Sfruttamento GLOBAL

Stato-nazione, militarizzazione, terzo settore.
Alcune considerazioni sui termini odierni dello sviluppo e dello sfruttamento capitalistico globale.

di Gregorio Piccin

Una versione parzialmente modificata di questo articolo è stata pubblicata
nel numero 5/6 (giugno settembre 1998 della rivista
Alternative Europa.

SINTESI

A partire dalla constatazione che il capitalismo come forma economica (di stfruttamento) e lo stato-nazione come forma politica (di controllo) sono storicamente legati e interdipendenti, l'autore contesta la tesi corrente che sostiene la fine dello stato-nazione argomentandola con una presunta perdita di poteri da parte di questo rispetto alle istituzioni internazionali. Propone in tal senso alcune ridefinizioni dei concetti di istituzioni internazionali, capitale finanziario, imprese transnazionali e globalizzazione. Sostiene infine che per i potentati economici nazionali e le classi dirigenti a cui questi fanno riferimento oggi si ripresenta la necessità di rinvigorire in qualsiasi modo l'identità nazionale e la sua unità e di ricercare nuove forme di ammortizzazione sociale per attutire i contraccolpi e di un vecchio fittizio equilibrio decadente, e rilegge in questa chiave la questione del cosiddetto "terzo settore".

COMPLETO

1. Nella prima metà dell'ottocento la "nazione" viene generalmente intesa in modi assai diversi rispetto all'accezione contemporanea: era l'insieme degli abitanti di un paese, di una provincia, di un regno oppure erano le comunità di stranieri insediatesi nelle città. La si può considerare come sinonimo di una realtà sociale strutturata soltanto nella misura in cui viene posta in relazione con lo stato territoriale moderno, lo stato-nazione.
Vanno però posti adeguatamente in luce gli elementi di artificio, di invenzione, di falsificazione della storia e di ingegneria sociale che sono entrate a fare parte di tutte le costruzioni nazionali. questo per sottolineare come "...non sono le nazioni a fare gli stati e a forgiare il nazionalismo, bensì il contrario...".
Ciò vale anche per lo sviluppo delle così dette lingue nazionali in quanto anche i linguaggi nazionali standardizzati, sia scritti che parlati, non avrebbero potuto imporsi con questa specificità prima della stampa, dell'alfabetizzazione su larga scala e quindi prima dell'istruzione di massa (possibile soltanto all'interno di uno stato moderno organizzato in quanto tale).
Il significato primario di nazione, e forse quello tra i più ricorrenti, é politico. La nazione politica diventa cittadinanza territoriale dato che etnia, lingua e spesso religione erano e sono tutt'altro che omogenee. Questo significato arriva dalle rivoluzioni americana e francese dove per nazione si intendeva il corpo dei cittadini la cui sovranità collettiva costituiva quello Stato che ne era l'espressione politica.
Stato-Popolo-Territorio diventano le tre inscindibili caratterizzazioni che porteranno alla formazione di una infinità di stati durante tutto il corso del 1800 e oramai possiamo dire di tutto il 1900.

2. La natura rigidamente territoriale assunta dagli stati può essere spiegata partendo dallo sviluppo del mercantilismo nel secolo XII che impone una parallela protezione delle attività mercantili da parte di un esercito e una marina poste di fronte alla necessità di affrontare situazioni nuove e molto più impegnative del passato.
Si cominciano a delineare, in sostanza, economie basate sulle frontiere "statali" o "nazionali" nel senso considerato da Adam Smith (cioè in senso territoriale).
Con l'avvento della rivoluzione industriale, la formula stato-territorio-popolo diventa il necessario basamento per l'organizzazione di rapporti mercantili, interpersonali, produttivi, societari sempre più complessi; aumentano le necessità di controllo non solo del territorio ma della popolazione tutta e come conseguenza di ciò cominciano le prime massicce burocratizzazioni, i primi censimenti nazionali; veri e propri eserciti di funzionari, maestri elementari, gendarmi vengono spediti a colonizzare il territorio dello stato o meglio, vengono mandati a costruire lo stato (fino a quel momento ancora virtuale). In questo senso la tesi di Gellner é particolarmente significativa:

