Ultra-imperialismo

La nascita dell'ultra-imperialismo.
Una interpretazione del processo di mondializzazione

di Odile Castel

Tratto da G. Duménil, D. Lévy (a cura) Le Triangle infernal. Crise, mondialization, financiarisation,
PUF, quaderno di "Actuel Marx", 1999

 

SINTESI

Riprende il concetto di "ultra-imperialismo" che risale a Kautsky e sostiene che se nel 1915 esso pareva a Kautsky stesso "concepibile" ma non realizzabile, oggi comincia a realizzarsi. Dopo aver cercato di definire cosa si intenda per mondializzazione (termine usato in Francia nel senso in cui noi usiamo "globalizzazione", e qui inteso in senso molto simile a "neoliberismo"), l'autrice sostiene che il termine imperialismo è inadeguato a rappresentare questa realtà e indica quali sono a suo avviso i cambiamenti intervenuti rispetto ai cinque punti usati da Lenin per definire l'imperialismo. Insiste in particolare sul carattere non più nazionale ma transnazionale degli oligopoli e sulla subordinazione degli stati agli interessi dei primi, che un tempo essi tutelavano in modo "esigente", cioè esercitando un controllo. Da questo seguirebbe il venir meno delle contraddizioni interimperialistiche fra gli stati e, in prospettiva, degli stati stessi. Oggi tuttavia l'ultra-imperialismo è ancora in una fase iniziale e gli oligopoli hanno bisogno del sostegno sia di alcuni organismi internazionali sia di alcuni stati "forti". Passa poi a descrivere il concreto funzionamento dell'ultra-imperialismo, cioè degli oligopoli e degli organismi internazionali, in particolare di quelli che ragruppano gli stati forti.

ARTICOLO COMPLETO

"L'odierna politica imperialista non può essere soppiantata da una politica nuova, ultra-imperialista, che andrebbe a sostituire alla lotta fra i capitali finanziari nazionali lo sfruttamento globale del mondo da parte del capitale finanziario, unito su scala internazionale? Questa nuova fase del capitalismo è comunque concepibile: ma è realizzabile?" (Kautsky,1915).

Se nel 1915, per Kautsky, l'ultra-imperialismo era "concepibile", egli riteneva che al momento non fosse realizzabile. Ma oggi?
Negli anni Ottanta gli Stati Uniti, convertiti a un liberismo aggressivo, cercano di imporre la loro visione del mondo. Deregolamentazioni accelerate e disarmo doganale lasciano libero campo ad attività svincolate da costrizioni geografiche e politiche. Gli agenti micro-economici possono così operare su scala planetaria. Il concetto di mondializzazione serve allora a definire un movimento complesso di apertura delle frontiere economiche e di deregolamentazione, che permette alle attività economiche capitaliste di estendere il loro campo di azione a tutto il pianeta. La comparsa di strumenti di telecomunicazione estrememente efficienti hanno convalidato questo concetto, annullando le distanze. Il crollo del blocco sovietico e l'apparente trionfo planetario del modello liberista all'inizio degli anni Novanta sembrano avergli definitivamente conferito una validità storica.
Ciò che passa sotto il nome di "mondializzazione" comprende vari fenomeni che sono apparsi e si sono sviluppati fin dai primi anni Ottanta.
Il primo fenomeno è il veloce incremento dei mercati finanziari mondiali che si ha alla fine degli anni Settanta, anche stimolato dalla deregolamentazione dei mercati finanziari e dall'irrompere di nuove tecnologie dell'informazione.
Il secondo fenomeno è la mondializzazione delle attività delle imprese sia nel settore manifatturiero che nei servizi. Come per la globalizzazione finanziaria, anche quella dei settori dell'economia reale è stata stimolata dalla deregolamentazione e dalle nuove tecnologie: le società multinazionali tendono a diventare transnazionali e a formare oligopoli mondiali.
Il terzo fenomeno è di natura ecologica. Alla fine degli anni Ottanta si è manifestata abbastanza spesso una generale preoccupazione per le minacce all'ambiente naturale come la rarefazione dell'ozono e il riscaldamento del pianeta. Si è diffusa l'idea che questi effetti esterni non voluti, pericolosi per il mondo intero, sono il risultato del libero gioco delle foze del mercato e che anche i governi più potenti non sono in grado di porvi rimedio da soli.
Lo spazio mondiale, ridotto dal forte abbassamento dei costi di trasporto e dalla facilità delle telecomunicazioni, diventa unico. La mondializzazione, tuttavia, non è uniforme, né omogenea. Deve essere considerata come un processo diseguale sul piano geografico e progressivo nel tempo. In altri termini, la mondializzazione è un processo incompiuto e forse destinato a restare tale.
Detto questo, "Ciò che è in gioco nel movimento di mondializzazione non è altro che la rimessa in causa dell'economia internazionale come principio maggiore e unico di organizzazione dell'economia- mondo, cioè la rimessa in discussione del principio di organizzazione che ha avuto la sua massima espansione nel periodo dal 1870 al 1914". La mondializzazione segna allora una nuova tappa nell'evoluzione del capitalismo, successiva all'internazionalizzazione delle imprese e dei capitali. E' in questo nuovo contesto che vogliamo discutere la pertinenza del concetto di ultra-imperialismo e verificare se l'ultra-imperialismo non sta nascendo grazie alla messa in opera di strumenti e meccanismi di sfruttamento a vantaggio degli oligopoli mondiali in formazione.

Si può ancora parlare di imperialismo o bisogna ormai parlare di ultra-imperialismo?

