Congresso PRC
emendamenti della minoranza
INTRODUZIONE - SINTESI
Il
capitalismo
mondiale
riversa
sempre
più
la
propria
crisi
sulla
condizione
generale
dell'umanità,
minacciando
una
vera
e
propria
regressione
storica
di
civiltà.
La
ripresa
delle
guerre
che
ha
segnato
l'ultimo
decennio
-prima
in
Irak,
poi
nei
Balcani,
oggi
in
Afghanistan,
ne
è
il
riflesso
materiale
e
simbolico.
La
rappresentazione
della
cosi
detta
"globalizzazione"
capitalistica
come
avvento
di
un
"nuovo
capitalismo"
capace
di
superare
le
sue
antiche
contraddizioni,
è
stata
smentita
dalla
realtà.
La
crisi
che
da
un
quarto
di
secolo
segna
l'economia
del
mondo
non
solo
non
è
superata
ma
si
ripropone
oggi
nella
forma
classica
della
recessione.
Le
contraddizioni
tra
i
blocchi
capitalistici
non
solo
non
si
sono
dissolte
in
un
"impero"
indistinto
e
omogeneo
ma
si
ripropongono
acuite
dopo
il
crollo
dell'URSS
e
sotto
la
spinta
della
crisi.
La
contraddizione
tra
capitale
e
lavoro,
lungi
dall'essere
superata
o
ridimensionata,
è
riproposta
nella
sua
centralità
dalla
crisi
e
dalla
nuova
competizione
globale
capitalistica.
Lo stesso sviluppo del militarismo e della guerra in corso -con i suoi effetti regressivi sul terreno delle libertà democratiche e delle conquiste sociali- è inseparabile dal contesto generale della crisi capitalistica. Lungi dall'essere un conflitto tra "due fondamentalismi" ideologici (il Mercato e il Terrore) è una guerra dell'imperialismo contro i popoli oppressi: mira al controllo del Medio Oriente e dell'Asia centrale; vuole intimidire i movimenti di liberazione nazionale (a partire dal popolo palestinese); mira a contrastare la recessione economica col grande rilancio delle spese militari; risponde all'interesse dell'imperialismo americano a controbilanciare l'ascesa economica europea con il rilancio della propria indiscussa egemonia militare.
Su un altro piano, gli sviluppi politici e le dinamiche del capitale degli anni novanta sono stati devastanti per l'ambiente. Tutti i vecchi problemi si sono estesi, sono emerse nuove emergenze su scala planetaria. A fronte di tutto questo, tanto gli approcci etico-culturali quanto il riformismo verde si sono rivelati inadeguati e impotenti: nessun nuovo modello di sviluppo sarà possibile senza un nuovo modo di produzione, senza il rovesciamento del capitalismo.
In definitiva, a dieci anni dal crollo dell'URSS, la ricomposizione capitalistica dell'unità del mondo non si è affatto tradotta in un universo pacificato e più stabile, ma in un'accentuazione della crisi internazionale.
Questo
quadro
generale
di
crisi
e
regressione
rivela
una
volta
di
più
il
carattere
utopico
di
ogni
progetto
riformistico.
L'idea
di
"governi
riformatori"
favorevoli
ai
lavoratori;
di
un
possibile
capitalismo
"equo"
imbrigliato
dalle
regole
di
una
"società
civile
progressista";
di
una
riforma
pacifista
dell'ordine
mondiale,
fondata
su
una
rivalutazione
dell'ONU
e
sospinta
dalla
cultura
gandhiana
della
"non-violenza",
rappresentano,
oggi
più
che
mai,
un'illusione
impotente.
Non
una
via
concreta
di
costruzione
di
un
altro
mondo
possibile,
ma
la
rassegnazione
di
fatto
a
questo
mondo
reale,
seppur
nutrita
di
sogni.
Il
V
Congresso
del
nostro
partito
è
chiamato
dunque
a
rimuovere
e
a
contrastare
ogni
utopia
riformista
assumendo
un
nuovo
orizzonte
strategico,
apertamente
anticapitalista
e
rivoluzionario.
Un
altro
mondo
è
possibile.
Si
chiama
Socialismo.
Non
si
tratta
solo
di
evocarne
il
nome
ma
di
recuperarne
il
programma
generale
quale
unica
vera
risposta
alla
crisi
dell'umanità.
Solo
l'abolizione
della
proprietà
privata,
a
partire
dai
duecento
colossi
multinazionali
che
oggi
dominano
l'economia
del
mondo.
Solo
una
economia
mondiale
democraticamente
pianificata
liberata
dal
dominio
del
profitto;
solo
la
conquista
del
potere
politico
da
parte
delle
classi
subalterne
come
leva
decisiva
della
transizione,
possono
creare
le
condizioni
di
un
nuovo
"modello
di
sviluppo":
che
liberi
nuove
relazioni
tra
gli
uomini
e
i
popoli,
un
nuovo
rapporto
dell'uomo
con
l'ambiente,
un
controllo
degli
indirizzi
e
delle
applicazioni
della
scienza
in
funzione
delle
qualità
della
vita
quale
nuova
frontiera
del
progresso.
Recuperare
e
attualizzare
dunque
il
programma
originario
del
comunismo
e
della
rivoluzione
d'Ottobre
come
scenario
di
liberazione
dell'umanità,
scevro
da
ogni
retaggio
burocratico
staliniano,
è
compito
centrale
dei
comunisti
e
del
nostro
partito.
Assumendolo
come
bussola
di
una
nuova
impostazione
strategica
che
riconduca
gli
obiettivi
immediati
di
ogni
lotta
e
di
ogni
movimento
alla
necessità
della
rivoluzione
sociale.
Peraltro proprio l'inizio di ripresa oggi della lotta di classe e dei movimenti di massa nel mondo (ciò che nel partito abbiamo chiamato "il disgelo") -sintomo dopo vent'anni dalla crisi di egemonia delle politiche dominanti - rappresenta una straordinaria occasione di rilancio della prospettiva socialista presso la giovane generazione: come risposta rivoluzionaria nel cuore dei movimenti, alle loro stesse domande sociali ambientali, democratiche, di pace, tutte incompatibili, nelle loro istanze profonde, con l'attuale ordine borghese. Non si tratta allora di abbandonarsi alla mistica retorica dei movimenti, tantomeno di disperdere la centralità di classe: si tratta di ricondurre il prezioso sentimento antiliberista della giovane generazione ad una chiara prospettiva di classe anticapitalista. La sola che possa offrire un futuro ai movimenti stessi; la sola che possa svilupparli oggi sul terreno della mobilitazione contro l'imperialismo e la guerra fuori da ogni illusione pacifista; la sola che possa fondare il riferimento alla classe operaia a al mondo del lavoro nella sua nuova composizione ed estensione, quale soggetto centrale del blocco storico alternativo. Da qui la necessità di una battaglia nei movimenti per l'egemonia di classe: che non è autoimposizione burocratica ma lotta aperta e leale per la prospettiva socialista contro quelle culture neoriformiste che conducono i movimenti stessi nel vicolo cieco della sconfitta. Il complesso lavoro di rifondazione di un'internazionale comunista e rivoluzionaria che assuma la battaglia per l'egemonia anticapitalistica su scala mondiale è tanto più oggi una necessità di fondo per i comunisti.
L'esperienza
degli
ultimi
tre
anni
successivi
al
IV
congresso
mostra
come
il
passaggio
all'opposizione
in
se
e
per
se
non
abbia
risolto
nessuno
dei
problemi
di
fondo
del
nostro
partito.
Il
Prc
arriva
a
questo
nuovo
congresso
con
un
radicamento
sensibilmente
ridotto,
con
un
calo
della
militanza
e
del
tesseramento,
con
una
crisi
evidente
delle
proprie
strutture.
Paradossalmente,
lo
stesso
esplodere
del
movimento
antiglobalizzazione
e
l'inizio
di
una
ripresa
delle
mobilitazioni
operaie
e
giovanili
non
ha
migliorato
la
situazione.
Al
contrario,
l'essenza
delle
proposte
che
oggi
avanzano
nel
partito
consiste
nel
tentativo
di
risolvere
la
crisi
politica
e
organizzativa
del
Prc
con
una
evidente
"svolta"
movimentista,
la
quale
razionalizza
e
giustifica
l'abbandono
della
prospettiva
di
costruire
un
partito
comunista
rivoluzionario
in
grado
di
lottare
per
conquistare
una
posizione
dirigente
nel
movimento
operaio
italiano.
In
realtà
la
svolta
non
viene
effettuata
verso
"il
movimento",
ossia
verso
le
centinaia
di
migliaia
di
persone
che
sono
state
toccate
dalle
mobilitazioni
contro
il
G8
e
contro
la
guerra,
ma
verso
i
settori
dirigenti
dei
Social
Forum
che
ne
rappresentano
in
realtà
il
settore
più
burocratico
e
moderato,
lontano
mille
miglia
dalle
reali
aspirazioni
anticapitalistiche
che
costituiscono
la
forze
motrice
del
movimento
stesso.
Al
tempo
stesso,
nonostante
la
dichiarata
"svolta
a
sinistra"
verso
il
movimento,
la
linea
proposta
rimane
prigioniera
di
una
prospettiva
riformista,
che
si
esprime
chiaramente
sia
nel
rifiuto
di
un'analisi
onesta
della
politica
seguita
in
questi
anni,
sia
nella
prospettiva
indicata,
sia
pure
tra
le
righe,
di
un
rilancio
dell'alleanza
con
l'Ulivo
una
volta
che
si
siano
riequilibrati
i
rapporti
di
forza
nella
sinistra,
sulla
base
di
un
"programma
riformatore"
che
riecheggia
le
esperienze
fallimentari
del
1996-98.
L'elemento
nuovo,
che
ci
spinge
a
parlare
di
pericolo
di
disgregazione
politica
e
organizzativa
del
Prc,
è
l'emergere
di
questo
radicalismo
movimentista,
che
dietro
a
espressioni
talvolta
molto
altisonanti
(che
oggi
abbondano
nella
propaganda
e
nelle
pubblicazioni
del
partito)
nasconde
una
sostanziale
incapacità
di
prospettare
una
seria
battaglia
egemonica
e
di
lunga
durata,
ed
esprime
nel
modo
più
chiaro
la
perdita
di
radicamento
proletario
del
nostro
partito.
Al contrario, proprio la ripresa dei movimenti impone con urgenza il rilancio del ruolo del partito, delle idee rivoluzionarie comuniste, la costruzione di forti strutture, di quadri formati, in una parola di un Prc in grado di lottare su ogni fronte, dal movimento antiglobalizzazione alle lotte sindacali, al movimento studentesco, e che sia in grado di dare al movimento quello che nessun movimento potrà mai esprimere in forma compiuta: un programma di trasformazione sociale e gli strumenti per la sua attuazione. Altrimenti, il rischio è quello di vedere anche la prossima, inevitabile fase di lotte contro il governo Berlusconi, incanalata e egemonizzata dalle burocrazie sindacali e dai Ds, ripetendo così l'esperienza dell'autunno '94, quando la linea suicida della "sospensione della critica" allora proposta e praticata dal gruppo dirigente permise a queste stesse forze di deviare il movimento e di portarlo ad arenarsi, spalancando la strada non a un'alternativa di classe ma alla collaborazione di classe incarnata dal governo Dini e poi dal centrosinistra.
La
difesa
intransigente
di
un
programma
di
indipendenza
di
classe
è
quindi
la
prima
e
indispensabile
condizione
affinché
il
Prc
possa
avanzare
in
questo
nuovo
contesto.
Tuttavia
il
Prc
è
oggi
più
debole
e
meno
radicato
di
quanto
non
fosse
in
passato.