"...La società industriale ha spinto la divisione del lavoro a livelli nuovi, prima mai sperimentati, ma, ancor più importante, ha dato vita a un nuovo tipo di divisione del lavoro: una divisione del lavoro che esige dagli uomini in essa coinvolti di essere pronti a passare da una occupazione ad un'altra, anche nell'arco della vita del singolo, e certamente da generazione a generazione. Per far questo gli uomini della società industriale hanno bisogno di una cultura comune (...) letterata e sofisticata (...) Il mantenimento di questo tipo di cultura inevitabilmente superiore (perché letterata) esige la protezione di uno stato, di un ente o meglio di un gruppo di enti centralizzati, in grado di imporre l'ordine...".

Da ciò si può ricavare che la nazionalità, cioè la nazione nel suo vitale legame con la forma stato affonda le sue radici in una necessità che é primariamente produttivo-economica, o comunque lo diventa nel momento in cui lo stato-nazione prende forma e che perciò "...il nazionalismo é radicato nella divisione del lavoro di un certo tipo, che prevede cambiamenti cumulativi, complessi e persistenti...".
Non é un caso infatti che dalla seconda metà dell'ottocento, cioé nel momento in cui l'ascesa della borghesia capitalista é inarrestabile, la nazione acquista legittimazione e riconoscimento in base alla sua reale potenza economica (disponibilità di risorse), alle sue dimensioni territoriali, alle sue capacità produttive e alla quantità di popolazione che essa esprime.
Dal 1880 ad oggi, passando per diversi concetti e legittimazioni che qui non é possibile considerare, lo stato nazionale moderno si struttura, consolida, organizza (burocraticamente e "democraticamente") e si diffonde per tutto il mondo come l'unico modello politico in grado di assicurare lo sviluppo dei precetti della rivoluzione industriale cioè le leggi del modo di produzione capitalistico. Va sottolineato come, se a livello economico il modello capitalista é risultato vincitore, a livello di organizzazione politica lo stato-nazione ha rappresentato lo stesso tipo di vittoria.

A meno che non si voglia considerare questo dato di fatto come una incredibile coincidenza bisogna riconoscere che il capitalismo come forma economica (di sfruttamento) e lo stato-nazione come forma politica (di controllo) sono indissolubilmente legati e interdipendenti.
Gran parte del dibattito attuale si ostina a parlare di non meglio definita fine dello stato-nazione argomentandola con una presunta perdita di poteri da parte di questo rispetto alle istituzioni internazionali, ai movimenti del capitale finanziario, alle imprese transnazionali ad una non meglio precisata globalizzazione. Credo che non ci dovrebbero più essere dubbi riguardo al fatto che gli stati nazionali moderni siano nella sostanza "il salotto d'affari della borghesia"; la salute dell'istituzione-stato é indussolubilmente legata alla salute degli avventori di questo "salotto" che oggi, purtroppo, godono ancora di ottima salute.
Riguardo alle istituzioni politiche ed economiche internazionali si può riscontrare che esse non sono organismi super-nazionali dotati di indipendenza rispetto ai singoli governi ma sono piuttosto i contenitori politici (peraltro senza il minimo controllo democratico, anche solo formale) dove avvengono le mediazioni degli interessi "spartitori" (spesso antagonisti) dei singoli governi e dove questi hanno un potere direttamente proporzionale alla potenza economico-militare che esprimono; riguardo a queste istituzioni si può quindi sostenere che non rappresentano per niente una perdita di potere per gli stati-nazionali, rappresentano semmai un luogo privilegiato e non democratico ove alcuni di questi in particolare ricompongono i loro "interessi nazionali" (cioé gli interessi della propria industria e finanza anche transnazionale e del proprio commercio). Non é un caso che i Paesi esclusi da questo "circolo" ambiscano ad entrarvi.

Riguardo al capitale finanziario possiamo dire che questo può non corrispondere necessariamente ai così detti "interessi nazionali" soltanto dove opera nella sua forma speculativa in quanto non necessita di nessuna forma di rappresentanza "nazionale". Rimane il fatto che il capitale finanziario speculativo non é l'unica forma (e credo nemmeno la più determinante) esistente di capitale finanziario e di capitale in generale. In ogni caso il così detto "capitale finanziario" non é certo di recente formazione ma compare già a cavallo tra 1800-1900 (Hilferding scrisse nel 1910 il suo "Das FinanzKapital") ed é evidente come questa nuova forma di capitale storicamente non abbia per nulla interferito con l'avanzamento ed il consolidamento dello stato in generale.

