GLOBALIZZAZIONE
Università
degli Studi di Pisa
La parola globalizzazione è diventata
ormai una specie di passpartout riferito a fenomeni vari e complessi.
L’approccio a tale tematica inoltre, trattandosi di fenomeni in corso, è
difficile anche perché su tali processi c’è notevole disaccordo: da un lato gli stati nazionali sono visti come negativi e limiti in un
processo di unificazione generale reso possibile dalla globalizzazione,
dall’altro si pensa che la
globalizzazione sia l’ultimo livello dello
sfruttamento capitalistico e dello sfruttamento del più forte sul più
debole. Tale livello arriverebbe alla dissoluzione stessa della politica
come livello esterno rispetto al mercato, cioè la politica sarebbe fagocitata dal mercato.
Compito
della lezione è allora quello di
a)definire la globalizzazione
b)individuare
il suo formarsi e definirsi negli ultimi due secoli analizzando il tutto con
criteri scientifici
c)vedere infine
le ricadute di essa sulle identità locali.
A)
La globalizzazione è un processo
economico che porta alla creazione di mercati globali per quanto riguarda
soprattutto i mercati finanziari e non il mercato dei prodotti finiti. Con
tale termine si fa però riferimento non solo a processi economici
ma anche ad una corrente di pensiero che delegittima il ruolo dello stato
rispetto al mercato. Secondo questa visione lo stato nel suo ruolo
categoriale di stato nazionale deve fare non uno ma parecchi passi indietro
perché la globalizzazione è un sorta di utopia anarchico-mercantile che tende
a ridurre lo stato a ruoli minimi circoscrivibili a quello di fornitore di infrastrutture in territori sottoposti alla sua
sovranità. E’ così che le politiche di globalizzazione sostengono la
fine del patto fra stato-lavoro-capitale che
ha caratterizzato il welfare state. In quest’ottica le politiche
fiscali dello stato sarebbero politiche che impediscono la libera circolazione
di capitali e merci resa possibile solo dalla globalizzazione.
Come
si può vedere, con il termine
globalizzazione si intendono allora da un lato processi oggettivi e dall’altro
teorie vere e proprie su tale fenomeno.
Dovremo allora chiamare globalizzazione il processo apparentemente irreversibile attraverso
il quale gli stati nazionali sono condizionati da un lato e connessi
dall’altro ad attori che portano avanti transazioni internazionali
trattandosi di un processo attraverso il quale la società mondiale si
unifica intorno a reticoli economici; chiameremo invece globalismo
l’ideologia mondiale del neoliberismo: globalizzazione
è il fenomeno e globalismo l’
ideologia.
-
Ma quali sono le premesse della
globalizzazione ?
Intanto un aumento incredibile degli
scambi monetari sul mercato mondiale. Nel 1965 ogni giorno si scambiavano sul
mercato delle valute 15 miliardi di
dollari, nel 1983 60 miliardi, nel 1997 ben 1500 miliardi.
Fondamentali per questo aumento di scambi
sono premesse di tipo tecnologico: innanzitutto quella dello sviluppo della rete
e di Internet. Senza Internet non sarebbe
possibile scambiare valute in termini reali e soprattutto sganciare lo scambio
dal controllo degli stati nazionali, tanto che gli stati nazionali, di
fronte a questa situazione, hanno applicato politiche di liberalizzazione
finanziaria cui, a sua volta, si è accompagnata una ripresa di liberismo
economico. L’unica arma rimasta in mano agli stati è quella delle politiche
delle banche centrali che però sono ampiamente spuntate: gli stati hanno cioè
dovuto liberalizzare il mercato delle valute. La situazione
descritta trova riscontri anche in altri campi: basti pensare a reati
commessi nell’ambito della rete e difficilissimi da perseguire, perché la
rete è sfuggente, è internazionale, è difficilissimo risalire a chi sta
dietro essa. Se Internet ha
assolutizzato il concetto di reticolo, dobbiamo però dire che
a fine ’900 arriva a compiersi definitivamente una rivoluzione di vecchia data,
quella elettrica che, dalla fine dell’800, mette a disposizione di tutto il
mondo l’energia. L’elettricità è infatti trasportabile a migliaia di km di
distanza: è la rivoluzione elettrica dell’inizio ’900 che fa nascere una
società di macrosistemi.
