La IV guerra mondiale è cominciata
del subcomandante Marcos

da CARTA.ORG (scusate il colore bianco di sfondo...)

Il testo del subcomandante Marcos che pubblichiamo in queste pagine risale al giugno del 1997. Uscì, per la prima volta, nell’edizione messicana di Le Monde diplomatique e sotto forma di opuscolo, edito dal Frente zapatista de liberación nacional. Due mesi dopo, in agosto, l’edizione francese di Le Monde diplomatique ne pubblicò un versione ridotta, con il titolo «La quarta guerra mondiale è cominciata», ed è sotto questo stesso titolo che, in ottobre di quello stesso anno, il manifesto diffuse, come omaggio ai suoi lettori, un opuscolo contenente il saggio di Marcos, interventi di Gianfranco Bettin e Marco Revelli e una introduzione del curatore della pubblicazione e traduttore del testo, Pierluigi Sullo, oggi redattore di Carta.
Di quell’opuscolo il manifesto diffuse, allora, quasi 40 mila copie. Eppure, in questi giorni, alcuni lettori del settimanale ci hanno chiesto dove il testo di Marcos fosse reperibile. E’ anche probabile che la gran parte dei più giovani non abbiano mai letto questo saggio.
Noi, perciò, abbiamo deciso di offrirlo di nuovo, e in versione integrale. Perché risale sì al 1997, due anni prima di Seattle e quattro prima di Porto Alegre e Genova, ma contiene una lettura della situazione del mondo che, oltre ad essere la più completa mai scritta dal portavoce dell’Esercito zapatista, può molto aiutare a comprendere lo scenario nel quale si inizia la «guerra infinita».
«La quarta guerra mondiale è cominciata» è, secondo noi, uno dei testi fondamentali del movimento globale per «un altro mondo possibile» che è andato fermentando nell’ultimo decennio, e che ora ha il bisogno urgente di capire come smontare la macchina di guerra che si è messa in moto. Buona lettura.

 

Sette tessere ribelli del rompicapo mondiale
[Il neoliberismo come rompicapo: l'inutile unità mondiale che frammenta e distrugge nazioni]

Tessera 1: La concentrazione della ricchezza e la distribuzione della povertà
Tessera 2: La globalizzazione dello sfruttamento
Tessera 3: Migrazioni, l'incubo errante
Tessera 4: Mondializzazione finanziaria e globalizzazione della corruzione e del crimine
Tessera 5: La legittima violenza di un potere illegittimo?
Tessera 6: La Megapolitica e i nani
Tessera 7: Le sacche della resistenza

La guerra è una questione fondamentale per lo Stato, è la provincia della vita e della morte, la via che conduce alla sopravvivenza o all'annichilimento.
È indispensabile studiarla a fondo.

«Arte della guerra». Sun Tzu

La globalizzazione moderna, il neoliberismo come sistema mondiale, deve essere intesa come una nuova guerra di conquista di territori.

La fine della III Guerra Mondiale, o «Guerra Fredda», non significa che il mondo abbia superato il bipolarismo o che sia stabile sotto l'egemonia del vincitore. Al termine di questa guerra si è avuto, senza alcun dubbio, un vinto [il campo socialista], ma è difficile dire chi sia il vincitore. L'Europa occidentale? Gli Stati uniti? Il Giappone? Tutti questi? Il fatto è che il crollo dell'«impero del male» [Reagan e Thatcher dixerunt] ha comportato l'apertura di nuovi mercati senza padrone. Era necessario, pertanto, lottare per prenderne possesso, conquistarli.

Non solo: la fine della «Guerra Fredda» ha trascinato con sé una nuova cornice nelle relazioni internazionali, nella quale la lotta nuova per questi nuovi mercati e territori ha prodotto una nuova guerra mondiale, la IV. Questo ha reso necessaria, come in tutte le guerre, una ridefinizione degli Stati Nazionali. Ancora, oltre alla redifinizione degli Stati Nazionali, l'ordine mondiale è tornato alle vecchie epoche delle conquiste di America, Africa e Oceania. Strana modernità, questa che avanza all'indietro, il crepuscolo del XX secolo assomiglia di più ai brutali secoli precedenti che al placido e razionale futuro di qualche romanzo di fantascienza. Nel mondo del Dopoguerra Freddo vasti territori, ricchezze e, soprattutto, forza lavoro qualificata, aspettavano un nuovo padrone...
Ma uno solo è il posto di padrone del mondo, e diversi sono gli aspiranti a diventarlo. E per ottenerlo si dispiega altra guerra, questa volta tra coloro che si erano autonominati «impero del bene».

Se la Terza Guerra Mondiale è stata tra il capitalismo e il socialismo [capeggiati dagli Usa e dall'Urss, rispettivamente], con scenari alterni e differenti gradi di intensità, la IV Guerra Mondiale si fa ora tra i grandi centri finanziari, con scenari totali e con una intensità acuta e costante.
Dalla fine della II Guerra Mondiale fino al 1992 si sono svolte 149 guerre in tutto il mondo. Il risultato sono stati 23 milioni di morti, perché non vi siano dubbi sull'intensità di questa III Guerra Mondiale [i dati sono dell'Unicef]. Dalle catacombe dello spionaggio internazionale fino allo spazio siderale della cosiddetta Iniziativa di Difesa Strategica [le «guerre stellari» del cowboy Ronald Reagan]; dalle spiagge di Playa Girón, a Cuba, fino al Delta del Mekong, in Vietnam; dalla sfrenata corsa nucleare fino ai selvaggi colpi di stato nella dolorante America latina; dalle minacciose manovre degli eserciti Nato fino agli agenti della Cia nella Bolivia dell'assassinio di Che Guevara; la guerra impropriamente chiamata «Fredda» ha raggiunto temperature molto alte, che, nonostante il continuo cambio di scenario e all'incessante su-e-giù della crisi nucleare [o precisamente a causa di ciò], hanno finito per dissolvere il campo socialista come sistema mondiale, e lo hanno diluito come alternativa sociale.

La III Guerra Mondiale ha mostrato le virtù della «guerra totale» [ovunque e in ogni forma] dal punto di vista del trionfatore: che è il capitalismo. Ma lo scenario del dopoguerra ha mostrato, nei fatti, il profilo di un nuovo teatro di operazioni mondiali: grandi «terre di nessuno» [create dal fallimento politico, economico e sociale dell'Europa dell'est e dell'Urss], potenze in espansione [Usa, Europa occidentale e Giappone], crisi economica mondiale, e una nuova rivoluzione tecnologica, l'informatica. «Allo stesso modo in cui la rivoluzione industriale aveva permesso di rimpiazzare il muscolo con la macchina, la attuale rivoluzione informatica punta al rimpiazzo del cervello [per lo meno di un numero crescente delle sue funzioni] con il computer. Questa 'cerebralizzazione generale' dei mezzi di produzione [accade lo stesso nell'industria e nei servizi] è accelerata dall'esplosione di nuove ricerche nelle telecomunicazioni e dalla proliferazione dei cybermondi» [Ignacio Ramonet, «La planètee des désordres», in «Géopolitique du chaos», Manière de voir 3, Le Monde diplomatique, aprile 1997].
Il re supremo del capitale, la finanza, ha cominciato allora a sviluppare la sua strategia bellica, nel nuovo mondo, e su ciò che restava in piedi del vecchio. Attraverso la rivoluzione tecnologica, imposta al mondo intero per mezzo di un computer, a loro arbìtrio, i mercati finanziari hanno imposto le loro leggi e i loro precetti a tutto il pianeta, La «mondializzazione» della nuova guerra non è altro che la mondializzazione delle logiche dei mercati finanziari. Da regolatori dell'economia, gli Stati Nazionali [e i loro governanti] sono passati ad essere regolati, meglio telediretti, dal fondamento del potere finanziario: il libero scambio commerciale. Non solo: la logica del mercato ha sfruttato la «porosità» che, in tutto lo spettro sociale mondiale, è stata provocata dallo sviluppo delle telecomunicazioni, ed è penetrato, si è appropriato di tutti gli aspetti dell'attività sociale. Il fine è una guerra mondiale totalmente totale!