Tra il 1880 e gli anni Settanta, il capitalismo era nello stadio dell'imperialismo definito da Lenin. Dagli anni Ottanta, il processo di mondializzazione dimostra che il capitalismo sta raggiungendo un nuovo stadio della sua evoluzione. In questo nuovo stadio, si può ancora parlare di imperialismo, mentre si passa da una logica geopolitica a una logica geo-economica nelle relazioni internazionali e si assiste al formarsi di oligopoli mondiali?
Ricordiamo i cinque punti che, secondo Lenin, caratterizzano l'imperialismo:

1. Concentrazione della produzione e del capitale arrivata a un grado di sviluppo così alto da aver creato dei monopoli (oligopoli) il cui ruolo è decisivo nella vita economica (questi oligopoli hanno una dimendsione nazionale).

2. Fusione del capitale bancario e del capitale industriale, e creazione, sulla base di questo "capitale finanziario", di una oligarchia finanziaria (nazionale).

3. L'esportazione di capitali assume un'importanza del tutto particolare, rispetto all'esportazione delle merci.

4. Formazione di unioni internazionali monopolistiche di capitalisti (nazionali), che si spartiscono il mondo.

5. Fine della spartizione territoriale del globo fra le grandi potenze mondiali.

Lenin aggiunge che "la vera essenza dell'imperialismo è la lotta fra le maggiori potenze per l'egemonia", non solo economica, ma anche politica. Dunque, come sottolinea Madgoff, uno dei tratti essenziali della fase imperialista, secondo Lenin, è la lotta militare ed economica tra potenze imperialiste per il controllo delle nazioni più deboli, industrializzate o no. Questo tratto riflette il rafforzarsi dell'azione degli oligopoli nazionali su base nazionale allo stadio dell'imperialismo: caratteristica sulla quale gli storici concordano da Thobie in poi.
Così l'imperialismo è "comparsa e azione del capitale finanziario, attraverso l'attività di gruppi, di monopoli o meglio oligopoli, collegati con un apparato di Stato, che denota una volontà politica sostenuta dall'esistenza e dall'influenza di questi gruppi e che si sviluppa nel loro interesse: la divisione del mondo che ne deriva tra gruppi e Stati, acuisce le contraddizioni tra nazioni industrializzate e alimenta, tra il 1880 e il 1914, energiche e pericolose reazioni nazionaliste che l'oligarchia finanziaria, beneficiaria dell'imperialismo, e il potere politico, incoraggiano come mezzo per disinnescare le lotte operaie e mantenere lo status quo sociale".
Storicamente gli oligopoli nazionali poggiavano, nella fase dell'imperialismo, su una base nazionale nella quale lo Stato giocava un ruolo fondamentale. Tra il 1880 e il 1980, "lo Stato è quasi sempre stato il sostegno - grande fratello comprensivo o esigente tutore - del suo capitalismo nazionale. Esso poteva avere un chiaro progetto per il futuro: conquiste, colonizzazione o preparazione alla guerra; sforzo di equipaggiamento, modernizzazione, sostegno alla ricerca scientifica, generalizzazione dell'istruzione, grandeur nazionale o pacifismo; il padronato raramente era assente dal progetto, dalla sua concezione alla sua messa in opera. Lo Stato ha accompagnato lo sviluppo del capitalismo industriale, passando quasi sempre da una posizione brutalmente reazionaria nei confronti della classe operaia a posizioni più riformiste e sociali, per diventare infine in molti paesi il promotore o il coordinatore di una protezione sociale che assicurasse una equa distribuzione del benessere ".
Oggi gli oligopoli hanno assunto una dimensione mondiale, come vedremo, e gli Stati non possono più essere un tutore esigente del loro capitalismo nazionale. Per esempio, "negli anni 1950-1960, il sostegno del governo statunitense allo sviluppo dell'attività delle imprese nazionali all'estero sembra scontato. Ma solo nella misura in cui la strategia di queste imprese si iscriveva nel quadro della politica estera stabilita dal governo. Altrimenti il Dipartimento di Stato non esitava a togliere il suo appoggio agli interessi privati americani all'estero". Nella fase dell'imperialismo, gli interessi economici erano chiaramente subordinati agli interessi strategici e geopolitici. Gli anni Ottanta inaugurano nuovi rapporti tra le imprese private e i poteri pubblici, specialmente negli Stati Uniti. Nel quadro del processo di mondializzazione, le frontiere nazionali si cancellano per lasciare il passo a una definizione dell'economia nazionale che si fonda unicamente sull'attività planetaria delle società che hanno la loro casa madre sul territorio nazionale.
In questo nuovo approccio, si ritiene che la potenza e la prosperità dell'economia, in questo caso statunitense, sia indissociabile da quella delle società, che i poteri pubblici debbano farsi campioni dei loro interessi. In un tale contesto, l'autonomia del politico nei confronti dell'economia tende a sparire, o così sembra. Come insegna Amin,"una importanza particolare è data al fatto che un sistema produttivo mondializzato prende il posto dei sistemi produttivi nazionali autocentrati finora dominanti e l'evoluzione in questa direzione si è a tal punto accelerata che i conflitti fra i diversi centri non hanno più la stessa natura che hanno avuto fino alla seconda guerra mondiale gli antichi conflitti interimperialisti ". E ancora,"l'idea della preminenza del rapporto di forza nelle relazioni tra imperialismi e la concezione stessa di un mondo bipolare (dominante dopo la seconda guerra mondiale), sono rifiutate". Le evoluzioni riscontrate in materia di politica estera vanno in direzione della subordinazione progressiva della politica all'economia: con la fine della guerra fredda, è stato ridefinito il concetto di sicurezza nazionale per far posto a quello di sicurezza economica; e mentre alla fine della seconda guerra mondiale le relazioni economiche stabilite fra gli Stati Uniti e i loro alleati miravano a rafforzare il potere del mondo occidentale di fronte al nemico comunista, tavolta anche a scapito degli interessi economici degli oligopoli nazionali, i termini si sono oggi rovesciati al punto che gli interessi economici degli oligopoli mondiali con con sede negli Stati Uniti determinano la visione che gli Stati Uniti hanno dei propri interessi politici e strategici. Così "la politica economica internazionale fa oggi corpo unico con la politica estera: la logica non è più quella della conquista politica o geopolitica, ma piuttosto quella della 'conquista' economica o geo-economica".
