Forse
il
disastro
è
cominciato
con
l'avvento
del
nefasto
neologismo,
"azienda
Italia",
che
ha
giustificato
l'empia
confusione
tra
i
complessi
e
anche
contraddittori
interessi
di
una
nazione
e
la
incongrua
pretesa
di
quantificarli
tutti
col
metro
dei
bilanci
d'impresa.
Col
che
non
si
vuol
certo
diminuire
l'importanza
decisiva
dei
fattori
economici,
quanto
riflettere
su
quei
diritti
inalienabili,
quali
la
salute,
l'istruzione,
la
giustizia,
l'ambiente
ed
altri
che
il
mercato
non
può
di
per
sé
automaticamente
garantire.
Va,
peraltro,
anche
tenuto
presente
come
la
visione
"economicistico-manageriale"
si
accompagni
a
una
filosofia
che
tende
ad
avvalorarla
in
nome
della
superiore
efficienza
che
il
privato
assicurerebbe
sempre
sul
pubblico.
Questa
cultura
del
privato
(che,
sia
chiaro,
condividiamo
in
tutti
quegli
amplissimi
settori
in
cui
il
mercato
funziona
da
regolatore
ottimale)
ha
però
finito
via
via
per
imporsi
anche
laddove
il
mercato
lasciato
a
se
stesso
produce
profonde
ingiustizie,
devastazioni
ecologiche
ed
altri
negativi
effetti.
Così
al
giorno
d'oggi
non
vi
è
discorso
sulla
sanità
o
sulla
scuola
che
non
sia
dominato
dall'imperativo
di
tagliare
i
bilanci,
di
affidare
ai
privati
la
maggior
quota
possibile
di
attività,
di
spogliare
lo
Stato
di
competenze
fondamentali
per
devolverle
alle
Regioni,
con
conseguente
frantumazione
dell'eguaglianza
dei
diritti
di
cittadinanza
degli
italiani,
fra
zone
povere
e
zone
ricche.
Volendo
oggi
parlare
di
scuola
abbiamo
considerato
necessaria
questa
premessa,
senza
la
quale,
del
resto,
non
si
capirebbe
il
motivo
del
permanente
scontento
che,
dopo
la
stagione
delle
polemiche
che
vide
ieri
insegnanti
e
studenti,
irritati
e
delusi
dal
centro
sinistra,
polemizzare
con
le
riforme
di
Berlinguer
e
De
Mauro,
li
riporta
oggi
a
battersi
contro
gli
annunciati
proponimenti
di
Letizia
Moratti.
Con
vocazione,
purtroppo,
più
allo
scontro,
assolutamente
inutile
e
dannoso,
che
all'incontro
se,
come
si
annuncia,
agli
Stati
generali
della
scuola,
spostati
dal
ministro
in
extremis
da
Foligno
a
Roma,
si
presenteranno
alcune
diecine
di
migliaia
di
manifestanti,
compresi
gli
assolutamente
pleonastici
noglobal,
mobilitati
dall'instancabile
Casarini.
Sbaglierebbe,
però,
chi
leggesse
le
manifestazioni
di
questi
giorni
come
la
pedissequa
ripetizione
delle
ricorrenti
"occupazioni"
e
"autogestioni",
più
o
meno
festaiole
a
cui
siamo
stancamente
abituati.
No,
oggi
è
in
gioco
e
gli
attori
se
ne
mostrano
consapevoli
la
difesa
e
il
futuro
dell'istruzione
pubblica,
nella
sua
essenzialità
di
grande
servizio
assicurato
dallo
Stato
per
dare
a
tutti
i
giovani
non
la
semplice
alfabetizzazione,
ma
i
fondamenti
di
una
cultura
di
base
di
tipo
generale.
Questa
scuola,
in
un
paese
differenziato
come
l'Italia,
la
cui
unità
conta
poco
più
di
un
secolo
di
vita,
con
dialetti,
a
volte,
reciprocamente
inintelligibili,
ha
avuto
anche
il
compito
di
trasmettere
una
lingua,
una
storia,
una
cultura,
valori
civili
e
morali
che
contribuissero
all'unificazione
reale
della
Nazione.
Alle
fasce
successive
dell'insegnamento
secondario,
professionale
e
universitario,
spettava,
inoltre,
fino
a
qualche
decennio
orsono,
la
formazione
delle
classi
dirigenti
e
del
personale
operaio
e
artigiano
qualificato.
Con
l'avvento
della
scolarizzazione
secondaria
di
massa
il
ruolo
formativo
e
selettivo
delle
élites
è
venuto
a
mancare
e
le
competenze
richieste
sempre
più
affievolendo.
La
rivoluzione
informatica
e
tecnologica
ha
suggerito
nuovi
approcci
disciplinari.
"La
nuova
scuola",
scrive
uno
dei
più
intelligenti
studiosi
del
fenomeno,
il
prof.
Lucio
Russo,
"deve
preparare
soprattutto
consumatori,
oltre
che
contribuenti
ed
elettori.