Una delle prime vittime di questa nuova guerra è il mercato nazionale. Come una pallottola sparata dentro una stanza blindata, la guerra iniziata dal neoliberismo rimbalza da un lato all'altro. Una delle basi fondamentali del potere dello Stato capitalista moderno, il mercato nazionale, è liquidato dal cannoneggiamento della nuova era dell'economia finanziaria globale. Il capitalismo internazionale incassa alcune delle sue vittime fiaccando i capitalismi nazionali e smagrendo, fino all'inedia, i poteri pubblici. Il colpo è stato tanto brutale e definitivo che gli Stati Nazionali non dispongono della forza necessaria per opporsi all'azione dei mercati internazionali, quando questi vanno contro gli interessi dei cittadini e dei governi.
La sorvegliata e ordinata vetrina che si supponeva essere l'eredità della «Guerra Fredda», il «nuovo ordine mondiale», si è frantumato sotto l'urto neoliberista. Il capitalismo mondiale sacrifica senza misericordia alcuna ciò che gli ha assicurato futuro e progetto storico: il capitalismo nazionale. Imprese e stati capitombolano in pochi minuti, ma non nella tormenta delle rivoluzioni proletarie, bensì a causa degli uragani finanziari. Il figlio [il neoliberismo] divora il padre [il capitalismo nazionale], e di passaggio distrugge tutte le promesse dell'ideologia capitalista: nel nuovo ordine mondiale non c'è democrazia, né libertà, né eguaglianza, né fraternità.
Nello scenario mondiale prodotto dalla fine della «Guerra Fredda» si vede solo un nuovo campo di battaglia e, in esso, come in tutti i campi di battaglia, regna il caos.
Negli ultimi tempi della «Guerra Fredda», il capitalismo aveva creato un nuovo orrore bellico: la bomba a neutroni. La «virtù» di quest'arma è che distrugge solo la vita e risparmia gli edifici e le cose. Già si potevano distruggere intere città [ovvero, i loro abitanti] senza che fosse necessario ricostruirle [e spendere soldi per questo]. L'industria degli armamenti si era felicitata con se stessa, l'«irrazionalità» delle bombe nucleari era soppiantata dalla nuova «razionalità» della bomba a neutroni. Eppure, una nuova «meraviglia» bellica sarebbe stata scoperta, all'inizio della IV Guerra Mondiale: la bomba finanziaria.
Perché la nuova bomba neoliberista, a differenza delle sue antenate di Hiroshima e Nagasaki, non solo distrugge la polis [la Nazione, in questo caso] e impone morte, terrore e miseria e chi la abita; e, a differenza della bomba a neutroni, non distrugge solo «selettivamente». La bomba neoliberista, in più, riorganizza e riordina ciò che attacca e lo ricostruisce come una tessera del rompicapo della globalizzazione economica. Dopo che il suo effetto di distruzione ha agito, il risultato non è un mucchio di rovine fumanti, o decine di migliaia di vite spente, ma una periferia che si aggiunge a qualcuna delle megalopoli commerciali del nuovo ipermercato mondiale, e una forza lavoro risistemata nel nuovo mercato del lavoro mondiale.

L'Unione europea, una delle megalopoli prodotte dal neoliberismo, è un risultato della IV Guerra Mondiale in corso. Qui, la globalizzazione ha ottenuto di cancellare le frontiere tra Stati rivali, nemici tra loro da molto tempo, e li ha obbligati a convergere e a progettare l'unione politica. Dagli Stati Nazionali alla federazione europea, il cammino economicista della guerra neoliberista nel cosiddetto Vecchio Continente sarà disseminato di distruzione e di rovine, e una di esse sarà la civilizzazione europea.
Le megalopoli si riproducono in tutto il pianeta. Le zone commerciali integrate sono il terreno su cui vengono edificate. Questo accade nell'America del Nord, dove il Trattato di libero commercio dell'America del Nord [Nafta, la sigla in inglese], tra Canada, Stati uniti e Messico, non è altro che il preludio del compimento di una vecchia aspirazione di conquista statunitense: «L'America agli americani». In America del Sud si segue lo stesso cammino con il Mercosur tra Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay. In Africa del Nord, con l'Unione del Maghreb arabo [Uma] tra Marocco, Algeria, Tunisia, Libia e Mauritania; in Africa del Sud, nel Vicino Oriente, nel Mar Nero, in Asia, nel Pacifico... in tutto il pianeta esplodono le bombe finanziarie e riconquistano territori.
Le megalopoli sostituiscono le nazioni? No, o non solo. Le includono, anche, e riassegnano loro funzioni, limiti e possibilità. Paesi interi si convertono in dipartimenti della megaimpresa neoliberista. Il neoliberismo produce così distruzione/spopolamento, da un lato, e la ricostruzione/riordinamento dall'altro, di regioni e nazioni, per aprire nuovi mercati o modernizzare quelli esistenti.
Se le bombe nucleari avevano un carattere dissuasivo, intimidatorio e coercitivo, nella IV deflagrazione mondiale non accade lo stesso con le iperbombe finanziarie. Queste armi servono ad attaccare territori [Stati Nazionali] distruggendo le basi materiali della sovranità nazionale [ostacolo etico, giuridico, politico, culturale e storico contro la globalizzazione economica] e producendo uno spopolamento qualitativo dei loro territori. Questo spopolamento consiste nel prescindere da tutti quelli che sono inutili alla nuova economia di mercato [per esempio gli indios]. Però, in più, i centri finanziari operano, simultaneamente, una ricostruzione degli Stati Nazionali e li riordinano secondo la nuova logica del mercato mondiale [e i modelli economici sviluppati si impongono su relazioni sociali deboli o inesistenti].
La IV Guerra Mondiale sul terreno rurale, per esempio, produce questo effetto. La modernizzazione rurale, che i mercati finanziari esigono, punta a incrementare la produttività agricola, però quel che ottiene è distruggere le relazioni sociali ed economiche tradizionali. Risultato: esodo massiccio dai campi alle città. Sì, come in una guerra. Intanto, nelle zone urbane si satura il mercato del lavoro e la distribuzione diseguale del reddito è la «giustizia» che spetta a coloro che cercano migliori condizioni di vita. Di esempi che illustrano questa strategia è pieno il mondo indigeno: Ian Chambers, direttore dell'Ufficio del Centro America dell'Organizzazione internazionale del lavoro [dell'Onu], ha dichiarato che la popolazione indigena mondiale, calcolata in 300 milioni di persone, vive in zone che detengono il 60 per cento delle risorse naturali del pianeta. Così, «non sorprendono i conflitti molteplici per l'utilizzo e il destino delle loro terre attorno agli interessi di governi e imprese [...] Lo sfruttamento delle risorse naturali [petrolio e minerali] e il turismo sono le principali industrie che minacciano i territori indigeni in America» [Intervista di Martha Garcia, La Jornada, 28 maggio 1997]. Dietro i principali progetti di investimento ci sono l'inquinamento, la prostituzione e le droghe. Vale a dire, si compiono distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordinamento delle zone interessate.

In questa nuova guerra mondiale, la politica moderna come organizzatrice dello Stato Nazionale non esiste più. Ora la politica è solo una organizzatrice economica e i politici sono moderni amministratori di impresa. I nuovi padroni del mondo non sono «governo», non ne hanno bisogno. I governi «nazionali» si incaricano di amministrare gli affari nelle differenti regioni del mondo. Questo è il «nuovo ordine mondiale», l'unificazione del mondo intero in un solo mercato. Le nazioni sono botteghe di dipartimenti con gestori in forma di governi, e le nuove alleanze regionali, economiche e politiche si avvicinano più a un moderno «mall» commerciale che a una federazione politica. L'«unificazione» prodotta dal neoliberismo è economica, è l'unificazione dei mercati che facilita la circolazione del denaro e delle merci. Nel gigantesco ipermercato mondiale circolano liberamente le merci, non le persone.
Come ogni iniziativa imprenditoriale [e di guerra] questa globalizzazione va accompagnata con un modello generale di pensiero. Eppure, tra tante novità, il modello ideologico che accompagna il neoliberismo nella sua conquista del pianeta ha molto di vecchio e di ammuffito. L'«american way of life» che accompagnò le truppe nordamericane in Europa nella II Guerra Mondiale, e nel Vietnam degli anni sessanta, e, più di recente, nella Guerra del Golfo, ora va mano nel mano [o meglio, nei computer] dei mercati finanziari.
Non si tratta solo di una distruzione delle basi materiali degli Stati Nazionali, ma anche [in un modo tanto imponente quanto poco studiato] di una distruzione storica e culturale. Il degno passato indigeno dei paesi del continente americano, la brillante civilizzazione europea, e la poderosa e ricca antichità di Africa e Oceania, tutte le culture e le storie che hanno forgiato nazioni sono attaccate dal modo di vita nordamericano. Il neoliberismo impone così una guerra totale: la distruzione di nazioni e gruppi di nazioni per omologarli al modello capitalista nordamericano.