Questa frattura nella logica delle relazioni internazionali indica che oggi gli Stati sono sottomessi agli imperativi economici degli oligopoli mondiali in formazione nel processo di mondializzazione. Nella fase dell'imperialismo, gli Stati dominanti alleati dei loro oligopoli nazionali possedevano un vero potere geopolitico nelle relazioni internazionali. Col venir meno di questo potere geopolitico, talvolta di freno agli oligopoli nazionali, il quinto punto della definizione di Lenin non caratterizza più la fase attuale dell'evoluzione del capitalismo. Inoltre nella sua definizione Lenin mette l'accento, ai punti uno e due, sulla formazione di oligopoli nazionali e di oligarchie finanziarie nazionali, mentre - come nota Chesnais - oggi si assiste alla formazione di oligopoli mondiali che potrebbero ad un certo punto costituire una unione del capitale finanziario su scala mondiale.
Nel 1994 c'erano nel mondo circa 37.000 società che si possono qualificare come multinazionali, contro le 7.000 circa di due decenni prima. Esse controllavano tra le 150.000 e le 200.000 filiali, un terzo della produzione industriale mondiale, molte decine di milioni di entrate, che sviluppano un volume d'affari dell'ordine di 5.000 miliardi di dollari, superiore all'ammontare degli scambi commerciali internazionali. Le cento multinazionali maggiori realizzavano da sole tre quarti del volume di affari totale e le duecento maggiori avevano nel 1995 un giro d'affari pari al 31,2% del Pil mondiale.
Così, nella nuova fase del capitalismo, le multinazionali, trasformatesi in transnazionali, diventano attori fondamentali dell'economia mondiale. Di pari passo con il processo d'internazionalizzazione delle grandi società, gli scambi commerciali avvengono sempre meno tra paesi e sempre più tra imprese di una stessa società. Negli anni Sessanta, ciò interessava solo il 5% degli scambi internazionali, oggi oltre un terzo. Il dinaminismo del commercio internazionale, quintuplicato dal 1960 in poi, è strettamente legato allo sviluppo di questo tipo di scambio. Le società transnazionali sono sempre più portate a controllare direttamente il commercio internazionale.
Inoltre la concorrenza per il controllo dei mercati mondiali è così spietata che si formano fra le società coalizioni contrapposte. In genere esse mettono in atto alleanze strategiche fra di loro, ad esempio per il lancio e la diffusione di un prodotto, pur continuando a farsi concorrenza per gli altri. L'incremento delle tecnologie dell'informazione ha giocato e gioca un ruolo fondamentale nell'evoluzione di questo fenomeno permettendo la comunicazione in tempo reale, lo scambio di dati, di immagini e perfino di lavoro, il calcolo in comune tra persone sparse in ogni parte del mondo. Le società coinvolte nell'attuazione di queste tecnologie sono al tempo stesso direttamente partecipi del fenomeno e si impegnano in alleanze su scala planetaria. Esse sbaragliano le condizioni della concorrenza e le politiche della concorrenza che gli Stati ancora si sforzano di definire, in modo indipendente, nel quadro ristretto delle loro frontiere nazionali.
Il termine "alleanza" comprende una grande varietà di forme contrattuali e organizzative, ma riguarda soprattutto le relazioni stabilite tra società a lungo o medio termine per dividersi un insieme limitato di risorse diverse (mezzi finanziari, attrezzature, tecnologie...) senza peraltro rimettere in discussione la loro autonomia. Le alleanze proliferano nel settore delle tecnologie di punta, poiché le società spesso non sanno rispondere immediatamente alla mondializzazione dei mercati e ai cambiamenti tecnologici. Potente strumento strategico, che permette di conquistare posizioni concorrenziali più favorevoli anche con risorse limitate e riducendo i rischi, l'alleanza diventa un imperativo per le industrie, se vogliono partecipare alla formazione di oligopoli mondiali in formazione (concentrazione), dividere i costi crescenti della ricerca-sviluppo (innovazione) e conquistare i mercati [mondializzazione).
Il termine "oligopolio mondiale" è stato definito da Chesnais come "uno spazio di rivalità industriale. Questo spazio si forma sulla base dell'espansione mondiale dei grandi gruppi, dei loro investimenti incrociati intratriadici [con il termine "triade", anche in seguito, l'autrice indica i tre "centri" del capitalismo mondiale: Stati Uniti, Europa, Giappone, N.d.T] e della concentrazione internazionale che risulta dalle acquisizioni e dalle fusioni che i grandi gruppi fanno a questo scopo. E' delimitato dai particolari rapporti di interdipendenza che legano i pochi grandi gruppi che arrivano a conquistare e mantenere lo statuto di concorrente effettivo su piano mondiale, in una data industria. E' un luogo di concorrenza feroce, ma anche di collaborazione fra i gruppi". Chesnais mette in dubbio il fatto che l'oligopolio mondiale in formazione sia un ultra-imperialismo stabile, costituito da oligopoli che hanno l'assoluto controllo sulle barriere di entrata e che organizzano i loro rapporti in pacifica cooperazione. Se numerosi autori concordano sulla definizione di Chesnais, alcuni portano tuttavia argomenti che portano a ritenere la formazione di oligopoli mondiali come premessa di un ultra-imperialismo. E' precisamente il caso di Husson, quando sottolinea che "i grandi gruppi hanno interessi comuni, che risultano dalla necessità di difendere questo spazio dall'arrivo di nuovi concorrenti". Questi interessi comuni rendono di fatto stabili gli oligopoli mondiali. Parallelamente Beaud segnala che "esse (le società transnazionali) lavorano incessantemente a mantenere i vantaggi monopolisti che hanno potuto ottenere e a crearne di nuovi. Fra loro, non si combattono a morte". Se non si tratta di una pacifica cooperazione, non si tratta nemmeno di una guerra all'ultimo sangue. In altri termini, gli oligopoli mondiali formano uno spazio di concorrenza che va in realtà a vantaggio di tutti, essendo la concorrenza il fondamento stesso della dinamica capitalistica. Così gli oligopoli mondiali in formazione, come gli oligopoli nazionali nella fase imperialista, sono un luogo di concorrenza, ma anche di collaborazione e di cooperazione tra società transnazionali che impedisce l'ingresso di nuovi concorrenti. Una delle maggiori caratteristiche della nuova fase del capitalismo è dunque la concentrazione del capitale, giunta a un grado di sviluppo così alto da aver creato degli oligopoli mondiali il cui ruolo è decisivo nella vita economica delle nazioni, come vedremo.
