Speciale in Medioriente

A Jenin fosse comuni e macerie

Nel campo profughi, dopo il massacro, l'esercito israeliano tiene alla larga giornalisti e telecamere. Cosa succede lì dentro? I racconti dei superstiti: «Il corpo di mia madre è rimasto lì, nessuno è andato a prenderlo». E nel bilancio ufficiale le vittime palestinesi scompaiono. Il conto dei morti lo faranno le agenzie dell'Onu

A Salem, la "linea verde" tra Israele e la Cisgiordania è una strada sterrata. «Lungo quel sentiero si arriva a Rumena, subito dopo c'è Jenin e il suo campo profughi» ci dice Abed, un palestinese di Israele che accompagna i giornalisti che cercano di entrare nella "zona proibita". Il campo profughi di Jenin è completamente isolato, non c'è modo di entrare. La chiusura è totale, i soldati israeliani pattugliano senza sosta la zona per tenere alla larga i giornalisti, soprattutto le telecamere delle televisioni di tutto il mondo. Perché non possismo svolgere il nostro lavoro a Jenin? Che cosa sta accadendo che non possiamo vedere? Questi interrogativi ci tormentano mentre ci avviamo lungo il sentiero indicato da Abed, alle spalle ci siamo lasciati una colonna di venticinque autoarticolati per il trasporto di mezzi corazzati, carichi di pesanti carri armati Merkava, che lasciavano la zona di Jenin.


Voci di esecuzioni sommarie

Le "operazioni" sono terminate anche qui, dove la resistenza palestinese è stata tenace e dove anche una ventina di soldati israeliani hanno trovato la morte oltre a decine, centinaia temono in tanti, di palestinesi. Gli ultimi venti, forse trenta combattenti palestinesi ieri mattina, con la mediazione del centro israeliano per i diritti umani "Betselem", si sono consegnati agli israeliani, ma non è stata una resa. «Abbiamo fatto il possibile per ottenere dall'esercito la protezione di questo gruppo di palestinesi e siamo certi di aver raggiunto il nostro obiettivo», ci ha detto Limor Livne, il portavoce di "Betselem". Le voci (solo voci?) di esecuzioni sommarie dei combattenti che si erano arresi e di fosse comuni hanno fatto scattare l'allarme in tutti i centri per i diritti umani. Si è arreso anche lo sceicco Ali Sfuri, un leader del Jihad Islami.

L'esercito israeliano ieri ha comunicato le sue cifre dell'attacco a Jenin e al campo profughi: centinaia di fucili e mitra confiscati, esplosivi, e il numero dei soldati rimasti uccisi. Mancano dall'elenco, e non è casuale, i morti e i feriti palestinesi. Quelli si conosceranno solo tra qualche giorno quando, si spera, la stampa e le organizzazioni umanitarie potranno entrare a Jenin. Percorriamo un sentiero di campagna tra meravigliosi alberi d'olivo. La campagna fiorita fa ricordare quanto è bello il nord della Palestina in questo periodo dell'anno. La primavera è finalmente esplosa dopo giorni di pioggia e freddo, ma è solo un attimo di distrazione, una piccola felicità. A quattro-cinque chilometri di distanza le esplosioni ci riportano subito alla realtà - non della guerra, come hanno scritto molti, ma della rioccupazione. La guerra è quella che combattono gli eserciti. Qui invece centinaia di carri armati e decine di elicotteri hanno attaccato città e campi abitati da civili innocenti, dove la resistenza era rappresentata da poche centinaia di uomini armati di mitra. Molti tra questi ora sono morti, altri si nascondono nelle campagne per evitare l'arresto, forse la morte.

Tra i profughi di Rumena

Dopo due chilometri di marcia arriviamo al villaggio di Rumena, seguiti da lenti trattori con rimorchio che trasportano quintali di aiuti umanitari - cibo, abiti, medicine - destinati alle centinaia di profughi palestinesi fuggiti dal campo di Jenin oppure arrestati e poi liberati dall'esercito israeliano. La piazzetta del paesino, accanto alla moschea, pullula di gente. Veniamo accolti con calore. Tanti hanno voglia di parlare, di raccontare ciò che hanno visto e, soprattutto, hanno vissuto. Abdallah Wusha, 23 anni, ha perduto in poche ore la madre e un fratello. Poi è stato arrestato e percosso, tenuto per tre giorni con le mani legate e seminudo. Come lui tanti altri uomini del campo di Jenin, arrestati e poi liberati.