Una guerra dunque, una guerra mondiale, la IV. La peggiore e più crudele, quella che il neoliberismo conduce ovunque e con tutti i mezzi contro l'umanità.
Però come in tutte le guerre ci sono combattimenti, ci sono vincitori e vinti, ci sono pezzi rotti di questa realtà distrutta. Per tentare di comporre l'assurdo rompicapo del mondo neoliberista mancano molte tessere. Alcune si possono trovare tra le rovine che questa guerra mondiale già ha lasciato sulla superficie del pianeta. Ciononostante sette di queste tessere si possono ricostruire, e incoraggiare la speranza che questo conflitto mondiale non finisca uccidendo il contendente più debole: l'umanità.
Sette tessere da disegnare, colorare, ritagliare e tentare di comporre tra loro per ricostruire il rompicapo mondiale.
La prima è la doppia accumulazione, di ricchezze e povertà, ai due poli della società mondiale. L’altra è lo sfruttamento totale della totalità del mondo. La terza è l’incubo di una parte errante dell’umanità. La quarta è la nauseabonda relazione tra crimine e Potere. La quinta è la violenza dello Stato. La sesta è il mistero della megapolitica. La settima è la multiforme borsa di resistenza dell’umanità contro il neoliberismo.

Tessera 1:
La concentrazione della ricchezza e la distribuzione della povertà.

Nella storia dell'umanità, diversi modelli sociali hanno fatto a gara per inalberare l'assurdo come segno distintivo dell'ordine mondiale. Sicuramente il neoliberismo otterrà un posto privilegiato, al momento dei premi, perché la sua «distribuzione» della ricchezza sociale non fa altro che distribuire un doppio assurdo della accumulazione: l'accumulazione della ricchezza nelle mani di un certo numero, e la accumulazione della povertà per milioni di esseri umani.
Nel mondo attuale, l'ingiustizia e la diseguaglianza sono i segni distintivi. Il pianeta Terra, terzo del sistema planetario solare, ha cinque miliardi di esseri umani. In esso, solo 500 milioni di persone vivono comode, mentre quattro miliardi e mezzo soffrono la povertà e tentano di sopravvivere.
Un doppio assurdo è il raffronto tra ricchi e poveri: i ricchi sono pochi e i poveri sono molti. La differenza quantitativa è criminale, ma il raffronto tra gli estremi si fa usando la ricchezza come metro di misura: i ricchi suppliscono alla loro minoranza numerica con migliaia di milioni di dollari. I patrimoni delle 358 persone più ricche al mondo [migliaia di milioni di dollari] è superiore al reddito annuale del 45 per cento degli abitanti più poveri, qualcosa come due miliardi e 600 milioni di persone. Le catene d'oro degli orologi finanziari si trasformano in pesanti ceppi per milioni di persone. Mentre la «... cifra degli affari della General Motors è più elevata del Prodotto interno lordo della Danimarca, quella della Ford è più grande del Pil dell'Africa del Sud, e quella della Toyota oltrepassa il Pil della Norvegia» [Ignacio Ramonet, Lmd di gennaio 1997], per tutti i lavoratori i salari reali sono caduti, in più essi devono affrontare le riduzioni di personale nelle imprese, la chiusura di fabbriche e la delocalizzazione dei centri produttivi. Nelle cosiddette «economie capitaliste avanzate» il numero dei disoccupati arriva già a 41 milioni di lavoratori.
In modo lento, la concentrazione della ricchezza in poche mani e la distribuzione della povertà in molte, va delineando il volto della società mondiale moderna: il fragile equilibrio di diseguaglianze assurde.
La decadenza del sistema economico neoliberista è uno scandalo: «Il debito mondiale [comprendento quello delle imprese, dei governi e delle amministrazioni] ha oltrepassato i 33 miliardi e 100 milioni di dollari, come dire il 130 per cento del Pil mondiale» [Frédéric F. Clairmont, «Le duecento società che controllano il mondo», Lmd, aprile 1997].

La crescita delle grandi multinazionali non implica il progresso delle nazioni sviluppate. Al contrario, mentre i giganti finanziari aumentano i loro profitti, si acutizza la povertà nel cosiddetti «paesi ricchi».
La differenza da colmare tra ricchi e poveri non pare avere alcuna tendenza a ridursi, anzi il contrario. Lontano dall'attenuarsi, già non diciamo dall'essere eliminata, la diseguaglianza si accentua, soprattutto nelle nazioni capitaliste sviluppate: negli Usa, l'1 per cento dei nordamericani più ricchi ha incamerato il 61,1 per cento dell'insieme della ricchezza nazionale del paese, tra il 1983 e il 1989. L'80 per cento dei nordamericani più poveri non si sono divisi che l'1,2 per cento. In Gran Bretagna il numero dei senzatetto si è raddoppiato; il numero dei bambini che vivono solo con gli aiuti sociali è passato dal 7 per cento nel 1979 al 26 del 1994; il numero di inglesi che vivono in povertà [soglia fissata alla metà del salario minimo] è passata da 5 milioni a 13 milioni e 700 mila; il 10 per cento dei più poveri ha perso il 13 per cento del potere d'acquisto, mentre il 10 per cento dei più ricchi ha guadagnato il 65 per cento e da cinque anni in qua si è raddoppiato il numero dei milionari [dati di Lmd, aprile 1997].
All'inizio degli anni novanta, «... circa 37 mila imprese stringevano, con le loro 170 mila filiali, l'economia internazionale nei loro tentacoli. Ciononostante, il centro del potere si colloca nel cerchio più ristretto delle prime duecento: dall'inizio degli anni ottanta esse hanno conosciuto una espansione ininterrotta per via delle fusioni e degli acquisizione di imprese. In questo modo, la parte di capitale transnazionale nel Pil mondiale è passata dal 17 per cento della metà degli anni sessanta al 24 del 1982 e a più del 30 per cento nel 1995.

Le prime duecento sono conglomerati le cui attività planetarie coprono senza distinzione i settori primario, secondario e terziario: grandi sfruttamenti agricoli, produzione manifatturiera, servizi finanziari, commercio, ecc. Geograficamente, esse si ripartiscono tra dieci paesi: Giappone [62], Usa [53], Germania [23], Francia [19], Regno Unito [11], Svizzera [8], Corea del Sud [6], Italia [5] e Paesi Bassi [4]». [Frédéric Clairmont, cit.].

La figura 1 si costruisce disegnandoil simbolo del dollaro. Rappresenta il potere economico. Va colorato di verde dollaro. Dell’odore nauseabondo non ci si deve preoccupare, la Roma di sterco, fango e sangue ce l’ha dalla nascita.

