La
IV
guerra
mondiale
è
cominciata
del
subcomandante
Marcos
da CARTA.ORG (scusate il colore bianco di sfondo...)
Il
testo
del
subcomandante
Marcos
che
pubblichiamo
in
queste
pagine
risale
al
giugno
del
1997.
Uscì,
per
la
prima
volta,
nell’edizione
messicana
di
Le
Monde
diplomatique
e
sotto
forma
di
opuscolo,
edito
dal
Frente
zapatista
de
liberación
nacional.
Due
mesi
dopo,
in
agosto,
l’edizione
francese
di
Le
Monde
diplomatique
ne
pubblicò
un
versione
ridotta,
con
il
titolo
«La
quarta
guerra
mondiale
è
cominciata»,
ed
è
sotto
questo
stesso
titolo
che,
in
ottobre
di
quello
stesso
anno,
il
manifesto
diffuse,
come
omaggio
ai
suoi
lettori,
un
opuscolo
contenente
il
saggio
di
Marcos,
interventi
di
Gianfranco
Bettin
e
Marco
Revelli
e
una
introduzione
del
curatore
della
pubblicazione
e
traduttore
del
testo,
Pierluigi
Sullo,
oggi
redattore
di
Carta.
Di
quell’opuscolo
il
manifesto
diffuse,
allora,
quasi
40
mila
copie.
Eppure,
in
questi
giorni,
alcuni
lettori
del
settimanale
ci
hanno
chiesto
dove
il
testo
di
Marcos
fosse
reperibile.
E’
anche
probabile
che
la
gran
parte
dei
più
giovani
non
abbiano
mai
letto
questo
saggio.
Noi,
perciò,
abbiamo
deciso
di
offrirlo
di
nuovo,
e
in
versione
integrale.
Perché
risale
sì
al
1997,
due
anni
prima
di
Seattle
e
quattro
prima
di
Porto
Alegre
e
Genova,
ma
contiene
una
lettura
della
situazione
del
mondo
che,
oltre
ad
essere
la
più
completa
mai
scritta
dal
portavoce
dell’Esercito
zapatista,
può
molto
aiutare
a
comprendere
lo
scenario
nel
quale
si
inizia
la
«guerra
infinita».
«La
quarta
guerra
mondiale
è
cominciata»
è,
secondo
noi,
uno
dei
testi
fondamentali
del
movimento
globale
per
«un
altro
mondo
possibile»
che
è
andato
fermentando
nell’ultimo
decennio,
e
che
ora
ha
il
bisogno
urgente
di
capire
come
smontare
la
macchina
di
guerra
che
si
è
messa
in
moto.
Buona
lettura.
Sette
tessere
ribelli
del
rompicapo
mondiale
[Il
neoliberismo
come
rompicapo:
l'inutile
unità
mondiale
che
frammenta
e
distrugge
nazioni]
Tessera
1:
La
concentrazione
della
ricchezza
e
la
distribuzione
della
povertà
Tessera
2:
La
globalizzazione
dello
sfruttamento
Tessera
3:
Migrazioni,
l'incubo
errante
Tessera
4:
Mondializzazione
finanziaria
e
globalizzazione
della
corruzione
e
del
crimine
Tessera
5:
La
legittima
violenza
di
un
potere
illegittimo?
Tessera
6:
La
Megapolitica
e
i
nani
Tessera
7:
Le
sacche
della
resistenza
La
guerra
è
una
questione
fondamentale
per
lo
Stato,
è
la
provincia
della
vita
e
della
morte,
la
via
che
conduce
alla
sopravvivenza
o
all'annichilimento.
È
indispensabile
studiarla
a
fondo.
«Arte della guerra». Sun Tzu
La
globalizzazione
moderna,
il
neoliberismo
come
sistema
mondiale,
deve
essere
intesa
come
una
nuova
guerra
di
conquista
di
territori.
La fine della III Guerra Mondiale, o «Guerra Fredda», non significa che il mondo abbia superato il bipolarismo o che sia stabile sotto l'egemonia del vincitore. Al termine di questa guerra si è avuto, senza alcun dubbio, un vinto [il campo socialista], ma è difficile dire chi sia il vincitore. L'Europa occidentale? Gli Stati uniti? Il Giappone? Tutti questi? Il fatto è che il crollo dell'«impero del male» [Reagan e Thatcher dixerunt] ha comportato l'apertura di nuovi mercati senza padrone. Era necessario, pertanto, lottare per prenderne possesso, conquistarli.
Non
solo:
la
fine
della
«Guerra
Fredda»
ha
trascinato
con
sé
una
nuova
cornice
nelle
relazioni
internazionali,
nella
quale
la
lotta
nuova
per
questi
nuovi
mercati
e
territori
ha
prodotto
una
nuova
guerra
mondiale,
la
IV.
Questo
ha
reso
necessaria,
come
in
tutte
le
guerre,
una
ridefinizione
degli
Stati
Nazionali.
Ancora,
oltre
alla
redifinizione
degli
Stati
Nazionali,
l'ordine
mondiale
è
tornato
alle
vecchie
epoche
delle
conquiste
di
America,
Africa
e
Oceania.
Strana
modernità,
questa
che
avanza
all'indietro,
il
crepuscolo
del
XX
secolo
assomiglia
di
più
ai
brutali
secoli
precedenti
che
al
placido
e
razionale
futuro
di
qualche
romanzo
di
fantascienza.
Nel
mondo
del
Dopoguerra
Freddo
vasti
territori,
ricchezze
e,
soprattutto,
forza
lavoro
qualificata,
aspettavano
un
nuovo
padrone...
Ma
uno
solo
è
il
posto
di
padrone
del
mondo,
e
diversi
sono
gli
aspiranti
a
diventarlo.
E
per
ottenerlo
si
dispiega
altra
guerra,
questa
volta
tra
coloro
che
si
erano
autonominati
«impero
del
bene».
Se
la
Terza
Guerra
Mondiale
è
stata
tra
il
capitalismo
e
il
socialismo
[capeggiati
dagli
Usa
e
dall'Urss,
rispettivamente],
con
scenari
alterni
e
differenti
gradi
di
intensità,
la
IV
Guerra
Mondiale
si
fa
ora
tra
i
grandi
centri
finanziari,
con
scenari
totali
e
con
una
intensità
acuta
e
costante.
Dalla
fine
della
II
Guerra
Mondiale
fino
al
1992
si
sono
svolte
149
guerre
in
tutto
il
mondo.
Il
risultato
sono
stati
23
milioni
di
morti,
perché
non
vi
siano
dubbi
sull'intensità
di
questa
III
Guerra
Mondiale
[i
dati
sono
dell'Unicef].
Dalle
catacombe
dello
spionaggio
internazionale
fino
allo
spazio
siderale
della
cosiddetta
Iniziativa
di
Difesa
Strategica
[le
«guerre
stellari»
del
cowboy
Ronald
Reagan];
dalle
spiagge
di
Playa
Girón,
a
Cuba,
fino
al
Delta
del
Mekong,
in
Vietnam;
dalla
sfrenata
corsa
nucleare
fino
ai
selvaggi
colpi
di
stato
nella
dolorante
America
latina;
dalle
minacciose
manovre
degli
eserciti
Nato
fino
agli
agenti
della
Cia
nella
Bolivia
dell'assassinio
di
Che
Guevara;
la
guerra
impropriamente
chiamata
«Fredda»
ha
raggiunto
temperature
molto
alte,
che,
nonostante
il
continuo
cambio
di
scenario
e
all'incessante
su-e-giù
della
crisi
nucleare
[o
precisamente
a
causa
di
ciò],
hanno
finito
per
dissolvere
il
campo
socialista
come
sistema
mondiale,
e
lo
hanno
diluito
come
alternativa
sociale.
La
III
Guerra
Mondiale
ha
mostrato
le
virtù
della
«guerra
totale»
[ovunque
e
in
ogni
forma]
dal
punto
di
vista
del
trionfatore:
che
è
il
capitalismo.
Ma
lo
scenario
del
dopoguerra
ha
mostrato,
nei
fatti,
il
profilo
di
un
nuovo
teatro
di
operazioni
mondiali:
grandi
«terre
di
nessuno»
[create
dal
fallimento
politico,
economico
e
sociale
dell'Europa
dell'est
e
dell'Urss],
potenze
in
espansione
[Usa,
Europa
occidentale
e
Giappone],
crisi
economica
mondiale,
e
una
nuova
rivoluzione
tecnologica,
l'informatica.
«Allo
stesso
modo
in
cui
la
rivoluzione
industriale
aveva
permesso
di
rimpiazzare
il
muscolo
con
la
macchina,
la
attuale
rivoluzione
informatica
punta
al
rimpiazzo
del
cervello
[per
lo
meno
di
un
numero
crescente
delle
sue
funzioni]
con
il
computer.
Questa
'cerebralizzazione
generale'
dei
mezzi
di
produzione
[accade
lo
stesso
nell'industria
e
nei
servizi]
è
accelerata
dall'esplosione
di
nuove
ricerche
nelle
telecomunicazioni
e
dalla
proliferazione
dei
cybermondi»
[Ignacio
Ramonet,
«La
planètee
des
désordres»,
in
«Géopolitique
du
chaos»,
Manière
de
voir
3,
Le
Monde
diplomatique,
aprile
1997].
Il
re
supremo
del
capitale,
la
finanza,
ha
cominciato
allora
a
sviluppare
la
sua
strategia
bellica,
nel
nuovo
mondo,
e
su
ciò
che
restava
in
piedi
del
vecchio.
Attraverso
la
rivoluzione
tecnologica,
imposta
al
mondo
intero
per
mezzo
di
un
computer,
a
loro
arbìtrio,
i
mercati
finanziari
hanno
imposto
le
loro
leggi
e
i
loro
precetti
a
tutto
il
pianeta,
La
«mondializzazione»
della
nuova
guerra
non
è
altro
che
la
mondializzazione
delle
logiche
dei
mercati
finanziari.
Da
regolatori
dell'economia,
gli
Stati
Nazionali
[e
i
loro
governanti]
sono
passati
ad
essere
regolati,
meglio
telediretti,
dal
fondamento
del
potere
finanziario:
il
libero
scambio
commerciale.
Non
solo:
la
logica
del
mercato
ha
sfruttato
la
«porosità»
che,
in
tutto
lo
spettro
sociale
mondiale,
è
stata
provocata
dallo
sviluppo
delle
telecomunicazioni,
ed
è
penetrato,
si
è
appropriato
di
tutti
gli
aspetti
dell'attività
sociale.