Queste
figure...
possono
fare
a
meno
di
qualunque
tipo
di
cultura
generale...
Una
tale
scuola
dovrà
fornire
educazione
stradale,
sanitaria,
sessuale,
alimentare,
fiscale
e
così
via...
dovrà
insegnare
a
leggere
una
bolletta
e
un
estratto
conto
e
a
rispondere
ai
questionari
delle
inchieste,
ma
non
dovrà
richiedere
sforzi
intellettuali
considerati
faticosi,
superflui
e,
forse,
pericolosi....
I
nuovi
fini
della
scuola
possono
essere
conseguiti
solo
mediante
una
profonda
trasformazione
dei
contenuti
e
dei
metodi
didattici.
Gli
strumenti
concettuali
teorici,
considerati
ormai
troppo
difficili,
sono
eliminati
dall'insegnamento,
che
viene
ridotto
alla
descrizione
di
meri
"fatti"
e
a
elenchi
di
prescrizioni...
Alla
nuova
scuola
non
occorrono
esperti
di
fisica,
letteratura,
filosofia
o
storia
dell'arte.
Una
volta
completata
la
trasformazione,
basteranno
dei
generici
"operatori
scolastici",
con
preparazione
essenzialmente
sociopedagogica,
che
svolgano
la
funzione
di
intrattenitori
e
animatori,
accogliendo
gli
studenti
nelle
strutture
scolastiche,
stimolandone
la
socializzazione
e
accompagnandoli
e
guidandoli
nella
fruizione
dei
media...
Non
è
necessario
dire
che
selezionare
gli
studenti
della
nuova
scuola
non
avrebbe
più
senso
che
selezionare
i
clienti
di
un
supermercato.....
E
come
nel
caso
del
supermercato
l'unica
selezione
ammissibile
è
quella
che
elimina
i
taccheggiatori,
analogamente...
per
ottenere
un
titolo
di
studio
basta
l'assenza
di
gravi
colpe
o
la
presenza
di
circostanze
attenuanti.
Così
la
nuova
scuola
si
presenta
come
totalmente
democratica,
in
quanto
sottraendo
ogni
residua
autorità
agli
insegnanti,
si
configura
come
una
struttura
a
immediata
e
totale
disposizione
dello
studentecliente...
Presidi
e
insegnanti
vengono
invitati
a
escogitare
iniziative
promozionali
che
migliorino
"l'immagine"
della
propria
scuola,
attirando
un
maggior
numero
di
studenticlienti.
La
concorrenza
tra
scuole...
viene
assorbita
passivamente
dal
mondo
del
marketing
e
si
cerca,
in
particolare,
di
trasformare
la
professionalità
dei
presidi
modellandola
su
quella
dei
dirigenti
degli
uffici
vendite
e
dei
tecnici
pubblicitari"
(da
Segmenti
e
bastoncini,
ed.
Feltrinelli).
Questa
è
la
base
della
cosiddetta
autonomia.
Le
riforme
del
centro
sinistra
si
articolarono
attorno
a
questo
schema
e
come
tali
vennero
più
volte
criticate
e
respinte
dalla
maggioranza
degli
insegnanti.
Il
nostro
giornale,
per
bocca
del
sottoscritto,
se
ne
fece
ripetutamente
eco.
L'ambizione
di
Berlinguer
si
reggeva,
peraltro,
sul
generoso
principio,
da
una
lato,
di
portare
tutti,
senza
filtri
eccessivamente
selettivi,
all'Università,
rendendo
anche
quest'ultima
maggiormente
fruibile,
tramite
le
lauree
brevi
di
tre
anni,
ma,
dall'altro,
di
qualificare,
almeno
per
la
durata,
la
scuola
secondaria,
prolungando
l'obbligo
scolastico
fino
al
primo
biennio
delle
superiori
(15
anni).
Le
maggiori
contestazioni
nacquero,
però,
dall'unificazione
del
ciclo
delle
elementari
con
la
media
inferiore,
anche
se
favoriva
il
tempo
pieno
nella
prima
fase
e
l'insegnamento
precoce
di
una
lingua
straniera.
Fermo
restava,
peraltro,
il
primato
della
scuola
pubblica,
anche
se
l'aziendalismo
didattico
ne
ledeva
i
principi
fondativi.
Le
proposte
peraltro
non
definitive
della
Moratti
si
muovono
nello
stesso
ambito
concettuale,
delineato
da
Russo.
Del
resto,
in
questa
luce,
lo
slogan
di
Berlusconi,
detto
delle
tre
I
(Inglese,
Internet,
Impresa),
appare
assai
più
impegnativo
quasi
un
icastico
programma
di
una
parola
d'ordine
elettorale.
Così
anche
la
cancellazione
dell'aggettivo
"pubblica",
dalla
denominazione
storica
del
ministero
dell'Istruzione,
suona
come
una
dichiarazione
d'intenti
ideologica,
quale
neppure
il
più
illustre
e
credente
dei
ministri
di
osservanza
cattolica,
Guido
Gonella,
avrebbe
osato
immaginare.
