Speciale in Medioriente

La guerra uccide i due stati


La politica israeliana, che ha scelto consapevolmente lo scontro frontale con i palestinesi, prepara una catastrofe comune che nega la possibilità per i due stati di vivere fianco a fianco. Esito che noi pacifisti, dell'una e dell'altra parte, cerchiamo inascoltati di impedire


Da quando l'ho letto, giovedì 4 aprile, il titolo di un articolo del New York Times riportato dall'Herald Tribune mi rimbomba in testa come una campana a morto: «Mood is good» il morale è alto. Questo dicono i dirigenti di Hamas dalle loro «comfortable homes»in Gaza city, e si strofinano le mani dalla soddisfazione al constatare l'effetto di guerra totale che gli ultimi attentati di Netanya e Haifa hanno scatenato contro la popolazione palestinese. Ciò non fa che aumentare le reclute, osservano, addirittura devono declinare le offerte dei candidati suicidi-bombe umane. Il loro obiettivo? La fine dell'occupazione ebraica della Palestina storica. Che cosa intendono con ciò? Se si intende che Israele deve tornare ai confini del 1967, non fanno che chiedere l'applicazione delle risoluzioni Onu, e non si può che essere d'accordo. Ma se intendono l'abolizione di Israele in quanto stato ebraico, si pongono come obiettivo l'abolizione dello stato di Israele. Gli ebrei possono restare, se vogliono, ma in uno stato islamico. E questo è inaccettabile per qualsiasi ebreo. L'articolo è poi uscito su la Repubblica del giorno successivo, venerdì 5 aprile. Non so quanti ebrei italiani, quanti appartenenti alle Comunità israelitiche, quanti rabbini l'abbiano letto e meditato. A me sembra dimostrare, come la prova inoppugnabile di un teorema matematico, ciò che una piccolissima minoranza di ebrei della diaspora e di israeliani pacifisti tentano di far capire da mesi, se non da anni, alla cosiddetta comunità internazionale, e soprattutto alla maggioranza pro-Sharon o pro-Netanyau di Israele. Cioè che sempre di più la criminale politica israeliana di umiliazione e di oppressione, di uccisioni e distruzione di case e campi, di azzeramento delle possibilità di vita nei Territori Occupati, di aumento delle colonie in terra palestinese, ed ora di guerra totale, anche in risposta agli attentati più sconvolgenti, non è che il migliore artefice della propria temuta distruzione. Insomma, non solo questa politica viola tutte le leggi del diritto umanitario e internazionale, è omicida; ma è anche suicida, scava la fossa allo stesso stato di Israele, sia alla sua legittimità morale, sia alla sua stessa esistenza storica, favorendo la crescita esponenziale delle forze che lo vogliono annientare. E questa è stata la politica perseguita lucidamente e con miopia sia da Netanyau che da Sharon: indebolire e togliere di mezzo un interlocutore laico e moderato come Arafat per avere di fronte Hamas soltanto, da distruggere frontalmente. Ma senza minimamente tenere conto del fatto che dietro ad Hamas si sarebbe sempre più coagulato un popolo intero e che la distruzione di Hamas avrebbe implicato la distruzione di un popolo. Ed un popolo non lo si distrugge se non a costo di perdere il diritto alla propria stessa esistenza come stato e nazione. Senza contare le ondate lunghe dell'islamismo montante di nuovo dopo l'11 settembre in tutto il mondo arabo.

Credo che ogni persona ebrea dovrebbe rievocare in cuor proprio tutte le tappe che faticosamente hanno portato alla costituzione di una «focolare ebraico», ad un luogo dove non sentirsi perpetuamente stranieri ed estraniati, attraverso secoli di storia europea, tra pogrom e ghetti, fino alla catastrofe della Shoa. Il peccato originale di Israele, innegabile, consistente nel fondare uno stato dove un altro popolo, anche se non ancora eretto a nazione consapevole, già viveva da secoli, era stato a poco a poco non dico cancellato ma attenuato e si era trasformato in debito spendibile politicamente, attraverso un negoziato che riconoscesse comunque le responsabilità della Nakba (la catastrofe del 1948). Finalmente dopo 40 anni, nel 1988, il capo dell'Olp aveva riconosciuto la legittimità dell'esistenza dello stato di Israele. Non si può negare che durante tutto il periodo dei lunghi negoziati da Oslo in poi non ci fossero forti riserve mentali e resistenze sostanziali, da ambedue le parti, ad ammettere veramente il diritto all'esistenza, in quel territorio, dell'altro in quanto popolo, nazione, stato. E Israele ha continuamente dilazionato scadenze e ha barato insediando colonie su colonie su terra palestinese. Ha costruito strade su terra palestinese. Ha tagliuzzato i territori. Ma finché il negoziato durava, si poteva sperare.