 

Tessera 2:
La globalizzazione dello sfruttamento

Una delle falsità neoliberiste consiste nel dire che la crescita economica delle imprese porta con sé una migliore distribuzione della ricchezza e l'aumento dell'impiego. Ma non è così. Nello stesso modo in cui la crescita del potere politico di un re non ha come conseguenza a un aumento del potere politico dei sudditi [anzi il contrario], l'assolutismo del capitale finanziario non migliora la distribuzione della ricchezza né procura maggior lavoro alla società. Povertà, disoccupazione e precarietà del lavoro sono sue conseguenze strutturali.
Nei decenni sessanta e settanta, la popolazione considerata povera [con meno di un dollaro al giorno di reddito per fronteggiare le proprie necessità elementari, secondo la Banca mondiale] era di circa 200 milioni di persone. All'inizio dei novanta assommava già a due miliardi di esseri umani. Nel frattempo, il «... fatturato delle duecento imprese più importanti del pianeta rappresenta più di un quarto dell'attività economica mondiale; e ciononostante queste duecento multinazionali impiegano solo 18,8 milioni di salariati, ossia meno dello 0,75 per cento della manodopera del pianeta» [Ignacio Ramonet, Lmd gennaio 1997].
Più esseri umani poveri e più impoveriti, meno persone ricche e più arricchite, queste sono le lezioni della tessera 1 del rompicapo neoliberale. Per ottenere questa assurdità, il sistema capitalista mondiale «modernizza» la produzione, la circolazione e il consumo di merci. La nuova rivoluzione tecnologica [l'informatica] e la nuova rivoluzione politica [le megalopoli emergenti sulle rovine degli Stati Nazionali] producono una nuova «rivoluzione» sociale. Questa «rivoluzione» sociale non consiste che in un riaggiustamento, un riordinamento delle forze sociali, principalmente della forza di lavoro.

La popolazione economicamente attiva [Pea] mondiale è passata da 1.376 milioni nel 1960 a 2.374 milioni di lavoratori nel 1990. Più esseri umani con capacità di lavoro, ovvero di creare ricchezza. Però il «nuovo ordine mondiale» non solo sistema questa nuova forza lavoro in spazi geografici e produttivi, ma in più riordina i suoi luoghi [o i suoi nonluoghi, come nel caso di disoccupati o sotto-occupati] nel piano globalizzatore dell'economia. La popolazione mondiale impiegata per attività [Pmia] si è sostanzialmente modificata negli ultimi venti anni. La Pmia del settore agricolo e della pesca è passata dal 22 per cento del 1970 al 12 del 1990; nell'industria dal 25 per cento del 1970 al 56 del 1990; mentre il settore terziario [commercio, trasporti, banche e servizi] è cresciuto dal 42 per cento del 1970 al 56 del 1990. Nel caso dei paesi sottosviluppati, il settore terziario è cresciuto dal 40 per cento del 1970 al 57 del 1990, mentre la loro popolazione impiegata in agricoltura e nella pesca è caduta dal 30 per cento del 1970 al 15 del 1990 [dati da «Mercado mundial de fuerza de trabajo en el capitalismo contemporaneo», Ochoa Chi, Juanita del Pilar, Unam, Economia, México, 1997]. Questo significa che sempre più i lavoratori sono spinti verso le attività necessarie per incrementare la produttività. Il sistema neoliberista opera così come un mega-padrone, e concepisce il mercato mondiale come una impresa unitaria, amministrata con criteri «modernizzatori».
Però la «modernità» neoliberista sembra assomigliare di più alla bestiale nascita del capitalismo come sistema mondiale, che a una utopica «razionalità». La «moderna» produzione capitalista continua ad essere basata sul lavoro dei bambini, delle donne e dei lavoratori migranti. Del miliardo e 148 milioni di bambini, nel mondo, almeno cento milioni vivono letteralmente sulla strada e duecento milioni lavorano, e si prevede che saranno quattrocento milioni nell'anno Duemila. Si dice, anche, che 146 milioni di bambini asiatici lavorano nella produzione di componentistica per auto, giocattoli, abiti, alimenti, nelle fonderie e nelle fabbriche chimiche. Ma questo sfruttamento del lavoro infantile non si dà solo nei paesi sottosviluppati: anche nel nord, centinaia di migliaia di bambini lavorano per integrare il reddito familiare o per sopravvivere. Anche l'«industria» del sesso offre posti ai bambini. L'Onu calcola che, ogni anno, un milione di bambini entri nel commercio sessuale [dati in Ochoa Chi, op. cit.].
La bestia neoliberista invade totalmente il sociale mondiale, omogeneizzando perfino i costumi alimentari. «In termini globali, sebbene si osservino particolarità nel consumo alimentare in ciascuna regione [o al suo interno], non per questo cessa di essere evidente il processo di omogeneizzazione che si sta imponendo, anche contro le differenze fisiologico-culturali delle diverse zone» [«Mercado mundial de medios de subsistencia. 1960-1990». Ocampo Figueroa, Nashelly y Flores Mondragïn, Gonzalo. Unam. Economia. 1994].

Questa bestia impone all'umanità un pedaggio molto grave. La disoccupazione e la precarietà di milioni di lavoratori in tutto il mondo è una realtà acuta che non mostra di volersi attenuare. La disoccupazione nei paesi dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico [Ocse] è passata dal 3,8 per cento del 1966 al 6,3 del 1990. Nella sola Europa è aumentata dal 2,2 al 6,4 per cento. L'imposizione delle leggi del mercato a tutto il mondo, il mercato globalizzato, non ha fatto che distruggere le piccole e medie imprese. Scomparendo i mercati locali e regionali, i piccoli e medi produttori si sono trovati senza protezioni e senza possibilità alcuna di competere con i giganti transnazionali. Risultato: chiusura massiccia di imprese. Conseguenza: milioni di lavoratori disoccupati. È la reiterazione dell'assurdità neoliberista: la crescita della produzione non genera impiego, al contrario lo distrugge. L'Onu chiama tutto questo «crescita senza impiego».
Ma l'incubo non finisce qui. Più ancora che la minaccia della disoccupazione, i lavoratori devono affrontare condizioni precarie di occupazione. Maggiore instabilità dell'impiego, prolungamento delle giornate lavorative e sventagliamento salariale, sono conseguenze della globalizzazione in generale e della «terziarizzazione» dell'economia in particolare. «Nei paesi dominati, la manodopera soffre di una precarietà multiforme: estrema mobilità, lavori senza contratto, salari irregolari e generalmente inferiori al minimo vitali, attività indipendenti non dichiarate, con guadagni aleatori, cioè servitù o lavoro forzoso» [Alain Morice, «I lavoratori stranieri, avanguardia della precarietà», Lmd, gennaio '97].
Le conseguenze di tutto questo si traducono in un vero sfondamento sociale globalizzata. Il riordino dei processi di produzione e circolazione di merci e la riorganizzazione delle forze produttive producono una eccedenza peculiare: esseri umani in più, che non sono necessari al «nuovo ordine mondiale», che non producono, non consumano, non sono soggetti di credito e che, in sostanza, sono da buttar via.

Ogni giorno i grandi centri finanziari impongono le loro leggi a nazioni o gruppi di nazioni, in tutto il mondo. Riordinano e riorganizzano i loro abitanti. E, alla fine dell'operazione, giungono alla conclusione che persone «esuberano». «Esplode pertanto il volume della popolazione eccedente, che non è solo sottomessa al giogo della povertà più estrema, ma che non conta nulla, è destrutturata e atomizzata, e la sua unica finalità è vagare per le strade senza uno scopopreciso, senza casa né lavoro, senza famiglia né relazioni sociali -almeno minimamente stabili - con l'unica compagnia dei suoi pezzi di cartone e sacchetti di plastica» [Fernández Durán, Ramón. «Contra la Europa del capital y la globalización economica». Talasa. Madrid, 1996]. La globalizzazione economica «... ha reso necessaria una diminuzione dei salari reali a livello internazionale, che, insieme alla diminuzione della spesa sociale [salute, educazione, abitazioni e alimentazione] e a una politica antisindacale, ha finito per diventare la parte fondamentale delle nuove politiche neoliberiste di riattivazione capitalista» [Ocampo y Flores M. op. cit.].

La figura 2 si costruisce disegnando un triangolo.È la rappresentazione della piramide dello sfruttamento mondiale.

