NATO padrona del mondo

Riuniti a Washington per il cinquantesimo anniversario della Nato, il 26 aprile 1999 i paesi membri hanno sottoscritto il Nuovo concetto strategico proposto dagli Stati uniti.

Fino a ieri alleanza difensiva, la Nato potrà intervenire militarmente, senza mandato delle Nazioni unite, contro un paese sovrano. Se il riferimento all'Onu soddisfa la diplomazia francese, l'egemonia americana viene moderata solo nella forma. La guerra nei Balcani, intrapresa senza autorizzazione del Consiglio di sicurezza in nome dell'ingerenza umanitaria, e questo Nuovo concetto strategico, segnano una svolta nell'ordine mondiale. La sola legalità internazionale, quella delle Nazioni unite, è stata, per la prima volta dal 1945, messa ai margini dai vincitori della Seconda guerra mondiale (tranne la Russia), e non ce n'è nessun'altra che possa oggi prendere il suo posto. Così che la Cina, l'India o la Russia, per esempio, si sentono autorizzate a condurre, nelle rispettive zone di influenza, interventi simili a quella dell'Alleanza. Moltiplicando ovunque i rischi d'ingiustizie e di conflitti.

di Noam Chomsky *

Molti interrogativi si pongono sulla legittimità dei bombardamenti della Jugoslavia decisi dall'Organizzazione del Trattato del nord Atlantico (Nato) o piuttosto, principalmente dagli Stati uniti. Le questioni fondamentali sono sostanzialmente due, e riguardano da un lato le regole accettate ed applicabili di un ordinamento mondiale, e dall'altro la loro pertinenza nel caso del Kosovo.

Il diritto internazionale e l'ordine internazionale, che impegnano tutti gli stati, hanno il loro fondamento nella Carta delle Nazioni unite e nelle risoluzioni che da essa derivano, nonché nelle sentenze della Corte internazionale. Questi testi vietano la minaccia e l'uso della forza, tranne nei casi in cui il Consiglio di sicurezza li abbia esplicitamente autorizzati, dopo aver accertato l'insuccesso dei mezzi pacifici, oppure per la difesa del proprio territorio in caso di "attacco armato" (un concetto giuridicamente ben delimitato) fino al momento in cui lo stesso Consiglio di sicurezza provveda a un intervento.

Evidentemente, queste norme non coprono tutte le situazioni.
Esiste, quanto meno, un divario, se non una contraddizione radicale, tra le regole dell'ordine mondiale disposte dalla Carta dell'Onu e i diritti enunciati dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, altro pilastro dell'ordine mondiale. La Carta bandisce l'uso della forza in violazione della sovranità degli stati, mentre la Dichiarazione universale garantisce i diritti degli individui contro gli stati oppressori.
Il problema dell'"intervento umanitario" nasce da questo divario. Da qui la rivendicazione di un diritto all'ingerenza nel Kosovo da parte della Nato e di Washington, avallata in genere dai media, dagli editoriali e dalla stessa informazione in quest'ultimo caso attraverso precise scelte terminologiche.

La questione è stata affrontata in un articolo pubblicato dal New York Times con il titolo "Esperti di diritto giustificano l'uso della forza". Il giornale dà la parola ad Allan Gerson, già Consigliere giuridico presso la missione americana alle Nazioni unite, e ad altri due esperti: il primo, Ted Galen Carpenter, "ironizza sugli argomenti dell'amministrazione" e confuta il sedicente diritto all'intervento. Dal canto suo, Jack Goldsmith, esperto in diritto internazionale alla Chicago Law School, riconosce che "chi critica i bombardamenti della Nato dispone di argomenti giuridici non indifferenti", ma osserva che "a parere di molti, esiste una consuetudine e una prassi" per il caso eccezionale dell'intervento umanitario. Questi, in sostanza, gli argomenti avanzati per giustificare la conclusione usata come titolo dell'articolo.

L'osservazione di Goldsmith si può considerare ragionevole, almeno se si ritiene che i fatti possano giustificare il richiamo alla "consuetudine" e alla "prassi". Dovremmo però tener presente una considerazione elementare: se un diritto all'intervento umanitario esiste, la sua premessa deve essere la "buona fede" di coloro che intervengono. E per valutarla è necessario basarsi non sui discorsi, ma sui precedenti di ciascuno di essi, in particolare in materia di osservanza dei principi del diritto internazionale e delle decisioni della Corte internazionale di giustizia.

