Storia del Terzo Mondo

Introduzione

Scrivere una storia del Terzo Mondo non è una impresa facile sia perché molto materiale utile non è facilmente accessibile, sia perché i paesi in via di sviluppo non costituiscono una unità culturale, ma costituiscono piuttosto la "periferia" del mondo. I paesi del Terzo Mondo comprendono infatti una grande varietà di nazioni con caratteristiche così diverse che difficilmente si possono considerare come appartenenti ad un'unica entità; esistono paesi poveri e paesi potenzialmente molto ricchi, paesi semidisabitati e paesi dove la concentrazione demografica e urbana raggiunge livelli patologici, vi sono paesi multietnici e paesi omogenei, alcuni dei quali - come i paesi della parte meridionale dell'America latinaLatina - abitati da popolazioni per nulla diverse dal punto di vista etnico da quelle europee. Vi sono poi paesi retti da governi se non democratici almeno tolleranti, e paesi che hanno conosciuti regimi che forse non è eccessivo definire dispotici, paesi pacifici e paesi dove la guerra appare endemica. Tuttavia il problema del Terzo Mondo, con il suo notevole sviluppo demografico, rappresenta una questione troppo importante per non essere affrontata e molto probabilmente nel prossimo futuro il problema del rapporto fra Nord e Sud è destinato a divenire uno dei principali problemi dell'umanità.

Dalla decolonizzazione fino agli anni Ottanta il Terzo Mondo ha dato prova di una pessima gestione della sua libertà. I nuovi paesi afroasiatici una volta raggiunta l’indipendenza dalle antiche potenze colonizzatrici caddero in mani di uomini politici privi di senso dello stato. Nel giro di pochi anni la maggior parte di questi si avviarono verso la dittatura, le rivalità fra gruppi etnici diversi, in contrasto con quei principi che gli stessi si erano dati alla conferenza di Bandung. I dittatori e le classi dirigenti locali si diedero alla corruzione e alla dilapidazione delle finanze pubbliche, si lanciarono in ambizioni smodate spesso in aperta sfida alla comunità internazionale, inseguendo progetti economici dissennati e talvolta autodistruttivi. Il risultato di questa politica fu il sensibile peggioramento delle condizioni economiche di molti paesi, la fuga dei capitali stranieri, l’isolamento.

Un relativo miglioramento si è avuto invece nel corso dell’ultimo decennio. La democrazia non sempre ha registrato progressi significativi, tuttavia i leader politici hanno compreso di allargare le loro basi di consenso, e una certa moderazione è subentrata nelle relazioni fra gruppi etnici diversi. L’Asia presenta una maggiore stabilità politica, l’Africa appare invece in ritardo, e a sud del Sahara rivolte cruente e scontri tribali che degenerano spesso in guerre fra bande, distruggono stati e risorse.

Molte delle opere scritte negli anni Sessanta e Settanta risentono eccessivamente del clima di fiducia creato dalla comparsa di movimenti terzomondisti, e diversi avvenimenti sono stati interpretati in maniera eccessivamente ideologizzata e poco corrispondente alla realtà. Non pochi regimi autoritari hanno tentato infatti di darsi una immagine credibile attraverso l'adesione a ideologie che trovavano largo consenso in Occidente, e che nascondevano in realtà ambizioni dittatoriali tradottesi in diversi casi in episodi di gravissima violenza. Come vedremo nelle prossime pagine, pochi governi hanno scelto di privilegiare il benessere economico delle popolazioni agli interessi immediati dei gruppi politici di varia natura che con metodi diversi ma spesso poco chiari gestiscono il potere di quei paesi.