 

Tessera 3:
Migrazioni, l'incubo errante

Abbiamo parlato prima dell'esistenza di nuovi territori, alla fine della III Guerra Mondiale, che speravano di essere conquistati [gli antichi paesi socialisti] e di altri che dovevano essere riconquistati dal «nuovo ordine mondiale». Per ottenere questo, i centri finanziari hanno condotto una triplice strategia criminale e brutale: proliferano le «guerre regionali» e i «conflitti interni», i capitali imboccano vie di accumulazione atipiche, e si mettono in moto grandi masse di lavoratori.
Il risultato di questa guerra di conquista mondiale è una grande giostra di milioni di migranti in tutto il mondo. «Straniere» nel mondo «senza frontiere» promesso dai vincitori della III Guerra Mondiale, milioni di persone subiscono la persecuzione xenofoba, la precarietà del lavoro, la perdita dell'identità culturale, la repressione poliziesca, la fame, il carcere e la morte. «Dal Rio Grande americano allo spazio Schengen 'europeo', si conferma una doppia tendenza contraddittoria: da un lato, le frontiere si chiudono ufficialmente alle migrazioni di lavoro, per l'altro, interi rami dell'economia oscillano tra l'instabilità e la flessibilità, che sono i mezzi più sicuri per attrarre la manodopera straniera» [Alain Morice, op, cit.]. Con nomi diversi, subendo una differenziazione giuridica, dividendosi una eguaglianza miserabile, i migranti o rifugiati o delocalizzati di tutto il mondo sono «stranieri» tollerati o rifiutati. L'incubo della migrazione, quale che sia la causa che la provoca, continua a rotolare e a crescere sulla superficie del pianeta. Il numero di persone che sarebbero di competenza dell'Alto commissariato delle Nazioni unite per i rifugiati [Acnur] è cresciuto in modo sproporzionato dai due milioni del 1975 a più di 27 milioni nel 1995. Distrutte le frontiere nazionali [dalle merci], il mercato globalizzato organizza l'economia mondiale: la ricerca e il disegno di beni e servizi, così come la loro circolazione e il loro consumo sono pensati in termini intercontinentali. In ogni parte del processo capitalista il «nuovo ordine mondiale» organizza il flusso di forza lavoro, specializzata e no, fin dove ne ha bisogno. Ben lontani dal subire la «libera concorrenza» tanto vantata dal neoliberismo, i mercati del lavoro sono sempre più condizionati dai flussi migratori. Quando si tratta di lavoratori specializzati, e anche se questa è una parte minore delle migrazioni mondiali, questo «travaso di cervelli» rappresenta molto in termini di potere economico e di conoscenze. Però, si tratti di forza lavoro qualificata o semplice manodopera, la politica migratoria del neoliberismo è più orientata a destabilizzareil mercato mondiale del lavoro che a frenare l'immigrazione.

La IV Guerra Mondiale, con il suo processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordinamento provoca lo spostamento di milioni di persone. Il loro destino sarà di continuare ad essere erranti, con il loro incubo sulle spalle, e dirappresentare, per i lavoratori impiegati nelle diverse nazioni una minaccia alla loro stabilità nel lavoro, un nemico utile a nascondere la figura del padrone, e un pretesto per dare senso all'insensatezza razzista che il neoliberismo promuove.

La figura 3 si costruisce disegnando un cerchio. È il simbolo dell’incubo errante della migrazione mondiale, è una giostra del terrore che gira per tutto il mondo.

Tessera 4:
Mondializzazione finanziaria e globalizzazione della corruzione e del crimine.

I mezzi di comunicazione di massa ci regalano un'immagine dei dirigenti della delinquenza mondiale: uomini e donne volgari, vestiti in modo stravagante, impegnati in mansioni ridicole o dietro le sbarre di un carcere. Ma questa immagine nasconde più di quanto non mostri: né i veri capi delle mafie moderne, né la loro organizzazione, né la loro influenza reale sull'economia e la politica sono messi in mostra. Se voi pensate che mondo della delinquenza sia sinonimo di oltretomba e oscurità, vi sbagliate. Durante la cosiddetta «Guerra Fredda», il crimine organizzato è andato acquisendo una immagine più rispettabile e non solo ha cominciato a funzionare come qualunque impresa moderna, ma è anche profondamente penetrato nei sistemi politici e economici degli Stati Nazionali. Con l'inizio della IV Guerra Mondiale, lo stabilirsi del «nuovo ordine mondiale» e la conseguente apertura dei mercati, privatizzazioni, deregolazione del commercio e della finanza internazionale, il crimine organizzato ha «globalizzato» le sue attività.
«Secondo l'Onu il reddito mondiale annuale delle organizzazioni criminali transnazionali [Oct] si aggirano attorno al milione di milioni di dollari, un ammontare equivalente al Pil di tutti i paesi a reddito debole [secondo la classificazione della Banca mondiale] e dei loro tre miliardi di abitanti. Questa stima tiene conto tanto del traffico di droghe, che delle vendite di armi, del contrabbando di materiale nucleare, ecc., oltre che i guadagni delle «imprese» controllate dalle mafie [prostituzione, gioco, mercato nero del denaro...]. In cambio, non diminuisce il volume degli investimenti continuamente fatti dalle organizzazioni criminali nella sfera del controllo degli affari legittimi, né tanto meno il dominio che esse esercitano sui mezzi di produzione in numerosi settori dell'economia legale» [Michel Chossudovsky, «La corruption mondialisée», in «Géopolitique du Chaos», op. cit.].

Le organizzazioni criminali dei cinque continenti hanno fatto loro lo «spirito di cooperazione mondiale» e, associate, partecipano alla conquista e al riordino dei nuovi mercati. Non solo in attività criminali, bensì anche negli affari legali. Il crimine organizzato investe in affari legittimi non solo per «riciclare» il denaro sporco, ma anche per costruire nuovi capitali per le sue attività illegali. Le imprese preferite per questo scopo sono quelle immobiliari di lusso, l'industria dell'ozio, i mezzi di comunicazione, l'industria, l'agricoltura, i servizi pubblici e... la banca! Alì Babà e i quaranta banchieri? No, qualcosa di peggio. Il denaro sporco del crimine organizzato è utilizzato dalle banche commerciali per le loro attività: prestiti, investimenti nei mercati finanziari, acquisto di titoli del debito estero, compravendita di oro e valuta. «In molti paesi, le organizzazioni criminali si sono convertite in creditori dello Stato ed esercitano, agendo nei mercati, un'influenza sulla politica macro-economica dei governi. Nelle borse dei valori, esse investono anche nei mercati speculativi di prodotti derivati e di materie prime» [M. Chossudovsky, op. cit.]. E, secondo un rapporto delle Nazioni unite, «lo sviluppo dei sindacati del crimine è stato facilitato dai programmi di aggiustamento strutturale che i paesi indebitati hanno dovuto accettare per avere accesso ai prestiti del Fondo monetario internazionale» [«La globalizzazione del crimine», Nazioni unite].
Il crimine organizzato conta anche sui cosiddetti paradisi fiscali. In tutto il mondo ci sono, più o meno, 55 paradisi fiscali [uno di essi, nelle Isole Cayman, è al quinto posto nel mondo come centro bancario e ha più banche e società registrate che abitanti]. Le Bahamas, le Isole Vergini britanniche, le Bermude, San Martín, Vanuatu, le Isole Cook, le isole Mauritius, il Lussemburgo, la Svizzera, le Isole anglo-normanne, Dublino, Montecarlo, Gibilterra, Malta, sono buoni posti perché il crimine organizzato entri in rapporto con le grandi imprese finanziarie del mondo. Oltre a «riciclare» il denaro sporco, i paradisi fiscali sono usati per evadere le tasse, ed è per questo che sono un punto di contatto tra governanti, manager e capi del crimine organizzato. L'alta tecnologia, applicata alla finanza, permette la circolazione rapida del denaro e la sparizione dei guadagni illegali. «Gli affari legali e illegali sono sempre più mescolati, introducono un cambiamento fondamentale nelle strutture del capitalismo del dopoguerra. Le mafie investono in affari legali e, all'inverso, incanalano risorse finanziarie verso l'economia criminale, grazie al controllo di banche o imprese commerciali implicate con il riciclaggio del denaro sporco o che hanno relazioni con le organizzazioni criminali. Le banche pretendono che le transazioni sono effettuate in buona fede e che i loro dirigenti ignorano l'origine dei fondi depositati. La consegna è non chiedere nulla, è il segreto bancario e l'anonimato nelle transazioni, tutto è garantito dagli interessi del crimine organizzato, che proteggono l'istituzione bancaria dalle investigazioni pubbliche e dalle incriminazioni. Non solamente le grandi banche accettano di riciclare denaro, puntando alle abbondanti commissioni, ma concedono anche prestiti a tassi elevati alle mafie, sottraendoli agli investimenti produttivi industriali o agricoli» [M. Chossudovsky, op. cit.].