Parallelamente, dall'inizio degli anni Ottanta, l'intreccio tra le dimensioni finanziaria e industriale della mondializzazione si è manifestata sotto nuove forme. Dapprima si è espressa con i mezzi nuovi e diversi che le istituzioni finanziarie e le ditte specializzate hanno messo a disposizione delle società transnazionali per le loro operazioni internazionali di acquisti e di fusioni. Poi la "dis-intermediazione" finanziaria ha permesso alle società internazionali di piazzare titoli direttamente sui mercati finanziari internazionali. Infine, dall'inizio degli anni Novanta, l'intreccio è stata caratterizzato dal forte aumento dell'importanza delle operazioni puramente finanziarie dei gruppi industriali. Si assiste così a una fusione tra la sfera finanziaria e quella produttiva della mondializzazione, e anche questo è uno dei fenomeni più rilevanti della nuova fase del capitalismo.
Di conseguenza, il peso e l'influenza delle società transnazionali, già considerevoli, sembrano superare oggi le capacità degli Stati tradizionali, anche i più potenti. La competizione in cui si lanciano i paesi del Nord come del Sud da una decina d'anni per accrescere la loro attrattiva agli occhi degli investitori internazionali mette anche gli Stati in una situazione di parziale sottomissione alle richieste e agli imperativi propri delle imprese. Ma bisogna considerare che esse hanno anche bisogno degli Stati, come protettori e portavoce ufficiali, e dunque sono raramente apolidi. Tuttavia, oggi sono più potenti che mai. Trattano direttamente con il loro Stato, cioè con molti Stati, data la loro presenza in molte aree geografiche, e con i pochi Stati dominanti e non hanno alcun riguardo per gli Stati piccoli e medi, come sottolinea Beaud. Levet e Tourret si spingono oltre con le loro riflessioni. Per essi, "queste imprese acquistano progressivamente una legittimazione nella gestione degli affari economici e sociali su scala mondiale che dà loro un potere finora ineguagliato". Levet e Tourret mostrano che le società transnazionali offrono alle popolazioni del Nord e del Sud un'immagine di sé che procura loro una legittimità sociale. Questa immagine li presenta insieme come simboli dell'avventura e del successo moderno, come attori principali delle trasformazioni economiche, come fonti di ricchezza e dunque di nuovo lavoro, come attori-chiave della Storia, restauratori dei grandi equilibri economici ed ecologici. L'impresa sembra così dotata di numerosi poteri, una vera e propria fata, con una bacchetta magica tecnologica e commerciale. Data la nuova legittimazione economica e sociale delle società transnazionali, gli Stati cercano il loro appoggio per mantenere la propria legittimazione politica e sociale. Intervengono quindi per favorire l'attività di queste società. E senza l'intervento politico attivo dei governi dei paesi dominanti che hanno messo in atto politiche di de-regolamentazione, di privatizzazione e di libero scambio, gli oligopoli mondiali non avrebbero potuto rompere così in fretta le pastoie e i freni alla loro libertà di sfruttare a piacimento le risorse economiche umane e naturali. Per questo Humbert sottolinea che parlare di oligopoli è insufficiente, poiché il funzionamento delle industrie a livello mondiale dipende non solo dall'interazione delle società, ma anche dall'interazione degli Stati; e propone di chiamare questo fenomeno "concorrenza sistemica".
In questa concorrenza sistemica, il gioco mondiale si complica per le tensioni, gli accavallamenti, intese fra le azioni degli attori statali, imprenditoriali e internazionali. In questo contesto, in cui l'internazionale si sfuma, sempre più organizzazioni internazionali, che sono pur sempre l'emanazione degli Stati, incominciano ad avere una loro propria logica. Il Fondo Monetario Internazionale (FMI), che unisce più di 150 paesi, è controllato dal gruppo dei 7, i G7. La Banca Mondiale (BM) è a sua volta controllata dai suoi maggiori azionisti, cioè gli Stati dominanti. Infine, nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), dove ogni Stato ha un voto, l'influenza degli Stati dominanti, e soprattutto degli Stati Uniti, è fondamentale nelle decisioni. Per Hugon, "i rapporti (in seno alle organizzazioni internazionali) sono infinitamente complessi e non riducibili in termini di principale/agente o di mandatari degli interessi del capitale e delle grandi potenze". Tuttavia il dibattito è aperto. Thobie ritiene che "l'interesse e la filosofia prevalenti nelle istituzioni economiche e finanziarie internazionali (FMI e BM) fanno di esse degli apparati di un capitalismo generale, senza particolari caratteristiche nazionali; cosa di grande novità". Tutti comunque riconoscono che non esistono oggi istituzioni politiche mondiali capaci di padroneggiare il processo di mondializzazione. "Ma di questo le forze che reggono oggi gli affari del mondo non vogliono saperne ad alcun prezzo", sottolinea Chesnais. Tra gli Stati del G7, i più forti pensano ancora di poter cavalcare a loro vantaggio le forze economiche e finanziarie scatenate dalla liberalizzazione, mentre gli altri sono paralizzati dalla consapevolezza da un lato della perdita del loro statuto, dall'altro dalla consapevolezza della strada che devono percorrere per "adattarsi". Le società transnazionali o gli operatori finanziari sono ancor meno inclini a sentir parlare di politiche mondiali costrittive. Insomma, la nuova fase del capitalismo ha una dimensione molto reale, l'allargamento del campo di azione e della libertà di gioco degli attori più potenti: Stati dominanti del mondo, società transnazionali con i loro dirigenti e principali azionisti, grandi organizzazioni internazionali. In conseguenza, e come sostiene Beaud, "è da "innumerevoli rapporti di forza, cooperazione e scambio, dominati da poche centinaia di grandi società in rapporto con i grandi Stati e da alcune potenti organizzazioni internazionali, che le società sono oggi sempre più sottomesse", quale che sia il loro livello di sviluppo.