Gli
indirizzi
scolastici
del
centro
destra
vanno
ben
oltre,
sia
nell'aprire
nuovi
spazi
alla
privatizzazione
dell'insegnamento,
in
particolare
quello
cattolico,
sia
nell'accentuare
l'aziendalizzazione
degli
istituti,
sia,
infine,
nel
dequalificare
in
maniera
drastica
l'istruzione
pubblica.
Prima
di
entrare
nel
merito
sento,
però,
l'obbligo
di
elencare
alcuni
punti
che
mi
sembrano
positivi,
in
primo
luogo
quello
di
ripristinare
non
tanto
il
7
in
condotta
elemento
dissuasivo
di
natura
più
simbolica
che
effettiva
quanto
un
legame
tra
profitto
e
comportamento,
la
cui
separazione,
da
quando
è
stata
irresponsabilmente
introdotta,
ha
incentivato
atteggiamenti
sempre
più
provocatori
e
incivili
da
parte
di
minoranze
violente
e
tanto
più
aggressive,
quanto
rese
sicure
dall'immunità.
In
secondo
luogo
la
fissazione
di
verifiche
biennali,
che
contemplino
la
bocciatura
e
non
il
ridicolo
conteggio
dei
debiti
formativi
e
degli
illusori
sei
rossi,
potrebbe
riportare,
se
mantenuta,
a
un
minimo
di
selettività
e
di
serietà
negli
studi.
In
terzo
luogo
l'aspirazione
a
riqualificare
la
formazione
professionale,
pur
se
accompagnata
da
misure
apertamente
contraddittorie
e
sbagliate,
non
è
in
sé
biasimevole
in
nome
dei
vecchi
stereotipi
di
una
sinistra
che
l'ha
sempre
aborrita,
considerandola
un
ghetto
in
cui
rinserrare
i
figli
della
classe
operaia.
Le
premesse
negative
superano,
però,
di
gran
lunga
quelle
positive.
Confondendo
l'obbligo
formativo
con
l'obbligo
scolastico,
gli
esperti
della
Moratti
propongono
di
riportare
quest'ultimo
alla
terza
media.
In
tal
modo
l'avviamento
professionale
per
coloro
che
lo
scegliessero,
non
avverrebbe
a
15
anni,
dopo
aver
assimilato
almeno
un
livello
decente
di
cultura
generale,
di
capacità
di
lettura,
di
rudimenti
di
lingua
straniera,
con
una
più
precisa
determinazione
delle
proprie
aspirazioni,
ma
a
13
anni,
del
tutto
sprovveduti
e
semiignoranti.
Allo
stato
delle
cose,
poi,
non
finirebbero
certo
nei
qualificati
corsi
professionali,
ancora
allo
stato
virtuale,
ma
in
quelle
vecchie
scuolette
di
mestiere
(per
muratori,
parrucchieri,
meccanici,
tappezzieri,
addetti
al
computer
,
ecc.)
in
gran
parte
organizzate
da
privati
ed
ecclesiastici,
soprattutto
salesiani,
e
garantite
da
sovvenzioni
pubbliche,
non
di
rado
di
discutibile
impiego
e
utilità.
Si
è
trattato
anche
nel
passato
di
un
ben
protetto
orto
corporativo,
caro
alla
Dc
che,
per
questo,
ha
sempre
promesso
ma
mai
attuato,
l'impegno
ad
elevare
l'obbligo
scolastico
a
15
anni.
Ora,
per
iniziativa
di
Forza
Italia,
si
tornerebbe
a
coltivare
quella
paludosa
clientela,
fonte
di
spreco
pseudo
formativo.
L'altro
disastro
in
prospettiva
consiste
nell'accorciamento
di
un
anno
della
scuola
secondaria
superiore:
i
licei
e
gli
istituti
tecnici
superiori
passerebbero
da
4
a
5.
Dai
primi
scomparirebbe
la
matematica,
dai
licei
scientifici
il
latino.
Quel
poco
che
resta
di
cultura
classica
nel
nostro
paese
finirebbe
rapidamente
nell'inceneritore
di
questa
contro
riforma.
Il
motivo
sta
nel
principio
di
adeguamento
alla
pratica
vigente
in
quasi
tutta
Europa
che
fissa
il
conseguimento
del
diploma
a
18
anni.
Berlinguer,
suscitando
non
poche
e,
a
pare
mio,
anche
giustificate
proteste,
aveva
aggirato
l'ostacolo
unificando
i
cinque
anni
delle
elementari
e
i
tre
delle
medie
inferiori
in
un
unico
ciclo
di
7
anni.
Moratti
torna
al
vecchio
schema
e
taglia,
invece,
alle
superiori.
E'
bene
si
sappia
che
dietro
queste
perverse
soluzioni
aritmetiche
per
risparmiare
un
anno,
vi
è
un
problema
politico.