va assunta come tema centrale del partito - sia concepita anche come sviluppo reale della sua democrazia interna; perché solo lo sviluppo di conoscenze, competenze, preparazione, rafforza l'autonomia di giudizio e quindi la libertà reale della valutazione.
Abbiamo bisogno più in generale di un partito di liberi/e e di eguali, che fa della lotta costante al proprio interno contro ogni forma di burocratismo e di discriminazione il codice nuovo della propria costituzione materiale; va dunque ripristinata la facoltà di iniziativa del circolo contro ogni forma di controllo burocratico della federazione; vanno profondamente rivisti ruolo e natura degli attuali esecutivi regionali. Va ripristinato e realmente affermato il diritto delle federazioni a designare democraticamente le proprie candidature elettorali ai vari livelli, contro logiche di imposizione da parte delle istanze superiori del partito.
Infine il nostro partito deve combinare la necessaria unità nell'azione esterna - fondamentale in una battaglia per l'egemonia - con la più ampia libertà di discussione interna e quindi con il rispetto pieno dei diritti delle minoranze (a partire da quello di poter diventare a loro volta maggioranza): solo questo rapporto di piena democrazia interna e di pari dignità reale (non formale) tra tutte le posizioni può educare alla concezione e alla pratica di un partito di liberi e di eguali e soprattutto può legittimare il principio dell'unità nell'azione esterna come principio assunto e interiorizzato dall'insieme del partito. In questo senso va superata ad ogni livello ogni discriminazione pregiudiziale verso componenti politiche del partito in ordine alla definizione della sua rappresentanza istituzionale e delle sue strutture esecutive.
Peraltro l'esperienza che abbiamo vissuto ha dimostrato che i veri rischi per l'unità del partito non stanno nel libero e leale confronto delle opinioni politiche diverse, ma nella manovra burocratica silenziosa, nello spirito di clan, nella logica del frazionismo burocratico e della cordata: che magari fino al giorno prima recitava l'unanimismo del voto e la "disciplina" di partito.
Tesi
36
-
I
GIOVANI
COMUNISTI
I
Giovani
Comunisti
hanno
in
questa
fase
un
grande
potenziale
di
crescita.
Ma
una
battaglia
per
costruire
l'egemonia
politica
tra
i
giovani
su
un
progetto
di
alternativa
rivoluzionaria
necessita
di
un
rafforzamento
organizzativo
dei
GC
e
soprattutto
del
loro
profilo
politico
alternativo,
fuori
da
ogni
ipotesi
di
diluizione
nelle
aree
astrattamente
"antagoniste"
presenti
nei
movimenti
(v.
"Tute
bianche")
Il
V
congresso
di
rifondazione
Comunista
deve
riservare
alla
questione
giovanile
una
particolare
attenzione,
per
il
ruolo
strategico
che
essa
ha
assunto
nello
scontro
di
classe
in
Italia.
I
giovani,
lavoratori,
studenti
o
disoccupati,
hanno
subito
più
di
altri
il
peso
di
dieci
anni
di
politiche
neoliberiste
che
i
governi
succedutesi
alla
guida
del
paese
hanno
intrapreso.
In
alcune
aree
del
Paese,
in
particolare
nel
Mezzogiorno,
l'esercito
di
riserva
dei
senza
lavoro,
è
in
larghissima
parte
composto
di
ragazzi
e
ragazze
giovanissimi.
Per
loro,
molto
spesso,
l'unica
alternativa
che
si
pone
alla
loro
condizione
sociale,
è
quello
di
accettare
lavori
in
nero,
sottopagati,
il
più
delle
volte
in
settori
dell'economia
controllati
dalla
criminalità
organizzata.
Meno
tragica,
ma
non
per
questo
meno
pesante,
è
la
situazione
di
chi
un
lavoro
più
o
meno
regolare
riesce
a
trovarlo.
Negli
ultimi
tempi,
specialmente
dopo
l'entrata
in
vigore
del
cosiddetto
"Pacchetto
Treu",
sciaguratamente
approvato
anche
dal
nostro
partito,
abbiamo
assistito
ad
un
proliferare
di
forme
di
rapporto
di
lavoro
atipico
(CFL,
apprendistato,
contratti
di
collaborazione
coordinata,
partite
Iva
ecc.),
che
per
i
neo
assunti
sono
in
realtà
la
"tipicità"
del
loro
ingresso
nel
mondo
del
lavoro.
Queste
forme
d'occupazione
hanno
avuto
dei
costi
sociali
molto
alti:
hanno
significato
bassi
salari,
aumento
dei
carichi
di
lavoro,
minor
tutela
contrattuale
e
sindacale,
mancanza
di
rispetto
delle
condizioni
igienico
sanitarie
nelle
fabbriche
e
negli
uffici
(si
spiegano
così
sia
l'enorme
numero
di
morti
sia
quello
di
feriti
ed
invalidi
causati
da
incidenti
sul
lavoro),
insomma
una
situazione
di
perenne
precarietà
e
di
ricattabilità
da
parte
dei
datori
di
lavoro.