La crisi del debito mondiale, negli anni ottanta, provocò il crollo dei prezzi delle materie prime. Questo ridusse drasticamente il reddito dei paesi sottosviluppati. Le misure economiche dettate dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, presuntamente per «recuperare» l'economia di questi paesi, ha solo reso più acuta la crisi degli affari locali. Di conseguenza, l'economia illegale si è sviluppata per riempire il vuoto creato dalla caduta dei mercati nazionali.

La figura 4 si costruisce disegnando un rettangolo: è lo specchio in cui la legalità e illegalità si riflettono e si scambiano. Da quale lato è il criminale, e da quale chi lo persegue? 

Tessera 5
La legittima violenza di un potere illegittimo?

Lo Stato, nel neoliberismo, tende a ridursi al «minimo indispensabile». Il cosiddetto «Stato sociale» non solo diventa obsoleto, ma si ritira da tutto ciò che ne costituiva l'essenza, e resta nudo. Nel cabaret della globalizzazione, abbiamo lo show dello Stato, che si spoglia di tutto fino a restare coperto dall'indumento minimo indispensabile: la forza repressiva. Distrutta la loro base materiale, annullate le loro possibilità di sovranità e indipendenza, svanite le loro classi politiche, gli Stati Nazionali si convertono, in modo più o meno rapido, in un mero apparato di «sicurezza» delle megaimprese che il neoliberismo va erigendo con lo svilupparsi della IV Guerra Mondiale. Invece di orientare gli investimenti pubblici sulla spesa sociale, gli Stati Nazionali preferiscono migliorare il loro equipaggiamento, armamento e preparazione per svolgere con efficacia il lavoro che la politica ha smesso da anni di assumersi: controllare la società.
I «professionisti della violenza legittima», così chiamano se stessi gli apparati repressivi degli Stati moderni. Però, cosa dire della violenza che è già insita nelle leggi del mercato? Dov'è la violenza legittima e dove la illegittima? Che monopolio della violenza possono pretendere i malconci Stati Nazionali, se il libero gioco dell'offerta e della domanda sfida questo monopolio? Non ha mostrato la Tessera 4 che il crimine organizzato, i governi e i centri finanziari sono ben più che in buoni rapporti? Non è palpabile che il crimine organizzato conta su veri eserciti senza più frontiera che non sia la potenza di fuoco dell'avversario? Di conseguenza, il «monopolio della violenza» non appartiene agli Stati Nazionali. Il mercato moderno lo ha messo in vendita...

Cade a proposito, questo, perché, sotto la polemica tra violenza legittima e illegittima, c'è anche quella [falsa, penso] tra violenza «razionale» e violenza «irrazionale». Un certo settore dell'intellettualità mondiale [insisto sul fatto che il problema del che fare di questa intellettualità è più complesso del semplice essere «di destra o di sinistra», «filogovernativo o di opposizione», «eccetera buono o eccetera cattivo»] pretende che la violenza la si possa esercitare in modo «razionale», amministrarla in forma selettiva, e applicarla con abilità «chirurgica» contro i mali della società. Una simile idea ha ispirato la passata generazione di armamenti nordamericani: armi «chirurgiche», esatte, e operazioni come bisturi del «nuovo ordine mondiale». Così sono nate le «smart bombs» [che, come mi ha raccontato un giornalista che seguì «Desert Storm», non sono così intelligenti e faticano a distinguere tra un ospedale e un deposito di missili e, nel dubbio, non si astengono, distruggono]. Infine, il Golfo Persico, come dicevano i compagni delle comunità zapatiste, è molto più in là della capitale statale del Chiapas [benché la situazione dei kurdi mandi segnali tali da far rizzare i capelli agli indigeni di un paese che si vanta di essere «democratico» e «libero»], perciò non insisteremo con «quella» guerra, visto che abbiamo la «nostra».
Bene, la contesa tra violenza «razionale» e «irrazionale» apre una via di discussione interessante e, purtroppo, non inutile, nei tempi che corrono. Possiamo prendere ad esempio ciò che si intende per «razionale». Se si risponde che è la «ragione di Stato» [supponendo che quest'ultimo esista e, soprattutto, che si possa riconoscere una qualunque ragione all'attuale Stato neoliberista], allora bisogna domandarsi se questa «ragione di Stato» corrisponda alla «ragione della società» [sempre supponendo che la società attuale contenga alcunchè di razionale] e, più ancora, se la violenza «razionale» dello Stato sia «razionale» anche per la società. Qui non c'è molto da discutere [in ogni caso non oziosamente]: la «ragione di Stato» nella modernità non è altro che la «ragione dei mercati finanziari».

Ma come amministra la sua «violenza razionale» lo Stato moderno? E, attenzione alla storia, quanto tempo dura, questa «razionalità»? Il tempo che intercorre tra una elezione e l'altra, o un colpo di Stato e l'altro? Quante violenze di Stato, che sono state applaudite come «razionali» al loro tempo, sono ora «irrazionali»? Lady Margaret Thatcher, di «buona» memoria per il popolo britannico, si è presa il disturbo di prolungare il libro «The Next War» [ «La prossima guerra», ndt.], di Caspar Weinberger e Peter Schweizer [Regnery Publishing Inc., Washington D.C., 1996]. In questo testo la signora Thatcher avanza alcune riflessioni sulle tre simiglianze tra il mondo della Guerra Fredda e quello del Post-Guerra Fredda: la prima è che al «mondo libero» non mancheranno mai gli aggressori potenziali. La seconda è la necessità di una superiorità militare degli «Stati democratici» di fronte ai possibili aggressori. La terza simiglianza è che tale superiorità militare deve essere, soprattutto, tecnologica. Per concludere il suo intervento, la cosiddetta «lady di ferro» definisce la «razionalità violenta» degli Stati moderni, segnalando questo fatto: «Una guerra può scoppiare in molti differenti modi. Ma il peggiore, usualmente, è quando un potere crede di poter raggiungere i suoi obiettivi senza una guerra o almeno con una guerra limitata che sia possibile vincere rapidamente e, di conseguenza, sbaglia i calcoli». Secondo i signori Weinberger e Schweizer gli scenari della guerra futura sono: Corea del Nord e Cina [6 aprile del 1998], Iran [4 aprile del 1999], Messico [7 marzo del 2003], Russia [7 febbraio del 2006], Giappone [19 agosto del 2007]. Nessun dubbio su quali potrebbero essere i possibili aggressori: asiatici, arabi, latini ed europei. La quasi totalità del mondo è considerata «possibile aggressore» della «democrazia» moderna! È logico [per lo meno nella logica liberista]: nella modernità, il potere [cioè il potere finanziario] sa che può conseguire i suoi obiettivi solo con una guerra, e non «una guerra limitata che sia possibile vincere rapidamente», ma con una guerra totalmente totale, mondiale in tutti i sensi. E se crediamo alla nuova segretaria di stato Usa, Madeleine Albright, quando dice: «Uno degli obiettivi prioritari del nostro governo è di garantire che gli interessi economici degli Stati uniti si possano estendere a scala planetaria»[The Wall Street Journal, 21 gennaio 1997], allora dobbiamo capire che tutto il mondo [e intendo dire tutto tutto] è il teatro di operazioni di questa guerra. Bisogna intendere, allora, che se la disputa per il «monopolio della violenza» non procede in armonia con le leggi del mercato, ma accade che questo monopolio venga sfidato dal basso, il potere mondiale «scopre» in questa minaccia un «possibile aggressore». Questa è una delle sfide [tra le meno studiate e più «condannate», tra le molte] lanciate dall'insurrezione degli indigeni in armi dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale [Ezln] contro il neoliberismo e per l'umanità…

La figura 5 si costruisce disegando un pentagono. È il simbolo del Potere militare nordamericano. La nuova «polizia mondiale» pretende che gli eserciti e le polizie «nazionali» siano solo «corpi di sicurezza» che garantiscono «ordine e progresso» nelle megalopoli neoliberiste.