Rispetto alle imprese transnazionali possiamo dire che di transnazionale hanno solamente l'ubicazione degli impianti, delle sedi, degli uffici, ma la proprietà di tutto ciò e degli utili derivanti da tutto il ciclo produttivo sono ancora "nazionali". Ciò ha enfatizzato, anziché ridurre, il ruolo e la funzione dello stato-nazione dato che esso ne rappresenta il diretto garante (militare) e rappresentante (politico) in sede internazionale (in questo senso é forse di estrema attualità la definizione "Stato Imperialista delle Multinazionali").

Rispetto alla globalizzazione (come effetto del capitalismo e non come causa di esso) si può facilmente rilevare come essa sia un processo per nulla nuovo nelle sue caratteristiche e tendenze salienti, peraltro già rilevate da Marx nel 1848 (Manifesto del Partito Comunista), in quanto processo che ha accompagnato marcatamente la storia dell'umanità dalla rivoluzione industriale ad oggi. Di fatto, la perdita delle basi nazionali della produzione, la divisione internazionale del lavoro e tutti quei fenomeni direttamente legati a questo modo di produrre che oggi sono stati "scoperti" con tanto stupore, non rappresentano (e non hanno mai rappresentato) una perdita di "senso d'esistere" degli stati-nazione o di una loro crisi quanto piuttosto l'esatto contrario, cioé la necessità di svilupparne la potenza per fare fronte alla così detta "concorrenza internazionale".

3. L'ingerenza imperiosa ed imperiale nello "sviluppo" di tanti paesi più o meno "sottosviluppati", che evidentemente hanno un ruolo di quarto, quinto ordine nella così detta "Comunità Internazionale", si articola, come già accennato, attraverso la mediazione degli interessi economici e di controllo dei singoli stati nazionali seguendo una rigorosa gerarchia, cioè in forma direttamente proporzionale alla quota di potenza economico-militare che ognuno di questi rappresenta.
Tutto ciò all'interno di istituzioni come il Fondo Monetario Internazionale (F.M.I), la Banca Mondiale (B.M), l'Organizzazione Mondiale per il Commercio (W.T.O), ecc., che sono gli effettivi organismi esecutivi della "Comunità Internazionale". Sono cioé gli organismi esecutivi dei governi che a loro volta sono gli organismi esecutivi (nazionali) delle proprie imprese transnazionali, della propria industria, del proprio commercio e che certamente dicono di difendere gli interessi dei propri cittadini. Sarebbe interessante, a tal proposito, abbozzare (anche sommariamente) le connessioni che intercorrono oggi tra i differenti "regimi politici" e le relazioni internazionali in senso lato:

a) vi sono una serie di stati retti dalle così dette "democrazie avanzate" in cui il capitalismo e le borghesie nazionali si sono potuti sviluppare in modo più o meno armonioso dalla fine della seconda guerra mondiale (sono queste le potenze "consumiste" che detengono il sapere-potere economico-tecnologico-militare e che sottomettono il resto della "Comunità Internazionale");

b) vi sono una serie di stati -maggioranza all'interno della Comunità Internazionale- retti da regimi politici "non democratici" o "pseudo-democratici" in cui le borghesie (o le burocrazie, nel caso dei sopravvissuti regimi real-socialisti) garantiscono ai paesi del gruppo a) l'uso capitalistico della divisione internazionale (dello sfruttamento) del lavoro, un mercato "forzato", la fornitura delle risorse energetiche e delle materie prime;

c) vi é la Cina che pur non appartenendo al gruppo a) mantiene, rispetto a questo, una discreta indipendenza e in cui le "burocrazie-borghesie" nazionali tentano un avanzamento dei propri interessi in seno alla Comunità Internazionale attraverso lo sfruttamento delle regioni costiere a regime speciale, l'acquisizione di Hong-Kong e la penetrazione nel mercato comune asiatico.

