Commercio di armi
Armi, un affare da 2.596 miliardi
Cresce del 41% l'export degli armamenti "made in Italy". Nel 65% dei casi finiscono nel Sud del mondo.
di Sofia Basso
MILANO - In Italia è di nuovo boom per i giganti delle armi . In un anno le
esportazioni di materiale bellico autorizzate dal governo sono aumentate del
41%, arrivando a toccare i 2.596 miliardi di entrate. Dopo il trend negativo
legato alla crisi della guerra fredda, che aveva portato a chiusure di fabbriche
e a riconversioni, da qualche anno il commercio di armi "made in Italy"
torna a crescere. Aumenta anche il volume d'affari delle armi effettivamente
consegnate agli acquirenti esteri: nel 1999, il business è stato di 1.715
miliardi, il 15% in più di due anni prima. La ricetta vincente sembra essere la
coproduzione con gli europei e un marketing aggressivo . Dietro la forte
crescita delle esportazioni autorizzate nel 1999 c'è comunque anche un
megacontratto a dodici zeri stipulato tra gli Emirati Arabi Uniti e la
joint-venture italo-francese Elettronica-Thomson.
Nella lista degli importatori di carri armati, velivoli e altre armi pesanti di
origine italiana, spiccano i Paesi del Sud del mondo, che si sono aggiudicati
circa il 65% delle esportazioni che hanno avuto il via libera dal governo del
centrosinistra. "Siamo estremamente preoccupati perché le armi italiane
stanno affluendo in zone ad alto rischio e ad alta tensione", dice Marita
Villa, responsabile del Coordinamento Armi di Amnesty International, che punta
il dito contro l'export verso zone calde quali la Cina, la Turchia, l'India,
l'Algeria e le Filippine. "L'Italia ha un'ottima legge in materia di
commercio per le armi che vieta la vendita a paesi belligeranti e responsabili
di accertate violazioni dei diritti umani - precisa Villa - l'applicazione, però,
non è altrettanto coraggiosa e così troviamo pistole Beretta nelle cantine
della Sierra Leone: in tema di commercio delle armi, entrare in Europa per noi
ha significato una diminuzione dei controlli".
La forte incidenza, sia a livello italiano sia a livello mondiale, dei Paesi in
via di sviluppo nel commercio delle armi apre un altro problema: chi paga queste
commesse miliardarie? Secondo il responsabile del centro documentazione
dell'Archivio Disarmo di Roma, Maurizio Simoncelli, a stimolare il mercato
mondiale delle armi, oltre alla ristrutturazione delle forze armate dei paesi
industrializzati, sono i crediti all'esportazione: circa un quarto del debito
pubblico delle nazioni del terzo mondo, infatti, è dovuto ad acquisti militari
e se il Paese ordinante alla fine non paga il conto, a farne le spese sono i
contribuenti del Paese esportatore, perché a garanzia del pagamento c'è spesso
un'istituzione statale, che nel caso italiano è l'Istituto per i Servizi
Assicurativi del Commercio Estero.
Se l'Italia è sesta tra i primi dieci paesi esportatori di armi convenzionali
(fonte Sipri), è terza nella produzione di armi leggere che, secondo uno studio
della Croce Rossa Internazionale, sono responsabili della maggioranza delle
morti tra le popolazioni civili nelle guerre odierne. L'export di pistole,
fucili e munizioni, però, è molto più difficile da monitorare: secondo
l'Osservatorio per il Commercio delle Armi di Firenze, molte carabine e
rivoltelle vengono esportate come "armi sportive" per evitare i
controlli governativi e poi finiscono nelle mani di guerriglieri di ogni
tipo, bambini compresi. Gli ultimi dati Istat dicono che nel primo semestre del
2000 l'Italia ha esportato 13 milioni di chili di armi leggere per un valore di
285 miliardi di lire: tra i destinatari ci sono anche la Colombia e l'Indonesia.