Globalizzazione fa comunque riferimento
non solo ad un evento enorme, quale è quello di scambi sul mercato delle valute
e azionario, che è mondiale, funziona sempre con tutti i fusi , ma si riferisce
anche a scambi commerciali veri e propri. Con
essa le imprese multinazionali tendono a diventare globali decidendo di
decentrare lavorazioni o segmenti di lavorazione ovunque, ad esempio la
Swissair gestisce tutto il suo sistema di prenotazioni tramite l’India perché
un ingegnere indiano costa un decimo rispetto ad un ingegnere europeo, anche se
attualmente all’India sta subentrando il Messico.
Perché sia possibile distinguere fra
luogo/luoghi di produzione e di produzione finale e luoghi di vendita, oltre ad
Internet, è necessario un ammodernamento dei mezzi
di trasporto .
Questo
è il vero e proprio livello di internazionalizzazione dell’economia.
Occorre
anche tenere presente come all’inizio il termine globalizzazione e globale
facessero riferimento al solo campo delle comunicazioni.
Il primo ad adoperarlo fu Mac Luhan che , a proposito della guerra del Viet Nam
trasmessa in diretta in TV, disse che tale evento ( quello della guerra
trasmessa) era possibile appunto in un “villaggio globale”.
- Quando inoltre si parla di
globalizzazione ci si riferisce ad un mondo unito in quanto propensione al
consumo, globalizzazione quindi come
unificazione delle culture ed erosione delle culture nazionali e locali.
In questo contesto lo stato sarebbe un
residuo del passato perché non garantirebbe la produzione di merci per come
decisa dai soggetti transnazionali. D’altra parte uno stato che volesse
condurre una politica particolarmente rigida e severa verso tali soggetti/imprese si vedrebbe penalizzato dalla possibilità
che hanno le grandi imprese transnazionali di portare fuori da esso, verso altri
stati, attività produttive. Poiché lo Stato ha perso cioè i suoi diritti
di controllo sull’economia, e questo ha reso
desueto il patto sotteso al welfare, tutti gli stati tendono allora ad una
riduzione del carico fiscale, delle previdenze sociali e assistenziali e
tutti perdono punti rispetto alla
politica estera. Non a caso i teorici del globalismo, con la fine dei blocchi
contrapposti, vedono anche una fine della politica e una fine della storia
stessa. Poiché -dicono- avrebbe
vinto il modello capitalista, non ci sarebbero più conflitti globali e lo stato
diventerebbe inutile. Si tratterebbe solo di conservare qualche nucleo di
presidio militare per conflitti più localizzati, non essendoci bisogno di una
politica militare globale.
B) Se ora lasciamo questo primo nucleo
tematico,e ricercassimo più indietro, potremmo
dire che la globalizzazione altro non è
che un ulteriore passo nel processo di modernizzazione iniziato con la
rivoluzione industriale. Vanno infatti sotto il nome di modernizzazione i
cambiamenti che hanno caratterizzato l’economia, la società, la politica
negli ultimi due secoli. Secondo alcuni , ad esempio Wallerstein, però, la
creazione di un sistema mondo è ancora precedente e risale alla nascita del
capitalismo nel 1500.Successivamente, con l’applicazione di un sistema
capitalistico non solo ai commerci ma anche all’economia agraria, il mondo
entra davvero in una dimensione più globale.
Proprio perciò molti osservano che tutta
questa enfasi sulla globalizzazione è errata, visto che essa non fa che portare
a compimento processi iniziati da due secoli almeno. Tale idea è condivisibile
solo in parte: nell’800 c’è infatti lo stato- nazione, che è un punto
cardine nei processi di modernizzazione, tanto che molti critici considerano gli
stati nazionali come del tutto
funzionali al capitalismo nella sua epoca industriale. Gli stati-nazione
sarebbero, come dice qualcuno, un tic nervoso del capitalismo. I processi di
modernizzazione hanno avuto una dimensione nazionale ma al tramonto dello stato
nazionale segue un altro aspetto, del tutto nuovo . In un libro curato anni fa
da C. Pavone e intitolato Il Novecento. I
tempi della storia , lo storico Maier replicava alla nota tesi di Hobsbawn
sul novecento secolo breve dicendo che
tale secolo, in realtà, non inizia nel 1914 per finire nel 1989 ma piuttosto ha
il suo cominciamento dall’800 , età di fabbriche e ciminiere, in cui il
lavoro non poteva essere delocalizzato, in cui c’era una territorialità onnicomprensiva e cioè non linee puramente
territoriali ma linee di divaricazioni fra classi, confini fra uomini e donne,
fra pubblico e privato, ecc.