d) vi sono vere e proprie città-stato, i così detti "paradisi fiscali" che godono di una privilegiata trasversalità all'interno delle relazioni internazionali in quanto non vivono di potenza produttiva-militare propria ma godono della rendita derivante dalle transazioni di capitali finanziario-mafiosi di cui garantiscono l'accoglienza nonché l'incontrollabilità. Un brillante esempio delle relazioni tra il nostro paese e il gruppo b) ce lo offre la politica estera del governo Prodi (forse il primo vero governo liberal-democratico della storia repubblicana) nei confronti della neo-costituita Croazia. Le ripetute visite amichevoli a Zagabria da parte del sottosegretario agli esteri On. Piero Fassino, come pure l'omertà del governo italiano circa l'entrata in Consiglio d'Europa della Croazia, retta da un governo riconosciuto da tutti come fascista tout-court, rispondono ad una concreta e vitale logica di "influenza" e "interesse nazionale": gli appalti per la ricostruzione di edifici e ponti, il rifornimento di macchine (per noi obsolete) per laboratori, ospedali, fabbriche, le commesse belliche, l'utilizzo di forza lavoro (cioè uomini e donne) a basso costo non sono che alcuni esempi. Conferendo alla (ex)Jugoslavia il semplice valore capitalistico reale che rappresenta in quanto territorio frammentatosi in nuove entità statali si può facilmente constatare che essa:

- offre una quantità di forza-lavoro esule mediamente e altamente qualificata (quadri tecnici e professionali in genere) potenzialmente mobilitabile (dal posto di lavoro più dequalificato al laboratorio tecnico più specializzato) e facilmente ricattabile[7]. Questo fenomeno permette anche l'abbassamento del costo della forza lavoro, in generale, su tutto il nostro territorio;

- richiede una serie di nuovi eserciti da costituire, rifornire e potenziare (commesse per l'industria bellica e metalmeccanica);

- la ricostruzione materiale non di uno stato ma bensì di una serie di nuovi stati, tenendo conto del surplus di strutture e infrastrutture che questa nuova situazione esige (commesse per l'industria edile, elettrotecnica, informatica e delle telecomunicazioni, per le agenzie di servizi e consulenza, ecc.);

- rappresenta un luogo ideale dotato di forza-lavoro variamente qualificata "sotto controllo" e a basso costo dove é possibile spostare la produzione, o sub-appaltare la produzione ove esistano già strutture adeguate (settori tessile, elettrotecnico, metalmeccanico);

- significa l'eliminazione dalla scena europea e mondiale di una presenza potenzialmente (e fastidiosamente) concorrenziale come la Jugoslavia e la sua trasformazione in piccole entità politiche ed economiche facilmente controllabili (grande beneficio per tutti i settori che producono per il mercato internazionale).