Tessera 6
La Megapolitica e i nani

Abbiamo detto che gli Stati Nazionali sono sotto l'attacco dei centri finanziari e sono «obbligati» a dissolversi nelle megalopoli. Ma il neoliberismo non conduce la sua guerra soltanto «unendo» nazioni e regioni. La sua strategia di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino produce una o più fratture negli Stati Nazionali. È il paradosso della IV Guerra Mondiale: mossa per eliminare frontiere e «unire» nazioni, quel che lascia dietro di sé è una moltiplicazione delle frontiere e una polverizzazione delle nazioni che finiscono sotto i suoi artigli. Ben oltre i pretesti, le ideologie e bandiere, la dinamica attuale mondiale di frantumazione degli Stati Nazionali corrisponde a una politica ugualmente mondiale, che sa di poter esercitare meglio il suo potere, e creare le condizioni migliori per la sua propria riproduzione, sulle rovine degli Stati Nazionali.
Se qualcuno avesse dubbi su questo carattere di guerra mondiale del processo di globalizzazione, dovrebbe scacciarli facendo il conto dei conflitti che hanno provocato o sono stati provocati dai collassi di alcuni Stati Nazionali. Cecoslovacchia, Jugoslavia, Urss, sono vetrine della profondità di queste crisi, che hanno fatto a pezzi non solo le fondamenta politiche ed economiche degli Stati Nazionali, ma anche le strutture sociali. Slovenia, Croazia e Bosnia, più la presente guerra nella Federazione russa con la Cecenia come sfondo, non segnano solo il destino della tragica caduta del campo socialista nelle fatidiche braccia del «mondo libero»; in tutto il mondo, questo processo di frammentazione nazionale si ripete a scala e intensità variabili. Ci sono tendenze separatiste in Spagna [il Paese Basco, la Catalogna e la Galizia], in Italia [il Veneto], in Belgio [le Fiandre], in Francia [la Corsica] nel Regno Unito [la Scozia e il Galles], e in Canada [Québec]. E ci sono molti altri esempi nel resto del mondo.

Già abbiamo fatto riferimento al processo di costruzione delle megalopoli, ora parliamo della frammentazione dei paesi. Ambedue questi fenomeni nascono dalla distruzione degli Stati Nazionali. Si tratta di due processi paralleli, indipendenti? Due facce del processo di globalizzazione? Sintomi di una megacrisi che sta per scoppiare? Puri fatti isolati? Pensiamo che si tratti di una contraddizione inerente al processo di globalizzazione, uno dei fatti essenziali del modello neoliberista. L’eliminazione delle frontiere commerciali, l'universalità delle telecomunicazioni, le superautostrade elettroniche, l'onnipresenza dei centri finanziari, gli accordi internazionali di unità economica, insomma l'insieme del processo di globalizzazione produce, liquidando gli Stati Nazionali, una polverizzazione dei mercati interni. Che non spariscono né si sciolgono nei mercati internazionali, piuttosto consolidano la loro frammentazione e si moltiplicano. Suonerà contraddittorio, ma la globalizzazione produce un mondo frammentato, pieno di pezzi staccati tra loro [e spesso contrapposti]. Un mondo pieno di compartimenti stagni, messi in comunicazione solo da fragili ponti economici [in ogni caso costanti tanto quanto quelle banderuole che sono i mercati finanziari]. Un mondo di specchi rotti che riflettono la inutile unità mondiale del rompicapo neoliberista.
Ma il neoliberismo non solo frantuma il mondo che suppone di unire: produce anche il centro politico-economico che dirige questa guerra. E se, come abbiamo già segnalato, i centri finanziari impongono la loro legge [quella del mercato] a nazioni e a gruppi di nazioni, allora dobbiamo ridefinire i limiti.e gli scopi della politica, ovvero del che fare politico. Conviene allora parlare della megapolitica. E quando diciamo «megapolitica» non alludiamo al numero di quelli che in essa agiscono. Sono pochi, molto pochi, quelli che si trovano in questa «megasfera». La megapolitica globalizza le politiche nazionali, cioè le assoggetta a un comando che ha interessi mondiali [che per solito sono in contraddizione con gli interessi nazionali] e la cui logica è quella del mercato, vale a dire quella del profitto economico. È con questo criterio economicista [e criminale] che si decide su guerre, crediti, compravendita di merci, riconoscimenti diplomatici, blocchi commerciali, appoggi politici, leggi sulle migrazioni, colpi di Stato, repressioni, elezioni, unità politiche internazionali, rotture politiche internazionali, investimenti, in altre parole sulla sopravvivenza di nazioni intere.

Il potere mondiale dei centri finanziari è tanto grande, che può prescindere dal segno politico di chi detiene il potere in una nazione, se questi garantisce che il programma economico [cioè la parte che corrisponde al megaprogramma economico mondiale] non venga alterato. Le discipline finanziarie si impongono ai diversi colori dello spettro politico mondiale. Il grande potere mondiale può tollerare un governo di sinistra in una qualche parte del mondo, sempre che, e quando, questo governo non prenda decisioni che contraddicono le disposizioni dei centri finanziari mondiali. Ma in nessuna maniera tollererà che una alternativa di organizzazioneeconomica, politica e sociale si consolidi. Dal punto di vista della megapolitica le politiche nazionali sono cose per nani che devono piegarsi ai diktat del gigante finanziario. E così sarà, finchè‚ i nani non si ribelleranno...

La figura 6 si costruisce disegnando uno scarabocchio. Quetsa figura rappresenta la «megapolitica». Si comprende bene che è inutile cercare di trovarvi una razionalità e che, sbrogliado la matassa, nulla sarà chiaro. 

Tessera 7
Le sacche di resistenza

Per cominciare, ti supplico di non confondere la Resistenza con l'opposizione politica. L'opposizione non si oppone al potere ma a un governo, e la sua forma riuscita e compiuta è quella di un partito di opposizione; mentre la Resistenza, per definizione [ora sì!], non può essere un partito, non è fatta per governare a sua volta, ma per... resistere». Tomas Segovia. «Alegatorio». México, 1996.
L'apparente infallibilità della globalizzazione si scontra con la caparbia disobbedienza della realtà. Nello stesso momento in cui il neoliberismo conduce la sua guerra mondiale, in tutto il pianeta si vanno formando gruppi di non conformisti, nuclei di ribelli. L'impero delle borse finanziarie si trova di fronte la ribellione di sacche di resistenza. Sì, sacche. Di ogni grandezza, di differenti colori, delle forme più differenti. Ciò che le rende simili è la resistenza al «nuovo ordine mondiale» e al crimine contro l'umanità che la guerra neoliberista commette. Nel cercare di imporre il suo modello economico, sociale e culturale, il neoliberismo pretende di soggiogare milioni di esseri umani, e di disfarsi di tutti quelli che non trovano posto nella nuova organizzazione del mondo. Però accade che questi «prescindibili» si ribellino e resistano contro il potere che vuole eliminarli. Donne, bambini, anziani, giovani, indigeni, ecologisti, omosessuali, lesbiche, sieropositivi, lavoratori e tutti quelli che non solo «esuberano», ma che per di più «disturbano» l'ordine e il progresso mondiale, si ribellano, si organizzano e lottano. Sapendosi uguali e differenti, gli esclusi della «modernità» cominciano a tessere le resistenze contro il processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordino che avanza come una guerra mondiale, il neoliberismo. In Messico, per fare un esempio, il cosiddetto «Programma di sviluppo dell'istmo di Tehuantepec» pretende di costruire un moderno centro internazionale di distribuzione e interconnessione di merci. La zona di sviluppo comprende un complesso industriale nel quale si raffina un terzo del greggio messicano e si produce l'88 per cento dei prodotti petrolchimici. Le vie di transito interoceaniche [si tratta dell'Istmo più stretto tra Atlantico e Pacifico, nel sud del Messico, ndt.] consisteranno in strade, in una via fluviale costruita approfittando delle caratteristiche naturali della zona [Rio Coatzacoalcos] e, come asse di articolazione, la linea ferroviaria transistmica [da realizzarsi da parte di cinque imprese, di cui quattro Usa e una canadese]. Il progetto sarebbe creare una zona di assemblaggio assoggettata al regime delle maquiladoras [le fabbriche che, soprattutto nel nord del Messico, assemblano in prodotti finiti i pezzi costruiti altrove, negli Usa, in Giappone o in Europa, ndt.]. Due milioni di persone delle comunità locali diventerebbero magazzinieri, trasportatori o operai delle maquiladoras [Ana Esther Cecena. «El Istmo de Tehuantepec: frontiera della sovranità nazionale». «La Jornada del Campo», 28 maggio 1997]. Anche nel sudest messicano, nella Selva Lacandona, si sta per varare il «Programma di sviluppo regionale sostenibile per la Selva Lacandona». Il suo obiettivo reale è mettere a disposizione del capitale le terre indigene che, oltre che ricche di dignità e storia, lo sono anche di petrolio e uranio.

