IL MERCATO DEGLI ARMAMENTI

La fine della guerra freddo ha portato a una ristrutturazione del mercato degli armamenti, dominato dagli Usa, da altri stati "forti" e dalle grandi transnazionali. Con una corsa al riarmo sempre meno controllabile

Secondo i dati del Sipri, istituto di ricerca indipendente con sede a Stoccolma, il valore annuo del commercio mondiale di grandi sistemi d'arma - carri armati, artiglieria di grosso calibro, aerei, navi, missili ecc., espresso in miliardi di dollari costanti a prezzi 1990 - è sceso da 35,5 miliardi nel 1989 a 20 nel 1994, per poi oscillare tra i 22 e i 27 miliardi nel triennio 1996-98.

Le stesse tendenze si ricavano dai dati di fonte governativa Usa che considerano anche le transazioni relative ad armi leggere, pezzi di ricambio e attrezzature logistiche. Secondo tali statistiche l'ammontare del flusso mondiale di armamenti è passato da 48,6 miliardi di dollari (a prezzi costanti del 1997) nel 1990 a 25,1 nel 1994, per poi registrare oscillazioni intorno ai 29 miliardi nel periodo 1995-98.
 
 

IL DOPO GUERRA FREDDA

Si tratta di una evoluzione riconducibile a una complessa ristrutturazione del mercato seguita alla fine della guerra fredda. A partire dagli ultimi anni Ottanta, con la dissoluzione dell'Urss e del Patto di Varsavia, è scomparsa una parte rilevante del commercio di armamenti per quanto concerne sia l'offerta che la domanda. Inoltre l'accumulo di armi verificatosi nei decenni precedenti in alcuni regioni e continenti - Africa, Medio Oriente, America Latina - unito alla riduzione e alla trasformazione delle spese militari, ha accentuato l'eccesso di offerta e le crisi di sovrapproduzione delle strutture militari industriali dei paesi industrializzati.

In questa fase gli Stati Uniti sono divenuti il maggiore esportatore mondiale di armamenti; secondo i dati Sipri, tra il 1990 ed il 1998, gli Usa hanno coperto il 47,3% del mercato, seguiti da Russia (16%), Francia (8%), Germania e Gran Bretagna (7%), Cina (3%) e da un gruppo di paesi comprendente Olanda, Italia, Ucraina e Repubblica Ceca, con quote variabili tra il 2 e l'1% del commercio mondiale. Le statistiche statunitensi documentano, nel periodo 1991-98, un quadro simile: gli Usa hanno effettuato il 32,1% dei trasferimenti effettivi di armi e assorbito il 36,2% del portafoglio ordini mondiale. Il panorama varia, rispetto ai dati Sipri, per la Russia, accreditata del 10,5% delle vendite e del 15,4% degli ordinativi, e superata da Gran Bretagna e Francia quanto alle esportazioni effettuate - rispettivamente 18,8% e 11,7% - mentre i francesi hanno anche realizzato un portafoglio ordini più cospicuo di quello russo (18,5%).

1 dati dell'United States Congressional Research Service (Uscrs) assegnano all'Italia l'1,1% delle esportazioni svolte e il 2% degli ordinativi; nel complesso i maggiori paesi dell'Europa Occidentale (Francia, Germania, Italia, Gran Bretagna) rappresentano il secondo grande arsenale del mondo e assorbono una quota di mercato compresa, nei singoli anni del periodo 1991-98, tra il 21% ed il 47% per il portafoglio ordini e tra il 31,4% e il 45,3% per le vendite effettuate. La presenza europea sul mercato (47,1%) eguaglia quella degli Usa anche nelle analisi del Sipri.

UNA LOTTA SENZA QUARTIERE

La gran parte degli armamenti è destinata ai paesi in via di sviluppo che, secondo il Sipri, hanno diminuito drasticamente le acquisizioni nel periodo 1989-92 (da 19 a 11,7 miliardi di dollari) per poi riprendere a importare grandi sistemi d'arma negli anni 1993-98, superando nel 1997 i 20 miliardi. Lo conferma la fonte ufficiale Usa prima citata, che attribuisce, al Terzo mondo il 69,4% degli accordi di fornitura e il 73% dei trasferimenti effettuati nel periodo 1991-98. Un quadro molto dettagliato fornisce poi l'ultimo rapporto dell'Uscrs.

Gli Stati Uniti hanno consolidato la loro posizione di preminenza, mentre la Russia ha perso una quota notevole delle proprie esportazioni nel periodo 1991-94, per riguadagnare posizioni nel quadriennio successivo in Asia, Medio Oriente e Africa grazie a una politica commerciale spregiudicata, incentivata dal deterioramento delle relazioni con l'Occidente dopo la guerra della Nato contro la Jugoslavia.