Le
divisioni
che
si
sono
aperte
tanto
nei
Ds
che
nella
Cgil
segnalano
indubbiamente
una
crisi
politica
e
di
strategia
nella
quale
il
Prc
si
può
inserire
con
profitto.
Accanto
al
nostro
apparato
rivendicativo
e
programmatico,
è
quindi
necessario
sviluppare
la
tattica
necessaria
per
affrontare
questa
nuova
fase
e
rilanciare
non
solo
a
parole
la
nostra
battaglia
per
l'egemonia
nel
movimento
operaio.
Da
qui
la
proposta
di
una
vertenza
generale
attorno
ai
temi
di
un
forte
aumento
salariale
per
tutto
il
lavoro
dipendente,
del
salario
minimo
garantito
intercategoriale,
di
un
vero
salario
garantito
ai
disoccupati
e
ai
giovani
in
cerca
di
prima
occupazione,
dell'abolizione
delle
leggi
di
precarizzazione
del
lavoro
(v.
"Pacchetto
Treu"
e
le
ulteriori
leggi
in
materia
introdotte
dal
governo
Berlusconi)
con
l'assunzione
a
tempo
indeterminato
di
tutti
i
lavoratori
precari,
della
riduzione
generalizzata
dell'orario.
Questa
proposta
di
mobilitazione
può
e
deve
essere
avanzata
dal
nostro
partito
in
tutti
i
luoghi
di
lavoro,
in
tutte
le
organizzazioni
sindacali,
sul
territorio,
nello
stesso
movimento
antiglobalizzazione:
sostenendo
le
tendenze
interne
del
movimento
che
già
oggi
spingono
per
un
suo
impegno
diretto
a
fianco
dei
lavoratori
e
delle
lavoratrici.
E'
proprio
dalla
ricomposizione
unitaria
di
lotta
della
giovane
generazione,
dal
versante
operaio
in
primo
luogo
come
dal
versante
antiglobalizzazione
che
può
innescarsi
la
dinamica
dell'esplosione
sociale
contro
il
governo
delle
destre
e
le
classi
dominanti.
Ricondurre
a
questo
sbocco
tutto
il
lavoro
di
massa
del
partito,
estendere
il
quadro
delle
rivendicazioni
ad
ogni
settore
sociale
colpito
dalle
politiche
dominanti
(v.
Immigrazione
e
Scuola),
collegare
il
quadro
delle
rivendicazioni
immediate
a
un
programma
più
generale
di
rottura
con
la
proprietà
capitalistica
e
lo
Stato,
sviluppare
in
ogni
movimento
la
coscienza
politica
anticapitalistica,
questo
è
l'impegno
necessario
dell'opposizione
comunista
per
l'alternativa
di
classe.
E
in
questo
ambito
il
nostro
partito
non
può
teorizzare
un
principio
di
adattamento
silenzioso
nei
movimenti
affidandosi
passivamente
a
orientamenti
e
scelte
delle
loro
direzioni
ma
deve
elaborare
capacità
di
proposta
su
scelte
politiche
piccole
e
grandi,
in
funzione
della
prospettiva
anticapitalistica.
La
tematica
delle
forme
di
lotta,
a
partire
dalla
necessaria
difesa
del
diritto
di
manifestare
in
piazza,
contro
ogni
tentazione
di
ripiegamento;
le
questioni
legate
all'autodifesa
di
manifestazioni
pacifiche
e
di
massa
contro
le
aggressioni
violente
da
qualunque
parte
provengano;
la
tematica
delle
forme
di
organizzazione
dei
movimenti
e
del
loro
sviluppo
democratico
oggi
centrale
nel
movimento
antiglobalizzazione:
sono
terreni
su
cui
il
nostro
partito
non
può
tacere
in
nome
di
un
blocco
incondizionato
con
le
direzioni
egemoni
dei
movimenti.
Ma
deve
avanzare
indicazioni,
certo
collegate
alla
sensibilità
degli
interlocutori
e
alla
concretezza
dei
problemi,
ma
sempre
ispirate
a
un
unico
criterio
di
fondo:
lo
sviluppo
della
forza
autonoma
delle
classi
subalterne
e
dei
movimenti
di
massa
in
direzione
di
un'alternativa
di
società
e
di
potere.
Come
affermava
Rosa
Luxemburg:
"La
conquista
del
potere
politico
resta
il
nostro
scopo
finale
e
lo
scopo
finale
resta
l'anima
della
nostra
lotta.
La
classe
operaia
non
deve
porsi
nell'ottica
[di
chi
dice]
'Lo
scopo
finale
non
è
niente,
è
il
movimento
che
è
tutto'.
No,
al
contrario:
il
movimento
in
quanto
tale,
senza
rapporto
con
lo
scopo
finale,
il
movimento
come
fine
in
sé
non
è
niente,
è
lo
scopo
finale
che
è
tutto."
(1898).
Solo questo programma di alternativa anticapitalistica fonda la ragione politica organizzativa del partito nel suo rapporto con i movimenti e la lotta di classe. Un partito che si viva come pura rappresentanza istituzionale di domande sociali, in funzione di una prospettiva di governo riformatore, si priva di una funzione strategica indipendente e perciò mette a rischio, al di là di ogni intenzione, la ragione stessa della sua esistenza. Privo di uno specifico progetto anticapitalistica il partito smarrisce la ragione di una propria distinzione rispetto al movimento. E così l'invito dell'apertura al movimento, in sé importantissima, si trasforma in un rischio di dissoluzione nel movimento stesso, o di trasformazione delle proprie strutture in indistinti "luoghi di movimento". Il risultato paradossale non è così il rafforzamento del partito nel movimento ma all'opposto un principio di dispersione delle forze e di loro sradicamento: a tutto danno sia del partito che del movimento stesso, privato di un riferimento organizzato capace di indicazione e proposta.
La
logica
proposta
dalla
maggioranza
dirigente
del
PRC
va
dunque
esattamente
capovolta.
Il
partito
ha
sì
l'esigenza
prioritaria
di
partecipazione
piena
ai
movimenti,
senza
distacchi
dottrinari
e
anzi
con
la
massima
concentrazione
in
essi
delle
proprie
forze.
Ma
ne
ha
esigenza
come
partito
cioè
come
specifico
progetto
collettivo
anticapitalista
e
rivoluzionario:
ciò
che
richiede
una
specifica
strutturazione,
specifici
strumenti
che
possano
organizzare
nei
movimenti,
a
partire
dalla
classe
operaia,
la
battaglia
collettiva
per
quel
progetto.
Ed
anche
il
più
ampio
sviluppo
della
democrazia
interna
del
partito,
condizione
decisiva
dell'elaborazione
collettiva
e
della
stessa
formazione
dei
quadri.
In
questo
senso
la
funzione
d'avanguardia
del
partito
non
come
imposizione
burocratica,
ma
come
progetto
programmatico
su
cui
sviluppare
consenso
ed
egemonia,
è
la
condizione
stessa
del
suo
radicamento
e
rafforzamento
organizzativo.
(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)
Tesi 15 - IMPERIALISMO ITALIANO
Nel corso del decennio il capitalismo italiano ha lavorato ad aumentare la propria partecipazione alla spartizione imperialistica del mondo. Questo è avvenuto sia attraverso la partecipazione diretta ad imprese neocoloniali (guerra del Golfo, due interventi in Albania - 1992 e 1996 -, intervento in Somalia, in Bosnia, in Kosovo, e ora in Afghanistan), sia attraverso un relativo aumento del capitale esportato (sono circa 500mila i posti di lavoro esportati all'estero dall'industria italiana, in particolare nei Balcani).
L'imperialismo italiano, tuttavia, rimane tutt'ora appesantito dalle tradizionali debolezze del capitalismo che lo sostiene: scarsa presenza di grandi imprese, insufficiente concentrazione del capitale rispetto ai principali paesi concorrenti, ecc. Anche dal punto di vista strettamente militare, nonostante l'aumento delle spese militari già in corso e quelli previsti in futuro, rimane una forza secondaria, incapace di giocare un ruolo autonomo nei conflitti in corso e costretta ad accodarsi ai principali protagonisti, magari tentando di sopperire col numero di uomini impiegati (come è oggi il caso nei Balcani) a queste debolezze strutturali.
Pur restando inserita nel gruppo dei principali paesi imperialisti, l'Italia conferma la propria posizione di "imperialismo straccione", costretto a inserirsi nei varchi aperti dai conflitti fra i "pesi massimi" della politica mondiale, come confermano le ultime vicende relative all'intervento militare in Afghanistan.
Nonostante negli anni '90 la classe dominante abbia investito largamente sui tentativi di risanamento e razionalizzazione dei propri tradizionali punti deboli, i risultati acquisiti non possono certo considerarsi definitivi. Dieci anni costellati di finanziarie di lacrime e sangue, privatizzazioni a tappeto, attacco alle pensioni e allo stato sociale, attacchi diretti al salario, hanno solamente tamponato le falle più vistose, ma non hanno certamente rovesciato la situazione generale del capitalismo italiano, che all'interno della cerchia dei paesi a capitalismo avanzato rimane uno degli anelli deboli.
Queste contraddizioni si riflettono anche nelle divisioni del governo Berlusconi, che è chiaramente spaccato tra un'ala maggioritaria che si offre a Bush come cavallo di Troia americano nell'Unione europea (vicenda Airbus, conflitto con l'UE sulla giustizia, ecc.) e una minoritaria, capeggiata da Ruggiero, che tenta di mantenere la strategia filoeuropea perseguita dall'Ulivo negli scorsi anni.
Questa
situazione
di
debolezza
ha
conseguenze
ben
precise:
di
fronte
alla
crisi
economica
internazionale,
di
fronte
a
un
accrescersi
della
concorrenza
internazionale
sia
sul
terreno
economico
che
su
quello
diplomatico-militare,
la
borghesia
italiana
sarà
costretta
a
cercare
la
soluzione
dei
suoi
problemi
prevalentemente
all'interno,
sul
piano
dello
scontro
diretto
con
la
classe
operaia
italiana
e
le
masse
popolari
in
generale,
piuttosto
che
a
cercare
di
scaricare
all'esterno
le
proprie
contraddizioni,
politica
questa
che
risulta
solo
parzialmente
applicabile
precisamente
per
la
struttura
relativamente
debole
del
capitalismo
italiano.
(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)
Tesi 16 - PARTICOLARITA' DEL CASO ITALIANO
In Italia l'evoluzione del Pds/Ds ha avuto, assieme alle caratteristiche comuni all'insieme della socialdemocrazia europea, caratteristiche peculiari legate ad aspetti specifici della situazione politica italiana. Essa infatti ha coinciso con il crollo della Democrazia cristiana e dell'insieme della rappresentanza politica borghese, crollo che ha aperto una fase estremamente instabile e confusa che dura ormai da un decennio, e che è stata impropriamente definita la "transizione italiana".
Per tutti gli anni '90 un settore della classe dominante ha lavorato sulla linea del cosiddetto Partito democratico, ossia della costruzione di una forza politica liberaldemocratica capace di conquistare un appoggio di massa nelle elezioni, e di dare alla borghesia italiana quel partito liberale "di massa" che mai era riuscita a costruire in oltre un secolo di storia dello Stato italiano. Questo progetto ha assunto forme diverse e variabili, ma aveva al suo interno la costante ricerca del dissolvimento del Pds prima e dei Ds poi all'interno del nuovo partito, recidendo così i loro legami storici con il movimento operaio e portando in dote al nuovo partito una parte significativa del proprio elettorato.