Ricordiamo ad esempio che l'Iran si era offerto di intervenire in Bosnia, per impedire i massacri di musulmani bosniaci, in un momento in cui l'atteggiamento dell'Occidente era passivo. La proposta è stata ridicolizzata, e di fatto ignorata. Questa posizione (ammesso che non fosse dovuta solo a soggezione verso la potenza dominante) poteva avere un solo motivo: nessuno era disposto ad avallare la "buona fede" del regime di Tehran. A questo punto, la razionalità avrebbe dovuto indurre a porsi una semplice domanda: i precedenti dell'Iran sono peggiori di quelli degli Stati uniti in materia di interventi armati e di violenza? E come valutare la buona fede dell'unico paese che ha opposto il suo veto alla risoluzione con la quale il Consiglio di sicurezza chiedeva il rispetto del diritto internazionale? Se il discorso non viene passato al vaglio di queste domande, ogni persona onesta dovrà ricusarlo come puro omaggio a un'ideologia. Sarebbe interessante vedere quanti sono i testi e i commenti dei media in grado di reggere a un esame basato su questo elementare criterio.

C'è da chiedersi in quale misura queste considerazioni possano trovano applicazione nel caso del Kosovo. Questa regione subisce, fin dallo scorso anno, una situazione drammatica, imputabile essenzialmente alle forze militari jugoslave. Le vittime delle violenze (2.000 morti e centinaia di migliaia di profughi secondo le valutazioni più correnti) erano in maggioranza kosovari di origine albanese. In casi come questo, i paesi terzi si trovano di fronte a tre alternative: 1. aggravare la catastrofe; 2. non intervenire; 3. cercare di limitare la catastrofe. Per illustrare queste alternative citeremo altri casi attuali di dimensioni comparabili, cercando di vedere fino a che punto siano paragonabili al caso del Kosovo.

Esaminiamo, per incominciare, il caso della Colombia: secondo le valutazioni del Dipartimento di stato americano, in questo paese si registra ogni anno un numero di assassinii politici, ad opera di gruppi paramilitari protetti dal governo e dalle stesse forze governative, analogo a quello del Kosovo, mentre il numero dei profughi che fuggono per sottrarsi a quelle atrocità supera di molto il milione.

Tra i paesi dell'emisfero occidentale, la Colombia è quello che ha ricevuto più armi e addestramento militare dagli Stati uniti per tutti gli anni 90, durante i quali la spirale della violenza è cresciuta a dismisura. Questi aiuti sono oggi in ulteriore aumento, con il pretesto di una "lotta alla droga", che nessun osservatore serio giudica attendibile. L'amministrazione Clinton non ha lesinato i suoi elogi al presidente colombiano Trujillo Cesar Gaviria, benché secondo le organizzazioni di difesa dei diritti umani il periodo del suo mandato (tra il 1990 e il 1994) sia stato caratterizzato da "uno spaventoso livello di violenza", superiore anche a quelli imputabili ai suoi predecessori.
Questi dati sono facilmente accessibili. In questo caso, la reazione degli Usa è del tipo 1: aggravare le atrocità.

Vediamo ora il caso della Turchia: secondo le valutazioni più moderate, la repressione contro i kurdi, che ha raggiunto il suo livello culminante negli anni 90, ha una portata analoga a quella del Kosovo. Un indizio delle sue dimensioni è l'esodo di oltre un milione di kurdi dalle zone rurali verso Diyarbakir, capitale ufficiosa del Kurdistan, tra il 1990 e il 1994, per sfuggire alle persecuzioni delle forze armate turche. Il 1994 ha fatto registrare due record: quello della "più feroce repressione nelle province kurde" da parte della Turchia, secondo la testimonianza del giornalista Jonathan Randal, e il passaggio della Turchia "al primo posto tra i paesi importatori di forniture belliche americane", per qui questo paese è divenuto "il maggiore importatore d'armi del mondo". Le associazioni di difesa dei diritti umani hanno reso noto che i turchi usavano jet statunitensi per bombardare i villaggi; ma l'amministrazione Clinton ha trovato il modo per aggirare le leggi che avrebbero imposto la sospensione di forniture belliche alla Turchia, come del resto aveva già fatto nei riguardi dell'Indonesia e di altre parti del mondo. Ecco un altro caso in cui Washington ha optato per l'alternativa 1: aggravare le atrocità.

