Speciale in Medioriente

Dentro Jenin, alla periferia d'un massacro
La Corte suprema israeliana ordina all'esercito di non toccare i corpi dei palestinesi uccisi, e divampa la polemica. Il primo convoglio umanitario entra nella città distrutta, i profughi rimasti denunciano: «C'è stata una strage, centinaia di corpi portati via»
L'allarme del mondo Fosse comuni in un cimitero militare nella valle del Giordano? Colin Powell: «Rispettare i principi umanitari».
La Ue: «Siamo allarmati». Londra convoca l'ambasciatore israeliano

«E' scritto, non di solo pane vivrà l'uomo ma di qualunque cosa comandata da Dio». A quelle parole pronunciate da Gesù Cristo sul Monte delle Tentazioni di Gerico ci ha fatto pensare ieri mattina Ola Ghul, una delle tante donne palestinesi disperate, stanche, piangenti, che nel campo profughi di Jenin hanno perduto la loro casa, i pochi averi, e spesso mariti e figli. «Vi ringrazio, siete una benedizione di Dio ma non è il pane che chiediamo, è di giustizia che abbiamo bisogno, soltanto di quella. La fame non ci fa paura, portateci la giustizia» ha detto la donna rivolgendosi agli operatori umanitari europei giunti ieri a Jenin con un convoglio di 26 automobili e 4 autocarri carichi di aiuti donati da varie Ong (tra cui le italiane Movimondo e Ciss) per gli sfollati del campo, diventati profughi una seconda volta sotto la minaccia delle armi israeliane. Ola, 30 anni, madre di cinque figli, si reputa fortunata. «Hamdulillah (grazie a Dio) ci siamo salvati tutti, ma tanti altri hanno perduto un fratello, una madre, un padre. E' stato un massacro, gli israeliani hanno ucciso tanta gente innocente e tanti moqawamin (combattenti)».

Jenin, la Città degli Angeli, come si compiace di ricordare in questi giorni un noto giornalista italiano mettendo a confronto il nome con l'inferno che ora sconvolge la città. Jenin verrà ricordata per la tremenda punizione inflitta ai suoi 15mila profughi. Ma i carri armati hanno devastato anche il suo centro storico così come hanno fatto nei giorni scorsi a Ramallah e Nablus. I danni alle infrastrutture civili sono molto gravi e penosa è la situazione degli ospedali cittadini, meno organizzati di altri della Cisgiordania e che ora hanno bisogno di tutto.

Khader Sabbagi viveva in una strada adiacente al campo profughi. Un carro armato ha sfondato il muro di cinta e danneggiato l'ingresso della sua abitazione. Non ha nulla da chiedere, tranne una cosa: «Abu Ammar (Yasser Arafat) deve resistere e sbattere la porta in faccia al segretario di stato americano Powell. Non serve a nulla incontrare quel servo di Israele, gli americani fanno solo quello che vuole Sharon. Powell piange i morti israeliani e sputa su quelli palestinesi». Parole molto dure, pronunciate da chi non ha più nulla da perdere, da chi è stanco delle parole vuote di americani ed europei che promettono cento e mantengono zero.

Ieri mentre i volontari europei scaricavano gli aiuti umanitari nel magazzino dell'istituto di carità di Jenin - dove sono ospitati circa 1.500 sfollati, almeno altri 5.000 si trovano in altre zone della città e nei villaggi vicini di Rummana e Burqin - ci siamo avvicinati al campo profughi, completamente circondato dall'esercito e ancora proibito ai giornalisti. I pattugliamenti sono continui, i blindati per il trasporto delle truppe vanno avanti e dietro. Giunti a meno di cento metri di distanza ci siamo dovuti fermare. Più avanti sarebbe stato troppo pericoloso. Dai blindati i militari sparano contro chi viola il coprifuoco e i giornalisti stranieri rischiano non solo l'espulsione ma anche la confisca dell'accredito stampa senza il quale è impossibile lavorare.

Abbiamo tuttavia avuto modo di scorgere numerosi edifici crollati, specie in una zona del campo, quella di Hawashim, indicata nei racconti di tutti i profughi giunti a Jenin e nei villaggi vicini come quella più colpita dall'attacco israeliano, e dove più tenace è stata la resistenza dei combattenti palestinesi. I buldozer sono al lavoro - da giorni, ci hanno detto - ma il campo non è stato completamente raso al suolo così come molti temevano. Cosa accadrà in futuro però nessuno può prevederlo.

«In quella parte del campo ci sono almeno cinquecento shahid (martiri)», ci ha detto Khader Sabbagi, senza un'ombra di dubbio sul suo volto. Massacro, strage, sono le due parole più pronunciate dagli sfollati. Anche da Kisan Abu Khalil, che con gli occhi rossi di pianto racconta di aver visto due vicine di casa, Lina Saade e sua madre Fidà, cadere sotto le raffiche sparate da un elicottero israeliano all'inizio dell'invasione del campo profughi. «All'improvviso le case sono state colpite dalle mitragliate, poi hanno sparato razzi in continuazione. Quando sono scappata, dietro casa ho visto i corpi di tre uomini» ha riferito.