In
base
a
questa
prospettiva
è
maturata
all'interno
dei
Ds
la
cosiddetta
linea
ulivista,
cioè
la
proposta
che
in
un
futuro
più
o
meno
prossimo
quel
partito
dovesse
sciogliersi
all'interno
del
partito
democratico,
incarnato
di
volta
in
volta
da
Prodi,
dall'Asinello,
dalla
coalizione
ulivista
nel
suo
insieme,
ecc.
Tuttavia
questo
progetto
non
aveva
e
non
ha
alcuna
possibilità
di
realizzarsi.
Sia
per
fattori
storici
e
di
tradizione,
sia
per
le
specifiche
debolezze
e
distorsioni
del
capitalismo
italiano
anche
in
questa
fase,
la
rappresentanza
politica
borghese
si
è
ricomposta
non
attorno
a
un
partito
democratico,
ma
attorno
a
partiti
come
An,
la
Lega
e
soprattutto
Forza
Italia.
Questo
riflette
la
storica
debolezza
della
grande
borghesia
italiana,
in
particolare
sul
terreno
politico.
In
140
anni
della
sua
storia,
essa
ha
dovuto
costantemente
scendere
a
compromessi
con
altri
settori
sociali.
All'origine
dello
Stato
unitario
vi
fu
il
compromesso
con
i
resti
delle
vecchie
classi
dominanti
agrarie
del
mezzogiorno,
successivamente
fu
l'accordo
con
gli
interessi
specifici
della
gerarchia
cattolica,
poi
il
lungo
periodo
di
dominazione
fascista,
che
significava
un
sostanziale
esproprio
della
borghesia
dal
controllo
diretto
del
potere
politico.
La
stessa
Democrazia
cristiana
come
è
noto
rappresentò
un
compromesso
tra
un
arco
di
forze
che
andavano
dalla
borghesia
mafiosa,
alla
gerarchia
cattolica,
a
settori
di
sindacalismo
e
di
associazionismo,
ecc.,
un
compromesso
cementato
dalla
repressione
antioperaia
e
anticomunista
negli
anni
'50
e
dallo
sviluppo
economico
del
dopoguerra.
Crollata la Dc, la borghesia italiana si trova da ormai un decennio a dover scegliere fra il minore fra due mali (relativi): o governare attraverso la burocrazia operaia e in particolare sindacale (centrosinistra nelle sue varie forme), con il vantaggio di poter puntare al mantenimento della pace sociale, ma con lo svantaggio di dover accettare i tempi lunghi della concertazione e un relativo potere di veto da parte dei vertici sindacali; oppure governare attraverso le destre, certo più disposte ad applicare su vasta scala misure antioperaie, ma con contraddizioni e peculiarità al loro interno (conflitto d'interessi, rapporto privilegiato con la borghesia mafiosa, elementi di populismo di destra, presenza del secessionismo leghista, ecc.) e soprattutto con il rischio permanente di scatenare un conflitto sociale esplosivo e su vasta scala, come fu nel 1994.
Il
passaggio
da
una
posizione
all'altra
non
corrisponde
affatto
a
un
"disegno
strategico"
maturato
in
chissà
quale
segreta
stanza
del
potere,
ma
è
il
frutto
dell'adattamento
alle
circostanze
che
da
sempre
è
la
prima
caratteristica
del
rapporto
fra
la
borghesia
e
la
lotta
politica.
Sconfitto
Berlusconi
nel
1994
era
giocoforza
scegliere
la
coalizione
avversa;
logorato
l'Ulivo
nei
cinque
anni
di
governo,
era
altrettanto
naturale
orientarsi
nuovamente
al
polo
delle
destre.
In
questo
decennio,
tutti
i
tentativi
centristi,
sia
di
matrice
cattolica
che
laica
sono
crollati
rapidamente,
ultimo
l'esperimento
di
D'Antoni
e
Andreotti
con
Democrazia
europea.
La
causa
profonda
di
questi
fallimenti
è
da
ricercarsi
nella
polarizzazione
sociale
e
politica
che
sia
pure
in
modo
tortuoso
e
complesso
ha
caratterizzato
la
società
italiana
in
questo
decennio.
(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)
Tesi 18 - SUL "GOVERNO DELLA SINISTRA PLURALE"
La prospettiva avanzata del governo della sinistra plurale sulla base di un programma riformatore come soluzione post-Berlusconi non solo nega la necessità di un bilancio ma ripropone, nella sua sostanza di fondo, la politica di 10 anni. Il fatto di perseguirla dal versante dei movimenti, non solo non muta la sua natura, ma rappresenta un danno profondo per i movimenti stessi e per il futuro delle loro ragioni.
La proposta strategica della sinistra plurale di governo rappresenta un errore profondo ed è gravida di grandi rischi per il nostro stesso partito. Dopo aver perseguito per dieci anni senza successo la contaminazione prima del polo progressista poi del Centrosinistra, non possiamo riproporre, come se nulla fosse accaduto, il medesimo indirizzo di fondo; se non ripercorrendo un sentiero già battuto e già fallito. Non solo in Italia ma nel mondo.
Sul piano nazionale l'esperienza della sinistra plurale è già stata vissuta dal nostro partito in occasione del blocco col Polo progressista del '94 (DS, Verdi, Rete di Orlando, PRC). Il programma testuale su cui si realizzò (v. Liberazione, 4/2/94) rivendicava entro "una competizione per il governo del Paese" "una presenza autorevole e solida dell'Italia sui mercati e nel contesto internazionale" e l'appello "a quelle forze del mondo imprenditoriale che hanno a cuore la crescita sociale, civile, democratica dell'Italia". Su questa base proponeva di "coniugare l'equità sociale con le ragioni dell'efficienza e del mercato" di "promuovere quando sia il caso le privatizzazioni", di operare il "risanamento del disavanzo che implicherà austerità" seppur con "l'impegno a garantire che i sacrifici siano ripartiti con giustizia". La vittoria elettorale di Berlusconi impedì la sperimentazione di questo programma di governo, preservando il PRC all'opposizione sino al '96. Ma quel programma rifletteva e riflette l'unico profilo possibile di una sinistra plurale di governo con l'apparato DS: quello che subordina gli interessi del movimento operaio alle esigenze del capitalismo italiano.
Sul piano internazionale l'esperienza in corso della sinistra plurale di governo in Francia (PS-PCF- Verdi) è stata ed è inequivocabile. Se il primo governo della sinistra plurale francese ('81-'83) sotto la guida di Mitterand aveva accompagnato austerità e sacrifici dei lavoratori col linguaggio formale della tradizione riformista, il governo Jospin ha accompagnato austerità e sacrifici col linguaggio liberale (temperato) delle privatizzazioni e della flessibilità. E' la riprova che nel quadro attuale della crisi capitalistica e della competizione globale, un governo di "sinistra plurale" non differisce, nella sostanza del suo indirizzo, da un ordinario governo borghese liberale. Anche per questo aver invocato dopo le ultime elezioni politiche un "Mitterand italiano", aver a lungo esaltato il governo Jospin (che "contesta l'intera logica della flessibilità e introduce direttamente nell'economia il parametro della difesa degli interessi dei lavoratori" come dichiara il segretario del PRC sull'editoriale di prima pagina del 29/9/99) ha rappresentato un errore profondo che è giusto riconoscere.
Il fatto di perseguire la prospettiva del governo riformatore di sinistra plurale come sbocco dei movimenti e della loro azione "contaminante" non muta minimamente la valenza negativa della proposta. Anzi, per molti aspetti, l'aggrava. Invece di orientare il lavoro di massa in direzione dell'autonomia dei movimenti dal Centro borghese liberale, assume i movimenti come leva di pressione sull'apparato D.S. e dell'Ulivo. Invece di liberare il movimento e i movimenti da ogni illusione di poter contaminare i liberali, si promuove nel movimento quella stessa illusione. E' l'esatto capovolgimento di una politica autonoma di classe. E soprattutto è un danno profondo al movimento e alle sue ragioni: perché nessuna delle ragioni di fondo dei movimenti di massa, sia dal versante operaio, sia dal versante antiglobalizzazione, potrebbe trovare soddisfazione in un governo borghese di sinistra plurale.
Per
l'insieme
di
queste
ragioni,
quella
prospettiva
va
apertamente
ed
esplicitamente
respinta
dal
V
Congresso
del
nostro
partito.
(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)
Tesi 19 - OPPOSIZIONE ALLA DESTRA, FRONTE UNICO E RUOLO DEI COMUNISTI
La fase che si apre presenta indubbiamente enormi possibilità di espansione del radicamento per il nostro partito. La crisi delle politiche di collaborazione di classe sia a livello sindacale (crisi della concertazione) sia a livello politico (sconfitte elettorale del centrosinistra), il processo di ripresa delle mobilitazioni sociali, il contesto internazionale, tutto questo concorre a smuovere la coscienza di massa, a rimettere in discussione fra milioni di persone le convinzioni e i pregiudizi cristallizzatisi negli anni scorsi.
La difesa intransigente di un programma di indipendenza di classe è la prima e indispensabile condizione affinché il Prc possa avanzare in questo nuovo contesto. È necessario, tuttavia, comprendere come sarà difficile, per non dire impossibile, che l'attuale crisi di direzione in cui si trova il movimento operaio dopo il fallimento del centrosinistra possa essere risolta attraverso una semplice accumulazione di consenso crescente da parte del nostro partito. Il Prc, a causa degli errori commessi negli scorsi anni, è oggi più debole e meno radicato di quanto non fosse in passato. L'autorità del partito è stata fortemente compromessa agli occhi di ampi settori, mentre per altri essa è ancora tutta da conquistare. Al tempo stesso, nonostante la crisi profonda nella quale versano i Ds, è evidente che la presa di quel partito sui lavoratori organizzati rimane largamente maggioritaria. Le divisioni che si sono aperte tanto nei Ds che nella Cgil segnalano indubbiamente una crisi politica e di strategia nella quale il Prc si può inserire con profitto, ma è indubbio che anche nei settori più organizzati e tradizionalmente d'avanguardia, così come pure fra la nuova generazione operaia in via di radicalizzazione, il nostro partito gode di un consenso che è fatto soprattutto di generica simpatia, di consenso d'opinione, ma raramente viene considerato come una struttura in grado di organizzre e condurre una battaglia sistematica contro le posizioni maggioritarie nella sinistra e nel movimento sindacale.
Accanto
al
nostro
apparato
rivendicativo
e
programmatico,
è
quindi
necessario
sviluppare
la
tattica
necessaria
per
affrontare
questa
nuova
fase
e
rilanciare
non
solo
a
parole
la
nostra
battaglia
per
l'egemonia
nel
movimento
operaio.
In
questo
contesto
le
linee
essenziali
sulle
quali
insistere
potrebbero
essere:
1)
La
questione
della
"rottura
al
centro".
Questa
parola
d'ordine,
correttamente
agitata
in
alcune
occasioni,
non
è
poi
mai
stata
sviluppata
e
approfondita.
Proporre
la
rottura
al
centro
significa
tradurre
in
una
proposta
politica
la
conscienza,
largamente
diffusa,
del
fallimento
del
centrosinistra.
Dobbiamo
spiegare
costantemente,
argomentando
da
tutti
i
possibili
punti
di
vista,
come
la
crisi
della
sinistra,
che
ha
condotto
alla
vittoria
di
Berlusconi,
non
può
venire
superata
se
non
rompendo
radicalmente
con
le
politiche
borghesi
e
di
conseguenza
con
i
partiti
(oggi
fondamentalmente
la
Margherita)
che
ne
sono
stati
il
principale
veicolo
nella
coalizione
del
centrosinistra.