Ci sembra dunque impossibile far riferimento al concetto di imperialismo per definire la nuova fase del capitalismo. Anche il termine "mondializzazione" è inadeguato, poiché rimanda a un fenomeno che si presenta come ineluttabile e salvatore per una economia mondiale squilibrata e depressa, dal momento che è stato forgiato a metà degli anni Ottanta nelle scuole di management americane, e poi nella stampa anglosassone; mentre le caratteristiche maggiori della nuova fase del capitalismo mostrano al contrario che si tratta di un rafforzarsi del dominio del capitale finanziario che si dispiega, oggi, a livello mondiale. Queste caratteristiche maggiori sono le seguenti:

1. Concentrazione del capitale arrivata a un grado di sviluppo così alto da aver creato oligopoli mondiali, il cui ruolo è decisivo nella vita economica delle nazioni.

2. Fusione degli istituti finanziari e del capitale produttivo a livello mondiale.

3. Il commercio intra-imprese assume un'importanza particolare nel commercio internazionale.

4. Divisione del mondo fra gli oligopoli mondiali.

5. Passaggio da una logica geopolitica a una logica geoeconomica al servizio degli oligopoli mondiali nelle relazioni internazionali. Messa in opera di una concorrenza sistemica all'interno di un sistema industriale mondiale.

Di conseguenza, il concetto di ultra-imperialismo sembra il più adatto a descrivere la nuova fase del capitalismo. Questa idea è confermata dal modello dell'ultra-imperialismo presentato da Mandel, che corrisponde alla tendenza osservata oggi dell'evoluzione del capitalismo.
"In questo modello, l'interpenetrazione internazionale dei capitali è avanzata al punto che sono completamente scomparse le differenze d'interessi sostanziali, di natura economica, tra proprietari di capitali di diverse nazionalità. L'insieme dei grandi capitalisti avrebbe diviso così uniformemente la proprietà dei capitali, la produzione e la realizzazione del plusvalore, e i loro nuovi investimenti nei diversi continenti e paesi, che sarebbero diventati completamente insensibili alla congiuntura particolare di un qualsiasi paese, allo sviluppo particolare della lotta di classe, e alla forma specifica di evoluzione politica di un qualsiasi "Stato nazionale". E' evidente che una tale internazionalizzazione dell'economia mondiale imperialista (oggi si parla di mondializzazione) farebbe d'altra parte sparire quasi del tutto la singola congiuntura nazionale. Non ci sarebbe più, in questo caso, che una concorrenza tra super-società multinazionali; la concorrenza inter-imperialista sarebbe scomparsa, cioè la concorrenza si sarebbe finalmente staccata dalla sua base nazionale. E' chiaro che, perfino in tali condizioni, lo Stato imperialista non "deperirebbe": scomparirebbe soltanto, il suo ruolo di strumento nella concorrenza inter-imperialista".
L'ultra-imperialismo sta davvero nascendo, anche se il processo non è ancora compiuto.

La messa in opera dell'ultra-imperialismo

Gli oligopoli mondiali, che hanno saputo farsi alleati i grandi Stati e alcune potenti organizzazioni internazionali, utilizzano un certo numero di strumenti e meccanismi per sfruttare a loro profitto le risorse umane e naturali del pianeta. Utilizzando gli strumenti di potere, si tratta per gli oligopoli mondiali di imporre a tutti gli Stati del mondo delle regole economiche che favoriscano sistematicamente le loro operazioni finanziarie e produttive. I meccanismi di sfruttamento dal canto loro consentono di limitare il potere d'azione degli Stati non disposti a collaborare con gli oligopoli mondiali. Questa messa in opera dell'ultra-imperialismo provoca un impoverimento delle popolazioni tanto nei paesi del Nord quanto del Sud.
Fra gli strumenti di dominio utilizzati dagli oligopoli mondiali per sfruttare liberamente le risorse umane e naturali del pianeta, dove loro meglio conviene, tre ci sembrano fondamentali: i programmi di aggiustamento strutturale (PAS) che hanno obbligato la maggior parte dei paesi in via di sviluppo e i paesi in transizione verso l'economia di mercato ad accettare nuove forme di disimpegno economico dello Stato; l'Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) il cui obiettivo è la liberalizzazione completa di tutti gli scambi internazionali; e l'Accordo Multilaterale sugli Investimenti (AMI) in via di negoziazione.
Nel quadro dei programmi di aggiustamento strutturale imposti ai paesi in via di sviluppo indebitati e ai paesi in transizione troviamo alcune misure standard, quali che siano le situazioni economiche, sociali e politici di quei paesi: ritiro dello Stato dai processi di accumulazione, abbandono delle strategie di sostituzione delle importazioni e delle strategie autocentrate, riduzione del deficit pubblico, svalutazione della moneta nazionale, politica monetaria restrittiva, privatizzazione delle imprese pubbliche, smantellamento dei monopoli commerciali, soppressione del sostegno pubblico alla produzione, soppressione di tutte le sovvenzioni, delle protezioni, delle tassazioni differenziate, imposizione dei prezzi reali di mercato... Come sottolinea Coussy, "il potere delle organizzazioni internazionali è utilizzato per evitare che le sfide economiche internazionali non sbocchino, dialetticamente, in un rafforzamento degli Stati e per costringere invece questi ad accettare lo smantellamento dei loro interventi economici. ". Così "gli Stati si vedono consigliati, in nome della ragione economica, ad abbandonare tutti i disegni politici che avevano contribuito a plasmare le loro scelte economiche negli anni precedenti". Con questo sistema, si impone all'insieme dei paesi del Sud e dell'Est una visione liberale di sviluppo che impedisce ogni altra via alternativa. L'apertura commerciale, la liberalizzazione degli scambi e dei flussi di capitale, le deregolamentazioni... che ne derivano, facilitano molto le operazioni commerciali, produttive e finanziarie degli oligopoli mondiali a Sud come a Est.