4. Con la fine della guerra fredda, le potenze "a democrazia avanzata" del gruppo a) che si sottomettevano più o meno "diligentemente" all'ordine bipolare attraverso significative mediazioni dei propri interessi e l'affiliazione forzata agli U.S.A sono entrate tra loro e con gli stessi U.S.A in una congiuntura di concorrenza "discretamente" conflittuale. L'Unione Europea come primo passo verso una Federazione (o Confederazione) degli stati europei si colloca in questa congiuntura come tutt'altro che in contraddizione: ciò che conta é il potere economico-militare come unico strumento deterrente (e operativo per la sopravvivenza ed espansione di se stesso) in un assetto di concorrenza totale (soltanto lievemente riassorbita dalle organizzazioni internazionali).
In questo senso, per gli stati europei a democrazia avanzata, l'Unione Europea e la conseguente politica di minimo compromesso tra i vari capitali nazionali garantisce comunque una più ampia, acquisita capacità di difesa a livello mondiale di questi stessi capitali e dei rispettivi cartelli industriali-finanziari (multinazionali e non). Il conflitto di interessi tra U.S.A ed U.E (o stati dell'U.E) é già abbastanza bene avanzato: con l'embargo a Cuba che vorrebbe bloccare anche i flussi commerciali e finanziari europei, con la costruzione di rapporti commerciali privilegiati con Sud-Est asiatico, Corea del Sud, America Latina, Cina ed ex-blocco sovietico mentre stanno già maturando le condizioni per una battaglia per l'egemonia nella NATO.
Difatti il nostro paese, sta rivedendo anche il suo apparatato militare "datato" per essere al passo coi tempi e con le alleanze.
E' sufficiente leggere la proposta per un "Nuovo Modello di Difesa" presentato nel 1991 alle commissioni difesa di camera e senato dal ministro della difesa Rognoni (governo Andreotti) per rendersi conto di come l'imperialismo e il nazionalismo siano ancora oggi termini e questioni attualissime.
Tale documento si spiega da sé: "...protezione delle linee di rifornimento energetico e dei traffici marittimi; salvaguardia delle comunità italiane all'estero; tutela del ruolo e della credibilità internazionale del Paese; la sua presenza economica ed influenza culturale nei paesi terzi..."; queste sono le principali e vitali funzioni che il nuovo esercito professionale dovrebbe svolgere (da solo, come recentemente in Albania, oppure "in gruppo" come in Iraq, Somalia, ecc.).
A ben vedere, il così detto "nuovo ordine mondiale" non ha proprio niente di nuovo. E' un vecchio ordine interrotto, o se vogliamo disturbato dalla guerra fredda e dal bipolarismo che nascono nel 1917, si sviluppano massicciamente soltanto con la fine della seconda guerra mondiale e con la teatrale (più che politica) cancellazione del nazi-fascismo per concludersi intorno al 1989 o poco prima.
In perfetta coerenza con il "nuovo" ordine salvaguardato da una nuova forma di polizia internazionale é stato brillantemente concepito questo "nuovo" modello di difesa. E non a caso proprio nel 1991, in virtù della minaccia da parte di un arabo "insubordinato" come Saddam Hussein (grande paladino dell'occidente ai tempi della guerra con Komeini) di fare saltare anche le nostre "linee di rifornimento energetico".
E' abbastanza chiara inoltre anche la spinta verso una militarizzazione totale dei territori (altro che disarmo post guerra fredda!) poiché un assalto così aggressivo e poco "concertato" da parte del capitale verso la società, verso le società, richiede un ampliamento, una rilocazione ed una ri-diffusione delle istallazioni per il controllo militare, nello specifico per potere intraprendere guerre a bassa, media o alta intensità.

Alla luce di tutto ciò appare abbastanza evidente come gli stati-nazione e il rispettivo nazionalismo più o meno velato dai "diritti di cittadinanza" siano tutt'altro che in crisi.
Il richiamo continuo (da confindustria ai sindacati, dalla destra, al centro, alla sinistra all'unità nazionale , alla nazione, agli interessi nazionali (di tutti i cittadini) é un ottimo sistema ancora oggi per mascherare i conflitti di interesse tra le classi e sopirne gli antagonismi strutturali. Per i potentati economici nazionali e le classi dirigenti a cui questi fanno riferimento oggi si ripresenta la necessità di rinvigorire in qualsiasi modo l'identità nazionale e la sua unità e di ricercare nuove forme di ammortizzazione sociale per attutire i contraccolpi sia di un vecchio fittizio equilibrio decadente, (che in alcuni paesi é già andato in pezzi) sia di un sistema economico e politico in aperta transizione (ma verso se stesso). Il polverone sollevato dalla questione del così detto "terzo settore" é appunto soltanto un grosso polverone imbevuto di ideologia umanitaristico-pietista (e in questo senso non deve essere sottovalutato il fondamentale processo di istituzionalizzazione della solidarietà e della sua progressiva "pietizzazione" cioé del progressivo annichilimento del suo originario significato di lotta non contro la povertà ma contro i padroni della povertà). La questione in sé si presenta come tutt'altro che di second'ordine rispetto ad altri tasselli che andrebbero presi in considerazione per delineare in modo organico l'attuale tendenza e forma dello stato e dei sistemi di regolazione che esso sostiene in favore del capitale.