Fra
la fine degli anni ’60 del ’900
e l’inizio degli anni ’80 cambia tutto: non c’è più uno spazio
territoriale garantito, la globalizzazione rompe gli spazi, entrano in crisi i
centri, si entra nell’epoca dei reticoli anarchici che non hanno un centro e
non possono essere concepiti territorialmente o spazialmente, c’è la crisi
del fordismo. Non c’è più la produzione di massa fordista per cui è il
produttore che, volendo vendere lo stesso tipo di macchina a tutti, crea il
mercato, ma il nuovo modello di
produzione è quello giapponese: è solo dopo che il compratore ha contrattato
la sua automobile con tutte le sue caratteristiche specifiche che l’auto viene
messa in produzione.
-
Nell’ultimo quarto del ’900
c’è la vera e propria una società
transnazionale. Come dice Maier è con l’inizio
degli anni ’70 che finisce il
lungo periodo di nazionalismo eroico e di fiducia nel controllo territoriale
delle scelte di vita.
Se
dunque, per parlare di globalizzazione si può partire da
fatti precedenti , ad
esempio dalla elettricità ma anche dalla società di massa come società di
consumi, non possiamo minimizzare quello che è successo nell’ultima fase.
Quando parliamo di globalizzazione, allora parliamo di estensione del commercio
internazionale, di una rivoluzione permeata e resa possibile dalle tecnologie,
ma anche di un’industria culturale globale (non più solo TV ma anche
Internet) , di una politica mondiale come successiva alla guerra fredda e quindi
policentrica, ma anche di una distruzione
globale dell’ambiente, di una povertà globale e infine del sorgere sempre più
frequente di conflitti fra
culture locali e la globalità, con reazioni di protezionismo culturale quali
il fondamentalismo, l’integralismo ecc.. D’altra parte è
interessante da esaminare ciò che sta succedendo in Iran, paese fondamentalista:
se un paese di quel tipo si apre all’economia e agli scambi, non può fare a
meno di aprirsi alle tecnologie e alla transnazionalità di esse, con un
superamento progressivo del fondamentalismo che l’aveva governato fino a pochi
anni fa.
Si
può allora affermare che non
esiste una megasocietà nazionale mondiale ma un vero e proprio orizzonte
caratterizzato da una molteplicità di realtà che sono condizionate da questo
orizzonte mondiale, c’è insomma una società mondiale senza che ci sia uno
stato mondiale. Questo processo irreversibile va affrontato
con un’analisi scientifica , dopo di che potremo accettarlo come no.
C)
Si tratta ora di esaminare le articolazioni e specificità del quadro e le
possibilità diverse che si evidenziano in esso, compresa quella di una terza
via che molti sociologi vedono come praticabile a
livello
politico nelle coordinate della globalizzazione.
Per
parlare di ciò dobbiamo però andare un po’ più a fondo rispetto ad
alcuni dati. Se pensiamo al fatto che le esportazioni americane
rappresentano oggi il 13,5% del prodotto interno e che nel 1903 erano il 9%,
possiamo dire che tale aumento è non sconvolgente, mentre decisamente
sconvolgente è la presenza ed esportazione di capitali finanziari. Inoltre fino
a 20 anni fa la finanza era correlata a beni, servizi, al valore delle aziende,
oggi ciò non succede ( alcune aziende ad alta tecnologia hanno un valore del
prodotto pari a 100 miliardi di dollari mentre ben 1000 è il valore delle
azioni ad esse corrispondente). Ad una accentuata libertà negli scambi si è
accompagnato il fatto che la contrattazione finanziaria
sia sempre più basata su
capitali presi a prestito. E’ successo anche che il rapporto fra debito e
investimento in alcuni dei più aggressivi fondi internazionali abbia raggiunto
cifre sbalorditive: ci sono fondi di investimento che arrivano fino a 80/100
volte di più rispetto ai capitali di partenza con la conseguente perdita di
controllo da parte delle Banche Centrali dei flussi
finanziari. Non a caso sono molto aumentate le crisi, molto più
ampie come entità di quella del ’29, crisi che però non hanno prodotto
gli sconvolgimenti di quella del ’29 proprio perché la finanza è sganciata
dalla produzione reale, per cui, quando c’è crisi, pagano le banche, le
istituzioni, i risparmiatori, ma non direttamente i settori produttivi.
Inoltre il mercato ha dimostrato grandi capacità di recupero: sono stati
bruciati enormi quantità di dollari ma sono stati anche recuperati.
Se
inoltre la mondializzazione dei mercati ha influito negativamente sulla capacità
degli stati e delle banche centrali di manovrare i flussi, tale riconosciuta
incapacità ha spinto, ad esempio, alla creazione della moneta unica europea.