L'Organizzazione Mondiale del Commercio, nata il 1deg. gennaio 1995, ha per obiettivo la liberalizzazione completa degli scambi internazionali. Essa rappresenta, come sottolinea Péron, "una delle istituzioni multilaterali dominanti che pesano in modo ineguale sulle relazioni economiche internazionali". Per esempio, in nome del principio di non-consolidamento dei diritti doganali, se l'Indonesia, cercasse di imporre delle quote di esportazione per limitare l'eccessivo sfruttamento della sua foresta da parte delle società nazionali, ma anche transnazionali, messa "sotto esame" nel quadro di un arbitrato sarebbe condannata. I paesi dominanti possono invece imporre una regolamentazione sulle loro importazioni, a condizione che i loro stessi prodotti vi siano assoggettati, il che gli consente di proteggere le loro industrie e le società transnazionali dalla concorrenza dei paesi in via di sviluppo sui propri mercati. Inoltre i campi d'intervento dell'Organizzazione Mondiale del Commercio si allargano di continuo e superano largamente quello degli scambi di beni e servizi, tanto che nuovi settori di negoziazione particolarmente interessanti per le società transnazionali sono in discussione: le regole della concorrenza, l'apertura di mercati pubblici, i diritti di proprietà intellettuale.
Per quanto riguarda la concorrenza, l'obiettivo da raggiungere non è dissimulato: smantellare, dove ancora esistono, i monopoli nazionali costituiti in virtù di una decisione pubblica. Già in vigore per le telecomunicazioni, la cui liberalizzazione è stata decisa nel febbraio 1997, negoziati sono in corso per le ferrovie che attirano le bramosie dei grandi gruppi finanziari.
L'accordo plurilaterale sui mercati pubblici è stato concluso nel 1994, ed è entrato in vigore nel 1996. I 24 paesi firmatari si sono impegnati ad aprire i loro mercati pubblici alla concorrenza mondiale. L'obiettivo è quello di estenderlo agli Stati ancora recalcitranti, che continuano a privilegiare le società nazionali. Questo accordo può solo rafforzare il peso degli oligopoli mondiali.
Nel dominio della proprietà industriale, un conflitto opponeva chiaramente le società transnazionali dei grandi paesi sviluppati ai paesi in via di sviluppo e ad alcuni paesi sviluppati, come la Spagna, che non intendevano liquidare settori interi della loro economia basati sull'utilizzo gratuito dei brevetti e dei copyrights depositati all'estero. In seguito a ciò, gli Stati Uniti e la Comunità Economica Europea hanno per primi fatto domanda congiunta per l'apertura di negoziati sui diritti di proprietà. Parallelamente, alcuni raggruppamenti di società americane, giapponesi ed europee hanno presentato insieme un progetto di accordo. Hanno così ottenuto a loro vantaggio di imporre su scala mondiale norme particolari di protezione della proprietà intellettuale.

L'Accordo Multilaterale sugli Investimenti è in fase di negoziato presso l'OCDE dal 1995. Come nota Wallach, "i 29 membri vogliono accordarsi prima di presentare ai paesi in via di sviluppo un trattato da prendere o lasciare": motivo per cui i negoziati sono al momento sospesi. L'obiettivo dell'Accordo Multilaterale sugli Investimenti è quello di estendere il programma di deregolamentazione dell'Organizzazione Mondiale del Commercio ai pochi settori ancora vergini: la localizzazione e le condizioni dell'investimento diretto straniero nell'industria e nei servizi. Gli articoli 1 e 2 del paragrafo 1, il paragrafo 4 e l'articolo 1 del paragrafo 6 , titolo III del testo di negoziato  tornano a vietare a una delle parti contraenti di stabilire o mantenere un codice d'investimento o codice di buona condotta che i paesi in via di sviluppo hanno stabilito dall'inizio degli anni Settanta per impedire le pratiche abusive delle società multinazionali e ricavare, dall'impianto di filiali straniere, effetti di trascinamento nella loro economia locale. L'articolo D del titolo V dà alle società e agli investitori privati che hanno subito una perdita o un pregiudizio gli stessi diritti e lo stesso statuto dei governi nazionali per far applicare le clausole dell'Accordo Multilaterale sugli Investimenti. Essi potranno perseguire i governi in tribunale con l'arbitraggio della Camera di Commercio internazionale.