Primo, non nuocere

Come si ricorderà, sia la Colombia che la Turchia hanno giustificato le atrocità commesse (con il sostegno degli Usa) con l'esigenza di difendere il loro paese dalla minaccia di guerriglieri terroristi. Un argomento identico a quello addotto dal governo di Slobodan Milosevic.

Terzo esempio: il Laos. Nella piana delle Giare, nel nord del paese, ogni anno migliaia di persone, per lo più bambini e contadini poveri, perdono la vita per le conseguenze del più massiccio e crudele bombardamento di obiettivi civili che la storia ricordi. Questa furiosa aggressione, scatenata da Washington contro una società agricola e povera, non rientrava neppure nella logica delle guerre che gli Stati uniti conducevano nella regione. Le atrocità raggiunsero il loro apice nel 1968 quando, sotto la pressione dell'opinione pubblica e degli ambienti economici, Washington fu costretta ad avviare negoziati per porre fine ai regolari bombardamenti sul Vietnam del Nord. Henry Kissinger e Richard Nixon decisero allora di dirottare i bombardamenti verso il Laos e la Cambogia.

Oggi nel Laos si muore a causa delle "bombies", piccoli ordigni anti-uomo che provocano effetti molto peggiori delle mine. Sono congegni appositamente concepiti per uccidere e mutilare, mentre non provocano alcun danno ai veicoli pesanti e agli edifici.
L'intera piana è stata saturata di centinaia di milioni di questi micidiali ordigni. Attualmente si valuta che le "bombies" uccidano alcune centinaia di persone l'anno. Diversa è però la valutazione di Barry Wain, giornalista di grande esperienza dell'edizione asiatica del Wall Street Journal, secondo il quale si contano: "Ogni anno complessivamente nel paese 20.000 incidenti", di cui più della metà mortali. In altri termini, soltanto nell'ultimo anno questa tragedia avrebbe causato un numero di vittime analogo a quello del Kosovo, con la differenza che le "bombies" uccidono soprattutto i bambini.

Sono stati compiuti molti sforzi per sensibilizzare l'opinione pubblica al riguardo e cercare di porre rimedio a questo flagello. Il Mine Advisory Group (Mag - Gruppo di consulenza sulle mine, con sede in Gran Bretagna) sta tentando di neutralizzare questi ordigni letali. Nel piccolo gruppo di organizzazioni occidentali che sostengono il Mag, secondo la stampa britannica gli Stati uniti brillano per la loro assenza.
Comunque hanno finito per accettare di addestrare alle operazioni di disinnesco gruppi di civili laotiani. E tuttavia gli esperti del Mag sono indignati perché Washington rifiuta di rendere note alcune procedure tecniche che consentirebbero di operare con più efficacia e sicurezza. Queste procedure restano un segreto di stato, come tutto ciò che negli Usa riguarda il conflitto nel Laos.

La stampa di Bangkok denuncia una situazione analoga in Cambogia, in particolare nella regione orientale del paese, dove i bombardamenti Usa hanno raggiunto un grado di maggiore intensità a partire dal 1969.

Nel Laos, gli Stati uniti hanno optato per l'alternativa 2: astenersi da ogni intervento. Dal canto loro, i commentatori e i mass media hanno continuato a osservare il silenzio imposto dalla norma che definiva "segrete" le operazioni militari nel Laos: in realtà, una guerra ben nota a tutti, ma di cui non si doveva parlare come nel caso della Cambogia, nel marzo 1969. Si raggiunse allora un livello di autocensura straordinario, identico a quello che possiamo osservare oggi. Le lezioni da trarre da questo scandaloso episodio della storia contemporanea sono tanto evidenti da rendere superfluo qualsiasi commento.