Il
fine
è
una
guerra
mondiale
totalmente
totale!
Una
delle
prime
vittime
di
questa
nuova
guerra
è
il
mercato
nazionale.
Come
una
pallottola
sparata
dentro
una
stanza
blindata,
la
guerra
iniziata
dal
neoliberismo
rimbalza
da
un
lato
all'altro.
Una
delle
basi
fondamentali
del
potere
dello
Stato
capitalista
moderno,
il
mercato
nazionale,
è
liquidato
dal
cannoneggiamento
della
nuova
era
dell'economia
finanziaria
globale.
Il
capitalismo
internazionale
incassa
alcune
delle
sue
vittime
fiaccando
i
capitalismi
nazionali
e
smagrendo,
fino
all'inedia,
i
poteri
pubblici.
Il
colpo
è
stato
tanto
brutale
e
definitivo
che
gli
Stati
Nazionali
non
dispongono
della
forza
necessaria
per
opporsi
all'azione
dei
mercati
internazionali,
quando
questi
vanno
contro
gli
interessi
dei
cittadini
e
dei
governi.
La
sorvegliata
e
ordinata
vetrina
che
si
supponeva
essere
l'eredità
della
«Guerra
Fredda»,
il
«nuovo
ordine
mondiale»,
si
è
frantumato
sotto
l'urto
neoliberista.
Il
capitalismo
mondiale
sacrifica
senza
misericordia
alcuna
ciò
che
gli
ha
assicurato
futuro
e
progetto
storico:
il
capitalismo
nazionale.
Imprese
e
stati
capitombolano
in
pochi
minuti,
ma
non
nella
tormenta
delle
rivoluzioni
proletarie,
bensì
a
causa
degli
uragani
finanziari.
Il
figlio
[il
neoliberismo]
divora
il
padre
[il
capitalismo
nazionale],
e
di
passaggio
distrugge
tutte
le
promesse
dell'ideologia
capitalista:
nel
nuovo
ordine
mondiale
non
c'è
democrazia,
né
libertà,
né
eguaglianza,
né
fraternità.
Nello
scenario
mondiale
prodotto
dalla
fine
della
«Guerra
Fredda»
si
vede
solo
un
nuovo
campo
di
battaglia
e,
in
esso,
come
in
tutti
i
campi
di
battaglia,
regna
il
caos.
Negli
ultimi
tempi
della
«Guerra
Fredda»,
il
capitalismo
aveva
creato
un
nuovo
orrore
bellico:
la
bomba
a
neutroni.
La
«virtù»
di
quest'arma
è
che
distrugge
solo
la
vita
e
risparmia
gli
edifici
e
le
cose.
Già
si
potevano
distruggere
intere
città
[ovvero,
i
loro
abitanti]
senza
che
fosse
necessario
ricostruirle
[e
spendere
soldi
per
questo].
L'industria
degli
armamenti
si
era
felicitata
con
se
stessa,
l'«irrazionalità»
delle
bombe
nucleari
era
soppiantata
dalla
nuova
«razionalità»
della
bomba
a
neutroni.
Eppure,
una
nuova
«meraviglia»
bellica
sarebbe
stata
scoperta,
all'inizio
della
IV
Guerra
Mondiale:
la
bomba
finanziaria.
Perché
la
nuova
bomba
neoliberista,
a
differenza
delle
sue
antenate
di
Hiroshima
e
Nagasaki,
non
solo
distrugge
la
polis
[la
Nazione,
in
questo
caso]
e
impone
morte,
terrore
e
miseria
e
chi
la
abita;
e,
a
differenza
della
bomba
a
neutroni,
non
distrugge
solo
«selettivamente».
La
bomba
neoliberista,
in
più,
riorganizza
e
riordina
ciò
che
attacca
e
lo
ricostruisce
come
una
tessera
del
rompicapo
della
globalizzazione
economica.
Dopo
che
il
suo
effetto
di
distruzione
ha
agito,
il
risultato
non
è
un
mucchio
di
rovine
fumanti,
o
decine
di
migliaia
di
vite
spente,
ma
una
periferia
che
si
aggiunge
a
qualcuna
delle
megalopoli
commerciali
del
nuovo
ipermercato
mondiale,
e
una
forza
lavoro
risistemata
nel
nuovo
mercato
del
lavoro
mondiale.
L'Unione
europea,
una
delle
megalopoli
prodotte
dal
neoliberismo,
è
un
risultato
della
IV
Guerra
Mondiale
in
corso.
Qui,
la
globalizzazione
ha
ottenuto
di
cancellare
le
frontiere
tra
Stati
rivali,
nemici
tra
loro
da
molto
tempo,
e
li
ha
obbligati
a
convergere
e
a
progettare
l'unione
politica.
Dagli
Stati
Nazionali
alla
federazione
europea,
il
cammino
economicista
della
guerra
neoliberista
nel
cosiddetto
Vecchio
Continente
sarà
disseminato
di
distruzione
e
di
rovine,
e
una
di
esse
sarà
la
civilizzazione
europea.
Le
megalopoli
si
riproducono
in
tutto
il
pianeta.
Le
zone
commerciali
integrate
sono
il
terreno
su
cui
vengono
edificate.
Questo
accade
nell'America
del
Nord,
dove
il
Trattato
di
libero
commercio
dell'America
del
Nord
[Nafta,
la
sigla
in
inglese],
tra
Canada,
Stati
uniti
e
Messico,
non
è
altro
che
il
preludio
del
compimento
di
una
vecchia
aspirazione
di
conquista
statunitense:
«L'America
agli
americani».
In
America
del
Sud
si
segue
lo
stesso
cammino
con
il
Mercosur
tra
Argentina,
Brasile,
Paraguay
e
Uruguay.
In
Africa
del
Nord,
con
l'Unione
del
Maghreb
arabo
[Uma]
tra
Marocco,
Algeria,
Tunisia,
Libia
e
Mauritania;
in
Africa
del
Sud,
nel
Vicino
Oriente,
nel
Mar
Nero,
in
Asia,
nel
Pacifico...
in
tutto
il
pianeta
esplodono
le
bombe
finanziarie
e
riconquistano
territori.
Le
megalopoli
sostituiscono
le
nazioni?
No,
o
non
solo.
Le
includono,
anche,
e
riassegnano
loro
funzioni,
limiti
e
possibilità.
Paesi
interi
si
convertono
in
dipartimenti
della
megaimpresa
neoliberista.
Il
neoliberismo
produce
così
distruzione/spopolamento,
da
un
lato,
e
la
ricostruzione/riordinamento
dall'altro,
di
regioni
e
nazioni,
per
aprire
nuovi
mercati
o
modernizzare
quelli
esistenti.
Se
le
bombe
nucleari
avevano
un
carattere
dissuasivo,
intimidatorio
e
coercitivo,
nella
IV
deflagrazione
mondiale
non
accade
lo
stesso
con
le
iperbombe
finanziarie.
Queste
armi
servono
ad
attaccare
territori
[Stati
Nazionali]
distruggendo
le
basi
materiali
della
sovranità
nazionale
[ostacolo
etico,
giuridico,
politico,
culturale
e
storico
contro
la
globalizzazione
economica]
e
producendo
uno
spopolamento
qualitativo
dei
loro
territori.
Questo
spopolamento
consiste
nel
prescindere
da
tutti
quelli
che
sono
inutili
alla
nuova
economia
di
mercato
[per
esempio
gli
indios].
Però,
in
più,
i
centri
finanziari
operano,
simultaneamente,
una
ricostruzione
degli
Stati
Nazionali
e
li
riordinano
secondo
la
nuova
logica
del
mercato
mondiale
[e
i
modelli
economici
sviluppati
si
impongono
su
relazioni
sociali
deboli
o
inesistenti].
La
IV
Guerra
Mondiale
sul
terreno
rurale,
per
esempio,
produce
questo
effetto.
La
modernizzazione
rurale,
che
i
mercati
finanziari
esigono,
punta
a
incrementare
la
produttività
agricola,
però
quel
che
ottiene
è
distruggere
le
relazioni
sociali
ed
economiche
tradizionali.
Risultato:
esodo
massiccio
dai
campi
alle
città.
Sì,
come
in
una
guerra.
Intanto,
nelle
zone
urbane
si
satura
il
mercato
del
lavoro
e
la
distribuzione
diseguale
del
reddito
è
la
«giustizia»
che
spetta
a
coloro
che
cercano
migliori
condizioni
di
vita.
Di
esempi
che
illustrano
questa
strategia
è
pieno
il
mondo
indigeno:
Ian
Chambers,
direttore
dell'Ufficio
del
Centro
America
dell'Organizzazione
internazionale
del
lavoro
[dell'Onu],
ha
dichiarato
che
la
popolazione
indigena
mondiale,
calcolata
in
300
milioni
di
persone,
vive
in
zone
che
detengono
il
60
per
cento
delle
risorse
naturali
del
pianeta.
Così,
«non
sorprendono
i
conflitti
molteplici
per
l'utilizzo
e
il
destino
delle
loro
terre
attorno
agli
interessi
di
governi
e
imprese
[...]
Lo
sfruttamento
delle
risorse
naturali
[petrolio
e
minerali]
e
il
turismo
sono
le
principali
industrie
che
minacciano
i
territori
indigeni
in
America»
[Intervista
di
Martha
Garcia,
La
Jornada,
28
maggio
1997].
Dietro
i
principali
progetti
di
investimento
ci
sono
l'inquinamento,
la
prostituzione
e
le
droghe.
Vale
a
dire,
si
compiono
distruzione/spopolamento
e
ricostruzione/riordinamento
delle
zone
interessate.
In
questa
nuova
guerra
mondiale,
la
politica
moderna
come
organizzatrice
dello
Stato
Nazionale
non
esiste
più.
Ora
la
politica
è
solo
una
organizzatrice
economica
e
i
politici
sono
moderni
amministratori
di
impresa.
I
nuovi
padroni
del
mondo
non
sono
«governo»,
non
ne
hanno
bisogno.
I
governi
«nazionali»
si
incaricano
di
amministrare
gli
affari
nelle
differenti
regioni
del
mondo.
Questo
è
il
«nuovo
ordine
mondiale»,
l'unificazione
del
mondo
intero
in
un
solo
mercato.
Le
nazioni
sono
botteghe
di
dipartimenti
con
gestori
in
forma
di
governi,
e
le
nuove
alleanze
regionali,
economiche
e
politiche
si
avvicinano
più
a
un
moderno
«mall»
commerciale
che
a
una
federazione
politica.