il subcontinente indiano, fra estremismo e tolleranza


La vasta regione indiana costituiva e costituisce un mosaico di razze, religioni e lingue eterogeneo, tale da rendere estremamente difficile la realizzazione di uno stato unitario. Tale realtà era ulteriormente aggravata dalla presenza di un sistema di caste che costituivano una sorta di micro-stati separati gli uni dagli altri con proprie leggi e istituzioni. Nel 1945 la colonia britannica indiana comprendeva circa 400 milioni di abitanti la metà dei quali induisti, 90 milioni mussulmani, e circa 6 milioni sikh; all'interno della nazione vi erano circa 500 principati e un gran numero di lingue che rendevano la situazione estremamente complessa. Secondo Henry Kissinger "Come il Medio Oriente, anche l'India è patria di grandi religioni. Eppure a differenza di quelle mediorientali, queste religioni non predicano l'esaltazione e il fanatismo, bensì la pazienza e la sopportazione"[1], tuttavia la regione come vedremo fu teatro anch'essa di gravissime violenze e di contrasti pressoché endemici che hanno causato la morte di molte migliaia di civili e di numerosi leader politici di primo piano. 

Negli anni della guerra un gruppo di nazionalisti creò un governo dell'India nei territori della vicina Birmania controllata dai giapponesi, ai quali andarono le simpatie di molti indiani emigrati nei paesi vicini e nella stessa colonia britannica, i leader del Congresso, la maggiore organizzazione indipendentista indiana, evitarono comunque di fomentare disordini e in qualche modo offrirono una benevole neutralità allo sforzo della Gran Bretagna nella sua guerra colla Germania e il Giappone.

Il governo Churchill pur affermando che i principi della Carta Atlantica non potevano per il momento applicarsi all'India, aprì diversi negoziati con i massimi rappresentanti del popolo indiano, che tuttavia diedero scarsi risultati. Un passo in avanti venne compiuto successivamente con la pubblicazione da parte del governo britannico del "libro bianco" sulla questione indiana secondo il quale "L'obbiettivo principale della politica coloniale inglese... è quello di guidare i territori coloniali all'auto-governo responsabile all'interno del Commonwealth in condizioni che assicurino alle popolazioni interessate sia un buon tenore di vita che completa libertà dall'oppressione"[2], ma la questione venne complicata dalla crescente contrapposizione fra mussulmani e induisti. In alcune regioni le differenze di religione corrispondevano con gruppi etnici diversi, ma in altri casi non vi era una precisa separazione, e tale situazione rese più difficile l'opera di mediazione dei britannici. Il Congresso indiano divenne quindi principalmente il rappresentante degli induisti, e la Lega diretta da Mohammed Jinnah dei mussulmani, la quale pur sostenendo la causa dell'indipendenza, vedeva nel governo britannico un freno alla preponderanza indù. Nehru e Gandhi erano quindi favorevoli alla costituzione di uno stato unitario indiano, mentre i mussulmani che costituivano una minoranza, a partire dagli anni Trenta si dichiararono favorevoli alla creazione di stati separati.