5. Stiamo attraversando un momento molto basso, all'interno del dibattito della sinistra, in cui tutto ciò che accadde e venne detto prima dell'ottantanove viene considerato come "roba vecchia" appartenente ad un'altra epoca storica; in cui ciò che valeva un tempo oramai pare non avere alcun valore. Si dice che non esiste più nessun "nemico interno", non si osa più parlare di imperialismo (anche se, dopo l'89, la cittadella occidentale si organizza e porta avanti una guerra senza quartiere non alla povertà ma ai poveri), le categorie di classe sono "oggetti" inutili per nostalgici, si scopre la globalizzazione come nuovo sistema quando questa é in realtà un processo in atto da secoli, si parla di "fine del lavoro" e di entrata nell'epoca della società immateriale nonostante l'Organizzazione Mondiale per la Sanità denunci duecentomila morti all'anno (quelli rilevati) sul posto di lavoro, centoventi milioni i feriti, centosessantamilioni quelli colpiti dalle malattie professionali e verrebbe da chiedersi se tutti costoro, vittime di una vera e propria "guerra bianca", considerano le loro sfortune materiali o immateriali...
Potremmo aggiungere i numeri agghiaccianti dei morti per fame, di chi vive, anche nei paesi "potenti", al di sotto della così detta "soglia di povertà", delle decine di migliaia di desaparecidos, dei genocidi operati dagli embargo imposti dai governi a democrazia avanzata; si tratta della grande maggioranza di mondo a cui viene negato l'accesso non tanto al benessere quanto alla propria stessa vita.
Perciò bisogna smetterla di parlare di povertà e considerare quest'epoca in termini di sfruttamento atroce, generalizzato e senza paragoni nella storia dell'umanità.
A tutto ciò, che nella sostanza é storia per niente nuova, viene contrapposto, da buona parte della sinistra, il nuovismo-buonismo dei valori dell'antirazzismo e della solidarietà.
Ma oggi, e questo si é un fatto nuovo, la divisione della società in classi si sta già avviando al superamento della questione razziale (e di genere) se una donna di colore come Naomi Campbell é stata il simbolo della Coca-Cola e Michael Jordan della Nike (cioè simboli AMERICANI tout-court) mentre centinaia di migliaia di individui con lo stesso colore della pelle vivono stipati come topi negli slums delle metropoli dello stesso Paese dei due divi.

Da diversi anni è cominciata la grande marcia verso il regno dell'ambiguità permanente, verso il vero miracolo italiano (tra i tanti, il più simpatico), capace di mettere insieme destra-centro-sinistra, superpoteri industriali e Stato: la grande marcia per una istituzionalizzazione della solidarietà nell'alveo del pensiero unico.
Ma di una solidarietà nuova che significa sempre meno lotta per il cambiamento e sempre più una sorta di ringiovanita pietà, strumentalizzata dal sistema produttivo per il mantenimento, la cura, il rattoppo. E' chiaro come la parola, il concetto e la pratica della Solidarietà abbia mutato radicalmente il suo significato originario e come questa "nuova solidarietà" abbia completamente assunto il senso pratico di una mascherata forma caritativa.
L'istituzionalizzazione della nuova solidarietà é un fenomeno che va realizzandosi sempre più compiutamente; la "nuova solidarietà" però non ha nulla a che vedere con l'alternativa e il superamento del tipo di sistema che la invoca, ma ha molto più a che fare appunto con l'assistenza e l'ammortizzazione delle ingestibili e strutturali contraddizioni del mito/progetto neoliberale-capitalista. E non é un caso che anche la Banca Mondiale stia tentando, in questi ultimissimi anni, un ritocco della propria immagine cercando di contribuire alla crescita di quello che viene definito terzo settore, attraverso il finanziamento delle ONG. Cioé da una parte affama i popoli attraverso la riscossione degli interessi sui prestiti concessi, dall'altra finanzia con le briciole la cooperazione allo sviluppo.
La funzione e la necessità del welfare state non sono venute meno; sono venute meno, nel quadro economico attuale, soltanto la convenienza e la competitività di questo modello formale. La stessa funzione ammortizzatrice deve semplicemente trovare un'altra forma economica più conveniente e, in second'ordine, più efficace. Il terzo settore e la nuova solidarietà possono offrire un ottimo terreno di sperimentazione in tale direzione e si prestano come unica chance regolatrice che si prefigura nell'immediato futuro del neoliberismo.
Inseguendo questa nuova solidarietà si smarrisce (e viene fatta smarrire) la coscienza che alla così detta "giustizia sociale" non si contrappongono generiche categorie morali come l'egoismo, la cattiveria, l'insensibilità o "pezzi crudeli" di questo sistema (come le società transnazionali) ma le più elementari ed inflessibili leggi economiche su cui si regge la struttura stessa del capitalismo e lo sviluppo centrato su questo modo di produzione ("profit").
Il Forum del terzo settore, l'organismo-contenitore delle molteplici realtà così dette "no-profit" italiano, presenta come suoi obiettivi sia la crescita economica del Paese sia il livellamento delle differenze economiche e sociali tra paesi "poveri" e paesi "avanzati". Inutile sottolineare la plateale balordaggine di affermazioni di questo genere (anche Reagan diceva che solo un paese "ricco" poteva aiutare un paese più "povero"); molto più utile risulta constatare che questo sedicente "movimento" si sta già prestando alla riorganizzazione e rafforzamento del sistema produttivo nazionale e dei rispettivi interessi.
E se non fosse così perché mai il terzo settore é oggi così corteggiato indistintamente dalla destra alla sinistra istituzionale e non, da confindustria ai sindacati? Come é possibile che la cultura industriale-borghese della "produzione per la produzione" e del profitto (che di umanità e diritti sociali se ne é sempre, storicamente, infischiata) oggi prende a elogiare le doti e la desiderabilità del terzo settore e della solidarietà? Perché anche la destra anti sociale é così favorevolmente orientata verso questo straordinario terzo settore?
Forse ConfIndustria é diventata un club di imprenditori etici e umani e anche la destra, finalmente buona e moderna ha dovuto alla fine riconoscere il valore della solidarietà.
Di fronte alla riconciliazione tra fascismo e libertà, al paese normale e alla nuova rivoluzione liberale, di fronte alla riscoperta della patria e del tricolore, di fronte alla revisione della storia della Resistenza (l'ANPI ha da poco ufficialmente ed idealmente aderito al Patto Atlantico), cioé di fronte ai nuovi valori e progetti della "sinistra" istituzionale di governo, anche i nemici storici si devono piegare, riconoscendo l'indiscutibilità della solidarietà. Ma questa, che é sostanzialmente la tesi "ulivista", evidentemente é un bluff.
Si possono elencare -senza alcuna pretesa di esaustività- alcune ragioni plausibili per spiegare questa "incredibile" conversione solidarista della destra, degli industriali e delle proprie servitù politiche, dei potenti in generale:

- il terzo settore offre un quadro giuridico interessante dal punto di vista dei privilegi fiscali e della regolazione del lavoro in cui é possibile operare con finalità "profit" (chi lavora nel terzo settore sa che ciò già avviene ad esempio con le cooperative sociali o comunque dove esista l'opportuno quadro giuridico);

- il terzo settore si occupa degli scarti che questo sistema produce, cioè tappa, in parte, i buchi socio-assistenziali che la società lascerebbe altrimenti aperti (con annesse tensioni sociali), considerando troppo spesso l'assistenza un fine, non un mezzo politico per superare le condizioni strutturali che ne creano il bisogno;

- è noto, credo, come il capitale investito in processi produttivi di qualsiasi genere abbia tutti gli interessi a mantenere un livello di disoccupazione discretamente alto (secondo la sacra legge della domanda e dell'offerta la forza lavoro viene così a costare di meno) e ciò sarebbe in apparente contraddizione con l'appoggio e la sponsorizzazione concessa al terzo settore. Evidentemente il livello di occupazione che il terzo settore dovrebbe garantire non andrà (come crede Rifkin) ad intaccare questo "livello discretamente alto";

- molte ONG, direttamente o indirettamente, costituiscono il migliore portabandiera degli interessi nazionali (chi abbia lavorato per un periodo sufficientemente lungo in ex-Jugoslavia lo sa);

- il terzo settore inserisce la solidarietà come elemento di stabilità all'interno del sistema socio-produttivo impedendone di fatto il superamento o anche soltanto la modificazione. Quando si auspica un sistema tripolare stato-mercato-terzo settore non si coglie la notevole differenza di statuto che i tre termini esprimono e cioè il fatto che non ci troviamo di fronte a tre poli ma di fronte ai due "classici" stato e mercato, dove lo stato organizza e sviluppa una nicchia (difesa giuridicamente) per un terzo settore all'interno del mercato, nel cui quadro il terzo settore comunque si muove e senza modificarne le leggi.