Nei mercati del Terzo mondo si sta giocando anche la doppia partita dei maggiori paesi dell'Europa occidentale (Francia, Germania,, Gran Bretagna e Italia), che lottano tra di loro per l'acquisizione di commesse e d'altra parte, mano a mano che si realizza la concentrazione dell'industria militare europea, si battono soprattutto contro lo strapotere Usa. Negli interstizi liberi si collocano piccoli e medi esportatori europei e nuovi esportatori del Terzo mondo: Cina, Brasile e Israele in testa, oggi affiancati da Sudafrica, India, Pakistan, Iran, Turchia, Corea del Sud, Corea del Nord, Indonesia, Egitto.

La competizione senza quartiere ha scardinato ogni considerazione ideologica e sta rendendo vani i dispositivi nazionali e internazionali che, seppure timidamente e tra mille contraddizioni, erano stati adottati per controllare il mercato mondiale delle armi. Così nel 1998 si sono conclusi contratti per la fornitura di armamenti a paesi in guerra (Algeria, Eritrea, Etiopia, India, Pakistan, Israele), confermando una tendenza di tutto il periodo 1991-98.

I MAGGIORI IMPORTATORI

Fra i paesi in via di sviluppo i maggiori importatori sono nell'ordine: Arabia Saudita, Taiwan,Emirati Arabi Uniti, Cina, Egitto, Corea del Sud, Kuwait, India, Israele e Malaysia. Gli stessi stati - eccetto India e Malaysia sostituite da Iran e Qatar - sono anche i dieci maggiori esportatori.

I paesi asiatici, secondo l'analisi del Sipri, nel periodo 1990-98 hanno acquistato il 34,8% dei sistemi d'arma venduti nel mondo e, nel 1998, non hanno risentito in modo decisivo degli effetti teoricamente "limitanti" della crisi finanziaria. Un’altra regione del Terzo mondo destinataria di grandi flussi di armi è il Medio Oriente (25,7%) mentre, con quote nettamente inferiori, America Latina (3,8%) e Africa (2,6%) rappresentano oggi mercati "marginali".

I maggiori importatori di grandi sistemi d'arma sono l'Arabia Saudita (8,1%), Taiwan (7,3%), il Giappone (5,8%) la Turchia (5,6%) e l'Egitto (4,9%) seguiti, con percentuali di mercato oscillanti tra il 4,7% e il 2,7%, da Grecia, India, Corea del Sud, Germania e Israele. Rispetto al periodo 1990-93, quello 1994-98 ha registrato un autentico boom degli acquisti di armi da parte di Taiwan, Egitto, Corea del Sud e, tra gli importatori di seconda schiera, Thailandia, Kuwait, Malaysia, Singapore, Indonesia, Brasile e Perù.

In generale si tratta di paesi impegnati in contenziosi con altri stati (Taiwan con la Cina, Grecia e Turchia, l'India con il Pakistan, il Perù con l'Ecuador) che assumono oggi anche i caratteri della competizione per la supremazia regionale in aree fortemente destabilizzate, o di paesi (Arabia Saudita, Giappone, Israele, Turchia, Egitto, Germania, Corea del Sud, Brasile, Indonesia) con una importanza fondamentale nella strategia geopolitica statunitense.

FRA AUTONOMIA E GLOBALIZZAZIONE

Siamo inoltre di fronte a paesi (Egitto, Turchia, Israele, India, Taiwan, Corea del Sud, Brasile, Indonesia, Singapore) che hanno avviato recentemente, acquisendo licenze di produzione e del know-how tecnologico e produttivo dai paesi occidentali e dalla Russia, la costruzione di una moderna base militare - industriale. L’intento è di sostituire l'acquisizione dei sistemi d'arma finiti con la fabbricazione in loco, partecipando autonomamente - con costi economici e sociali elevatissimi volti a conseguire una illusoria indipendenza - alla competizione tecnologica nel settore militare per aumentare il proprio prestigio politico e militare.

La corsa a questo tipo di sostituzione caratterizza gran parte della domanda nei principali mercati mondiali, e si intreccia in maniera armonica col processo di globalizzazione degli investimenti e della produzione messo in atto dall’industria, con l’appoggio dei governi, negli Stati Uniti, in Europa e per certi aspetti in Russia e Cina. L’obiettivo, per i grandi produttori di armi, non è solo quello di sostenere, incentivando le esportazioni, i nuovi programmi di armamento adottati dopo la fine della guerra fredda, ma di conseguire il successo nella competizione tecnologica e nel processo di innovazione: ciò, associato al controllo dei mercati, è divenuto fondamentale per la ricerca e il mantenimento della supremazia mondiale. Il settore militare – industriale riveste un’importanza notevole tra i campi strategici sui quali si combatte questa lotta, definita new trade economy o "mercantilismo aggressivo", che vede impegnati senza esclusione di colpi tutti i principali protagonisti della scena mondiale: Usa, Europa, Giappone, Russia e Cina.