Alla
sinistra
Ds,
che
indica
come
risposta
alla
sconfitta
elettorale,
l'allargamento
della
coalizione
a
Di
Pietro
e
a
Rifondazione,
dobbiamo
rispondere
che
qualsiasi
accordo
col
Prc
è
a
priori
incompatibile
con
le
contemporanee
alleanze
al
centro.
La
costante
della
nostra
posizione
verso
i
Ds
e
le
altre
forze
di
sinistra
(ad
es.
il
Pdci)
dovrebbe
quindi
essere
di
porli
costantemente
di
fronte
all'alternativa
se
allearsi
col
centro
contro
il
Prc
o
se
rompere
col
loro
precedente
orientamento.
2)
La
questione
del
fronte
unico
e
dell'unità
d'azione
nei
movimenti.
In
un
contesto
nel
quale
la
Cgil,
la
Fiom
o
altri
settori
di
burocrazia
si
trovano
a
promuovere,
sia
pure
timidamente
e
strumentalmente,
alcune
mobilitazioni,
cambia
in
modo
significativo
il
quadro
rispetto
alla
condizione
prevalente
negli
ultimi
anni.
Senza
mai
dimenticarci
che
per
i
comunisti
il
movimento
operaio
non
è
qualcosa
che
viene
acceso
o
spento
da
qualche
dirigente,
sia
pure
"di
sinistra",
senza
mai
dimenticarci
che
il
nostro
compito
non
è
aspettare
il
"permesso"
di
Sabattini
o
Cofferati
per
promuovere
le
mobilitazioni,
dobbiamo
cogliere
con
tutte
e
due
le
mani
le
occasioni
che
questa
nuova
situazione
ci
offre.
Sia
sul
terreno
strettamente
difensivo
(art.
18,
difesa
dei
contratti
nazionali,
ecc.)
sia
su
quello
offensivo
(recupero
salariale,
lotta
alla
flessibilità
e
alla
precarizzazione)
dobbiamo
costantemente
sfidare
sul
terreno
della
mobilitazione
i
nostri
avversari
nel
movimento
operaio,
dimostrandoci
capaci
di
portare
avanti
nel
modo
più
efficace
e
combattivo
anche
le
battaglie
limitate
che
oggi
i
dirigenti
della
Cgil
sono
costretti
a
organizzare
(es.
la
lotta
dei
metalmeccanici),
al
tempo
stesso
rifiutando
di
agire
come
semplice
massa
di
manovra
o
forza
aggiuntiva,
non
rinunciando
mai
al
nostro
diritto
di
critica
e
di
proposta
alternativa
e
soprattutto
cogliendo
ogni
occasione
per
spingere
la
mobilitazione
oltre
i
limiti
imposti
dalle
burocrazie.
Questo
vale
innanzitutto
sul
terreno
sindacale,
ma
domani
sarà
indubbiamente
valido
anche
in
altri
campi,
considerato
il
programma
di
offensiva
a
360
gradi
del
governo
Berlusconi,
che
non
minaccia
quindi
solo
i
diritti
sindacali
in
senso
stretto,
ma
anche
i
diritti
delle
donne,
gli
immigrati,
la
scuola
pubblica,
ecc.
Va
infine
sottolineato
come
la
politica
del
fronte
unico,
o
per
usare
un
altro
termine,
dell'unità
d'azione,
deve
sempre
essere
funzionale
alla
crescita
della
nostra
influenza,
a
guadagnarci
l'ascolto
di
settori
vasti
al
di
fuori
del
nostro
partito,
ad
aprire
contraddizioni
nel
fronte
avversario.
Non
può
quindi
essere
trasformata
in
un
feticcio
o
in
un
dogma,
ed
è
evidente
che
vi
sono
situazioni
e
contesti
nella
quale
essa
deve
passare
in
secondo
piano
o,
addirittura,
diventa
completamente
inservibile,
e
deve
lasciare
spazio
alla
pura
e
semplice
iniziativa
di
mobilitazione
diretta
sotto
le
bandiere
e
le
parole
d'ordine
del
nostro
partito.
3)
Quale
alternativa
al
governo
delle
destre.
Lo
scontro
tra
il
governo
Berlusconi
e
il
movimento
operaio
è
solo
all'inizio,
ed
è
impossibile
prevedere
quali
saranno
i
ritmi,
le
modalità
e
soprattutto
gli
esiti.
È
chiaro
tuttavia
che
se
un
nuovo
ciclo
di
lotte
riuscirà
a
mettere
in
crisi
o
addirittura
a
rovesciare
le
destre
al
governo,
assisteremo
all'ennesimo
tentativo
di
ingabbiare
i
lavoratori
nella
collaborazione
di
classe
e
in
una
qualche
riedizione
aggiornata
del
centrosinistra.
Quali
che
siano
le
varie
combinazioni
che
si
presenteranno,
la
nostra
alternativa
dovrà
ruotare
attorno
al
concetto
che
solo
un
governo
che
si
basi
direttamente
sulla
classe
lavoratrice
e
che
risponda
ad
essa,
dotato
di
un
programma
anticapitalista
può
dare
una
reale
risposta
alle
contraddizioni
generate
dalla
crisi
del
capitalismo
internazionale
e
italiano.
Su
questa
linea
dovremo
lavorare
alla
rottura
della
collaborazione
di
classe,
sfidando
le
altre
forze
della
sinistra
alla
rottura
col
centro
così
come
oggi
le
dobbiamo
sfidare
sul
terreno
dell'opposizione
e
della
mobilitazione
contro
le
destre.
(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)
Tesi 20 - CRISI E DERIVA DS
Negli anni '80 e '90 abbiamo visto ovunque la crisi e il crescente slittamento delle forze socialdemocratiche su posizioni sempre più moderate. Gli anni '90 hanno visto i partiti dell'Internazionale socialista andare al governo, da soli o in coalizione, in tutti i paesi principali dell'Unione europea, ad eccezione della Spagna, dove la destra è tornata al potere dopo 17 anni di governo socialista.
Ovunque i gruppi dirigenti della socialdemocrazia hanno adottato questa o quella variante del liberalismo, ovunque le correnti di sinistra interne alla socialdemocrazia sono state messe in crisi e, per tutta una fase, virtualmente cancellate dalla scena: da Lafontaine in Germania, alla sinistra laburista.
Riassumendo
in
una
frase,
si
può
parlare
del
passaggio
della
socialdemocrazia
da
una
politica
di
riforme
a
una
di
controriforme.
Questo
cambiamento
è
conseguenza
di
tre
fenomeni,
strettamente
collegati:
1)
Il
mutato
contesto
economico
rispetto
agli
anni
'50
e
'60,
periodo
"classico"
della
costruzione
del
welfare
state
in
Europa.
La
competizione
internazionale
è
sempre
più
intensa
e
l'Europa
per
fronteggiare
la
concorrenza
Usa
è
costretta
a
incidere
profondamente
sulle
conquiste
sociali
delle
generazioni
precedenti.
2)
Il
cambiamento
dei
rapporti
internazionali,
con
il
crollo
dell'Unione
sovietica
che
ha
oggettivamente
indebolito
le
possibilità
del
movimento
operaio
in
Europa
occidentale
di
ottenere
mediazioni
favorevoli
nella
lotta
di
classe.
3)
Il
riflusso
dell'ondata
di
lotte
degli
anni
'60
e
'70,
riflusso
che
a
partire
dalla
metà
degli
anni
'80
ha
visto
la
borghesia
riconquistare
definitivamente
l'iniziativa
sia
all'interno
delle
aziende
che
sul
terreno
politico
più
in
generale.
L'insieme
di
questi
fattori
ha
portato
l'insieme
della
socialdemocrazia
a
uno
slittamento
verso
destra
quale
obiettivamente
non
si
vedeva
da
diversi
decenni.
Sarebbe
tuttavia
sbagliato
vedere
in
questo
fenomeno
qualcosa
di
radicalmente
nuovo,
o
un
cambiamento
qualitativo
rispetto
alla
storia
passata
della
socialdemocrazia
internazionale.
L'idea
assai
diffusa
nella
sinistra
"radicale"
e
anche
nel
nostro
partito,
secondo
la
quale
oggi
la
socialdemocrazia
avrebbe
subito
uno
"sradicamento"
dalla
propria
base
nel
movimento
operaio
si
basa
su
una
valutazione
puramente
impressionistica
dei
fenomeni
sopra
accennati.
L'essenza della socialdemocrazia, infatti, non è né è mai stata quella di proporre "le riforme" sempre e comunque, oppure quella di prefigurare una linea gradualista, ma pur sempre orientata alla transizione socialista. Sostenere questa analisi significa in ultima analisi idealizzare la socialdemocrazia del passato, la quale invece non si è mai fatta scrupoli nel sostenere le peggiori politiche della borghesia, in particolare nei periodi di crisi sociale ed economica (basti pensare alle responsabilità della socialdemocrazia nella Prima guerra mondiale, nella repressione della rivoluzione tedesca del 1919, nelle imprese coloniali dell'imperialismo francese e britannico in particolare, ecc.)
Allo stesso modo, tentare di individuare differenze qualitative tra la cosiddetta linea"jospiniana" e quella "blairiana", vedendo in queste politiche una diversa matrice di classe (operaia e socialdemocratica la prima, borghese e liberaldemocratica la seconda) significa idealizzare la linea del Psf, a dispetto dei fatti e delle evidenze. Le differenze che indubbiamente esistono vanno infatti ricondotte non a una diversa base di classe di questi partiti, ma alle diverse condizioni politiche e sociali della Francia, nella quale non si è ancora spenta l'onda lunga delle mobilitazioni del 1995-96, che hanno lasciato una lunga scia di lotte sindacali e non solo e un generale fermento nel movimento operaio e giovanile in Francia, del quale il governo Jospin ha dovuto tenere in parte conto.
L'essenza
della
politica
socialdemocratica,
ossia
della
politica
e
dell'ideologia
degli
apparati
che
dominano
il
movimento
operaio
e
sindacale,
è
sempre
stata
quella
di
"rappresentare",
mediare
e
trattare
gli
interessi
della
classe
lavoratrice
all'interno
delle
compatibilità
economiche
e
politiche
del
sistema
capitalista.
L'aspetto
dominante
della
politica
socialdemocratica
non
sono
quindi
le
"riforme",
ma
è
l'adattamento
passivo
a
questa
società.
La
socialdemocrazia
è
stata
pacifista
nei
periodi
di
pace,
ha
accettato
la
guerra
nei
periodi
di
conflitti,
è
stata
keynesiana
nel
periodo
di
espansione
economica
postbellica
e
liberista
negli
ultimi
due
decenni.
In
questo
senso,
non
si
distingue
affatto
da
qualsiasi
altro
partito
democratico
borghese.
L'aspetto
decisivo
che
la
distingue
è
la
propria
capacità
di
egemonizzare
e
controllare
la
classe
lavoratrice,
non
solo
e
non
tanto
nel
senso
di
conquistarne
i
voti
nelle
elezioni,
ma
di
controllare
le
organizzazioni
dei
lavoratori
a
partire
dai
sindacati
e
di
esercitare
quindi
un
controllo
sulle
loro
mobilitazioni.
Va
di
moda
in
questi
anni
sottovalutare
questo
aspetto
della
socialdemocrazia,
e
più
volte
si
è
parlato
in
varie
forme
di
svolta
liberale,
di
sradicamento
"definitivo"
di
partiti
quali
i
Ds
o
il
Labour
dal
movimento
operaio,
ecc.