Gli strumenti di potere (PAS, OMC, AMI) impongono all'insieme dei paesi del mondo una deregolamentazione quasi totale, permettendo agli oligopoli mondiali di svolgere liberamente le loro attività laddove loro conviene maggiormente. Se gli Stati negoziano e mettono in opera accordi di questo tipo, è perché oggi " nel quadro di una procedura a livello internazionale, ogni Stato nazionale non è ritenuto rappresentare l'interesse generale, ma un interesse particolare. Sono le società, sostenute dal loro governo, che sono ormai ritenute le rappresentanti dell'interesse generale, quello del rispetto del 'nuovo ordine economico mondiale' e delle sue regole".

Tuttavia gli strumenti di potere non sono ancora sufficienti per imporre questo "nuovo ordine economico mondiale", e l'oligopolio utilizza quindi anche alcuni meccanismi di sfruttamento: l'indebitamento, la regionalizzazione e la marginalizzazione.

L'indebitamento non è un meccanismo di sfruttamento nuovo, il suo utilizzo risale al XIX sec. L'indebitamento estero ha sempre favorito il dominio. Il controllo del servizio e l'ammortamento del debito estero era già un mezzo di pressione privilegiato sugli Stati debitori e porta con sé nel XIX come nel XX secolo la oro messa sotto tutela. Dalla crisi del debito nel 1982, si sono visti i finanziatori, organizzazioni internazionali e associazioni di creditori ingerirsi sempre più in tutte le decisioni degli Stati debitori. Oggi siamo molto lontani dall'ipotesi iniziale secondo la quale la tutela straniera potrebbe limitarsi a imporre il rispetto di alcuni grandi principi. Si è ormai a un livello di dettaglio tanto sorprendente che le istanze straniere intervengono nella gestione economica interna dei paesi in via di sviluppo: le decisioni sui grandi equilibri macro-economici e sulla risistemazione micro-economica sono, fin nei più piccoli dettagli, negoziate con il Fondo Monetario Internazionale e con la Banca Mondiale; la regolamentazione finanziaria è affidata a un insieme di clubs (Londra e Parigi) e di Ministeri del tesoro stranieri che esaminano altrettanto bene gli aspetti interni e le condizioni estere del funzionamento del credito; la lotta contro la povertà e la soddisfazione dei bisogni essenziali sono sempre più delegate a speciali organizzazioni in seno alla Banca Mondiale; le questioni di sicurezza alimentare sono stabilite nelle riunioni dei fornitori di aiuti; l'elaborazione di programmi di infrastrutture e di sviluppo agricolo sono ancora faccende che competono agli aiuti bilaterali o multilaterali quali il Fondo Europeo di Sviluppo; infine le Organizzazioni non governative sono diventate, nei paesi più poveri, abbastanza potenti da assicurare alcune funzioni dello Stato e da divenire i focolai di movimenti sociali che diffondono le ideologie (importate) emergenti nella società civile. Così, c'è un trasferimento di potere ad autorità che si vantano di non essere implicate nei conflitti locali e di non avere interessi economici diretti nelle opzioni che presentano.