L'«unificazione»
prodotta
dal
neoliberismo
è
economica,
è
l'unificazione
dei
mercati
che
facilita
la
circolazione
del
denaro
e
delle
merci.
Nel
gigantesco
ipermercato
mondiale
circolano
liberamente
le
merci,
non
le
persone.
Come
ogni
iniziativa
imprenditoriale
[e
di
guerra]
questa
globalizzazione
va
accompagnata
con
un
modello
generale
di
pensiero.
Eppure,
tra
tante
novità,
il
modello
ideologico
che
accompagna
il
neoliberismo
nella
sua
conquista
del
pianeta
ha
molto
di
vecchio
e
di
ammuffito.
L'«american
way
of
life»
che
accompagnò
le
truppe
nordamericane
in
Europa
nella
II
Guerra
Mondiale,
e
nel
Vietnam
degli
anni
sessanta,
e,
più
di
recente,
nella
Guerra
del
Golfo,
ora
va
mano
nel
mano
[o
meglio,
nei
computer]
dei
mercati
finanziari.
Non
si
tratta
solo
di
una
distruzione
delle
basi
materiali
degli
Stati
Nazionali,
ma
anche
[in
un
modo
tanto
imponente
quanto
poco
studiato]
di
una
distruzione
storica
e
culturale.
Il
degno
passato
indigeno
dei
paesi
del
continente
americano,
la
brillante
civilizzazione
europea,
e
la
poderosa
e
ricca
antichità
di
Africa
e
Oceania,
tutte
le
culture
e
le
storie
che
hanno
forgiato
nazioni
sono
attaccate
dal
modo
di
vita
nordamericano.
Il
neoliberismo
impone
così
una
guerra
totale:
la
distruzione
di
nazioni
e
gruppi
di
nazioni
per
omologarli
al
modello
capitalista
nordamericano.
Una
guerra
dunque,
una
guerra
mondiale,
la
IV.
La
peggiore
e
più
crudele,
quella
che
il
neoliberismo
conduce
ovunque
e
con
tutti
i
mezzi
contro
l'umanità.
Però
come
in
tutte
le
guerre
ci
sono
combattimenti,
ci
sono
vincitori
e
vinti,
ci
sono
pezzi
rotti
di
questa
realtà
distrutta.
Per
tentare
di
comporre
l'assurdo
rompicapo
del
mondo
neoliberista
mancano
molte
tessere.
Alcune
si
possono
trovare
tra
le
rovine
che
questa
guerra
mondiale
già
ha
lasciato
sulla
superficie
del
pianeta.
Ciononostante
sette
di
queste
tessere
si
possono
ricostruire,
e
incoraggiare
la
speranza
che
questo
conflitto
mondiale
non
finisca
uccidendo
il
contendente
più
debole:
l'umanità.
Sette
tessere
da
disegnare,
colorare,
ritagliare
e
tentare
di
comporre
tra
loro
per
ricostruire
il
rompicapo
mondiale.
La
prima
è
la
doppia
accumulazione,
di
ricchezze
e
povertà,
ai
due
poli
della
società
mondiale.
L’altra
è
lo
sfruttamento
totale
della
totalità
del
mondo.
La
terza
è
l’incubo
di
una
parte
errante
dell’umanità.
La
quarta
è
la
nauseabonda
relazione
tra
crimine
e
Potere.
La
quinta
è
la
violenza
dello
Stato.
La
sesta
è
il
mistero
della
megapolitica.
La
settima
è
la
multiforme
borsa
di
resistenza
dell’umanità
contro
il
neoliberismo.
Tessera
1:
La
concentrazione
della
ricchezza
e
la
distribuzione
della
povertà.
Nella
storia
dell'umanità,
diversi
modelli
sociali
hanno
fatto
a
gara
per
inalberare
l'assurdo
come
segno
distintivo
dell'ordine
mondiale.
Sicuramente
il
neoliberismo
otterrà
un
posto
privilegiato,
al
momento
dei
premi,
perché
la
sua
«distribuzione»
della
ricchezza
sociale
non
fa
altro
che
distribuire
un
doppio
assurdo
della
accumulazione:
l'accumulazione
della
ricchezza
nelle
mani
di
un
certo
numero,
e
la
accumulazione
della
povertà
per
milioni
di
esseri
umani.
Nel
mondo
attuale,
l'ingiustizia
e
la
diseguaglianza
sono
i
segni
distintivi.
Il
pianeta
Terra,
terzo
del
sistema
planetario
solare,
ha
cinque
miliardi
di
esseri
umani.
In
esso,
solo
500
milioni
di
persone
vivono
comode,
mentre
quattro
miliardi
e
mezzo
soffrono
la
povertà
e
tentano
di
sopravvivere.
Un
doppio
assurdo
è
il
raffronto
tra
ricchi
e
poveri:
i
ricchi
sono
pochi
e
i
poveri
sono
molti.
La
differenza
quantitativa
è
criminale,
ma
il
raffronto
tra
gli
estremi
si
fa
usando
la
ricchezza
come
metro
di
misura:
i
ricchi
suppliscono
alla
loro
minoranza
numerica
con
migliaia
di
milioni
di
dollari.
I
patrimoni
delle
358
persone
più
ricche
al
mondo
[migliaia
di
milioni
di
dollari]
è
superiore
al
reddito
annuale
del
45
per
cento
degli
abitanti
più
poveri,
qualcosa
come
due
miliardi
e
600
milioni
di
persone.
Le
catene
d'oro
degli
orologi
finanziari
si
trasformano
in
pesanti
ceppi
per
milioni
di
persone.
Mentre
la
«...
cifra
degli
affari
della
General
Motors
è
più
elevata
del
Prodotto
interno
lordo
della
Danimarca,
quella
della
Ford
è
più
grande
del
Pil
dell'Africa
del
Sud,
e
quella
della
Toyota
oltrepassa
il
Pil
della
Norvegia»
[Ignacio
Ramonet,
Lmd
di
gennaio
1997],
per
tutti
i
lavoratori
i
salari
reali
sono
caduti,
in
più
essi
devono
affrontare
le
riduzioni
di
personale
nelle
imprese,
la
chiusura
di
fabbriche
e
la
delocalizzazione
dei
centri
produttivi.
Nelle
cosiddette
«economie
capitaliste
avanzate»
il
numero
dei
disoccupati
arriva
già
a
41
milioni
di
lavoratori.
In
modo
lento,
la
concentrazione
della
ricchezza
in
poche
mani
e
la
distribuzione
della
povertà
in
molte,
va
delineando
il
volto
della
società
mondiale
moderna:
il
fragile
equilibrio
di
diseguaglianze
assurde.
La
decadenza
del
sistema
economico
neoliberista
è
uno
scandalo:
«Il
debito
mondiale
[comprendento
quello
delle
imprese,
dei
governi
e
delle
amministrazioni]
ha
oltrepassato
i
33
miliardi
e
100
milioni
di
dollari,
come
dire
il
130
per
cento
del
Pil
mondiale»
[Frédéric
F.
Clairmont,
«Le
duecento
società
che
controllano
il
mondo»,
Lmd,
aprile
1997].
La
crescita
delle
grandi
multinazionali
non
implica
il
progresso
delle
nazioni
sviluppate.
Al
contrario,
mentre
i
giganti
finanziari
aumentano
i
loro
profitti,
si
acutizza
la
povertà
nel
cosiddetti
«paesi
ricchi».
La
differenza
da
colmare
tra
ricchi
e
poveri
non
pare
avere
alcuna
tendenza
a
ridursi,
anzi
il
contrario.
Lontano
dall'attenuarsi,
già
non
diciamo
dall'essere
eliminata,
la
diseguaglianza
si
accentua,
soprattutto
nelle
nazioni
capitaliste
sviluppate:
negli
Usa,
l'1
per
cento
dei
nordamericani
più
ricchi
ha
incamerato
il
61,1
per
cento
dell'insieme
della
ricchezza
nazionale
del
paese,
tra
il
1983
e
il
1989.
L'80
per
cento
dei
nordamericani
più
poveri
non
si
sono
divisi
che
l'1,2
per
cento.
In
Gran
Bretagna
il
numero
dei
senzatetto
si
è
raddoppiato;
il
numero
dei
bambini
che
vivono
solo
con
gli
aiuti
sociali
è
passato
dal
7
per
cento
nel
1979
al
26
del
1994;
il
numero
di
inglesi
che
vivono
in
povertà
[soglia
fissata
alla
metà
del
salario
minimo]
è
passata
da
5
milioni
a
13
milioni
e
700
mila;
il
10
per
cento
dei
più
poveri
ha
perso
il
13
per
cento
del
potere
d'acquisto,
mentre
il
10
per
cento
dei
più
ricchi
ha
guadagnato
il
65
per
cento
e
da
cinque
anni
in
qua
si
è
raddoppiato
il
numero
dei
milionari
[dati
di
Lmd,
aprile
1997].
All'inizio
degli
anni
novanta,
«...
circa
37
mila
imprese
stringevano,
con
le
loro
170
mila
filiali,
l'economia
internazionale
nei
loro
tentacoli.
Ciononostante,
il
centro
del
potere
si
colloca
nel
cerchio
più
ristretto
delle
prime
duecento:
dall'inizio
degli
anni
ottanta
esse
hanno
conosciuto
una
espansione
ininterrotta
per
via
delle
fusioni
e
degli
acquisizione
di
imprese.
In
questo
modo,
la
parte
di
capitale
transnazionale
nel
Pil
mondiale
è
passata
dal
17
per
cento
della
metà
degli
anni
sessanta
al
24
del
1982
e
a
più
del
30
per
cento
nel
1995.
Le prime duecento sono conglomerati le cui attività planetarie coprono senza distinzione i settori primario, secondario e terziario: grandi sfruttamenti agricoli, produzione manifatturiera, servizi finanziari, commercio, ecc. Geograficamente, esse si ripartiscono tra dieci paesi: Giappone [62], Usa [53], Germania [23], Francia [19], Regno Unito [11], Svizzera [8], Corea del Sud [6], Italia [5] e Paesi Bassi [4]». [Frédéric Clairmont, cit.].
La figura 1 si costruisce disegnandoil simbolo del dollaro. Rappresenta il potere economico. Va colorato di verde dollaro. Dell’odore nauseabondo non ci si deve preoccupare, la Roma di sterco, fango e sangue ce l’ha dalla nascita.