Tutte
queste
analisi
hanno
il
limite
di
essere
del
tutto
statiche
e
formali,
di
limitarsi
cioè
ad
indicare
una
serie
di
aspetti
evidenti
dell'evoluzione
politica
e
ideologica
delle
burocrazie
sindacali
e
socialdemocratiche,
senza
però
scendere
sul
terreno
dell'analisi
concreta
dei
rapporti
di
classe.
La
domanda
che
dovremmo
porci
è:
ammesso
che
la
socialdemocrazia
si
fosse
effettivamente
trasformata
in
un
partito
liberaldemocratico,
attraverso
quali
canali
si
esprime
oggi
l'organizzazione
politica
della
classe
lavoratrice?
Possiamo
affermare
seriamente
che
in
Italia,
Germania,
Grecia,
Spagna,
Gran
Bretagna,
ecc.
le
uniche
forze
politiche
che
hanno
un
legame
con
la
classe
lavoratrice
sono
i
partiti
comunisti
(che
nel
caso
della
Gran
Bretagna
è
semplicemente
inesistente,
e
in
quasi
tutti
gli
altri
paesi,
inclusa
l'Italia,
vedono
una
forte
crisi
del
proprio
radicamento
operaio)?
L'egemonia
socialdemocratica
sul
movimento
operaio
può
mutare
anche
profondamente
le
proprie
forme,
può
attraversare
momenti
di
crisi
e
di
caduta
verticale
della
propria
autorità
(come
è
stato
il
caso
dell'Italia
negli
scorsi
due
anni),
ma
non
verrà
cancellata,
né
può
semplicemente
crollare
su
se
stessa,
senza
lasciare
nulla
e
limitandosi
ad
aprire
una
voragine
politica.
Essa
può
sparire
solo
se
verrà
costruita
un'alternativa
conseguente,
comunista
e
rivoluzionaria
che
sappia
soppiantarla
attraverso
una
battaglia
sistematica
e
di
lunga
durata
per
quella
che
veniva
in
passato
definita
"la
conquista
della
maggioranza",
ossia
la
conquista
da
parte
dei
comunisti
di
una
posizione
dirigente
riconosciuta
nei
settori
decisivi
della
classe
lavoratrice,
a
partire
dalle
sue
avanguardie.
Le teorizzazioni sulla natura "liberale" della socialdemocrazia in realtà rimuovono questo problema, mascherandosi sotto un radicalismo puramente verbale, che domani facilmente lascerà il posto all'errore opposto, ossia a un adattamento di tipo opportunista alle correnti "di sinistra" della socialdemocrazia e dell'apparato sindacale una volta che queste comincino a rivitalizzarsi. Di questo pericolo vediamo già oggi chiari sintomi nella linea seguita dal Prc sul terreno sindacale verso elementi come Sabattini e altri dirigenti sindacali che hanno cominciato a criticare, sia pure in modo ambiguo e parziale, la linea concertativa dei Ds e della Cgil.
In questo contesto, i risultati del congresso dei Ds appariranno ben presto assai precari per tutti i suoi protagonisti. La contraddizione che si è espressa più forte che mai tra apparato sindacale e apparato di partito non può essere facilmente risolta. L'aspetto decisivo è che la linea di D'Alema e Fassino si rivelerà sempre più difficile da praticare. L'"opposizione governante" si troverà a dover fare i conti da un lato con l'aggressività del governo Berlusconi e della classe dominante, che sta utilizzando tutte le leve a sua disposizione per spingere a un'accelerazione dello scontro; dall'altro, la burocrazia sindacale non può stare a guardare l'opera di demolizione che il governo intende fare non solo e non tanto dei diritti dei lavoratori, ma direttamente del potere dello stesso apparato sindacale. Abbiamo già visto sia in occasione delle giornate di Genova, sia dello sciopero dei metalmeccanici come la corrente dalemiana si sia trovata presa tra i due fuochi e costretta a contraddirsi platealmente nel giro di poche ore. Nel caso di Genova con l'episodio vergognoso della partecipazione poi ritirata alla manifestazione del 21 luglio; nel caso dei metalmeccanici con il rifiuto di votare un ordine del giorno di solidarietà, rifiuto che poi hanno tentato di nascondere presentandosi in piazza durante la manifestazione di novembre. Questi salti mortali indicano come la linea che si prefiggono di percorrere sia in realtà impraticabile, e questo significa che nuove divisioni e nuove crisi si apriranno in quel partito, particolarmente quando la tensione sociale crescente si esprimera in tutta la sua forza nelle prossime mobilitazioni.
In
questo
nuovo
contesto
si
possono
aprire
enormi
possibilità
per
il
Prc
di
conquistare
maggiore
radicamento
e
consenso
nella
classe
lavoratrice
e
nei
movimenti
giovanili.
Lo
sviluppo
delle
mobilitazioni
creerà
un
terreno
estremamente
favorevole,
nel
quale
sarà
sempre
più
difficile
per
i
dirigenti
dei
Ds
e
della
Cgil
nascondere
il
loro
operato
agli
occhi
delle
masse.
La
rottura
della
solidarietà
burocratica
tra
le
varie
correnti
dei
Ds
aprirà
ulteriori
spazi
per
il
nostro
inserimento.
Tutto
questo,
però,
potrà
giovare
al
Prc
solo
a
due
condizioni:
1)
Che
sappiamo
mantenere
una
completa
indipendenza
politica
e
di
iniziativa,
sviluppando
il
nostro
apparato
rivendicativo
e
lavorando
coerentemente
e
con
continuità
alla
costruzione
della
mobilitazione,
legandoci
ai
settori
più
avanzati
e
contribuendo
a
creare
i
necessari
strumenti
di
autorganizzazione
delle
lotte
e
di
battaglia
interna
al
movimento
sindacale.
2)
Che
si
coniughi
questo
con
la
comprensione
che
il
ruolo
tutt'ora
maggioritario
delle
correnti
socialdemocratiche
nel
movimento
operaio
ci
obbliga
a
un'applicazione
coerente
e
sistematica
della
tattica
del
fronte
unico,
muovendo
dalle
attuali
battaglie
difensive
(Articolo
18,
scuola
pubblica,
ecc.)
per
far
penetrare
in
settori
sempre
più
vasti
la
coscienza
della
necessità
di
una
controffensiva
a
tutto
campo,
che
sia
sul
piano
delle
rivendicazioni
che
su
quello
delle
forme
e
della
radicalità
della
lotta
sia
all'altezza
dell'attacco
portato
dall'avversario.
(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)
Tesi 22 - PER LA CACCIATA DEL GOVERNO BERLUSCONI
Il governo Berlusconi riassume al suo interno tutte le peggiori tradizioni reazionarie della borghesia italiana. Il suo programma, le tradizioni dei partiti che lo compongono, il personale politico che viene posto in prima fila, tutto spinge questo governo all'offensiva antioperaia e reazionaria.
Il
contesto
economico
nazionale
e
internazionale
accentua
questa
spinta,
che
oggi
viene
alimentata
senza
sosta
dai
portavoce
e
dai
centri
di
potere
decisivi
della
classe
dominante:
Banca
d'Italia,
Confindustria,
la
gran
parte
della
"grande
stampa",
ecc.
Questo
è
anche
il
terreno
su
cui
si
tenteranno
di
ricomporre
le
contraddizioni
esistenti
nel
governo
e
nel
blocco
di
forze
sociali
che
lo
sostengono.
La
linea
del
governo
si
propone
quindi
di
affondare
il
colpo
isolando
la
Cgil
in
una
sorta
di
ripetizione
degli
anni
'50.
La
domanda
che
si
pone
è
quali
siano
le
possibilità
di
applicazione
di
questa
politica,
e
quali
possano
essere
gli
elementi
di
contrasto.
In
passato
abbiamo
visto
governi
reazionari
come
quelli
di
Reagan
e
Thatcher
affermarsi
nelle
elezioni
e
aprire
poi
un
lungo
ciclo
di
reazione
più
o
meno
aperta,
che
si
prolungò
all'incirca
per
15
anni.
Oggi
tuttavia
le
condizioni
sono
radicalmente
diverse.
Le
politiche
reazionarie
degli
anni
'80
si
affermarono
solo
dopo
aver
battuto
sul
campo
importanti
mobilitazioni
operaie
nei
primi
anni
di
quel
decennio:
lo
sciopero
dei
minatori
inglesi,
la
lotta
della
Fiat
in
Italia
e
la
lotta
per
la
scala
mobile,
lo
sciopero
dei
controllori
di
volo
in
Usa,
ecc.
Non
è
sufficiente
quindi
una
vittoria
elettorale
(che
per
giunta
in
Italia
è
giunta
in
primo
luogo
per
l'unificazione
delle
destre,
e
non
per
un
aumento
del
loro
consenso
elettorale):
perché
la
reazione
si
dispieghi
in
tutta
la
sua
forza
è
necessario
che
conquisti
sul
campo
della
lotta
di
classe
una
vittoria
significativa,
che
metta
il
movimento
operaio
in
uno
stato
di
demoralizzazione
e
di
ritirata.
Oggi
non
solo
questo
non
è
avvenuto,
ma
la
situazione
è
opposta
a
quella
dei
primi
anni
'80:
allora
il
movimento
operaio
vedeva
le
ultime
fiammate
delle
lotte
degli
anni
'60
e
'70,
in
un
contesto
nel
quale
una
generazione
di
lavoratori
cominciava
a
perdere
fiducia
nelle
proprie
forze,
dopo
aver
toccato
livelli
altissimi
di
mobilitazione.
Oggi,
al
contrario,
siamo
di
fronte
all'inizio
di
un
nuovo
ciclo,
che
vede
una
nuova
generazione
operaia
entrare
nella
scena
della
lotta
di
classe.
I
tentativi
di
utilizzare
metodi
apertamente
repressivi,
come
si
è
visto
nelle
giornate
di
Genova,
rischierebbero
di
portare
a
un'esplosione
sociale
generalizzata.
D'altra
parte,
l'idea
che
un'offensiva
generalizzata
possa
affermarsi
attraverso
metodi
concertativi
è
destinata
a
fallire:
al
di
là
delle
parole
il
governo
non
ha
nulla
da
offrire
alla
burocrazia
sindacale,
in
particolare
a
quella
della
Cgil,
e
se
questa
accettasse
di
chiudere
il
contenzioso
sull'art.
18
con
un
nuovo
tradimento
simile
a
quello
del
31
luglio
del
1992,
si
aprirebbe
allora
la
possibilità
a
breve
termine
di
una
esplosione
spontanea
di
lotte
pari
se
non
più
profonda
di
quella
dell'"autunno
dei
bulloni".
S'impone
quindi
una
conclusione:
oggi
la
reazione,
rappresentata
da
questo
governo,
ha
conquistato
un
vantaggio
solo
molto
relativo
con
la
vittoria
elettorale,
e
non
è
affatto
egemone
nella
società,
né
ha
piegato
in
modo
definitivo
i
rapporti
di
forza
a
proprio
favore.
Gli
anni
che
si
preparano
non
sono
anni
di
riflusso,
ma
anni
di
rinnovata
polarizzazione
sociale
e
politica,
di
ripresa
del
conflitto
sociale,
un
periodo
nel
quale
una
e
più
volte
il
movimento
operaio
avrà
l'occasione
di
dimostrare
quali
siani
i
veri
rapporti
di
forza
nella
società.
Peraltro,
nonostante
le
difficoltà,
vasti
sono
gli
spazi
per
la
costruzione
di
un'opposizione
radicale
di
massa
al
governo
delle
destre.
Nonostante
il
suo
più
forte
insediamento,
il
governo
Berlusconi
non
è
nato
sull'onda
di
un'espansione
del
consenso
nella
società
italiana,
ma
sullo
sfondo
di
un
arretramento
della
coalizione
delle
destre
rispetto
al
'94
e
al
'96.