«Tutto è cominciato - ci racconta - giovedì scorso (era il 4 aprile, ndr), l'attacco israeliano era cominciato il giorno prima con delle cannonate. Poi sono arrivati gli elicotteri che hanno aperto il fuoco sulle case. Munir, mio fratello di 17 anni, era in casa ed è stato ferito in modo grave al torace. Abbiamo cercato di chiamare un'ambulanza ma non c'è stato nulla da fare. I soldati e carri armati sparavano ovunque, senza sosta». Munir, prosegue Abdallah, è spirato qualche ora dopo. «Sabato pomeriggio gli spari si sono placati. Mamma, dopo aver pianto per ore, ha aperto la porta ed è andata fuori. Voleva dare una sepoltura a Munir. Si è guardata intorno, qualche secondo dopo è crollata colpita alla testa da un colpo, pensiamo sparato da un cecchino». La donna uccisa è rimasta nello stesso posto fino a domenica. «Quel giorno con mio padre e i miei fratelli, insieme a tante altre persone, siamo usciti in strada con le mani alzate. Mamma era sempre lì, a terra, ed è stata l'ultima volta che l'ho vista. I soldati ci hanno ammanettato e portato via». Il giovane è stato trasferito nel campo militare della Foresta Saada, non lontana da Jenin. «Per tre giorni non abbiamo mangiato, ci hanno lasciati seminudi all'aperto, anche di notte, sempre con le mani legate. Ci siamo orinati addosso. E' stato terribile». Il gruppo di detenuti è stato poi lasciato libero al posto di blocco di Salem. «Siamo arrivati a Rumena quasi nudi, in mutande, molti a piedi nudi» ricorda Munir con gli occhi gonfi di lacrime.

«Mio figlio è stato ucciso a 12 anni»

Mentre ascoltiamo i racconti dei profughi, nel villaggio si intensificano gli arrivi. Giornalisti soprattutto, ma anche palestinesi di Salem che portano cibo alla moschea destinati a sfamare i nuovi arrivati da Jenin sempre più numerosi. Non ci sono parole sufficienti per descrivere la solidarietà verso i profughi, gli ex detenuti. Imad, fuggito da Jenin una settimana fa con tutta la famiglia, non perde un attimo. Aggiorna su un foglio la lista dei profughi giunti negli ultimi due giorni, si preoccupa di segnalare agli operatori umanitari i casi, molto numerosi, di famiglie separate dall'occupazione del campo, trova una sistemazione per la notte ai nuovi arrivati. Omar Hawashin, 41 anni, racconta della morte del figlio di 12 anni, Mohammad, e di tutto ciò che i soldati hanno portato via ai detenuti.

«Mohammad è stato ucciso domenica scorsa, mentre con un amico cercava di portare all'ospedale di Jenin un giovane rimasto ferito - racconta - è morto sul colpo mi hanno detto amici e parenti. Non sono riuscito a vederlo, non so dove sia il suo corpo, se sia stato sepolto come vuole la nostra religione o se è stato lasciato in strada come tanti altri». Parla a voce bassa Omar. E' sfibrato dall'ansia. Non sa più nulla di sua moglie e degli altri quattri figli. Era in Haret Hawashin, la zona del campo che prende il nome dalla sua ammule (la famiglia allargata) e che è stata il centro della resistenza all'occupazione per quasi sei giorni.«I muqawamin si sono dispersi durante gli attacchi israeliani - prosegue il suo racconto - Ad un certo punto insieme a un centinaio di altre persone mi sono ritrovato in un edificio non ancora colpito. I combattenti non erano più vicini a noi ma i soldati hanno cominciato a sparare nella nostra direzione. I più anziani hanno deciso perciò che era giunto il momento di consegnarsi agli israeliani per evitare la strage delle nostre donne e dei nostri bambini. Lo abbiamo fatto. Da quel momento non ho saputo più nulla dei miei figli». I soldati gli hanno preso tutto. «Ci hanno ordinato di spogliarci, poi ci hanno preso quello che avevamo: soldi, orologi, anelli, ogni cosa. Io avevo poco in tasca ma qualcuno si è visto portare via 800 shekel (quasi 200 euro)». Nel villaggio intanto aumentano gli arrivi e con essi la confusione, accresciuta dalla presenza di decine di giornalisti.

E ora i bulldozer demoliscono le case

Qualche chilometro più avanti c'è Burqin, da dove si vede meglio il campo profughi occupato. Una nuvola di polvere bianca lo avvolge e lo nasconde. I bulldozer sono al lavoro, demoliscono case, il resto lo fa la dinamite. Tornano dei colleghi della Bbc, denunciano di essere stati fermati dai soldati che hanno sequestrato il materiale filmato, peraltro a distanza, e persino gli accrediti stampa. Squilla il telefono. E' Ray Dophin di Ocha (l'ufficio dell'Onu per il coordinamento degli affari umanitari). Con un convoglio dell'Unrwa (l'agenzia dell'Onu che assiste i profughi palestinesi), ha raggiunto la periferia orientale del campo profughi. «Le case qui ci sono ancora ma tutto il resto è distrutto» ci riferisce. «I soldati non ci hanno fatto passare», aggiunge. Gli aiuti umanitari sono stati consegnati ai responsabili della "Mezzaluna rossa" che li porteranno in un magazzino, in attesa di farli entrare nel campo profughi.

Torniamo indietro dopo aver registrato altre storie di abusi, sofferenze, paura, morte. A Salem sono pronti nuovi trattori carichi di aiuti diretti a Rumena. Un ultimo sguardo a Jenin e poi ancora l'interrogativo che ci tormenta da giorni: che cosa sta accadendo nel campo profughi rioccupato?