Si potrebbero citare numerosi altri esempi di casi in cui si è optato per le alternative 1 e 2, commettendo a volte atrocità anche più gravi, come la strage di civili iracheni vittime di un'odiosa guerra biologica. "E' stata una scelta molto difficile", ha dichiarato nel 1996, nel corso di un programma televisivo nazionale, il segretario di stato Madeleine Albright, a chi le chiedeva cosa provasse di fronte all'uccisione di mezzo milione di bambini iracheni in cinque anni, a causa dell'embargo.
E ha poi aggiunto: "Pensiamo però che valesse la pena di pagare questo prezzo". Si valuta che ogni mese 5.000 bambini muoiono ancora a causa di questa barbarie; e tuttora "vale la pena" di pagare questo prezzo. Tutto ciò va tenuto presente quando ci spiegano, con riverente retorica, che "la bussola morale" dell'amministrazione Clinton ha infine incominciato a funzionare bene, come dimostra l'azione nel Kosovo.

Ma cosa dimostra in realtà questo esempio? Come era prevedibile e previsto, la minaccia dei bombardamenti della Nato ha esacerbato la violenza dei massacri perpetrati dalle milizie paramilitari serbe; e la situazione è stata ulteriormente aggravata dal ritiro degli osservatori dell'Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce). Secondo un'esplicita dichiarazione del generale Wesley Clark, comandante supremo delle forze Nato, l'escalation della violenza serba in seguito ai bombardamenti era "del tutto prevedibile". Ed è quello che puntualmente è avvenuto. Il Kosovo fornisce quindi un nuovo esempio dell'alternativa 1: sforzarsi di aggravare la violenza, in piena cognizione di causa.

Per quanto riguarda l'alternativa 3 (tentare di limitare la violenza) l'esempio più convincente è quello dell'invasione vietnamita della Cambogia per porre fine alle atrocità di Pol Pot, che nel dicembre 1978 avevano raggiunto livelli parossistici. Il Vietnam invocò allora il diritto alla legittima difesa contro un attacco armato. E' questo uno dei pochi casi, nel periodo successivo alla promulgazione della Carta delle Nazioni unite, in cui l'argomento invocato poteva apparire plausibile. I khmer rossi (Democratic Kampuchea - Dk) avevano scatenato in effetti un attacco sanguinoso contro le zone di confine del Vietnam.

La reazione degli Stati uniti in quell'occasione fu particolarmente istruttiva. La stampa Usa condannò, per quella scandalosa violazione della legalità internazionale, i "prussiani" dell'Asia, che furono duramente puniti per il crimine di aver posto fine ai massacri di Pol Pot, prima con l'invasione cinese (sostenuta dagli Usa), e quindi con l'imposizione di durissime sanzioni da parte di Washington. Gli Stati uniti riconobbero il Dk in esilio come unico governo legittimo della Cambogia, adducendo la sua "continuità" con il regime di Pol Pot, come ebbe a spiegare il Dipartimento di stato.
E successivamente appoggiarono, neppure troppo in sordina, i continui attacchi dei khmer rossi contro la Cambogia. Un esempio che la dice lunga sulla "consuetudine" e la "prassi" che dovrebbero essere alla base "dell'emergere di un nuovo diritto in relazione agli interventi umanitari".

Nonostante gli sforzi disperati degli ideologi per dimostrare che il cerchio è quadrato, è del tutto evidente che i bombardamenti della Nato stanno infliggendo un altro duro colpo agli ultimi residui della fragile struttura delle leggi internazionali. Gli Usa lo hanno detto peraltro con estrema chiarezza, nel corso delle discussioni che hanno portato alla decisione della Nato. I paesi dell'Alleanza Atlantica (ad eccezione della Gran Bretagna, il cui grado di indipendenza dagli Usa è paragonabile a quello dell'Ucraina rispetto all'Unione sovietica prima dell'era di Gorbaciov) si sono dimostrati scettici nei confronti della politica statunitense, e non hanno certo gradito il "rotear di sciabole" di Madeleine Albright.