Tessera
2:
La
globalizzazione
dello
sfruttamento
Una
delle
falsità
neoliberiste
consiste
nel
dire
che
la
crescita
economica
delle
imprese
porta
con
sé
una
migliore
distribuzione
della
ricchezza
e
l'aumento
dell'impiego.
Ma
non
è
così.
Nello
stesso
modo
in
cui
la
crescita
del
potere
politico
di
un
re
non
ha
come
conseguenza
a
un
aumento
del
potere
politico
dei
sudditi
[anzi
il
contrario],
l'assolutismo
del
capitale
finanziario
non
migliora
la
distribuzione
della
ricchezza
né
procura
maggior
lavoro
alla
società.
Povertà,
disoccupazione
e
precarietà
del
lavoro
sono
sue
conseguenze
strutturali.
Nei
decenni
sessanta
e
settanta,
la
popolazione
considerata
povera
[con
meno
di
un
dollaro
al
giorno
di
reddito
per
fronteggiare
le
proprie
necessità
elementari,
secondo
la
Banca
mondiale]
era
di
circa
200
milioni
di
persone.
All'inizio
dei
novanta
assommava
già
a
due
miliardi
di
esseri
umani.
Nel
frattempo,
il
«...
fatturato
delle
duecento
imprese
più
importanti
del
pianeta
rappresenta
più
di
un
quarto
dell'attività
economica
mondiale;
e
ciononostante
queste
duecento
multinazionali
impiegano
solo
18,8
milioni
di
salariati,
ossia
meno
dello
0,75
per
cento
della
manodopera
del
pianeta»
[Ignacio
Ramonet,
Lmd
gennaio
1997].
Più
esseri
umani
poveri
e
più
impoveriti,
meno
persone
ricche
e
più
arricchite,
queste
sono
le
lezioni
della
tessera
1
del
rompicapo
neoliberale.
Per
ottenere
questa
assurdità,
il
sistema
capitalista
mondiale
«modernizza»
la
produzione,
la
circolazione
e
il
consumo
di
merci.
La
nuova
rivoluzione
tecnologica
[l'informatica]
e
la
nuova
rivoluzione
politica
[le
megalopoli
emergenti
sulle
rovine
degli
Stati
Nazionali]
producono
una
nuova
«rivoluzione»
sociale.
Questa
«rivoluzione»
sociale
non
consiste
che
in
un
riaggiustamento,
un
riordinamento
delle
forze
sociali,
principalmente
della
forza
di
lavoro.
La
popolazione
economicamente
attiva
[Pea]
mondiale
è
passata
da
1.376
milioni
nel
1960
a
2.374
milioni
di
lavoratori
nel
1990.
Più
esseri
umani
con
capacità
di
lavoro,
ovvero
di
creare
ricchezza.
Però
il
«nuovo
ordine
mondiale»
non
solo
sistema
questa
nuova
forza
lavoro
in
spazi
geografici
e
produttivi,
ma
in
più
riordina
i
suoi
luoghi
[o
i
suoi
nonluoghi,
come
nel
caso
di
disoccupati
o
sotto-occupati]
nel
piano
globalizzatore
dell'economia.
La
popolazione
mondiale
impiegata
per
attività
[Pmia]
si
è
sostanzialmente
modificata
negli
ultimi
venti
anni.
La
Pmia
del
settore
agricolo
e
della
pesca
è
passata
dal
22
per
cento
del
1970
al
12
del
1990;
nell'industria
dal
25
per
cento
del
1970
al
56
del
1990;
mentre
il
settore
terziario
[commercio,
trasporti,
banche
e
servizi]
è
cresciuto
dal
42
per
cento
del
1970
al
56
del
1990.
Nel
caso
dei
paesi
sottosviluppati,
il
settore
terziario
è
cresciuto
dal
40
per
cento
del
1970
al
57
del
1990,
mentre
la
loro
popolazione
impiegata
in
agricoltura
e
nella
pesca
è
caduta
dal
30
per
cento
del
1970
al
15
del
1990
[dati
da
«Mercado
mundial
de
fuerza
de
trabajo
en
el
capitalismo
contemporaneo»,
Ochoa
Chi,
Juanita
del
Pilar,
Unam,
Economia,
México,
1997].
Questo
significa
che
sempre
più
i
lavoratori
sono
spinti
verso
le
attività
necessarie
per
incrementare
la
produttività.
Il
sistema
neoliberista
opera
così
come
un
mega-padrone,
e
concepisce
il
mercato
mondiale
come
una
impresa
unitaria,
amministrata
con
criteri
«modernizzatori».
Però
la
«modernità»
neoliberista
sembra
assomigliare
di
più
alla
bestiale
nascita
del
capitalismo
come
sistema
mondiale,
che
a
una
utopica
«razionalità».
La
«moderna»
produzione
capitalista
continua
ad
essere
basata
sul
lavoro
dei
bambini,
delle
donne
e
dei
lavoratori
migranti.
Del
miliardo
e
148
milioni
di
bambini,
nel
mondo,
almeno
cento
milioni
vivono
letteralmente
sulla
strada
e
duecento
milioni
lavorano,
e
si
prevede
che
saranno
quattrocento
milioni
nell'anno
Duemila.
Si
dice,
anche,
che
146
milioni
di
bambini
asiatici
lavorano
nella
produzione
di
componentistica
per
auto,
giocattoli,
abiti,
alimenti,
nelle
fonderie
e
nelle
fabbriche
chimiche.
Ma
questo
sfruttamento
del
lavoro
infantile
non
si
dà
solo
nei
paesi
sottosviluppati:
anche
nel
nord,
centinaia
di
migliaia
di
bambini
lavorano
per
integrare
il
reddito
familiare
o
per
sopravvivere.
Anche
l'«industria»
del
sesso
offre
posti
ai
bambini.
L'Onu
calcola
che,
ogni
anno,
un
milione
di
bambini
entri
nel
commercio
sessuale
[dati
in
Ochoa
Chi,
op.
cit.].
La
bestia
neoliberista
invade
totalmente
il
sociale
mondiale,
omogeneizzando
perfino
i
costumi
alimentari.
«In
termini
globali,
sebbene
si
osservino
particolarità
nel
consumo
alimentare
in
ciascuna
regione
[o
al
suo
interno],
non
per
questo
cessa
di
essere
evidente
il
processo
di
omogeneizzazione
che
si
sta
imponendo,
anche
contro
le
differenze
fisiologico-culturali
delle
diverse
zone»
[«Mercado
mundial
de
medios
de
subsistencia.
1960-1990».
Ocampo
Figueroa,
Nashelly
y
Flores
Mondragïn,
Gonzalo.
Unam.
Economia.
1994].
Questa
bestia
impone
all'umanità
un
pedaggio
molto
grave.
La
disoccupazione
e
la
precarietà
di
milioni
di
lavoratori
in
tutto
il
mondo
è
una
realtà
acuta
che
non
mostra
di
volersi
attenuare.
La
disoccupazione
nei
paesi
dell'Organizzazione
per
la
cooperazione
e
lo
sviluppo
economico
[Ocse]
è
passata
dal
3,8
per
cento
del
1966
al
6,3
del
1990.
Nella
sola
Europa
è
aumentata
dal
2,2
al
6,4
per
cento.
L'imposizione
delle
leggi
del
mercato
a
tutto
il
mondo,
il
mercato
globalizzato,
non
ha
fatto
che
distruggere
le
piccole
e
medie
imprese.
Scomparendo
i
mercati
locali
e
regionali,
i
piccoli
e
medi
produttori
si
sono
trovati
senza
protezioni
e
senza
possibilità
alcuna
di
competere
con
i
giganti
transnazionali.
Risultato:
chiusura
massiccia
di
imprese.
Conseguenza:
milioni
di
lavoratori
disoccupati.
È
la
reiterazione
dell'assurdità
neoliberista:
la
crescita
della
produzione
non
genera
impiego,
al
contrario
lo
distrugge.
L'Onu
chiama
tutto
questo
«crescita
senza
impiego».
Ma
l'incubo
non
finisce
qui.
Più
ancora
che
la
minaccia
della
disoccupazione,
i
lavoratori
devono
affrontare
condizioni
precarie
di
occupazione.
Maggiore
instabilità
dell'impiego,
prolungamento
delle
giornate
lavorative
e
sventagliamento
salariale,
sono
conseguenze
della
globalizzazione
in
generale
e
della
«terziarizzazione»
dell'economia
in
particolare.
«Nei
paesi
dominati,
la
manodopera
soffre
di
una
precarietà
multiforme:
estrema
mobilità,
lavori
senza
contratto,
salari
irregolari
e
generalmente
inferiori
al
minimo
vitali,
attività
indipendenti
non
dichiarate,
con
guadagni
aleatori,
cioè
servitù
o
lavoro
forzoso»
[Alain
Morice,
«I
lavoratori
stranieri,
avanguardia
della
precarietà»,
Lmd,
gennaio
'97].
Le
conseguenze
di
tutto
questo
si
traducono
in
un
vero
sfondamento
sociale
globalizzata.
Il
riordino
dei
processi
di
produzione
e
circolazione
di
merci
e
la
riorganizzazione
delle
forze
produttive
producono
una
eccedenza
peculiare:
esseri
umani
in
più,
che
non
sono
necessari
al
«nuovo
ordine
mondiale»,
che
non
producono,
non
consumano,
non
sono
soggetti
di
credito
e
che,
in
sostanza,
sono
da
buttar
via.
Ogni giorno i grandi centri finanziari impongono le loro leggi a nazioni o gruppi di nazioni, in tutto il mondo. Riordinano e riorganizzano i loro abitanti. E, alla fine dell'operazione, giungono alla conclusione che persone «esuberano». «Esplode pertanto il volume della popolazione eccedente, che non è solo sottomessa al giogo della povertà più estrema, ma che non conta nulla, è destrutturata e atomizzata, e la sua unica finalità è vagare per le strade senza uno scopopreciso, senza casa né lavoro, senza famiglia né relazioni sociali -almeno minimamente stabili - con l'unica compagnia dei suoi pezzi di cartone e sacchetti di plastica» [Fernández Durán, Ramón. «Contra la Europa del capital y la globalización economica». Talasa. Madrid, 1996]. La globalizzazione economica «... ha reso necessaria una diminuzione dei salari reali a livello internazionale, che, insieme alla diminuzione della spesa sociale [salute, educazione, abitazioni e alimentazione] e a una politica antisindacale, ha finito per diventare la parte fondamentale delle nuove politiche neoliberiste di riattivazione capitalista» [Ocampo y Flores M. op. cit.].