Nel periodo fra le due guerre si era diffuso in India il terrorismo che il Gandhi rifiutava e al quale opponeva i metodi della resistenza passiva, della disobbedienza civile di massa, e del boicottaggio delle merci e dei servizi della potenza colonialista. Nel corso degli anni vennero lanciate diverse campagne per il non pagamento delle tasse ingiuste (come quella sul sale che colpiva gravemente anche i più poveri), il rifiuto delle decorazioni e dei titoli inglesi, e l'abbandono delle istituzioni britanniche come scuole, tribunali, assemblee legislative. Il mahatma fu uno dei protagonisti dei moti per l'indipendenza e la sua azione e la sua figura furono un modello per molti movimenti politici nel mondo. I suoi principi di non violenza vennero espressi con chiarezza in un suo scritto del 1930 "Il nostro obbiettivo immediato e non lontano è l'indipendenza completa. Non è ovvio che se noi cerchiamo di far evolvere il vero spirito dell'indipendenza tra milioni di persone, potremo farlo soltanto per mezzo della non-violenza e di ciò che esso comporta?... non terrorizzando o uccidendo coloro che, immagino, possono ostacolare la nostra marcia, ma trattandoli con pazienza e umanità, convertendo gli oppositori e opponendo loro una disubbidienza civile di massa"[3]. Per molti leader indiani la protesta non-violenta non era altro che una delle diverse forme di lotta da adottare contro il dominio britannico, utile quando gli altri mezzi non avessero garantito buoni risultati. Per Gandhi invece costituiva una concezione di vita: "Il satyagraha [= forza della verità] non è una semplice dottrina politica per me è una professione di fede, è ricerca della verità: e la verità è Dio. L'ahimsa [= la non-violenza, l'amore] è la luce alla quale la verità mi è apparsa, lo svaraj [= indipendenza, dominio di sè] non è che parte di codesta verità" e in un altro scritto "Il primo passo verso lo svaraj sta nella perfezione individuale... il primo precetto per giungere allo svaraj è governare se stessi"[4]. Il grande leader indiano, che seppe alternare all'attività politica quella ascetica e religiosa, non fece dell'indipendenza dell'India l'unico obbiettivo della sua intensa vita, ma si impegnò nella riforma della religione induista condannando il sistema delle caste e il disprezzo verso i paria, arricchendo il patrimonio ideale dell'induismo di alcuni principi cristiani, e rilanciando le attività artigianali tradizionali dell'India rispetto a quelle industriali. Per Gandhi la liberazione del popolo doveva essere preceduta dalla libertà interiore, "Per me mezzi e fini sono praticamente la stessa cosa" sosteneva, e pertanto riteneva che "non possiamo raggiungere dei fini giusti con delle menzogne"[5]. Secondo il giornalista americano Edgar Snow, che aveva avuto numerosi incontri con i massimi leaders del movimento indipendentista indiano, "Gandhi sentiva il bisogno impellente di liberare l'uomo con la verità, un bisogno che lo distaccava dalla massa dei mistici che cercano soltanto la liberazione dell'Io in un isolamento antisociale e in un ascetismo esibizionistico"[6]. Molti dei principi espressi da Gandhi non trovarono espressione nel nuovo stato indiano, tuttavia la sua figura non fu del tutto isolata nella storia indiana; nei primi anni del Novecento un altro uomo di cultura, Gopal Krishna Gokhale sosteneva la necessità di affrancare il paese sul piano materiale e morale e ricordava che "i mezzi della nostra lotta devono essere nobili come il fine". 

Nell'estate del '47 scoppiarono disordini che da Calcutta e le regioni nord orientali si diffusero al Bengala e al Punjab provocando la morte di circa mezzo milione di persone e la fuga di milioni di profughi. Di fronte a tali violenze il governo laburista inglese accelerò i negoziati per l'indipendenza dell'India senza comunque avere la forza ormai per agire con decisione. Il Gandhi iniziò una dura predicazione contro la violenza, senza risparmiare critiche agli stessi induisti responsabili degli stessi atti di violenza degli avversari, ma la sua coraggiosa presa di posizione non venne ben accolta e nel '48 venne ucciso in seguito all'attentato di un estremista indù. 

Proclamata l'indipendenza nel 1947 rimanevano aperte diverse questioni territoriali. La gran parte dei principati autonomi compresi nel territorio indiano aderivano alla Repubblica Indiana, tuttavia i principi di Hiderabad, una grande e popolosa regione nel centro del paese, e di Junagadh sulla costa occidentale, si astennero. La popolazione dei due principati, geograficamente non vicini al Pakistan, era in maggioranza induista, e pertanto il governo di Nuova Delhi non ebbe difficoltà ad assorbirli. Diversa era la situazione del Kashmir, dove il maraja era indù ma tre dei quattro milioni di abitanti era di origine mussulmana e geograficamente il territorio faceva parte del bacino dell'Indo che costituiva territorio pakistano. L'anno successivo il governo pakistano minacciò di far intervenire l'esercito ma incontrò l'opposizione britannica e i combattimenti fra unità locali portarono ad una spartizione del territorio. Nel '61 infine il governo indiano decise, nonostante lo scarso interesse delle popolazioni locali, l'annessione delle piccole colonie portoghesi di Goa, Daman e Diu nella parte occidentale del paese. Nonostante tali episodi il governo centrale dimostrò un certo grado di tolleranza, riconobbe il carattere federale dello stato, l'uso delle lingue locali nelle singole regioni, e si sforzò di mantenere la pace all'interno del vasto mosaico di gruppi etnici.