Parallelamente,
nonostante
i
colpi
subiti
si
moltiplicano
nell'ultima
fase
i
segni
di
ripresa
del
movimento
operaio
a
partire
dalla
grande
mobilitazione
dei
metalmeccanici
con
l'affacciarsi
sul
campo
di
una
nuova
generazione
operaia.
E
questa
ripresa
di
classe,
seppur
fragile
ancora,
si
combina
a
sua
volta
con
la
continuità
e
lo
sviluppo
di
un
movimento
antiglobalizzazione,
prevalentemente
giovanile,
che
ha
acquisito
in
Italia
un
carattere
di
massa
più
ampio
che
in
altri
Paesi
europei.
Inoltre,
in
particolare
a
ridosso
dei
fatti
di
Genova,
si
è
sviluppato
un
processo
di
attiva
sensibilizzazione
antigovernativa
di
settori
rilevanti
di
popolo
della
sinistra,
a
sostegno
del
movimento
antiglobalizzazione
e
richiamati
da
una
sincera
preoccupazione
democratica
(v.
le
manifestazioni
del
24
luglio).
Tutti
questi
fattori
non
innescano
di
per
sé
meccanicamente
l'opposizione
di
massa
al
governo,
ma
misurano
un
potenziale
di
controffensiva
al
suo
programma
reazionario
che
si
appoggia
su
una
base
sociale
e
politica
più
ampia
che
in
passato.
Il
nostro
partito
ha
il
compito
di
raccogliere
e
sviluppare
queste
potenzialità,
ricomponendole
attorno
a
un
programma
e
a
un
obiettivo
di
sbocco
unificante.
Per
questo,
tanto
più
oggi,
non
possiamo
attestarci
sulla
routine
dell'opposizione
parlamentare
combinata
con
la
lode
della
spontaneità
dei
movimenti.
Ma
dobbiamo
favorire
entro
l'esperienza
viva
dei
movimenti,
le
condizioni
di
un'esplosione
sociale
concentrata
contro
le
classi
dominanti
e
il
loro
governo.
Solo
un'esplosione
sociale
concentrata
può
ribaltare
i
rapporti
di
forza
tra
le
classi
e
aprire
il
varco
dell'alternativa
anticapitalistica.
E
solo
un'alternativa
anticapitalistica
può
rispondere
realmente
alle
ragioni
di
fondo
delle
classi
subalterne
e
delle
loro
lotte.
La
rivendicazione
della
cacciata
del
governo
Berlusconi
può
e
deve
essere
interna
alla
prospettiva
anticapitalistica,
come
una
delle
leve
della
sua
maturazione.
Per
questo
essa
va
posta
apertamente
all'interno
dei
movimenti,
senza
forzature
"politiciste"
ma
senza
autocensure,
in
un
rapporto
vivo
con
la
dinamica
obiettiva
delle
loro
lotte.
(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)
Tesi 24- LA NOSTRA BATTAGLIA NEI SINDACATI
L'intervento
sul
terreno
sindacale
mostra
forse
più
chiaramente
di
qualsiasi
altro
le
contraddizioni
e
le
debolezze
della
linea
seguita
dal
partito
in
questi
anni.
Per
circa
un
decennio
abbiamo
visto
come
le
diverse
opposizioni
interne
alla
Cgil,
da
"Essere
sindacato"
a
"Cambiare
rotta"
si
siano
dimostrate
tutte
incapaci
di
uscire
dalla
logica
della
pura
opposizione
d'apparato
e
di
praticare
sul
campo
una
linea
effettivamente
alternativa
a
quella
di
Cofferati.
Così
come
la
maggioranza
della
Cgil
accettava
scrupolosamente
le
"regole
del
gioco"
della
concertazione,
la
minoranza,
che
pure
a
parole
criticava
quelle
regole,
accettava
altrettanto
scrupolosamente
le
"regole
del
gioco"
dell'apparato.
I
tentativi
di
promuovere
fra
i
lavoratori,
nelle
aziende
e
nelle
categorie,
piattaforme
alternative
e
mobilitazioni
indipendenti
sono
stati
così
timidi
e
sporadici
da
non
lasciare
alcuna
traccia
nella
coscienza
dei
lavoratori.
Al
tempo
stesso,
numerosissime
sono
state
le
compromissioni
al
vertice,
quando
in
nome
di
una
parola
o
di
una
virgola
inserite
nella
piattaforma
o
nel
documento
sindacale
del
momento
giustificavano
l'adesione
della
minoranza
alle
posizioni
maggioritarie.
Il
fatto
nuovo
degli
ultimi
anni,
così,
non
viene
da
una
crescita
d'iniziativa
e
di
influenza
della
sinistra
Cgil,
ma
dal
riposizionamento
di
settori
di
maggioranza,
in
particolare
della
segreteria
della
Fiom,
che
hanno
cominciato
sia
pure
parzialmente
e
in
modo
strumentale
a
"rompere"
le
righe
e
a
promuovere
momenti
di
conflitto,
dalla
vicenda
Zanussi
al
contratto
dei
metalmeccanici.
Queste
iniziative
hanno
mostrato
le
potenzialità
esistenti
fra
i
lavoratori
quando
questi
vedono
una
direzione
disposta
a
mobilitarli,
come
mostra
in
particolare
lo
sciopero
della
Fiom
del
6
luglio
scorso.
Tuttavia
le
basi
programmatiche
e
i
metodi
su
cui
si
sono
condotte
queste
battaglie
mostrano
in
modo
inequivocabile
la
natura
strumentale
della
battaglia
condotta
da
questi
settori.
La
piattaforma
dei
metalmeccanici
non
è
certo
tale
da
suscitare
l'entusiasmo
nelle
fabbriche,
e
ancora
più
deleteria
è
la
gestione
della
vertenza,
che
ha
visto
dopo
lo
sciopero
riuscito
del
6
luglio
una
tregua
di
oltre
quattro
mesi
che
ha
seminato
confusione
fra
i
lavoratori
e
permesso
al
fronte
avversario
di
ricompattarsi.
In
questo
contesto,
l'allargamento
formale
della
sinistra
Cgil
a
nuovi
settori
precedentemente
collocati
in
maggioranza,
assume
il
significato
concreto
non
di
un
rafforzamento
politico
e
organizzativo
significativo,
non
di
una
maggiore
capacità
di
mobilitazione,
ma
paradossalmente
di
un
nuovo
arretramento.
L'attuale
sinistra
in
Cgil,
per
quanto
formalmente
più
ampia
e
unita,
è
in
realtà
più
che
in
passato
impermeabile
alle
vere
esigenze
che
sorgono
dai
luoghi
di
lavoro,
più
che
mai
impotente
e
velleitaria
nelle
proprie
iniziative.
Quello
che
avrebbe
dovuto
essere
una
leva
per
far
valere
nella
Cgil
le
ragioni
dei
lavoratori
si
sta
trasformando
in
una
leva
dell'apparato
per
ingabbiare
gli
attivisti
più
avanzati.
Parallelamente
avanzano
altri
processi
importanti
nel
campo
sindacale.
Il
dilagare
della
precarizzazione
e
la
rapida
proletarizzazione
di
nuovi
settori,
particolarmente
nel
commercio
e
nei
servizi,
stanno
cominciando
a
suscitare
come
reazione
una
spinta
alla
sindacalizzazione.
Le
cifre
di
crescita
del
Nidil-Cgil,
per
quanto
in
termini
assoluti
siano
ancora
modeste,
dimostrano
le
potenzialità
in
questo
settore,
così
come
le
dimostrano
le
lotte
condotte
da
settori
di
precari,
soprattutto
giovani,
sia
nell'industria
che
nei
servizi,
in
aziende
come
Fiat,
McDonald's,
Ikea,
Zanussi,
Tim,
ecc.
Queste
lotte
hanno
spesso
visto
il
coinvolgimento
di
lavoratori
interinali
e
a
termine,
smentendo
le
previsioni
di
chi
vedeva
questi
settori
come
condannati
all'atomizzazione
e
all'"aconflittualità".
Questi
settori
di
nuova
sindacalizzazione,
che
sono
inevitabilmente
destinati
a
crescere
significativamente,
tendono
nella
gran
maggioranza
dei
casi
a
rivolgersi
alla
Cgil
come
struttura
più
radicata
sul
territorio,
nella
ricerca
di
un
sostegno
per
la
difesa
dei
loro
diritti.
L'insieme
di
questi
fattori
(parziale
ripresa
d'iniziativa
del
gruppo
dirigente
della
Cgil,
crisi
politica
della
sinistra
Cgil,
inizio
del
processo
di
sindacalizzazione
di
una
nuova
generazione
operaia)
ci
deve
portare
a
un
riesame
critico
della
politica
sindacale
fin
qui
seguita
dal
Prc.
Nel
corso
degli
anni
'90
si
è
infatti
oscillato
fra
un
evidente
adattamento
all'apparato
Cgil,
in
particolare
quando
questo
promuoveva
delle
mobilitazioni
(il
primo
episodio
significativo
di
questo
si
ebbe
nel
movimento
del
1994,
quando
venne
teorizzata
la
"sospensione
della
critica"
nei
confronti
dei
vertici
sindacali;
l'ultimo
nell'attuale
vertenza
dei
metalmeccanici,
dove
risulta
effettivamente
impossibile
distinguere
la
posizione
dei
sindacalisti
del
Prc
da
quella
di
Sabattini
e
della
Fiom)
e
un
ammiccamento
più
o
meno
aperto
verso
l'idea
che
prima
o
poi
si
debba
rompere
con
la
Cgil
e
promuovere
la
costruzione
di
una
nuova
confederazione,
linea
che
è
stata
chiaramente
espressa
nella
conferenza
operaia
di
Treviso.
È
anche
necessario
trarre
un
bilancio
del
percorso
compiuto
dai
sindacati
di
base
in
questo
decennio.
Sulla
carta,
non
potevano
esistere
condizioni
più
favorevoli
per
chi
si
proponeva
di
promuovere
un'uscita
di
massa
dalle
confederazioni.
Eppure
a
quasi
dieci
anni
dal
punto
di
svolta
del
3
luglio
1992,
il
bilancio
è
quantomeno
controverso.
Sigle
storiche
del
sindacalismo
di
base
sono
praticamente
scomparse
dal
panorama
sindacale;
più
in
generale,
nell'industria
il
sindacalismo
extraconfederale
si
è
fortemente
indebolito.
Se
è
vero
che
in
alcuni
settori
(scuola
e
trasporti
in
particolare)
c'è
stato
un
rafforzamento
significativo,
è
altrettanto
vero
che
con
la
sola
eccezione
delle
ferrovie
in
nessuna
categoria
sono
riusciti
a
conquistare
una
egemonia
indiscussa.
Le
recenti
elezioni
delle
Rsu
del
pubblico
impiego
confermano
quanto
già
si
era
visto
in
quelle
precedenti,
e
cioè
che
i
lavoratori
vedono
i
sindacati
di
base
come
un
utile
strumento
di
pressione
e
anche
di
organizzazione,
ma
che
la
radicalizzazione
che
li
spinge
in
determinati
momenti
verso
queste
organizzazioni
è
la
stessa
che
li
porta
a
votare
la
Cgil,
che
ha
ottenuto
una
vittoria
più
chiara
di
quella
di
due
anni
fa.
Su
queste
basi
gli
accenni
alle
"rotture"
che
dovremmo
compiere
sul
terreno
sindacale
assumono
un
carattere
del
tutto
avventuristico,
salvo
poi
tradursi
in
un
nulla
di
fatto.