Il risultato prevedibile di questi progetti sarà, tra gli altri, la frammentazione del Messico [separando il sudest dal resto del paese]. Di più, e visto che di guerra stiamo parlando, i progetti hanno implicazioni controinsurrezionali. Formano parte di una tenaglia per liquidare la ribellione antineoliberista che è esplosa nel 1994. In mezzo ci sono gli indigeni ribelli dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale [Ezln].
[E in tema di indigeni ribelli conviene aprire una parentesi: gli zapatisti pensano che, in Messico - attenzione: in Messico - il recupero e la difesa della sovranità nazionale sia parte di una rivoluzione antineoliberista. Paradossalmente, l'Ezln viene accusato di volere la frammentazione della nazione messicana. La realtà è che i soli che hanno parlato di separatismo sono gli imprenditori dello stato di Tabasco ricco di petrolio e i deputati federali chiapanechi che appartengono al Pri [Partido revolucionario institucional, rimasto al potere per oltre settant'anni, fino al luglio del 2000, quando vinse l'attuale presidente Fox, ndt.]. Gli zapatisti pensano che sia necessaria la difesa dello Stato Nazionale, di fronte alla globalizzazione, e che l'intenzione di tagliare il Messico a fette venga dal gruppo al governo e non dalle giuste richieste di autonomia dei popoli indigeni. L'EzIn, e il meglio del movimento indigeno nazionale, non vogliono che i popoli indigeni si separino dal Messico, vogliono essere riconosciuti come parte del paese, con le loro specificità. E non solo: vogliono un Messico in cui vi siano democrazia, libertà e giustizia. I paradossi continuano, perché, mentre 1'Ezln si batte per la difesa della sovranità nazionale, l'esercito federale messicano lotta contro questa difesa e difende un governo che ha già distrutto le basi materiali della sovranità nazionale e ha consegnato il paese non solo al grande capitale straniero, ma anche al narcotraffico].

Ma non soltanto sulle montagne del sudest messicano si resiste e si lotta contro il neoliberismo. In altre parti del Messico, in America latina, negli Stati uniti e nel Canada, nell'Europa del Trattato di Maastricht, in Africa, in Asia e in Oceania le sacche di resistenza si moltiplicano. Ciascuna esse ha la sua propria storia, le sue differenze, le sue uguaglianze, le sue richieste, le sue lotte, le sue conquiste. Se l'umanità ha ancora speranza di sopravvivere, di diventare migliore, queste speranze sono nelle sacche formate dagli esclusi, da quelli in sovrannumero, da quelli che si possono gettar via.

La figura 7 si costruisce disegnando una borsa. Però non bisogna farci molto caso.Ci sono tanti modelli di resistenza quanti sono i mondi del mondo. Così si può disegnare la borsa come piace di più. E nel disegnare borse, come nella resistenza, la diversità è ricchezza. 

Ci sono, senza dubbi, molte più tessere del rompicapo neoliberista. Per esempio i mezzi di comunicazione, la cultura, l'inquinamento, le epidemie. Qui abbiamo voluto mostrarvene sette. Queste sette perché voi, dopo averle disegnate, ritagliate e colorate, vi rendiate conto di quanto è impossibile metterle insieme. E questo è il problema che la globalizzazione ha preteso di risolvere: le tessere non si incastrano. Per questo, e per altre ragioni che oltrepassano lo spazio di questo testo, è necessario fare un mondo nuovo. Un mondo che contenga molti mondi, che contenga tutti i mondi...

Dalle montagne del sudest messicano

Esercito zapatista di liberazione nazionale
Messico, giugno 1997

 

Post scriptum che racconta sogni annidati nell'amore. Riposa la Mar al mio fianco. Essa condivide da tempo le angosce, le incertezze e non pochi sogni, ma ora dorme con me la calda notte della Selva. Io guardo il suo frumento fremente nel sogno e mi meraviglio di vederlo com'è: tiepido, fresco al mio fianco. L'asfissia mi tira fuori dal letto e prende la mia mano, e la penna, per portare qui il Vecchio Antonio, come anni fa...
Ho chiesto al Vecchio Antonio che mi accompagnasse a fare un'esplorazione al fiume, in basso. Abbiamo portato con noi poco da mangiare. Per ore abbiamo seguito il corso capriccioso della corrente e la fame e il caldo ci hanno assediato. Abbiamo passato il pomeriggio a inseguire un branco di cinghiali. Quasi annottava quando gli siamo stati addosso, ma un enorme «censo» [maiale di montagna, ndt.] si stacca dal gruppo e ci attacca. Io cerco di rispolverare tutte le mie conoscenze militari, tiro fuori la mia arma e mi accosto all'albero più vicino. Il Vecchio Antonio resta inerte di fronte all'attacco, invece di fuggire si mette dietro un cespuglio di liane. Il gigantesco cinghiale attacca di fronte con tutta la forza, ma resta impigliato tra le liane e le spine. E, prima che possa liberarsi, il Vecchio Antonio alza la sua vecchia carabina e, con un colpo alla testa, risolve il problema della cena. All'alba, quando ho finito di pulire il mio moderno fucile automatico [un M16 calibro 5,56 millimetri, con selettore di fuoco e

portata effettiva di 460 metri, con in più il mirino telescopicc e un caricatore da 90 colpi] scrivo il mio diario e, omettendo tutto quel che è successo, annoto solo: «Incontrato cinghiali e A. ha ucciso un esemplare. Altura 350 m. slm. Non ha piovuto».

Mentre aspettiamo che la carne cuocia, racconto al Vecchio Antonio che la mia parte servirà per la feste che si preparano all'accampamento. «Feste?», mi chiede mentre attizza il fuoco. «Sì- dico - Non importa il mese, c'è sempre qualcosa da festeggiare». Dopo di che continuo con quella che supponevo fosse una brillante dissertazione sul calendario storico e le celebrazioni zapatiste. Il Vecchio Antonio ascolta in silenzio e infine, supponendo che il tema non gli interessasse, mi accomodo per dormire. Tra i sogni vedo il Vecchio Antonio prendere il mio quaderno e scrivere qualcosa. La mattina dividiamo la carne, dopo la colazione, e ciascuno prende la sua strada. Arrivo all'accampamento, faccio rapporto al comando e mostro il diario per far vedere quello che è successo. «Questa non è la tua grafia», mi dicono mostrandomi un foglio del quaderno. Ahi, sotto quel che io avevo annotato, il Vecchio Antonio aveva scritto, in grandi lettere: «Se non puoi avere la ragione e la forza, scegli sempre la ragione e lascia che il nemico si tenga la forza. La forza può vincere in molti combattimenti, ma in tutta la lotta solo la ragione può prevalere. Il potente non potrà mai cavare la ragione dalla sua forza, noi sempre potremo ottenere la forza dalla ragione». E più in basso, in lettere molto piccole: «Felici feste».
Nemmeno a dirlo, non avevo più fame.
Le feste, come sempre, riuscirono molto allegre.