Per venire incontro ai numerosi problemi economici del paese e dell'intera regione nel 1950 venne lanciato dalla Gran Bretagna il cosiddetto Piano Colombo con una serie di aiuti da parte delle nazioni più progredite del Commonwealth a favore di quelle più poveri. I crediti, per un valore di circa due milioni di sterline, a favore dell'agricoltura, dell'industria, dei trasporti, e dei servizi sociali, dovevano garantire anche una migliore situazione sociale, tale da impedire l'estensione delle rivolte che dal sud-est asiatico minacciavano il resto del continente, ma come molte altre iniziative degli anni successivi non ebbero successo a causa di questioni politiche e della esplosione demografica avvenuta in Asia in quel periodo, che assorbirono buona parte delle risorse.

Un interessante studio della situazione dell'India nel periodo coloniale è stato lasciato dal diplomatico indiano e attivo leader dell'indipendenza, Panikkar. Secondo l'esponente indiano gli inglesi avevano trattato con superiorità gli indiani ma al tempo stesso avevano introdotto nel paese alcune significative riforme. Avevano abbattuto il dispotismo e imposto al paese un sistema legale prima sconosciuto, la condizione della donna era notevolmente migliorata, e avevano contribuito alla pacificazione della regione, tuttavia non avevano completamente eliminato quello stato di apatia che caratterizzava l'animo indiano. Secondo lo storico indiano Laxman Mishra in India "Le contraddizioni sono inaudite: la casta è abolita per legge eppure il sistema è più solido che mai; la dote è giuridicamente un reato, ma una donna, per quanto plurilaureata e indipendente, non riesce a sposarsi senza di essa; la decisione governativa di abbattere un certo numero di vacche decrepite e malate (i bovini sono più numerosi degli uomini) ha provocato una rivolta mai vista neppure durante i moti indipendentistici e il progetto di legge è stato frettolosamente accantonato; in un paese che è arrivato alla formula atomica interamente da solo esiste la schiavitù ereditaria di coloro che per estinguere un debito lavorano senza compenso per i nipoti dei creditori dei propri avi; in una nazione che è sul punto di esplodere per apoplessia demografica si guarda con compatimento chi ha solo due o tre figli e con disprezzo chi non ne ha; dove si è combattuto tanto per la libertà si combatte oggi per mantenere l'inglese - lingua di schiavitù nota a meno dell'1% del popolo - al rango immeritato di secondo idioma del paese. Nondimeno la costituzione indiana è una delle più illuminate e tolleranti del mondo"[7].

Un ottimo quadro dell'India e di Nehru ci è stato lasciato da Richard Nixon; secondo l'ex presidente americano per decenni i due stati della regione indiana, Pakistan e India, hanno disperso larga parte delle loro risorse nelle loro infruttuose contese territoriali sprecando in tal modo gli ingenti aiuti che provenivano dai paesi più progrediti. La pianificazione economica intrapresa dal governo di Nuova Delhi non ebbe successo e in India "tutta la burocrazia tendeva con il suo immobilismo cartaceo a tagliare le gambe a qualsiasi iniziativa che provenisse dal basso". Nixon tuttavia riteneva il Pandith un uomo di eccezionali qualità e riconosceva a suo credito "che egli aveva insistito nel tentativo di sviluppare delle istituzioni democratiche, nonostante gli immensi problemi sociali ed economici e la conseguente tentazione di semplificare le cose ricorrendo alla dittatura"[8]. Anche un altro presidente americano si interessò alle sorti dell'India, John Kennedy. Nel 1959, quando era ancora senatore sostenne che "L'India segue la via della dignità umana e della libertà individuale. La Cina rossa invece rappresenta la via dell'irregimentazione, della spietata negazione dei diritti dell'uomo... Se l'India non dimostra di poter competere alla pari con la Cina, se non mostra che i suoi metodi funzionano meglio di quelli dittatoriali, se non riesce a compiere il passaggio dalla stagnazione allo sviluppo economico, sì da resistere allo straordinario incremento della sua popolazione, tutto il Mondo Libero subirà una sconfitta"[9]. Le speranze di Kennedy non ebbero riscontro e i progressi dell'India furono modesti; tuttavia nonostante questi limiti il Pandith fu oggetto di esaltazione da parte delle masse e riportò sempre per sé e il suo partito grandi successi elettorali.