Nel
mondo
della
scuola,
abbiamo
assistito
ad
un
sistematico
attacco
all'istruzione
pubblica,
a
tutto
vantaggio
di
quella
privata,
iniziato
dai
ministri
ulivisti
Berlinguer
e
De
Mauro,
e
che
oggi
è
portato
a
compimento
dal
ministro
Moratti.
Il
progetto
di
parificazione
tra
scuola
pubblica
e
privata,
che
prevede
finanziamenti
statali
e
regionali
a
quest'ultima
a
fronte
di
tagli
di
decine
di
migliaia
di
miliardi
alla
scuola
statale,
la
creazione
di
un'unica
graduatoria
per
insegnanti
pubblici
e
privati
(i
secondi
assunti
in
base
alla
fedeltà
all'ideologia
degli
istituti
privati,
quasi
tutti
confessionali),
l'istituzione
della
figura
del
preside
manager,
gli
investimenti
fatti
dalle
imprese
alle
università,
con
lo
scopo
di
determinare
le
scelte
didattiche,
rendono
ancor
più
chiaro
il
carattere
classista
dell'istruzione
in
Italia.
A
tutto
ciò
si
aggiunga
la
campagna
reazionaria
che
si
è
negli
anni
aperta,
in
materia
di
libertà
sessuale
(omofobia,
ipotesi
di
limitazione
del
diritto
d'aborto,
ecc.)
e
nella
lotta
al
consumo
di
stupefacenti,
campagne
rivolte
in
particolare
contro
i
giovani.
Se
questa
è
la
situazione
nella
quale
sono
costrette
le
giovani
generazioni,
non
stupisce
che
esse
stiano
avendo
un
ruolo
di
primo
piano
nelle
mobilitazioni
che
segnano
il
"disgelo"
nella
conflittualità
di
classe.
In
questa
situazione
bisogna
quindi
che
il
nostro
partito,
e
la
sua
organizzazione
giovanile,
si
dotino
di
un
programma
politico
per
intervenire
all'interno
di
questi
movimenti,
per
svilupparvi
una
battaglia
d'egemonia
Se
il
capitalismo
dimostra
sempre
più
la
sua
incapacità
nel
garantire
un
futuro
alle
nuove
generazioni,
un'organizzazione
che
si
batta
per
il
suo
rovesciamento
e
per
la
creazione
di
un'alternativa
di
classe
socialista,
potrà
rispondere
alle
legittime
aspirazioni
dei
giovani,
arrivando
a
conquistarne
politicamente
la
fiducia.
Per
questo
è
necessaria
una
battaglia
che
partendo
dagli
attuali
livelli
di
coscienza
presenti
nei
movimenti,
le
leghi
alla
necessità
di
una
più
complessiva
lotta
contro
il
capitalismo,
spiegando
come
solo
in
una
prospettiva
più
di
cambiamento
di
sistema,
anche
le
aspirazioni
per
un
salario
adeguato,
per
un
lavoro
stabile,
per
una
scuola
non
asservita
ai
diktat
del
capitale,
potranno
trovare
soddisfazione.
Risulta
viceversa
non
condivisibile
la
scelta
recente
dell'attuale
gruppo
dirigente
dei
GC
di
fare
un
blocco
politico
e
organizzativo
con
le
Tute
bianche
(Casarini)
e
la
Rete
No
Global
(Caruso)
costituendo
nel
movimento
antiglobalizzazione
l'area
dei
"disubbidienti
sociali".
Ovviamente
non
è
in
discussione
la
possibilità
di
stringere
alleanze
tattiche
con
alcune
soggettività
ma
vi
è
il
rischio
che,
al
di
là
della
volontà
soggettiva,
questa
scelta
metta
in
secondo
piano
l'azione
per
la
costruzione
dell'organizzazione
giovanile
di
rifondazione
come
soggetto
motore
e
potenzialmente
egemone
delle
mobilitazioni
in
corso,
specialmente
in
una
fase
in
cui
le
adesioni
alla
struttura
giovanile
sono
in
forte
aumento
e
sarebbe
indispensabile
un
investimento
pieno
su
di
essa;
soprattutto,
questa
scelta
rischia
di
tradursi
in
una
diluizione
subalterna
delle
strutture
dei
GC
in
una
aggregazione
su
basi
politiche
confuse
e
sbagliate
-un
misto
di
generico
"antagonismo",
movimentismo
antipartito
e
riformismo-
che
configurano
nei
fatti
i
"disobbedienti"
come
un
ostacolo
e
non
una
tappa
di
un
progetto
per
la
costruzione
dell'egemonia
comunista
tra
le
giovani
generazioni.
E'
per
questi
motivi
che
si
rende
necessaria,
anche
in
questo
campo,
una
svolta
politica
del
Partito
e
dei
Giovani
Comunisti,
i
quali
affronteranno
questi
temi
nella
loro
prossima
Conferenza
nazionale.
Marco
Ferrando,
Ivana
Aglietti,
Claudio
Bellotti,
Vito
Bisceglie,
Anna
Ceprano,
Franco
Grisolia,
Luigi
Izzo,
Matteo
Malerba,
Francesco
Ricci,
Michele
Terra
(Direzione
nazionale
PRC)