Ora la seconda Intifada rischia di essere un atroce punto di non ritorno, l'inizio della terza catastrofe e questa volta per ambedue i popoli. Non solo per gli israeliani, ma di nuovo per noi ebrei, tutti, iscritti alle Comunità e non, religiosi e laici, impegnati e apolitici. In questi giorni si sta cominciando a distruggere dalle fondamenta ogni futura possibilità di convivenza e di assetto bi-statuale accettabile da ambedue le parti. E' un gioco al massacro che si iscrive pienamente nel nuovo quadro di deregulation assoluta aperto dall'11 settembre: la guerra ormai è il nuovo modo di dispiegarsi della politica, nessuna regola o remora del diritto internazionale è più valida né quasi vale la pena invocarla. Gli appelli e le iniziative di interposizione, le stesse missioni civili di pace internazionali, pur preziose, sono deboli argini innalzati contro la furia dirompente di chi vuole solo guerra per annientare l'altro. Ora non si combatte più per guadagnare terreno tatticamente, ma per distruggere e annientare l'altro contendente. Non ha senso pretendere condanne della sciagurata scelta dei kamikaze palestinesi quando il motore principale di quella stessa scelta è l'occupazione israeliana, che sta ad Israele terminare. Da tempo la palla è nel campo israeliano, ma invece di rilanciarla, con il ritiro unilaterale dei territori occupati nel 1967, l'attuale governo l'ha seppellita e ha scelto la strada dello scontro frontale. Nessuno allora può salvarci, ebrei, israeliani e palestinesi, se non ci salviamo noi da soli, rifiutando di procedere al baratro che si prepara per tutti.

Occorre comprendere come la rovina dei palestinesi è anche la nostra rovina, la fine del sogno di uno stato palestinese integro entro frontiere definite in quel 22% da loro accettato è anche la fine dello Stato di Israele come compagine umana, morale e forse fisica, storica.

Gli israeliani delle organizzazioni pacifiste, insieme ad organizzazioni palestinesi, stanno facendo la loro parte da mesi in una situazione difficilissima. Invece, le Comunità Israelitiche italiane ancora sono succubi del loro identificarsi, comunque e sempre, con Israele, qualsiasi cosa faccia. Addirittura, covano mostri ignari delle proprie stesse radici e tradizioni di comprensione e tolleranza come i giovani teppisti che hanno assalito la sede di Rifondazione Comunista alcuni giorni fa. Aggrediscono perché temono di essere aggrediti, viene agitato lo spauracchio dell'antisemitismo. Anche in questo caso, occorrono a mio avviso dei distinguo. I fatti recenti avvenuti in Francia, l'attacco a sinagoghe, e finanche alcune frasi spiacevoli per orecchie ebree (tradizionalmente ipersensibili) che si possono sentire nei cortei di questi giorni sono riconducibili alla aggressione israeliana, sono soprattutto anti-israeliane, non antisemite (per quel che significa storicamente, dato che l'antropologia ha dimostrato l'inesistenza delle razze umane). E se di antisemitismo si può parlare a proposito di varie formazioni politiche e partiti di destra europei, si tratta di un antisemitismo nuovo, parte integrante di atteggiamenti razzisti in senso lato rivolti a varie minoranze, in un contesto di globalizzazione, e quindi da analizzare tenendo conto di queste peculiarità che lo rendono diverso alla radice dall'antisemitismo storico. E comunque, ancora una volta, la politica israeliana non fa che rinfocolare questi fenomeni.

Di fronte agli eserciti e alle superpotenze ci si sente deboli e inermi. Abbiamo dalla nostra parte soltanto la capacità di analisi e raziocinio, la nostra volontà di reagire e di farci ascoltare, e su queste risorse dobbiamo contare. Dobbiamo agire qui ed ora, dal basso, dato che i poteri del mondo dimostrano o connivenza insipiente o colpevole complicità, come organizzazioni e associazioni, ma soprattutto come ebrei singoli quali siamo, insieme alle organizzazioni palestinesi che rifiutano le derive islamiste, dobbiamo fare tutto ciò che è in nostro potere per evitare una catastrofe comune.