La figura 2 si costruisce disegnando un triangolo.È la rappresentazione della piramide dello sfruttamento mondiale.
Tessera
3:
Migrazioni,
l'incubo
errante
Abbiamo
parlato
prima
dell'esistenza
di
nuovi
territori,
alla
fine
della
III
Guerra
Mondiale,
che
speravano
di
essere
conquistati
[gli
antichi
paesi
socialisti]
e
di
altri
che
dovevano
essere
riconquistati
dal
«nuovo
ordine
mondiale».
Per
ottenere
questo,
i
centri
finanziari
hanno
condotto
una
triplice
strategia
criminale
e
brutale:
proliferano
le
«guerre
regionali»
e
i
«conflitti
interni»,
i
capitali
imboccano
vie
di
accumulazione
atipiche,
e
si
mettono
in
moto
grandi
masse
di
lavoratori.
Il
risultato
di
questa
guerra
di
conquista
mondiale
è
una
grande
giostra
di
milioni
di
migranti
in
tutto
il
mondo.
«Straniere»
nel
mondo
«senza
frontiere»
promesso
dai
vincitori
della
III
Guerra
Mondiale,
milioni
di
persone
subiscono
la
persecuzione
xenofoba,
la
precarietà
del
lavoro,
la
perdita
dell'identità
culturale,
la
repressione
poliziesca,
la
fame,
il
carcere
e
la
morte.
«Dal
Rio
Grande
americano
allo
spazio
Schengen
'europeo',
si
conferma
una
doppia
tendenza
contraddittoria:
da
un
lato,
le
frontiere
si
chiudono
ufficialmente
alle
migrazioni
di
lavoro,
per
l'altro,
interi
rami
dell'economia
oscillano
tra
l'instabilità
e
la
flessibilità,
che
sono
i
mezzi
più
sicuri
per
attrarre
la
manodopera
straniera»
[Alain
Morice,
op,
cit.].
Con
nomi
diversi,
subendo
una
differenziazione
giuridica,
dividendosi
una
eguaglianza
miserabile,
i
migranti
o
rifugiati
o
delocalizzati
di
tutto
il
mondo
sono
«stranieri»
tollerati
o
rifiutati.
L'incubo
della
migrazione,
quale
che
sia
la
causa
che
la
provoca,
continua
a
rotolare
e
a
crescere
sulla
superficie
del
pianeta.
Il
numero
di
persone
che
sarebbero
di
competenza
dell'Alto
commissariato
delle
Nazioni
unite
per
i
rifugiati
[Acnur]
è
cresciuto
in
modo
sproporzionato
dai
due
milioni
del
1975
a
più
di
27
milioni
nel
1995.
Distrutte
le
frontiere
nazionali
[dalle
merci],
il
mercato
globalizzato
organizza
l'economia
mondiale:
la
ricerca
e
il
disegno
di
beni
e
servizi,
così
come
la
loro
circolazione
e
il
loro
consumo
sono
pensati
in
termini
intercontinentali.
In
ogni
parte
del
processo
capitalista
il
«nuovo
ordine
mondiale»
organizza
il
flusso
di
forza
lavoro,
specializzata
e
no,
fin
dove
ne
ha
bisogno.
Ben
lontani
dal
subire
la
«libera
concorrenza»
tanto
vantata
dal
neoliberismo,
i
mercati
del
lavoro
sono
sempre
più
condizionati
dai
flussi
migratori.
Quando
si
tratta
di
lavoratori
specializzati,
e
anche
se
questa
è
una
parte
minore
delle
migrazioni
mondiali,
questo
«travaso
di
cervelli»
rappresenta
molto
in
termini
di
potere
economico
e
di
conoscenze.
Però,
si
tratti
di
forza
lavoro
qualificata
o
semplice
manodopera,
la
politica
migratoria
del
neoliberismo
è
più
orientata
a
destabilizzareil
mercato
mondiale
del
lavoro
che
a
frenare
l'immigrazione.
La IV Guerra Mondiale, con il suo processo di distruzione/spopolamento e ricostruzione/riordinamento provoca lo spostamento di milioni di persone. Il loro destino sarà di continuare ad essere erranti, con il loro incubo sulle spalle, e dirappresentare, per i lavoratori impiegati nelle diverse nazioni una minaccia alla loro stabilità nel lavoro, un nemico utile a nascondere la figura del padrone, e un pretesto per dare senso all'insensatezza razzista che il neoliberismo promuove.
La figura 3 si costruisce disegnando un cerchio. È il simbolo dell’incubo errante della migrazione mondiale, è una giostra del terrore che gira per tutto il mondo.
Tessera
4:
Mondializzazione
finanziaria
e
globalizzazione
della
corruzione
e
del
crimine.
I
mezzi
di
comunicazione
di
massa
ci
regalano
un'immagine
dei
dirigenti
della
delinquenza
mondiale:
uomini
e
donne
volgari,
vestiti
in
modo
stravagante,
impegnati
in
mansioni
ridicole
o
dietro
le
sbarre
di
un
carcere.
Ma
questa
immagine
nasconde
più
di
quanto
non
mostri:
né
i
veri
capi
delle
mafie
moderne,
né
la
loro
organizzazione,
né
la
loro
influenza
reale
sull'economia
e
la
politica
sono
messi
in
mostra.
Se
voi
pensate
che
mondo
della
delinquenza
sia
sinonimo
di
oltretomba
e
oscurità,
vi
sbagliate.
Durante
la
cosiddetta
«Guerra
Fredda»,
il
crimine
organizzato
è
andato
acquisendo
una
immagine
più
rispettabile
e
non
solo
ha
cominciato
a
funzionare
come
qualunque
impresa
moderna,
ma
è
anche
profondamente
penetrato
nei
sistemi
politici
e
economici
degli
Stati
Nazionali.
Con
l'inizio
della
IV
Guerra
Mondiale,
lo
stabilirsi
del
«nuovo
ordine
mondiale»
e
la
conseguente
apertura
dei
mercati,
privatizzazioni,
deregolazione
del
commercio
e
della
finanza
internazionale,
il
crimine
organizzato
ha
«globalizzato»
le
sue
attività.
«Secondo
l'Onu
il
reddito
mondiale
annuale
delle
organizzazioni
criminali
transnazionali
[Oct]
si
aggirano
attorno
al
milione
di
milioni
di
dollari,
un
ammontare
equivalente
al
Pil
di
tutti
i
paesi
a
reddito
debole
[secondo
la
classificazione
della
Banca
mondiale]
e
dei
loro
tre
miliardi
di
abitanti.
Questa
stima
tiene
conto
tanto
del
traffico
di
droghe,
che
delle
vendite
di
armi,
del
contrabbando
di
materiale
nucleare,
ecc.,
oltre
che
i
guadagni
delle
«imprese»
controllate
dalle
mafie
[prostituzione,
gioco,
mercato
nero
del
denaro...].
In
cambio,
non
diminuisce
il
volume
degli
investimenti
continuamente
fatti
dalle
organizzazioni
criminali
nella
sfera
del
controllo
degli
affari
legittimi,
né
tanto
meno
il
dominio
che
esse
esercitano
sui
mezzi
di
produzione
in
numerosi
settori
dell'economia
legale»
[Michel
Chossudovsky,
«La
corruption
mondialisée»,
in
«Géopolitique
du
Chaos»,
op.
cit.].
Le
organizzazioni
criminali
dei
cinque
continenti
hanno
fatto
loro
lo
«spirito
di
cooperazione
mondiale»
e,
associate,
partecipano
alla
conquista
e
al
riordino
dei
nuovi
mercati.
Non
solo
in
attività
criminali,
bensì
anche
negli
affari
legali.
Il
crimine
organizzato
investe
in
affari
legittimi
non
solo
per
«riciclare»
il
denaro
sporco,
ma
anche
per
costruire
nuovi
capitali
per
le
sue
attività
illegali.
Le
imprese
preferite
per
questo
scopo
sono
quelle
immobiliari
di
lusso,
l'industria
dell'ozio,
i
mezzi
di
comunicazione,
l'industria,
l'agricoltura,
i
servizi
pubblici
e...
la
banca!
Alì
Babà
e
i
quaranta
banchieri?
No,
qualcosa
di
peggio.
Il
denaro
sporco
del
crimine
organizzato
è
utilizzato
dalle
banche
commerciali
per
le
loro
attività:
prestiti,
investimenti
nei
mercati
finanziari,
acquisto
di
titoli
del
debito
estero,
compravendita
di
oro
e
valuta.
«In
molti
paesi,
le
organizzazioni
criminali
si
sono
convertite
in
creditori
dello
Stato
ed
esercitano,
agendo
nei
mercati,
un'influenza
sulla
politica
macro-economica
dei
governi.
Nelle
borse
dei
valori,
esse
investono
anche
nei
mercati
speculativi
di
prodotti
derivati
e
di
materie
prime»
[M.
Chossudovsky,
op.
cit.].
E,
secondo
un
rapporto
delle
Nazioni
unite,
«lo
sviluppo
dei
sindacati
del
crimine
è
stato
facilitato
dai
programmi
di
aggiustamento
strutturale
che
i
paesi
indebitati
hanno
dovuto
accettare
per
avere
accesso
ai
prestiti
del
Fondo
monetario
internazionale»
[«La
globalizzazione
del
crimine»,
Nazioni
unite].
Il
crimine
organizzato
conta
anche
sui
cosiddetti
paradisi
fiscali.
In
tutto
il
mondo
ci
sono,
più
o
meno,
55
paradisi
fiscali
[uno
di
essi,
nelle
Isole
Cayman,
è
al
quinto
posto
nel
mondo
come
centro
bancario
e
ha
più
banche
e
società
registrate
che
abitanti].
Le
Bahamas,
le
Isole
Vergini
britanniche,
le
Bermude,
San
Martín,
Vanuatu,
le
Isole
Cook,
le
isole
Mauritius,
il
Lussemburgo,
la
Svizzera,
le
Isole
anglo-normanne,
Dublino,
Montecarlo,
Gibilterra,
Malta,
sono
buoni
posti
perché
il
crimine
organizzato
entri
in
rapporto
con
le
grandi
imprese
finanziarie
del
mondo.
Oltre
a
«riciclare»
il
denaro
sporco,
i
paradisi
fiscali
sono
usati
per
evadere
le
tasse,
ed
è
per
questo
che
sono
un
punto
di
contatto
tra
governanti,
manager
e
capi
del
crimine
organizzato.