LA CONCENTRAZIONE DELLA PRODUZIONE

Oggi, sostiene il Sipri, il 90% della produzione mondiale di armamenti è concentrato in soli 10 paesi, e il 50% si svolge negli Usa. Le 100 maggiori aziende hanno fatturato, nel 1997, 156 miliardi di dollari, una cifra pari a tre quarti della produzione mondiale.

La situazione è il frutto di una strategia, adottata dalle grandi aziende e sostenuta finanziariamente e politicamente dagli stati, basata su una girandola di fusioni e incorporazioni che hanno portato alla nascita di colossi di livello mondiale. Questi ultimi stanno adottando una politica "globale" che integra l'internazionalizzazione delle attività col rilancio delle esportazioni e con l'espansione delle attività di natura duale civile/militare. La spinta verso i mercati mondiali segue sempre alla conclusione della fase di concentrazione finanziaria e industriale, di inserimento nelle dinamiche speculative dei mercati borsistici e di stabilizzazione delle strutture aziendali (così per Lockheed Martin, Boeing, Raytheon, British Aerospace, Aerospatiale, DASA e Alenia, società europee tra le più importanti nel mondo).

Tali sviluppi generano, secondo molti osservatori indipendenti, crescenti difficoltà nel controllo della produzione militare esercitato finora da parte degli apparati statali.

In Europa la ristrutturazione dell'industria militare si realizzerà nell'ottica di partecipare alla competizione sui mercati mondiali, vista quale condizione indispensabile per costruire una base militare - industriale capace di sostenere le scelte collettive di politica estera e di sicurezza. Il processo verrà gestito nell'ambito di una strategia comune di Francia, Germania, Italia, Spagna, Svezia e Regno Unito la cui concretizzazione potrebbe smantellare ciò che resta delle politiche di controllo delle esportazioni applicate in questi anni.

UNA DIMENSIONE TRANSNAZIONALE

Le grandi aziende del settore militare sono direttamente interessate alla strategia della globalizzazione proprio perché il loro futuro è sempre più legato a una dimensione transnazionale. In una recente nota pubblicata dal World Policy Institute si paragona il progetto di world fighter plane a quello di world car - messo a punto dai grandi gruppi automobilistici negli anni Ottanta realizzando autovetture tramite l'assemblaggio di componenti fabbricati in diversi paesi del mondo, col criterio del massimo contenimento dei costi di produzione e dell'assoluta libertà per l'azienda.

Linee di montaggio dell'F-16, prodotto dalla statunitense Lockheed Martin, sono attive in Israele, Corea del Sud, Turchia e Taiwan. La Boeing e la Textron hanno realizzato notevoli investimenti nel settore militare industriale in Ungheria, Polonia, Romania e Repubblica Ceca per conquistare i mercati dell'Europa orientale sull'onda dell'espansione a Est della Nato. L'aereo di nuova generazione Joint Strike Fighter (Jsf) sarà sviluppato congiuntamente dalle aziende statunitensi e dalla British Aerospace e, per favorire l'acquisto di 150 elicotteri di combattimento statunitensi da parte della Turchia, è stata offerta a questo paese la partecipazione, con Germania e Israele, al progetto Jsf. Una collaborazione che comporterà anche l'acquisizione da parte dei partecipano di una quota dei velivoli prodotti, consentendo così alle industrie dei paesi dove vigono norme restrittive sull'esportazione di armamenti di sfruttare, per la commercializzazione senza vincoli, gli stati partner dove non esistono controlli.

COMMERCIO SENZA CONTROLLI

Progetti simili stanno moltiplicandosi sotto la spinta di potenti associazioni industriali come l'Aerospace Industries Association (Aia), fautrici dell'assoluta libertà di investimento e commercio nel settore.

Gli stessi governi si battono contro i regimi di controllo in tutti i casi in cui vengono danneggiati gli interessi della propria industria degli armamenti, un settore nel quale gli accordi Wto concedono agli stati una notevole libertà d'azione che sta stimolando un flusso di investimenti pubblici sottratti ai settori civili. Ad esempio una norma dello stato del Massachusetts, che vietava le esportazioni di armi verso lo spietato regime birmano, è stata contestata dal Giappone e dall'Ue in quanto violava l'Agreement on Government Procurement sancito in ambito Wto.

Alla stessa maniera, per evitare che gli accordi industriali nel settore civile cadano sotto la scure liberista del Wto, molti governi stanno rafforzando la strategia della compensazione. Così gli scambi e le collaborazioni nei settori dell'economia civile vengono frequentemente inscritti nei contratti militari, non sottoposti alle norme Wto, quali contropartite per le acquisizioni di armi.