Le crisi finanziarie di cui si è detto
hanno però un influsso diretto sul tenore di vita: ad esempio il 40% delle
famiglie americane gioca in borsa per rimpinguare
redditi sempre più bassi. Si può dire che se la autonomizzazione della finanza
non provoca effetti catastrofici, dall’altro però l’economia reale è più
soggetta e condizionata da fenomeni imprevedibili come le crisi finanziarie.
Domandiamoci ora quale sia il vero
livello di globalizzazione sul versante delle imprese globali e cioè delle
multinazionali in grado di esportare e spostarsi ovunque. Sui primi cento
bilanci mondiali inerenti sia imprese che stati,
ben 51 appartengono ad imprese e 49 a stati. Le
imprese multinazionali producono per un terzo del mercato mondiale e danno
lavoro solo allo 0,30% della forza lavoro attiva: la globalizzazione cioè non
produce occupazione.
Ed ancora alcuni esempi: fra le
principali imprese globali 62 sono giapponesi, 53 americane, 23 tedesche, 19
francesi, 6 sudcoreane, 8 svizzere,
5 italiane, 4 olandesi.
La metà del valore di
importazione-esportazione del commercio internazionale è costituito da
transazioni interne a gruppi : ad esempio nel 1950 la quota americana del
prodotto mondiale era del 50% e venti anni dopo era ridotta al
25%. Molte imprese hanno cioè
un mercato interno finalizzato
esclusivamente a transazioni interne ai gruppi e alla speculazione.
C’è dunque scissione fra i destini di
un’impresa e quelli di una nazione, vecchio assunto keynesiano questo: se
questi sono i dati, ci sono però anche imprese che mantengono legami con i
paesi di origine.
La globalizzazione del mercato è
tuttavia ancora in corso, è un processo, vi sono molti settori in cui la transnazionalità
è superiore alla media (settori petrolifero, chimico, alimentare) mentre in
altri settori (imprese di telecomunicazioni e automobilistiche) è inferiore
alla media.
La globalizzazione economica sembra
inoltre essersi orientata sempre più sul
terreno del prodotto globale: ci si è resi conto di come le peculiarità dei
compratori dei mercati nazionali permangano
per cui sono state
approntate strategie di marketing “Think global - insomma- ma act local”,
come si usa dire. Non a caso è stato coniato il termine glocale
per sintetizzare una produzione globale e una strategia di vendita locale.
Una
barriera alla globalizzazione è sicuramente costituita dalla barriera del
reddito.
Secondo i teorici del fenomeno globalizzazione, se un paese ha come reddito
30000 dollari di media l’anno, allora è adatto ad entrare in un mercato
globale: ma molti paesi sono sotto e stanno fra 15000 e 30000 dollari. E molti
altri ben più sotto. In Cile abbiamo 2500 dollari, in Cina 481, in India 425,
nei paesi così detti in via di sviluppo abbiamo 867 dollari, nei paesi
industrializzati la media è di 13000 dollari, in Italia nel 1998 la media era
di 25000 dollari. D’altra parte attualmente per
1 miliardo di persone i redditi sono più bassi rispetto a 25 anni fa del 25%.
Insomma, se non ci sono organismi
soprannazionali, la crescita del mercato
non garantisce la crescita del benessere. A questo proposito teniamo
presente come le multinazionali controllino sempre più le materie prime e, fra
esse, quelle alimentari più
importanti .
-
Nel 1995 l’OCSE, o meglio i paesi ad essa aderenti, aveva deciso di creare un regolamento da far approvare
all’organizzazione mondiale del commercio, fondato su regole per cui i diritti
degli investitori dovessero essere garantiti ovunque, qualsiasi fosse la forma
del regime politico di riferimento. Questo progetto è stato bloccato quando ci
si è resi conto che ciò avrebbe ad esempio impedito politiche nazionali
ambientali, perché verrebbe meno la possibilità di qualsiasi intervento statuale.
La Mc Donald’s, gigante a livello mondiale, che
compra intere regioni del Brasile, le disbosca , vi fa pascolare bovini che
daranno luogo agli hamburger (con tutte le conseguenze, anche ambientali,
di ciò), e che ha appunto un’economia globale, in un’ottica tipo
quella prevista dall’OCSE, non potrebbe essere fermata, qualora lo stato
brasiliano decidesse di farlo.