L'alta
tecnologia,
applicata
alla
finanza,
permette
la
circolazione
rapida
del
denaro
e
la
sparizione
dei
guadagni
illegali.
«Gli
affari
legali
e
illegali
sono
sempre
più
mescolati,
introducono
un
cambiamento
fondamentale
nelle
strutture
del
capitalismo
del
dopoguerra.
Le
mafie
investono
in
affari
legali
e,
all'inverso,
incanalano
risorse
finanziarie
verso
l'economia
criminale,
grazie
al
controllo
di
banche
o
imprese
commerciali
implicate
con
il
riciclaggio
del
denaro
sporco
o
che
hanno
relazioni
con
le
organizzazioni
criminali.
Le
banche
pretendono
che
le
transazioni
sono
effettuate
in
buona
fede
e
che
i
loro
dirigenti
ignorano
l'origine
dei
fondi
depositati.
La
consegna
è
non
chiedere
nulla,
è
il
segreto
bancario
e
l'anonimato
nelle
transazioni,
tutto
è
garantito
dagli
interessi
del
crimine
organizzato,
che
proteggono
l'istituzione
bancaria
dalle
investigazioni
pubbliche
e
dalle
incriminazioni.
Non
solamente
le
grandi
banche
accettano
di
riciclare
denaro,
puntando
alle
abbondanti
commissioni,
ma
concedono
anche
prestiti
a
tassi
elevati
alle
mafie,
sottraendoli
agli
investimenti
produttivi
industriali
o
agricoli»
[M.
Chossudovsky,
op.
cit.].
La crisi del debito mondiale, negli anni ottanta, provocò il crollo dei prezzi delle materie prime. Questo ridusse drasticamente il reddito dei paesi sottosviluppati. Le misure economiche dettate dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, presuntamente per «recuperare» l'economia di questi paesi, ha solo reso più acuta la crisi degli affari locali. Di conseguenza, l'economia illegale si è sviluppata per riempire il vuoto creato dalla caduta dei mercati nazionali.
La figura 4 si costruisce disegnando un rettangolo: è lo specchio in cui la legalità e illegalità si riflettono e si scambiano. Da quale lato è il criminale, e da quale chi lo persegue?
Tessera
5
La
legittima
violenza
di
un
potere
illegittimo?
Lo
Stato,
nel
neoliberismo,
tende
a
ridursi
al
«minimo
indispensabile».
Il
cosiddetto
«Stato
sociale»
non
solo
diventa
obsoleto,
ma
si
ritira
da
tutto
ciò
che
ne
costituiva
l'essenza,
e
resta
nudo.
Nel
cabaret
della
globalizzazione,
abbiamo
lo
show
dello
Stato,
che
si
spoglia
di
tutto
fino
a
restare
coperto
dall'indumento
minimo
indispensabile:
la
forza
repressiva.
Distrutta
la
loro
base
materiale,
annullate
le
loro
possibilità
di
sovranità
e
indipendenza,
svanite
le
loro
classi
politiche,
gli
Stati
Nazionali
si
convertono,
in
modo
più
o
meno
rapido,
in
un
mero
apparato
di
«sicurezza»
delle
megaimprese
che
il
neoliberismo
va
erigendo
con
lo
svilupparsi
della
IV
Guerra
Mondiale.
Invece
di
orientare
gli
investimenti
pubblici
sulla
spesa
sociale,
gli
Stati
Nazionali
preferiscono
migliorare
il
loro
equipaggiamento,
armamento
e
preparazione
per
svolgere
con
efficacia
il
lavoro
che
la
politica
ha
smesso
da
anni
di
assumersi:
controllare
la
società.
I
«professionisti
della
violenza
legittima»,
così
chiamano
se
stessi
gli
apparati
repressivi
degli
Stati
moderni.
Però,
cosa
dire
della
violenza
che
è
già
insita
nelle
leggi
del
mercato?
Dov'è
la
violenza
legittima
e
dove
la
illegittima?
Che
monopolio
della
violenza
possono
pretendere
i
malconci
Stati
Nazionali,
se
il
libero
gioco
dell'offerta
e
della
domanda
sfida
questo
monopolio?
Non
ha
mostrato
la
Tessera
4
che
il
crimine
organizzato,
i
governi
e
i
centri
finanziari
sono
ben
più
che
in
buoni
rapporti?
Non
è
palpabile
che
il
crimine
organizzato
conta
su
veri
eserciti
senza
più
frontiera
che
non
sia
la
potenza
di
fuoco
dell'avversario?
Di
conseguenza,
il
«monopolio
della
violenza»
non
appartiene
agli
Stati
Nazionali.
Il
mercato
moderno
lo
ha
messo
in
vendita...
Cade
a
proposito,
questo,
perché,
sotto
la
polemica
tra
violenza
legittima
e
illegittima,
c'è
anche
quella
[falsa,
penso]
tra
violenza
«razionale»
e
violenza
«irrazionale».
Un
certo
settore
dell'intellettualità
mondiale
[insisto
sul
fatto
che
il
problema
del
che
fare
di
questa
intellettualità
è
più
complesso
del
semplice
essere
«di
destra
o
di
sinistra»,
«filogovernativo
o
di
opposizione»,
«eccetera
buono
o
eccetera
cattivo»]
pretende
che
la
violenza
la
si
possa
esercitare
in
modo
«razionale»,
amministrarla
in
forma
selettiva,
e
applicarla
con
abilità
«chirurgica»
contro
i
mali
della
società.
Una
simile
idea
ha
ispirato
la
passata
generazione
di
armamenti
nordamericani:
armi
«chirurgiche»,
esatte,
e
operazioni
come
bisturi
del
«nuovo
ordine
mondiale».
Così
sono
nate
le
«smart
bombs»
[che,
come
mi
ha
raccontato
un
giornalista
che
seguì
«Desert
Storm»,
non
sono
così
intelligenti
e
faticano
a
distinguere
tra
un
ospedale
e
un
deposito
di
missili
e,
nel
dubbio,
non
si
astengono,
distruggono].
Infine,
il
Golfo
Persico,
come
dicevano
i
compagni
delle
comunità
zapatiste,
è
molto
più
in
là
della
capitale
statale
del
Chiapas
[benché
la
situazione
dei
kurdi
mandi
segnali
tali
da
far
rizzare
i
capelli
agli
indigeni
di
un
paese
che
si
vanta
di
essere
«democratico»
e
«libero»],
perciò
non
insisteremo
con
«quella»
guerra,
visto
che
abbiamo
la
«nostra».
Bene,
la
contesa
tra
violenza
«razionale»
e
«irrazionale»
apre
una
via
di
discussione
interessante
e,
purtroppo,
non
inutile,
nei
tempi
che
corrono.
Possiamo
prendere
ad
esempio
ciò
che
si
intende
per
«razionale».
Se
si
risponde
che
è
la
«ragione
di
Stato»
[supponendo
che
quest'ultimo
esista
e,
soprattutto,
che
si
possa
riconoscere
una
qualunque
ragione
all'attuale
Stato
neoliberista],
allora
bisogna
domandarsi
se
questa
«ragione
di
Stato»
corrisponda
alla
«ragione
della
società»
[sempre
supponendo
che
la
società
attuale
contenga
alcunchè
di
razionale]
e,
più
ancora,
se
la
violenza
«razionale»
dello
Stato
sia
«razionale»
anche
per
la
società.
Qui
non
c'è
molto
da
discutere
[in
ogni
caso
non
oziosamente]:
la
«ragione
di
Stato»
nella
modernità
non
è
altro
che
la
«ragione
dei
mercati
finanziari».
Ma come amministra la sua «violenza razionale» lo Stato moderno? E, attenzione alla storia, quanto tempo dura, questa «razionalità»? Il tempo che intercorre tra una elezione e l'altra, o un colpo di Stato e l'altro? Quante violenze di Stato, che sono state applaudite come «razionali» al loro tempo, sono ora «irrazionali»? Lady Margaret Thatcher, di «buona» memoria per il popolo britannico, si è presa il disturbo di prolungare il libro «The Next War» [ «La prossima guerra», ndt.], di Caspar Weinberger e Peter Schweizer [Regnery Publishing Inc., Washington D.C., 1996]. In questo testo la signora Thatcher avanza alcune riflessioni sulle tre simiglianze tra il mondo della Guerra Fredda e quello del Post-Guerra Fredda: la prima è che al «mondo libero» non mancheranno mai gli aggressori potenziali. La seconda è la necessità di una superiorità militare degli «Stati democratici» di fronte ai possibili aggressori. La terza simiglianza è che tale superiorità militare deve essere, soprattutto, tecnologica. Per concludere il suo intervento, la cosiddetta «lady di ferro» definisce la «razionalità violenta» degli Stati moderni, segnalando questo fatto: «Una guerra può scoppiare in molti differenti modi. Ma il peggiore, usualmente, è quando un potere crede di poter raggiungere i suoi obiettivi senza una guerra o almeno con una guerra limitata che sia possibile vincere rapidamente e, di conseguenza, sbaglia i calcoli». Secondo i signori Weinberger e Schweizer gli scenari della guerra futura sono: Corea del Nord e Cina [6 aprile del 1998], Iran [4 aprile del 1999], Messico [7 marzo del 2003], Russia [7 febbraio del 2006], Giappone [19 agosto del 2007]. Nessun dubbio su quali potrebbero essere i possibili aggressori: asiatici, arabi, latini ed europei. La quasi totalità del mondo è considerata «possibile aggressore» della «democrazia» moderna! È logico [per lo meno nella logica liberista]: nella modernità, il potere [cioè il potere finanziario] sa che può conseguire i suoi obiettivi solo con una guerra, e non «una guerra limitata che sia possibile vincere rapidamente», ma con una guerra totalmente totale, mondiale in tutti i sensi. E se crediamo alla nuova segretaria di stato Usa, Madeleine Albright, quando dice: «Uno degli obiettivi prioritari del nostro governo è di garantire che gli interessi economici degli Stati uniti si possano estendere a scala planetaria»[The Wall Street Journal, 21 gennaio 1997], allora dobbiamo capire che tutto il mondo [e intendo dire tutto tutto] è il teatro di operazioni di questa guerra. Bisogna intendere, allora, che se la disputa per il «monopolio della violenza» non procede in armonia con le leggi del mercato, ma accade che questo monopolio venga sfidato dal basso, il potere mondiale «scopre» in questa minaccia un «possibile aggressore». Questa è una delle sfide [tra le meno studiate e più «condannate», tra le molte] lanciate dall'insurrezione degli indigeni in armi dell'Esercito zapatista di liberazione nazionale [Ezln] contro il neoliberismo e per l'umanità…
La figura 5 si costruisce disegando un pentagono. È il simbolo del Potere militare nordamericano. La nuova «polizia mondiale» pretende che gli eserciti e le polizie «nazionali» siano solo «corpi di sicurezza» che garantiscono «ordine e progresso» nelle megalopoli neoliberiste.