Il
terreno
decisivo
sul
quale
ci
troveremo
a
condurre
la
nostra
battaglia
nella
prossima
fase,
non
sarà
quindi
lungo
la
linea
che
divide
il
sindacalismo
extraconfederale
dalle
Confederazioni,
ma
lungo
una
linea
che
attraversa
le
stesse
confederazioni,
e
in
primo
luogo
la
Cgil.
Pur
essendo
coscienti
che
l'attuale
frammentazione
della
presenza
sindacale
dei
comunisti
non
può
essere
superata
facilmente,
dichiariamo
che
solo
una
lotta
aperta
all'interno
del
sindacato
confederale,
e
in
primo
luogo
alla
Cgil,
può
aprirci
la
strada
per
raggiungere
le
più
ampie
masse
di
lavoratori
e
sfidare
così
la
burocrazia
sindacale
sul
terreno
decisivo.
Una
lotta
che
va
condotta
fin
da
subito,
uscendo
dalla
logica
d'apparato
e
di
attesa
di
questo
o
quel
dirigente
"più
a
sinistra",
ma
rivolgendosi
direttamente
ai
lavoratori
e
ai
delegati.
Il
nostro
obiettivo,
quindi,
è
quello
di
portare
tutti
i
lavoratori
comunisti
a
combattere
su
questo
terreno,
salvo
situazioni
particolari,
ad
esempio
dove
i
sinacati
alternativi
hanno
un
radicamento
significativo
o
per
ragioni
specifiche
legate
alle
esigenze
reali
del
conflitto
sociale,
ma
comunque
all'interno
di
un
orientamento
generale
che
vede
i
comunisti
impegnati
in
una
grande
contesa
di
massa
nelle
organizzazioni
"maggiormente
rappresentative".
Questa
analisi
non
significa
che
il
Prc
possa
superare
"per
decreto"
l'attuale
situazione
nella
quale
i
comunisti
militano
in
diverse
organizzazioni
sindacali.
Nessun
"ordine
di
partito"
può
sostituire
un
percorso
le
cui
tappe
saranno
definite
non
dalle
decisioni,
ma
dallo
sviluppo
concreto
della
lotta
sindacale.
In
questa
fase
il
discrimine
decisivo
sono
le
piattaforme,
i
programmi,
le
rivendicazioni
e
le
capacità
di
costruire
percorsi
unitari
di
mobilitazione.
Su
questi
punti
il
Prc
si
impegna
ad
un
lavoro
sistematico
per
creare
ambiti
unificanti
di
dibattito
e
di
coordinamento
di
tutti
i
propri
militanti
sindacali,
ovunque
collocati.
(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)
Tesi 25 - INTERVENTO NEL MOVIMENTO ANTIGLOBALIZZAZIONE IN ITALIA
Il movimento antiglobalizzazione in Italia ha conseguito una reale dimensione di massa e racchiude rilevanti potenzialità anticapitalistiche. Ma è decisiva la sua convergenza di lotta con la classe operaia come condizione dell'affermazione delle sue stesse ragioni. Lavorare nella classe operaia per l'assunzione delle istanze del movimento antiglobalizzazione entro un programma di classe. Lavorare nel movimento antiglobalizzazione per la sua aperta proiezione di lotta verso il movimento operaio entro il conflitto centrale tra capitale e lavoro. Questa è oggi una necessità centrale della battaglia di egemonia dei comunisti per la ricomposizione di un blocco sociale anticapitalistico. Ma richiede un impegno di lotta, entro la costruzione del movimento, contro le posizioni prevalenti nelle sue attuali direzioni.
Il movimento antiglobalizzazione ha conquistato un ruolo obiettivo di grande rilevanza nello scenario italiano. Più che in altri Paesi europei esso ha conseguito una reale dimensione di massa, in particolare tra i giovani, testimoniata dalla grande manifestazione di Genova; ha coinvolto reali settori di avanguardia della classe lavoratrice e delle sue rappresentanze sindacali; ha esercitato ed esercita un rilevante impatto politico sull'intera situazione nazionale. Più in generale esso si circonda di una diffusa simpatia popolare, quale effetto indiretto della crisi di egemonia del liberismo presso ampi settori di massa. Per questo il movimento rivela un potenziale prezioso di ulteriore espansione, che gli eventi di guerra non hanno pregiudicato.
Ma
proprio
questa
realtà
e
potenzialità
sottolineano
i
problemi
irrisolti
dell'orientamento
del
movimento.
La
sproporzione
tra
il
livello
complessivamente
arretrato
della
coscienza
politica
diffusa
del
movimento
e
l'elevato
livello
di
scontro
con
l'apparato
dello
Stato
e
lo
stesso
governo,
documentata
dai
fatti
di
Genova;
lo
scarto
tra
l'elementare
pulsione
critica
antiliberista
e
il
livello
di
confronto
imposto
dalla
precipitazione
della
guerra
imperialistica
in
Afghanistan,
descrivono
una
contraddizione
obiettiva
e
pericolosa,
in
parte
inscritta
inevitabilmente
nell'inesperienza
della
giovane
generazione,
in
parte
amplificata
dalla
cultura
riformistico-paficista
della
direzione
maggioritaria
del
movimento.
Il
nostro
partito,
forte
di
una
presenza
diffusa
nel
movimento,
può
e
deve
impegnarsi
ad
affrontare
e
superare
in
avanti
quella
contraddizione,
nell'interesse
del
movimento
e
delle
sue
ragioni.
Non
può
concepire
il
proprio
ruolo
né
come
pura
rappresentanza
istituzionale
delle
istanze
di
movimento;
né
come
mediatore
tra
movimento
e
istituzioni;
né
come
puro
collante
dell'unità
del
movimento
intesa
come
blocco
politico-diplomatico
con
le
componenti
associative
centrali
della
sua
leadership.
Ma
deve
invece
combinare
un'azione
leale
di
costruzione
quotidiana
del
movimento
di
massa
antiglobalizzazione
con
un'aperta
battaglia
di
orientamento
politico
nel
movimento
stesso:
una
battaglia
tesa
a
sviluppare
la
coscienza
politica
del
movimento
sul
terreno
anticapitalistico
e
antimperialista
(v.
tesi…),
la
sua
autonomia
e
contrapposizione
a
centrodestra
e
centrosinistra,
la
sua
convergenza
di
lotta
con
la
classe
operaia
sul
terreno
del
blocco
sociale
alternativo.
Una
battaglia
aperta
di
egemonia
alternativa.
L'azione di costruzione del movimento implica innanzitutto un'aperta responsabilità di proposta sullo stesso terreno delle forme di lotta e di organizzazione del movimento. In questo ambito va contrastata ogni posizione, ciclicamente affiorante, che di fatto propone al movimento una sorta di ripiegamento seminariale e un arretramento dei suoi livelli di mobilitazione (come nella fase successiva alle manifestazioni di Genova, alla vigilia della manifestazione di Napoli contro la NATO, in relazione alla stessa manifestazione di Roma del 10 novembre). Va posta invece la centralità delle manifestazioni, pacifiche e di massa, quale terreno di lotta indispensabile ai fini dell'aggregazione, dell'impatto politico, della stessa visibilità e popolarizzazione delle ragioni del movimento. Va affrontata seriamente, in questo quadro, la problematica dell'autodifesa delle manifestazioni da qualsiasi forma di aggressione, quale strumento di tutela del carattere pacifico e di massa delle manifestazioni medesime (v. servizi d'ordine). Va inoltre affrontata la questione dell'organizzazione democratica nazionale di un movimento che proprio per la sua espansione, non può più reggersi su un puro patto di vertice inter-associativo, ma deve coinvolgere democraticamente la massa degli attivisti, oggi privi di ogni potere decisionale, nella definizione delle scelte del movimento stesso e delle sue rappresentanze ad ogni livello: pena il combinarsi di una crisi di democrazia, di un'elusione delle scelte, di una debole rappresentatività delle decisioni.
Sul
piano
politico
è
necessario
sviluppare,
nel
movimento
la
proposta
di
convergenza
di
lotta
con
la
classe
operaia,
sul
terreno
dell'opposizione
aperta
al
padronato
e
al
governo
Berlusconi.
Non
si
tratta
semplicemente
di
rappresentare
la
nostra
"sensibilità"
di
classe
entro
il
mosaico
del
movimento.
Si
tratta
di
lottare
per
conquistare
il
grosso
del
movimento
ad
una
prospettiva
di
classe,
quale
condizione
dell'affermazione
delle
sue
stesse
ragioni,
e
quale
terreno
di
valorizzazione
delle
sue
stesse
potenzialità
d'impatto.
Nell'attuale
quadro,
il
movimento
antiglobalizzazione,
già
forte
di
una
diffusa
simpatia
in
settori
vasti
della
società,
potrebbe
realmente
trasformarsi
nel
detonatore
di
un'esplosione
sociale:
ma
alla
condizione
che
dal
movimento
emerga
un
indirizzo
nuovo
e
una
proposta
nuova.
L'incontro
con
i
lavoratori
non
può
ridursi
ad
una
somma
di
buone
relazioni
con
le
rappresentanze
del
sindacalismo
di
classe,
né
ad
un'azione
di
pressione
su
Cofferati
o
alla
semplice
registrazione
dell'adesione
FIOM
al
GSF
(che
certo
è
importante).
Ma
può
e
deve
tradursi
in
una
pubblica
proposta
di
azione
comune,
basata
su
una
piattaforma
di
rivendicazioni
semplice
e
unificante,
che
sappia
stabilire
un
rapporto
di
sintonia
con
le
domande
sociali
delle
più
vaste
masse
e
che
proprio
per
questo
possa
sfidare
all'unità
d'azione
le
stesse
organizzazioni
sindacali
ponendo
ognuna
di
fronte
alle
proprie
responsabilità.
In
questo
senso
la
proposta
della
vertenza
generale
del
mondo
del
lavoro
e
dei
disoccupati
va
posta
apertamente
non
solo
tra
i
lavoratori
ma
nello
stesso
movimento
antiglobalizzazione,
indicando
così
da
entrambi
i
versanti,
il
possibile
terreno
comune
di
un'azione
di
lotta
unitaria
e
concentrata.
La
stessa
prospettiva
dello
sciopero
generale
contro
padronato
e
governo
va
indicata
come
occasione
straordinaria
di
una
preziosa
convergenza
di
lotta
tra
lavoratori
e
giovani,
in
una
dinamica
di
rottura
con
la
borghesia.
Lo
stesso
successo
della
mobilitazione
contro
il
G8,
unito
alla
nuova
situazione
creata
dallo
scoppio
della
guerra
in
Afghanistan,
ha
creato
una
situazione
nuova
nel
movimento.
Da
un
lato,
l'onda
d'urto
generata
dalla
mobilitazione
di
Genova
si
è
allargata
ulteriormente
ampliando
i
settori
potenzialmente
coinvolgibili
nel
movimento.
Dall'altro
sia
le
proposte
politiche
dominanti
che
le
forme
di
lotta
proposte
(disobbedienza
civile)
sono
entrate
obiettivamente
in
crisi.
Il
tentativo
di
risolvere
la
crisi
attraverso
la
strutturazione
della
rete
dei
social
forum
non
solo
non
ha
risolto
questa
crisi,
ma
l'ha
resa
più
evidente.
I
SF,
particolarmente
nelle
grandi
città
e
su
scala
nazionale,
sono
oggi
molto
distanti
dall'esprimere
la
potenzialità
rivoluzionaria
del
movimento;
prevale
una
diplomazia
soffocante
nei
rapporti
tra
le
diverse
componenti,
la
logica
assembleare
e
quella
del
"minimo
comun
denominatore"
si
sommano
creando
una
gestione
sostanzialmente
antidemocratica.