Uno dei punti chiave della società
globale è la delocalizzazione del lavoro:
Benetton, che delocalizza il lavoro
in India, Bangladesh, Sud America, è esempio di ciò. Su questo punto sono
particolarmente sensibili i sindacati dei paesi sviluppati che individuano in ciò
un fattore di crisi dello stato sociale,
uno stato che ha avuto anche una sua
versione giapponese, nella
identificazione del lavoratore con l’azienda in cui non solo lavorava ma in
cui potevano lavorare anche i suoi figli. Tuttavia
anche questo fenomeno è assai complesso: infatti il commercio fra paesi
sviluppati e quelli in via di sviluppo, dove è maggiormente delocalizzato il
lavoro, riguarda una quota di prodotto non alta, mentre la vera concorrenza
avviene nelle grandi regioni industrializzate. I paesi preferiti per
l’esportazione di produzioni dagli USA sono stati non a caso la Francia e i länder
occidentali tedeschi. In Europa la vera concorrenza non avviene fra paesi della
UE e Taiwan ma fra Irlanda, Francia, Germania ecc.
Insomma la perdita di posti di lavoro non
è collegata solo alla delocalizzazione. A livello di occupazione industriale vi
è comunque un effetto della globalizzazione
perché le grandi imprese sono
soggette ad una “competizione esistenziale” per cui si innesca un meccanismo
al ribasso del prezzo dei prodotti ( il che viene bene ai consumatori) ma anche
al ribasso dei salari ( il che viene male ai consumatori che sono anche
lavoratori dipendenti).
Si
può osservare come nel mercato mondiale vi siano settori
maggiormente soggetti alla competitività , basti pensare all’esempio
già fatto dell’ingegnere indiano che viene privilegiato dalla Swissair per il
sistema di prenotazioni perché costa un decimo di un ingegnere europeo. Un
dipendente pubblico Usa o italiano è invece meno soggetto alla
competizione globale, il tassista non è soggetto a competizione
internazionale ma è soggetto alla competizione delle altre fasce di tassisti
(si pensi ai tassisti di New York dove il tassista americano ha concorrenza da
parte dei tassisti di origine messicana ecc.).
A
proposito dei flussi di ricchezza in ascesa e discesa, uno studioso dice che
negli USA il mondo del lavoro è ripartibile in quattro quarti: nel primo quarto
stanno i grandi manipolatori di sintesi, alti dirigenti industriali, medici,
avvocati, esperti di marketing.
Nel secondo quarto stanno i dipendenti
dei settori pubblici, nel terzo quarto stanno i lavoratori dei servizi e del
commercio, nell’ultimo quarto stanno le mansioni esecutive. Tali settori sono
assai rigidi nei loro scambi, anche se sicuramente il primo quarto è vincente,
il secondo e terzo quarto potrebbero salire come scendere, l’ultimo quarto è
sicuramente perdente.
L’ultimo discorso, preparato di tutte
le considerazioni precedenti, riguarda l’identità. La globalizzazione
mette in crisi lo stato-nazione ma anche determina sostituzioni di esso
perché le persone hanno bisogno di identificazione e di politiche volte in tal
senso. Deriva da qui l’accrescimento del numero di stati-nazionali spesso
caratterizzati da esiguità di territorio con
riscoperta di identità locali. Si passa cioè dal consumatore globale
alle piccole patrie locali. Nel quadro globale-locale che schiaccerebbe la
possibilità di politiche nazionali, si fa allora strada l’ipotesi di
un terza via sostenuta da Anthony Giddens:
la fine della nazione non significa morte della politica. L’utopia di uno
stato transnazionale potrebbe trovare punti di aggancio da un lato negli
organismi locali di decentramento e dall’altro in organismo soprannazionali.
Il movimento è insomma lungo l’asse globale-locale. Tale teoria riconosce
l’irreversibilità di una società globale subentrata al mondo diviso in
blocchi ma anche la necessità di accentuare le proprie caratteristiche locali
nel senso della valorizzazione delle culture locali.
Lo stato transnazionale decentralizza il potere ma anche lo accentua attribuendo ad un organismo soprannazionali il controllo del mercato. Tale ipotesi giudica dunque le prospettive della globalizzazione come possibilità che la politica può cogliere felicemente per armonizzare globale e locale. Si tratterebbe insomma di essere un po’ come erano i cittadini del Medio Evo quando c’era una plurima articolazione dei piani di riferimento e grande era però l’importanza che le identità locali assumevano in esso.
U.Beck,
Che cos’è la globalizzazione. Rischi e prospettive della società planetaria,
Roma, Carocci, 1999[1997]