Tessera
6
La
Megapolitica
e
i
nani
Abbiamo
detto
che
gli
Stati
Nazionali
sono
sotto
l'attacco
dei
centri
finanziari
e
sono
«obbligati»
a
dissolversi
nelle
megalopoli.
Ma
il
neoliberismo
non
conduce
la
sua
guerra
soltanto
«unendo»
nazioni
e
regioni.
La
sua
strategia
di
distruzione/spopolamento
e
ricostruzione/riordino
produce
una
o
più
fratture
negli
Stati
Nazionali.
È
il
paradosso
della
IV
Guerra
Mondiale:
mossa
per
eliminare
frontiere
e
«unire»
nazioni,
quel
che
lascia
dietro
di
sé
è
una
moltiplicazione
delle
frontiere
e
una
polverizzazione
delle
nazioni
che
finiscono
sotto
i
suoi
artigli.
Ben
oltre
i
pretesti,
le
ideologie
e
bandiere,
la
dinamica
attuale
mondiale
di
frantumazione
degli
Stati
Nazionali
corrisponde
a
una
politica
ugualmente
mondiale,
che
sa
di
poter
esercitare
meglio
il
suo
potere,
e
creare
le
condizioni
migliori
per
la
sua
propria
riproduzione,
sulle
rovine
degli
Stati
Nazionali.
Se
qualcuno
avesse
dubbi
su
questo
carattere
di
guerra
mondiale
del
processo
di
globalizzazione,
dovrebbe
scacciarli
facendo
il
conto
dei
conflitti
che
hanno
provocato
o
sono
stati
provocati
dai
collassi
di
alcuni
Stati
Nazionali.
Cecoslovacchia,
Jugoslavia,
Urss,
sono
vetrine
della
profondità
di
queste
crisi,
che
hanno
fatto
a
pezzi
non
solo
le
fondamenta
politiche
ed
economiche
degli
Stati
Nazionali,
ma
anche
le
strutture
sociali.
Slovenia,
Croazia
e
Bosnia,
più
la
presente
guerra
nella
Federazione
russa
con
la
Cecenia
come
sfondo,
non
segnano
solo
il
destino
della
tragica
caduta
del
campo
socialista
nelle
fatidiche
braccia
del
«mondo
libero»;
in
tutto
il
mondo,
questo
processo
di
frammentazione
nazionale
si
ripete
a
scala
e
intensità
variabili.
Ci
sono
tendenze
separatiste
in
Spagna
[il
Paese
Basco,
la
Catalogna
e
la
Galizia],
in
Italia
[il
Veneto],
in
Belgio
[le
Fiandre],
in
Francia
[la
Corsica]
nel
Regno
Unito
[la
Scozia
e
il
Galles],
e
in
Canada
[Québec].
E
ci
sono
molti
altri
esempi
nel
resto
del
mondo.
Già
abbiamo
fatto
riferimento
al
processo
di
costruzione
delle
megalopoli,
ora
parliamo
della
frammentazione
dei
paesi.
Ambedue
questi
fenomeni
nascono
dalla
distruzione
degli
Stati
Nazionali.
Si
tratta
di
due
processi
paralleli,
indipendenti?
Due
facce
del
processo
di
globalizzazione?
Sintomi
di
una
megacrisi
che
sta
per
scoppiare?
Puri
fatti
isolati?
Pensiamo
che
si
tratti
di
una
contraddizione
inerente
al
processo
di
globalizzazione,
uno
dei
fatti
essenziali
del
modello
neoliberista.
L’eliminazione
delle
frontiere
commerciali,
l'universalità
delle
telecomunicazioni,
le
superautostrade
elettroniche,
l'onnipresenza
dei
centri
finanziari,
gli
accordi
internazionali
di
unità
economica,
insomma
l'insieme
del
processo
di
globalizzazione
produce,
liquidando
gli
Stati
Nazionali,
una
polverizzazione
dei
mercati
interni.
Che
non
spariscono
né
si
sciolgono
nei
mercati
internazionali,
piuttosto
consolidano
la
loro
frammentazione
e
si
moltiplicano.
Suonerà
contraddittorio,
ma
la
globalizzazione
produce
un
mondo
frammentato,
pieno
di
pezzi
staccati
tra
loro
[e
spesso
contrapposti].
Un
mondo
pieno
di
compartimenti
stagni,
messi
in
comunicazione
solo
da
fragili
ponti
economici
[in
ogni
caso
costanti
tanto
quanto
quelle
banderuole
che
sono
i
mercati
finanziari].
Un
mondo
di
specchi
rotti
che
riflettono
la
inutile
unità
mondiale
del
rompicapo
neoliberista.
Ma
il
neoliberismo
non
solo
frantuma
il
mondo
che
suppone
di
unire:
produce
anche
il
centro
politico-economico
che
dirige
questa
guerra.
E
se,
come
abbiamo
già
segnalato,
i
centri
finanziari
impongono
la
loro
legge
[quella
del
mercato]
a
nazioni
e
a
gruppi
di
nazioni,
allora
dobbiamo
ridefinire
i
limiti.e
gli
scopi
della
politica,
ovvero
del
che
fare
politico.
Conviene
allora
parlare
della
megapolitica.
E
quando
diciamo
«megapolitica»
non
alludiamo
al
numero
di
quelli
che
in
essa
agiscono.
Sono
pochi,
molto
pochi,
quelli
che
si
trovano
in
questa
«megasfera».
La
megapolitica
globalizza
le
politiche
nazionali,
cioè
le
assoggetta
a
un
comando
che
ha
interessi
mondiali
[che
per
solito
sono
in
contraddizione
con
gli
interessi
nazionali]
e
la
cui
logica
è
quella
del
mercato,
vale
a
dire
quella
del
profitto
economico.
È
con
questo
criterio
economicista
[e
criminale]
che
si
decide
su
guerre,
crediti,
compravendita
di
merci,
riconoscimenti
diplomatici,
blocchi
commerciali,
appoggi
politici,
leggi
sulle
migrazioni,
colpi
di
Stato,
repressioni,
elezioni,
unità
politiche
internazionali,
rotture
politiche
internazionali,
investimenti,
in
altre
parole
sulla
sopravvivenza
di
nazioni
intere.
Il potere mondiale dei centri finanziari è tanto grande, che può prescindere dal segno politico di chi detiene il potere in una nazione, se questi garantisce che il programma economico [cioè la parte che corrisponde al megaprogramma economico mondiale] non venga alterato. Le discipline finanziarie si impongono ai diversi colori dello spettro politico mondiale. Il grande potere mondiale può tollerare un governo di sinistra in una qualche parte del mondo, sempre che, e quando, questo governo non prenda decisioni che contraddicono le disposizioni dei centri finanziari mondiali. Ma in nessuna maniera tollererà che una alternativa di organizzazioneeconomica, politica e sociale si consolidi. Dal punto di vista della megapolitica le politiche nazionali sono cose per nani che devono piegarsi ai diktat del gigante finanziario. E così sarà, finchè‚ i nani non si ribelleranno...
La figura 6 si costruisce disegnando uno scarabocchio. Quetsa figura rappresenta la «megapolitica». Si comprende bene che è inutile cercare di trovarvi una razionalità e che, sbrogliado la matassa, nulla sarà chiaro.
Tessera
7
Le
sacche
di
resistenza
Per
cominciare,
ti
supplico
di
non
confondere
la
Resistenza
con
l'opposizione
politica.
L'opposizione
non
si
oppone
al
potere
ma
a
un
governo,
e
la
sua
forma
riuscita
e
compiuta
è
quella
di
un
partito
di
opposizione;
mentre
la
Resistenza,
per
definizione
[ora
sì!],
non
può
essere
un
partito,
non
è
fatta
per
governare
a
sua
volta,
ma
per...
resistere».
Tomas
Segovia.
«Alegatorio».
México,
1996.
L'apparente
infallibilità
della
globalizzazione
si
scontra
con
la
caparbia
disobbedienza
della
realtà.
Nello
stesso
momento
in
cui
il
neoliberismo
conduce
la
sua
guerra
mondiale,
in
tutto
il
pianeta
si
vanno
formando
gruppi
di
non
conformisti,
nuclei
di
ribelli.
L'impero
delle
borse
finanziarie
si
trova
di
fronte
la
ribellione
di
sacche
di
resistenza.
Sì,
sacche.
Di
ogni
grandezza,
di
differenti
colori,
delle
forme
più
differenti.
Ciò
che
le
rende
simili
è
la
resistenza
al
«nuovo
ordine
mondiale»
e
al
crimine
contro
l'umanità
che
la
guerra
neoliberista
commette.
Nel
cercare
di
imporre
il
suo
modello
economico,
sociale
e
culturale,
il
neoliberismo
pretende
di
soggiogare
milioni
di
esseri
umani,
e
di
disfarsi
di
tutti
quelli
che
non
trovano
posto
nella
nuova
organizzazione
del
mondo.
Però
accade
che
questi
«prescindibili»
si
ribellino
e
resistano
contro
il
potere
che
vuole
eliminarli.
Donne,
bambini,
anziani,
giovani,
indigeni,
ecologisti,
omosessuali,
lesbiche,
sieropositivi,
lavoratori
e
tutti
quelli
che
non
solo
«esuberano»,
ma
che
per
di
più
«disturbano»
l'ordine
e
il
progresso
mondiale,
si
ribellano,
si
organizzano
e
lottano.
Sapendosi
uguali
e
differenti,
gli
esclusi
della
«modernità»
cominciano
a
tessere
le
resistenze
contro
il
processo
di
distruzione/spopolamento
e
ricostruzione/riordino
che
avanza
come
una
guerra
mondiale,
il
neoliberismo.
In
Messico,
per
fare
un
esempio,
il
cosiddetto
«Programma
di
sviluppo
dell'istmo
di
Tehuantepec»
pretende
di
costruire
un
moderno
centro
internazionale
di
distribuzione
e
interconnessione
di
merci.
La
zona
di
sviluppo
comprende
un
complesso
industriale
nel
quale
si
raffina
un
terzo
del
greggio
messicano
e
si
produce
l'88
per
cento
dei
prodotti
petrolchimici.