Denunciato dai palestinesi, temuto dalle organizzazioni internazionali, il «massacro» dei palestinesi di Jenin è giunto anche in Israele dove il 75 per cento della popolazione, secondo un sondaggio apparso venerdì sul quotidiano Maariv, appoggia l'offensiva sanguinosa scatenata dal primo ministro Sharon e dove pochi sembrano aver letto un articolo apparso sempre quel giorno su un altro quotidiano, Haaretz: un «alto ufficiale» dell'esercito mette in guardia il paese dal pensare che la «soluzione militare» metterà fine all'Intifada palestinese e afferma che la rioccupazione delle zone autonome sta soltanto facendo crescere la determinazione di coloro che vivono nei territori occupati.

La verità sul massacro

La Corte suprema israeliana ieri ha ordinato all'esercito di non toccare i corpi dei palestinesi uccisi a Jenin, fino a quando non sarà presa una decisione sul ricorso presentato da due deputati arabo-israeliani, insieme con due associazione dei diritti umani: avevano avviato l'azione legale dopo che si era diffusa la notizia secondo cui l'esercito israeliano intende seppellire i corpi in uno speciale cimitero nella Valle del Giordano, riservato ai caduti delle truppe nemiche e considerato «zona militare chiusa». I caduti palestinesi passerebbero così dalla chiusura di Jenin alla chiusura della Valle del Giordano, evitando gli occhi indiscreti della stampa e le condanne internazionali. I due deputati arabi hanno denunciato che la rimozione dei cadaveri degli uccisi costituisce una violazione delle leggi e ha lo scopo di «nascondere la verità» sul massacro che sarebbe stato compiuto nel campo profughi.

I tre giudici supremi prenderanno una decisione sul ricorso. La Corte ha anche ordinato al procuratore dello stato di verificare le accuse alle forze armate di aver approntato fosse comuni. Immediata è stata la reazione di uno dei leader dell'estrema destra, Avigdor Lieberman, che ha chiesto la destituzione del presidente della Corte suprema che a suo dire, si è schierato dalla parte dei nemici di Israele. E costretto dalle pressioni internazionali e dalla gravità dell'accaduto, anche Colin Powell ha dovuto esprimere la sua preoccupazione per la situazione umanitaria in Cisgiordania, in particolare nel campo profughi di Jenin, e ha esortato gli israeliani a «rispettare i principi umanitari internazionali». Powell che venerdì non ha esitato ad annullare l'incontro con Arafat previsto ieri a Ramallah (dovrebbe tenersi oggi) dopo l'attentato palestinese a Gerusalemme in cui sono rimasti uccisi sei israeliani non ha nemmeno preso in considerazione l'ipotesi di chiedere spiegazioni ai leader israeliani sul perché del buio informativo che circonda il campo profughi di Jenin.

Si affannavano ieri a sistemare gli aiuti umanitari i volontari europei, americani, canadesi giunti a Jenin. I materassi sono i più ricercati. Centinaia sono i profughi che da oltre una settimana non hanno visto un letto o un materasso, hanno perduto tutto e i più penalizzati sono proprio gli anziani e i bambini. «Dove mi porteranno adesso, che cosa accadrà, da giorni non so più nulla di mio figlio e dei miei nipoti» ci chiedeva ieri disperata Fadwa Omar, 77 anni, che dopo aver vissuto da giovane nel 1948 la Nakba (catastrofe) palestinese con la perdita della casa e di ogni avere, è oggi costretta, da anziana, a rivivere ancora una volta quell'esperienza amara che già aveva segnato tutta la sua esistenza. Mentre ci raccontava il suo dramma, dal centro della città è giunto il boato di un'esplosione, seguito da una breve raffica di mitragliatrice pesante. «La resistenza non è finita, i nostri moqawamin si oppongono come possono agli israeliani» ci ha detto Khader Sabbagi che si è preso l'incarico di guidarci all'interno della città. Il campo profughi di Jenin invece è di nuovo scomparso in una nuvola di polvere bianca, causata dal lavoro incessante dei buldozer.

Il convoglio umanitario poi si è rimesso in moto, per far ritorno a Gerusalemme. Uscito dalla città, dopo aver superato controlli severissimi da parte dell'esercito israeliano, è stato accolto dagli applausi degli arabi israeliani (palestinesi cittadini di Israele) che da tempo cercano di far entrare a Jenin, senza successo, tonnellate di aiuti umanitari. Tra loro qualcuno ha salutato facendo il segno della vittoria agli stranieri riusciti a violare la chiusura totale di Jenin. Ci hanno colpito i colori del deserto tornando indietro a Gerusalemme attraverso la Valle del Giordano, strada obbligata per evitare i posti di blocco israeliani che spezzettano la Cisgiordania ostacolando in ogni modo il traffico automobilistico. Avvicinandoci a Gerico abbiamo scorto il Monte delle Tentazioni. «Non di solo pane vivrà l'uomo» proclamò Gasù Cristo. «Anche di giustizia» ha aggiunto la profuga palestinese Ola Ghul, 2000 anni dopo.