Al meccanismo tradizionale dell'indebitamento, si sono aggiunti due meccanismi nuovi: la regionalizzazione dell'economia mondiale da parte della triade e la marginalizzazione dei paesi meno avanzati (PMA) nell'economia mondiale. Il primo riguarda le economie emergenti il cui potenziale economico interessa molto gli oligopoli mondiali. I paesi meno avanzati sono sottomessi al secondo, che permette lo sfruttamento senza freno dei loro ambiente naturale.
La regionalizzazione dell'economia mondiale da parte della triade non è solo un risultato politico di accordi fra Stati, ma è anche un fenomeno economico o comunque mosso de facto dalle stesse forze microeconomiche della mondializzazione. Dall'inizio degli anni Ottanta, lo spiegamento delle attività produttive e finanziarie delle società transnazionali ha largamente interessato le economie emergenti dell'America Latina (Messico, Brasile, Argentina...), dell'Asia dell'Est e del Sud Est (Corea del Sud, Taiwan, Hongkong, Singapore...) e del bacino del Mediterraneo (Turchia, Marocco, Tunisia...). Questa regionalizzazione de facto può generare forze politiche che cercano di consolidare o di radicare il processo creando degli accordi regionali de jure. Associare economie emergenti ad accordi regionali che stabiliscono zone di libero scambio come l'Associazione Del Libero Scambio Nord Americano (ALENA), l'APEC, o lo statuto di paese associato all'Unione Europea, permette di liberare da ogni ostacolo i flussi di capitali, beni e servizi fra le economie emergenti e i tre poli dell'economia mondiale [Nord America, Europa, Giappone]; in altre parole, di riservare alle società dei paesi dominanti dei mercati dal forte potenziale di crescita, lo sfruttamento di una mano d'opera a buon mercato e sufficientemente qualificata e di assicurare a queste società una stabilità politica nei paesi "associati" per le loro attività commerciali, produttive e finanziarie.
Il "rischio-paese" diminuisce da sé. Così, i principali effetti economici della creazione di una zona di libero scambio non riguardano gli scambi commerciali, ma gli investitori privati, poiché questo accordo li rassicura sull'adesione irrevocabile alla logica di mercato e sulla tenuta di politiche economiche ortodosse, in particolare nei paesi emergenti. L'obiettivo è la mobilità del capitale e la riorganizzazione delle zone di localizzazione della produzione. "I rapporti Nord-Sud tendono così a reinserirsi in una organizzazione 'longitudinale' come se ognuno dei tre Nord che costituiscono la parte industrializzata del mondo cercasse di crearsi il suo hinterland". Se i governi dei paesi emergenti sperano, aderendo agli accordi regionali, di dinamizzare la loro economia e aumentare i tassi di crescita, contemporaneamente sottomettono le loro decisioni di politica economica e sociale agli imperativi delle società transnazionali che si sono impiantate sul loro territorio nazionale.
I paesi che si sono integrati negli scambi mondiali in epoca coloniale come esportatori di materie prime, agricole o minerarie, sono stati particolarmente colpiti del peggioramento fortissimo dei termini di scambio a partire dai primi anni Ottanta. Tutto fa sì che questi paesi meno avanzati restino prigionieri di specializzazioni rese fragilissime dall'evoluzione delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie accumulate dai paesi dominanti, particolarmente in seno alle società transnazionali. In quanto paesi all'epoca colonizzati, che hanno ereditato apparati statali creati dalle potenze colonialiste, dotati di élites dirigenti formate alla scuola del parassitismo e della corruzione, essi sono praticamente senza mezzi di difesa di fronte a queste evoluzioni. Inoltre non attirano gli investimenti diretti stranieri poiché la sostituzione dei prodotti di base con materiali sintetici nella produzione delle società transnazionali toglie loro interesse strategico. Pertanto, come nota Salama, il dominio continua. Cambia forma e non riveste più lo stesso interesse. I paesi meno avanzati marginalizzati nell'economia mondiale sono costretti a rinunciare a qualsiasi progetto di sviluppo economico e sociale e sono mantenuti in una estrema povertà. Il dominio si traduce in numerosi fenomeni concreti che interessano molto gli oligopoli mondiali: esportazioni verso questi paesi di attività contaminanti e delle scorie prodotte nei paesi dominanti. Oltre ad accettare sul suolo nazionale industrie contaminanti, i paesi meno avanzati, sempre pressati dalla ricerca di fondi, corrono un altro pericolo: quello di diventare dei "paesi-pattumiera". E' stato scoperto un enorme traffico di rifiuti tossici, denunciato nel 1988 dall'Intesa Europea per lo Sviluppo: riguardava molte migliaia di tonnellate all'anno. Deplorato da tutti, questo commercio di rifiuti è in linea di principio oggi regolato da una convenzione internazionale. Ma sapendo che lo stockaggio di rifiuti a cielo aperto costa tra i 2,5 e i 40 dollari USA la tonnellata nei paesi meno avanzati - mentre il loro trattamento secondo le norme imposte nei paesi dominanti costa tra i 75 e i 300 dollari USA la tonnellata, si capisce quanto sia fragile il rispetto di questa convenzione rispetto agli interessi finanziari in gioco. I paesi meno avanzati non hanno più lo stesso interesse strategico per le società multinazionali, non sono più luoghi di sfruttamento di materie prime non lavorate ma diventano luoghi di sfruttamento dell'ambiente naturale.
Oggi, la realizzazione dell'ultra-imperialismo ha conseguenze gravissime sulle condizioni di vita dei popoli sia nei paesi del Nord che in quelli del Sud. "Ormai la paradossale sovranità dell'impresa si esprime attraverso un patto sociale negativo". In nome della difesa degli interessi strategici delle nazioni su un fronte mondiale esterno, le società transnazionali impongono con la forza le loro esigenze interne, che tendono a distruggere tutte le conquiste sociali ottenute in un secolo e mezzo. Contemporaneamente, la mobilità del capitale permette alle società transnazionali di costringere gli Stati ad uniformare le loro legislazioni sul lavoro e sulla protezione sociale a quelle degli Stati che hanno leggi a loro più favorevoli e di impedire a questi ultimi l'attuazione di politiche miranti a meglio ripartire la ricchezza nazionale, a migliorare i livelli di vita e la protezione sociale.
Così, in tutto il mondo si osserva un aggravarsi delle disuguaglianze sociali e un aumento della povertà. Gli indicatori quantitativi e qualitativi possono essere moltiplicati e mostrano che in tutto il mondo l'impoverimento aumenta e si approfondiscono le disuguaglianze

Conclusione

Se l'imperialismo è stato la politica dispiegata dalle potenze capitaliste dagli ultimi decenni dell'Ottocento, come reazione alla grande depressione degli anni 1873-1895, fino agli anni Sessanta per cercare di superare le crisi di sovrapproduzione, l'ultra-imperialismo sembra essere la politica dispiegata dalle maggiori imprese a partire dagli ultimi decenni del ventesimo secolo, come reazione alla grande depressione iniziata nel 1973.
Tuttavia l'imperialismo non ha mai rappresentato una soluzione per le crisi di sovrapproduzione che le potenze capitaliste hanno conosciuto dalla fine dell'Ottocento alla metà del Novecento. Per uscire da tale crisi c'è voluta una trasformazione interna dei capitalismi nazionali e l'accettazione di una regolazione macro-economica keynesiana. La grande depressione che inizia nel 1973 è largamente caratterizzata da una riduzione del reddito delle imprese dei capitalismi dominanti. Il processo di mondializzazione e la formazione di oligopoli mondiali sono la risposta a questa crisi mondiale e l'ultra-imperialismo messo in atto da questi oligopoli non potrà essere una soluzione a lungo termine, data l'emarginazione di una frangia considerevole di popoli del Nord e del Sud e la distruzione dell'ambiente naturale prodotte con l'imposizione a livello mondiale di un modo di produzione che distrugge e sperpera le risorse naturali.
E tuttavia, l'oligopolio mondiale è oggi ancora nell'infanzia, e ha ancora bisogno di padri protettori, cioè gli Stati dominanti. Quanto più si avvicinerà alla maturità, tanto più diventerà autonomo e indipendente, tanto più potrà imporre il suo ultra-imperialismo a tutte le società del mondo, qualunque sia il loro livello di sviluppo, se non viene fatto nulla, a livello mondiale, per limitarne il potere. Ma, in questa fine del ventesimo secolo, non c'è una autorità a livello mondiale che abbia la legittimazione necessaria per imporre regole e norme agli oligopoli mondiali in formazione. Non c'è stato di diritto su scala mondiale e ciò lascia libero corso alla tirannia del capitale.