Le
vie
di
transito
interoceaniche
[si
tratta
dell'Istmo
più
stretto
tra
Atlantico
e
Pacifico,
nel
sud
del
Messico,
ndt.]
consisteranno
in
strade,
in
una
via
fluviale
costruita
approfittando
delle
caratteristiche
naturali
della
zona
[Rio
Coatzacoalcos]
e,
come
asse
di
articolazione,
la
linea
ferroviaria
transistmica
[da
realizzarsi
da
parte
di
cinque
imprese,
di
cui
quattro
Usa
e
una
canadese].
Il
progetto
sarebbe
creare
una
zona
di
assemblaggio
assoggettata
al
regime
delle
maquiladoras
[le
fabbriche
che,
soprattutto
nel
nord
del
Messico,
assemblano
in
prodotti
finiti
i
pezzi
costruiti
altrove,
negli
Usa,
in
Giappone
o
in
Europa,
ndt.].
Due
milioni
di
persone
delle
comunità
locali
diventerebbero
magazzinieri,
trasportatori
o
operai
delle
maquiladoras
[Ana
Esther
Cecena.
«El
Istmo
de
Tehuantepec:
frontiera
della
sovranità
nazionale».
«La
Jornada
del
Campo»,
28
maggio
1997].
Anche
nel
sudest
messicano,
nella
Selva
Lacandona,
si
sta
per
varare
il
«Programma
di
sviluppo
regionale
sostenibile
per
la
Selva
Lacandona».
Il
suo
obiettivo
reale
è
mettere
a
disposizione
del
capitale
le
terre
indigene
che,
oltre
che
ricche
di
dignità
e
storia,
lo
sono
anche
di
petrolio
e
uranio.
Il
risultato
prevedibile
di
questi
progetti
sarà,
tra
gli
altri,
la
frammentazione
del
Messico
[separando
il
sudest
dal
resto
del
paese].
Di
più,
e
visto
che
di
guerra
stiamo
parlando,
i
progetti
hanno
implicazioni
controinsurrezionali.
Formano
parte
di
una
tenaglia
per
liquidare
la
ribellione
antineoliberista
che
è
esplosa
nel
1994.
In
mezzo
ci
sono
gli
indigeni
ribelli
dell'Esercito
zapatista
di
liberazione
nazionale
[Ezln].
[E
in
tema
di
indigeni
ribelli
conviene
aprire
una
parentesi:
gli
zapatisti
pensano
che,
in
Messico
-
attenzione:
in
Messico
-
il
recupero
e
la
difesa
della
sovranità
nazionale
sia
parte
di
una
rivoluzione
antineoliberista.
Paradossalmente,
l'Ezln
viene
accusato
di
volere
la
frammentazione
della
nazione
messicana.
La
realtà
è
che
i
soli
che
hanno
parlato
di
separatismo
sono
gli
imprenditori
dello
stato
di
Tabasco
ricco
di
petrolio
e
i
deputati
federali
chiapanechi
che
appartengono
al
Pri
[Partido
revolucionario
institucional,
rimasto
al
potere
per
oltre
settant'anni,
fino
al
luglio
del
2000,
quando
vinse
l'attuale
presidente
Fox,
ndt.].
Gli
zapatisti
pensano
che
sia
necessaria
la
difesa
dello
Stato
Nazionale,
di
fronte
alla
globalizzazione,
e
che
l'intenzione
di
tagliare
il
Messico
a
fette
venga
dal
gruppo
al
governo
e
non
dalle
giuste
richieste
di
autonomia
dei
popoli
indigeni.
L'EzIn,
e
il
meglio
del
movimento
indigeno
nazionale,
non
vogliono
che
i
popoli
indigeni
si
separino
dal
Messico,
vogliono
essere
riconosciuti
come
parte
del
paese,
con
le
loro
specificità.
E
non
solo:
vogliono
un
Messico
in
cui
vi
siano
democrazia,
libertà
e
giustizia.
I
paradossi
continuano,
perché,
mentre
1'Ezln
si
batte
per
la
difesa
della
sovranità
nazionale,
l'esercito
federale
messicano
lotta
contro
questa
difesa
e
difende
un
governo
che
ha
già
distrutto
le
basi
materiali
della
sovranità
nazionale
e
ha
consegnato
il
paese
non
solo
al
grande
capitale
straniero,
ma
anche
al
narcotraffico].
Ma non soltanto sulle montagne del sudest messicano si resiste e si lotta contro il neoliberismo. In altre parti del Messico, in America latina, negli Stati uniti e nel Canada, nell'Europa del Trattato di Maastricht, in Africa, in Asia e in Oceania le sacche di resistenza si moltiplicano. Ciascuna esse ha la sua propria storia, le sue differenze, le sue uguaglianze, le sue richieste, le sue lotte, le sue conquiste. Se l'umanità ha ancora speranza di sopravvivere, di diventare migliore, queste speranze sono nelle sacche formate dagli esclusi, da quelli in sovrannumero, da quelli che si possono gettar via.
La figura 7 si costruisce disegnando una borsa. Però non bisogna farci molto caso.Ci sono tanti modelli di resistenza quanti sono i mondi del mondo. Così si può disegnare la borsa come piace di più. E nel disegnare borse, come nella resistenza, la diversità è ricchezza.
Ci sono, senza dubbi, molte più tessere del rompicapo neoliberista. Per esempio i mezzi di comunicazione, la cultura, l'inquinamento, le epidemie. Qui abbiamo voluto mostrarvene sette. Queste sette perché voi, dopo averle disegnate, ritagliate e colorate, vi rendiate conto di quanto è impossibile metterle insieme. E questo è il problema che la globalizzazione ha preteso di risolvere: le tessere non si incastrano. Per questo, e per altre ragioni che oltrepassano lo spazio di questo testo, è necessario fare un mondo nuovo. Un mondo che contenga molti mondi, che contenga tutti i mondi...
Dalle montagne del sudest messicano
Esercito
zapatista
di
liberazione
nazionale
Messico,
giugno
1997
Post
scriptum
che
racconta
sogni
annidati
nell'amore.
Riposa
la
Mar
al
mio
fianco.
Essa
condivide
da
tempo
le
angosce,
le
incertezze
e
non
pochi
sogni,
ma
ora
dorme
con
me
la
calda
notte
della
Selva.
Io
guardo
il
suo
frumento
fremente
nel
sogno
e
mi
meraviglio
di
vederlo
com'è:
tiepido,
fresco
al
mio
fianco.
L'asfissia
mi
tira
fuori
dal
letto
e
prende
la
mia
mano,
e
la
penna,
per
portare
qui
il
Vecchio
Antonio,
come
anni
fa...
Ho
chiesto
al
Vecchio
Antonio
che
mi
accompagnasse
a
fare
un'esplorazione
al
fiume,
in
basso.
Abbiamo
portato
con
noi
poco
da
mangiare.
Per
ore
abbiamo
seguito
il
corso
capriccioso
della
corrente
e
la
fame
e
il
caldo
ci
hanno
assediato.
Abbiamo
passato
il
pomeriggio
a
inseguire
un
branco
di
cinghiali.
Quasi
annottava
quando
gli
siamo
stati
addosso,
ma
un
enorme
«censo»
[maiale
di
montagna,
ndt.]
si
stacca
dal
gruppo
e
ci
attacca.
Io
cerco
di
rispolverare
tutte
le
mie
conoscenze
militari,
tiro
fuori
la
mia
arma
e
mi
accosto
all'albero
più
vicino.
Il
Vecchio
Antonio
resta
inerte
di
fronte
all'attacco,
invece
di
fuggire
si
mette
dietro
un
cespuglio
di
liane.
Il
gigantesco
cinghiale
attacca
di
fronte
con
tutta
la
forza,
ma
resta
impigliato
tra
le
liane
e
le
spine.
E,
prima
che
possa
liberarsi,
il
Vecchio
Antonio
alza
la
sua
vecchia
carabina
e,
con
un
colpo
alla
testa,
risolve
il
problema
della
cena.
All'alba,
quando
ho
finito
di
pulire
il
mio
moderno
fucile
automatico
[un
M16
calibro
5,56
millimetri,
con
selettore
di
fuoco
e
portata effettiva di 460 metri, con in più il mirino telescopicc e un caricatore da 90 colpi] scrivo il mio diario e, omettendo tutto quel che è successo, annoto solo: «Incontrato cinghiali e A. ha ucciso un esemplare. Altura 350 m. slm. Non ha piovuto».
Mentre
aspettiamo
che
la
carne
cuocia,
racconto
al
Vecchio
Antonio
che
la
mia
parte
servirà
per
la
feste
che
si
preparano
all'accampamento.
«Feste?»,
mi
chiede
mentre
attizza
il
fuoco.
«Sì-
dico
-
Non
importa
il
mese,
c'è
sempre
qualcosa
da
festeggiare».
Dopo
di
che
continuo
con
quella
che
supponevo
fosse
una
brillante
dissertazione
sul
calendario
storico
e
le
celebrazioni
zapatiste.
Il
Vecchio
Antonio
ascolta
in
silenzio
e
infine,
supponendo
che
il
tema
non
gli
interessasse,
mi
accomodo
per
dormire.
Tra
i
sogni
vedo
il
Vecchio
Antonio
prendere
il
mio
quaderno
e
scrivere
qualcosa.
La
mattina
dividiamo
la
carne,
dopo
la
colazione,
e
ciascuno
prende
la
sua
strada.
Arrivo
all'accampamento,
faccio
rapporto
al
comando
e
mostro
il
diario
per
far
vedere
quello
che
è
successo.
«Questa
non
è
la
tua
grafia»,
mi
dicono
mostrandomi
un
foglio
del
quaderno.
Ahi,
sotto
quel
che
io
avevo
annotato,
il
Vecchio
Antonio
aveva
scritto,
in
grandi
lettere:
«Se
non
puoi
avere
la
ragione
e
la
forza,
scegli
sempre
la
ragione
e
lascia
che
il
nemico
si
tenga
la
forza.
La
forza
può
vincere
in
molti
combattimenti,
ma
in
tutta
la
lotta
solo
la
ragione
può
prevalere.
Il
potente
non
potrà
mai
cavare
la
ragione
dalla
sua
forza,
noi
sempre
potremo
ottenere
la
forza
dalla
ragione».
E
più
in
basso,
in
lettere
molto
piccole:
«Felici
feste».
Nemmeno
a
dirlo,
non
avevo
più
fame.
Le
feste,
come
sempre,
riuscirono
molto
allegre.