C'è
quindi
un'evidente
forzatura
nel
rappresentare
i
SF
come
la
"strutturazione
del
movimento"
in
quanto
tale:
sia
per
composizione
che
per
metodi
e
programmi,
la
maggior
parte
sei
SF
sono
distanti
miglia
e
miglia
dalle
aspirazioni
più
profonde
e
radicali
espresse
dalle
centinaia
di
migliaia
di
persone
che
hanno
partecipato
alle
mobilitazioni
contro
il
G-8.
La
discussione
sulla
guerra
e
l'assemblea
nazionale
di
Firenze
hanno
mostrato
un
processo
di
cristallizzazione
di
diverse
posizioni
all'interno
dei
SF.
Si
tratta
di
una
chiarificazione
positiva,
che
però
si
produce
purtroppo
senza
alcun
ruolo
del
Prc.
Al
contrario,
la
linea
seguita
è
stata
fino
all'ultimo
quella
di
oscurare
e
mascherare
le
divergenze
in
seno
ai
SF.
Quando
poi
queste
sono
diventate
evidenti
e
pubbliche,
si
è
avuto
l'episodio
dell'adesione
dei
Gc
al
"laboratorio
della
disobbedienza
sociale",
con
il
che
dopo
aver
negato
la
necessità
di
una
chiarificazione
di
posizioni
all'interno
dei
SF,
quando
questa
si
produce
nostro
malgrado
scegliamo
di
abbracciare
non
il
settore
più
radicale
(che
pure
presenta
chiari
limiti
politici,
ma
che
comunque
da
Genova
in
poi
ha
tentato
di
esprimere
posizioni
più
chiaramente
classiste
e
antimperialiste),
ma
un'area
sostanzialmente
moderata
come
quella
delle
"tute
bianche".
L'accettazione
della
"disobbedienza
sociale",
nonostante
la
retorica
movimentista
di
cui
si
ammanta,
costituisce
in
realtà
un
allontanamento
dal
movimento
reale,
verso
la
logica
delle
azioni
"esemplari",
eclatanti,
simboliche,
logica
che
è
del
tutto
incapace
di
prospettare
uno
sviluppo
di
massa
del
movimento
e
un
suo
reale
legame
con
il
movimento
operaio.
(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)
Tesi 35 - DEMOCRAZIA DEL PARTITO
Questa riforma politica profonda della nostra concezione e costruzione del partito richiama una riforma altrettanto profonda della sua democrazia, quale terreno decisivo della stessa rifondazione comunista.
Abbiamo bisogno di rendere tutti i compagni "padroni di casa" nel proprio comune partito: di incoraggiare, non emarginare, le disponibilità dei giovani compagni; di valorizzare, non di comprimere, spirito d'iniziativa e indipendenza di giudizio, che sono lievito indispensabile per un partito vitale; e soprattutto di rendere tutti i militanti del partito partecipi delle elaborazioni e decisioni ai vari livelli del partito stesso: perché gli orientamenti democraticamente definiti sono anche quelli maggiormente sostenuti nell'azione pratica, mentre le scelte passivamente subite, quand'anche condivise, non mobilitano le energie e l'iniziativa.
Parallelamente va affermato il diritto di ogni compagno del partito a conoscere il dibattito, le deliberazioni, le posizioni diverse che emergono nel partito e di contribuirvi consapevolmente (e non per impressioni ricevute magari dalla stampa avversaria). E' essenziale in questo senso uno strumento di dibattito interno nazionale, con verbali e atti degli organismi direttivi, a partire dalla Direzione nazionale, ed un'ampia possibilità di contributi delle federazioni, circoli, singoli o gruppi di militanti. Al contempo Liberazione deve essere aperto agli interventi dell'insieme del partito e rispettarne la vita democratica, senza alcuna intromissione politica da parte di redattori o responsabili del giornale.
E' necessario inoltre che la formazione dei compagni - che va assunta come tema centrale del partito - sia concepita anche come sviluppo reale della sua democrazia interna; perché solo lo sviluppo di conoscenze, competenze, preparazione, rafforza l'autonomia di giudizio e quindi la libertà reale della valutazione.
L'esperienza
di
questi
ultimi
anni
mostra
evidenti
fenomeni
di
disgregazione
organizzativa:
calo
del
tesseramento
unito
alla
moltiplicazione
nel
numero
di
circoli,
crescenti
difficoltà
a
mantenere
una
"massa
critica"
di
militanti
sufficiente
ad
assicurare
a
una
parte
rilevante
dei
circoli
una
gestione
vitale
e
continua
dell'intervento,
scarsissima
capacità
di
formare
nuovi
quadri,
ecc.
Le
teorie
sulla
"contaminazione"
non
fanno
che
razionalizzare
queste
nostre
debolezze,
aggravando
i
pericoli
ai
quali
siamo
sottoposti.
Al
di
là
di
qualsiasi
intenzione
soggettiva,
è
evidente
che
il
messaggio
lanciato
dal
gruppo
dirigente
in
particolare
nell'ultimo
anno,
messaggio
secondo
il
quale
le
strutture
del
partito
(circoli
e
federazioni)
non
sarebbero
di
perse
sedi
idonee
alla
costruzione
di
una
forza
comunista
ha
assunto
un
carattere
in
molti
casi
apertamente
smobilitante.
Gli
slogan
ripetuti
abbondatemente
secondo
i
quali
"il
partito
è
il
movimento",
e
simili
non
possono
che
porre
la
domanda
a
tutti
i
militanti:
se
questo
è
vero,
a
che
pro
impegnarsi
nella
costruzione
del
partito?
Parallelamente
dopo
l'ultimo
congresso
si
è
espressa
con
maggiore
chiarezza
che
in
passato
una
crescente
strutturazione
di
aree
e
correnti
all'interno
del
partito,
in
un
processo
che
coinvolge
un
numero
sempre
crescente
di
federazioni
e
di
circoli.
Si
tratta
di
un
problema
complesso,
che
in
ultima
analisi
può
trovare
una
soluzione
definitiva
solo
sul
terreno
del
dibattito
e,
se
necessario,
della
lotta
politica
all'interno
del
partito.
Sarebbe
sbagliato,
oltre
che
illusorio,
pensare
che
la
rifondazione
comunista
possa
approdare
a
un
esito
positivo
senza
un
processo
profondo
di
discussione
nel
quale
le
diverse
tradizioni
e
filoni
politici
presenti
al
nostro
interno
si
possano
strutturare
ed
esprimere
liberamente
e
con
pari
dignità
di
fronte
a
tutti
i
compagni.
In
questi
anni
è
stata
sferrata
una
vasta
offensiva,
sia
fuori
che
dentro
il
nostro
partito,
contro
l'idea
del
centralismo
democratico.
Questa
offensiva
si
è
basata
in
primo
luogo
sulla
sistematica
e
voluta
confusione
tra
il
vero
centralismo
democratico
che
era
alla
base
del
regime
interno
del
partito
bolscevico
e
dei
partiti
comunisti
nei
loro
primi
anni
con
la
caricatura
burocratica
imposta
dallo
stalinismo
nelle
sue
diverse
varianti.
Per
noi
il
centralismo
democratico
non
è
altro
che
l'applicazione
più
alta
e
cosciente,
nel
campo
del
partito,
dei
principi
fondamentali
dell'autunomia
e
dell'unità
di
classe:
massima
libertà
nella
discussione,
massima
unità
nell'azione,
costruzione
del
partito
e
dei
suoi
gruppi
dirigenti
al
di
fuori
di
ogni
logica
di
cordata
o
pseudoparlamentaristica,
ma
in
base
a
una
reale
selezione
e
a
una
verifica
sistematica
delle
capacità
e
delle
competenze
di
ogni
compagno
posto
in
posizione
dirigente,
ecc.
Contrariamente
alla
caricatura
che
ne
è
stata
fatta
per
decenni,
il
centralismo
democratico
leninista
prevedeva
il
diritto
di
organizzarsi
in
tendenze
quando
fosse
risultato
impossibile
comporre
altrimenti
un
dibattito
con
posizioni
differenti.
Il
divieto
di
organizzare
frazioni
nel
Partito
comunista
russo,
approvato
nel
X
congresso
del
1921
fu
una
misura
eccezionale
e
concepita
come
temporanea
nella
fase
più
aspra
e
difficile
al
termine
della
guerra
civile
e
durante
la
carestia,
ma
non
venne
mai
elevata
a
principio,
tanto
che
in
tutti
gli
altri
partiti
comunisti
(a
partire
da
quello
italiano)
per
diversi
anni
ancora
continuarono
a
esistere
raggruppamenti
e
frazioni
che
si
scontravano
apertamente,
anche
su
piattaforme
diverse,
nei
congressi
nazionali
e
internazionali.
Se
questo
è
vero,
è
però
altrettanto
vero
che
il
rispetto
del
diritto
di
tutte
le
voci
a
farsi
sentire
nel
modo
più
adeguato
non
può
significare
una
"correntizzazione"
completa
del
partito
in
tutti
i
suoi
livelli.
Il
nostro
fine
non
può
in
nessun
caso
essere
una
struttura
di
partito
che
ricalchi
il
modello
della
democrazia
parlamentare,
con
i
congressi
nazionali
al
posto
delle
elezioni
politiche,
gli
organismi
nazionali
e
locali
come
parlamentini
pletorici
e
con
gli
esecutivi
come
coalizioni
più
o
meno
instabili
di
rappresentanti
di
diverse
correnti.
Questo
sistema
ha
portato
da
un
lato
al
rigonfiamento
oltre
ogni
proporzione
ragionevole
degli
organismi
dirigenti
a
partire
dal
Cpn,
che
dovrebbero
essere
drasticamente
ridimensionati.
In
secondo
luogo,
se
ha
creato
il
costume
di
un
relativo
rispetto
formale
delle
posizioni
alternative,
in
particolare
nelle
fasi
congressuali,
ha
favorito
un
inaridimento
della
democrazia
reale
e
sostanziale
nel
partito;
gli
organismi
"sovrani"
sono
spesso
e
volentieri
impossibilitati
ad
esprimere
una
funzione
realmente
dirigente
sulle
scelte
politiche,
che
vengono
trasferite
a
segreterie
che
spesso
sono
in
realtà
la
conferenza
dei
"capicorrente"
e
che
quindi
svolgono
impropriamente
il
dibattito
politico
che
dovrebbe
invece
svolgersi
nel
Cpn
e
nei
Cpf.
Un
ulteriore
effetto
negativo
di
questa
situazione
è
stato
lo
sviluppo
di
una
serie
di
"fedeltà"
di
corrente
che
nuocciono
gravemente
al
dibattito
complessivo
del
partito,
soprattutto
in
quei
contesti
dove
più
forte
si
fa
sentire
la
carenza
di
quadri
formati
con
una
indipendenza
di
giudizio
politico
e
di
proposta.
La
nostra
concezione
deve
puntare
alla
ricostruzione
dell'unità
di
pensiero
e
azione
del
partito,
una
unità
non
meccanica
ma
reale,
profondamente
sentita
dal
corpo
militante
in
quanto
derivante
da
un
dibattito
trasparente
e
aperto.
Se
è
vero
che
oggi
questa
condizione
è
assai
lontana,
è
giusto
tuttavia
richiamarla
e
metterla
in
discussione,
poiché
il
progetto
rivoluzionario
che
abbozziamo
con
queste
tesi
non
sarebbe
completo
se
non
indicasse
quale
dovrebbe
essere
lo
strumento
della
sua
attuazione.
(Bellotti-Giardiello-Donato-Letizia-Renda)