La Francia aveva chiesto, in origine, una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'Onu, che autorizzasse il dispiegamento di forze di mantenimento della pace della Nato. A questa richiesta Washington ha opposto un rifiuto netto, riaffermando con insistenza che "la Nato deve poter agire indipendentemente dalle Nazioni unite", come hanno ribadito i portavoce del Dipartimento di stato. Gli Usa hanno tra l'altro ricusato l'uso del termine "autorizzare" nella dichiarazione finale della Nato, sottolineando così il loro rifiuto a riconoscere qualsiasi autorità alla Carta delle Nazioni unite e al diritto internazionale. L'unico termine che sono stati disposti ad ammettere è "endorse" (approvare).

Analogamente, la ripresa dei bombardamenti sull'Iraq ha testimoniato ancora una volta in maniera eclatante, il disprezzo di Washington nei confronti dell'Onu, anche attraverso la scelta del momento; e il messaggio è stato correttamente interpretato. Lo stesso vale per gli attacchi che alcuni mesi prima avevano distrutto metà del potenziale di produzione farmaceutica del Sudan.

Si potrebbe sostenere che parlare oggi di un nuovo colpo inferto alle regole dell'ordine mondiale non ha più senso di quanto potesse averne alla fine degli anni 30. Queste regole sono state calpestate dalla superpotenza mondiale a un punto tale che non possono neppure più essere oggetto di discussione.
Questo atteggiamento, tutt'altro che nuovo, si era manifestato fin dai tempi di Kennedy. La novità degli anni Reagan-Clinton sta solo nel modo smaccato in cui il disprezzo si esprime. Le massime autorità hanno spiegato con brutale chiarezza che la Corte internazionale di giustizia, l'Onu e gli altri organismi internazionali sono ormai privi di senso, poiché non ottemperano più agli ordini di Washington come negli anni dell'immediato dopoguerra.

Questo atteggiamento sta incominciando a preoccupare gli analisti politici, compresi quelli generalmente considerati come "falchi". Nell'ultimo numero di Foreign Affairs, Samuel Huntington avverte che Washington sta giocando col fuoco. Agli occhi di buona parte del mondo (probabilmente della maggior parte) gli Usa "sono ormai diventati la superpotenza criminale", e percepiti come "la principale minaccia esterna". L'articolista prosegue argomentando che in base a una "teoria realista delle relazioni internazionali" si può pronosticare la formazione di coalizioni volte a controbilanciare questa superpotenza tracotante.

Ma, alla luce di queste considerazioni, come rispondere alla domanda: che fare nel Kosovo? Non c'è una risposta. Gli Usa hanno scelto una linea d'azione che porta, come hanno esplicitamente riconosciuto, ad aggravare le atrocità e la violenza. E contemporaneamente assestano un nuovo colpo a un sistema internazionale che ancora offre ai più deboli almeno una limitata protezione a fronte degli stati predatori.

Uno degli argomenti più diffusi è che bisognava per forza intervenire: davanti a quelle atrocità non c'era altro da fare.
Ma questo non è mai vero. Anche in questo caso dovrebbe valere il principio di Ippocrate: "Prima di tutto, non nuocere". E nell'impossibilità di rispettare questo principio elementare, meglio astenersi dall'intervenire. Esistono sempre altre vie da prendere in considerazione. Quelle della diplomazia e dei negoziati non sono mai esaurite.

I principi riconosciuti del diritto internazionale e dell'ordine mondiale, così come i solenni impegni dei trattati, le sentenze della Corte internazionale di giustizia e i pareri qualificati dei commentatori più autorevoli non possono certo risolvere automaticamente i problemi. Ogni caso deve essere oggetto di un esame specifico. Ma se non si accettano come modelli da imitare i comportamenti di Saddam Hussein, bisogna assumersi il non facile onere della prova prima di ricorrere alla minaccia o all'uso della forza in violazione dei principi dell'ordine internazionale.

Può darsi che l'uso della forza sia giustificato. Ma questo deve essere dimostrato, e non soltanto proclamato con infuocata oratoria. Le conseguenze di una violazione del genere devono essere valutate con ogni cautela. Chiunque voglia dar prova di un minimo di serietà deve sottoporre le motivazioni di atti di questa natura a un'attenta valutazione. Non ci si può accontentare di tessere l'elogio dei leader e della loro "bussola morale".

note:
* Docente al Massachussetts Institute of Technology (Mit). I testi di Noam Chomsky si trovano sul suo sito Internet: http://www.zmag.org.