La personalità di Nehru era profondamente diversa da quella di Gandhi, e ciò si rifletteva nel campo politico per quanto riguardava l'assetto laicista e socialista dello stato, tuttavia non mancavano punti in comune. Nehru riteneva che la società indiana fosse "oppressa dal sistema delle caste e dal clero" e si batté per una maggiore uguaglianza sociale, l'abolizione dell'"intoccabilità" e il miglioramento della condizione delle donne, prive negli anni precedenti di diritti civili e politici, e soggette all'arbitrio della famiglia. Molte risorse del paese vennero anche destinate dal governo da lui presieduto per il miglioramento dell'istruzione e nella riforma della scuola britannica, anche se i risultati furono inferiori alle aspettative.

Nel campo dell'agricoltura si ebbe una serie di provvedimenti non eccessivamente radicali, tuttavia i grandi latifondisti preoccupati che mezzadri e coloni potessero avanzare delle pretese sulle loro proprietà, licenziarono in massa molti contadini con grave danno per l'agricoltura e l'economia del paese. Nonostante gli investimenti statali la produzione agricola rimase bassa rispetto all'incremento della popolazione, e per molti anni lo stato indiano fu costretto ad importare grano ed altri cereali dagli stati americani. Nel 1952 venne lanciato un programma per il miglioramento dello sfruttamento delle terre e dell'agricoltura a livello locale, ma il piano non ebbe successo, e gli inviati del governo per l'attuazione della riforma utilizzarono i fondi per iniziative che contrastavano con gli usi e le abitudini delle popolazioni interessate. Nel tentativo di fare del paese una grande potenza, negli anni successivi venne dato maggiore impulso alle nazionalizzazioni in campo industriale e alla pianificazione economica, politica che favorì soprattutto l'industria pesante, con scarso beneficio per le popolazioni che continuarono ad essere afflitte dai tradizionali problemi di sottonutrizione e di condizioni igieniche gravissime. Gli eccessivi investimenti per lo sviluppo delle acciaierie, l'eccessiva pressione fiscale, le restrizioni alle importazioni, misero in difficoltà l'economia del paese, e nel 1958, al termine del 1° piano quinquennale, l'India si trovò con le sue riserve valutarie dimezzate e con un calo sensibile della produzione agricola. Secondo la testimonianza dello storico indiano Laxman Mishra "Mentre ciclopiche dighe venivano innalzate tra un gran strombazzar di radio e di comizi, nessuno si preoccupò della canalizzazione delle acque o del fissaggio di idrovore che regolassero l'irrigazione. Nessuno schema di credito a lunga scadenza veniva deliberato a favore dei contadini, il piano di salvaguardare i villaggi dalla siccità stagionale scavando un pozzo ogni due o tre acri di terreno incoltivato sta ancora aspettando d'esser messo in pratica, né la tassazione dei contadini ha ricevuto l'attenzione promessa"[10].

L'India perseguì una politica estera molto attiva a favore del neutralismo intesa a candidarsi alla guida dei paesi asiatici; così nel '49 tenne una conferenza panasiatica per la condanna dell'intervento olandese in Indonesia, e nel '55 si fece promotrice della conferenza di Bandung. Anche per tali ragioni l'India, la più popolosa democrazia del mondo, ha rappresentato un importante modello di stato in contrapposizione al regime totalitario cinese in Asia ottenendo in questo il sostegno dell'Occidente. Parlando di politica internazionale Nehru confidò al giornalista americano Edgar Snow che "il tipo di aiuto economico offerto da Marshall all'Europa è ciò di cui quasi tutti i paesi hanno bisogno, e di cui qui in India abbiamo un bisogno disperato... Ma questo discorso sui due campi non ci interessa. L'India non venderà mai la propria indipendenza per aderire a un campo o all'altro. Faremo del nostro meglio per impedire che si facciano la guerra, e quando e se la guerra ci sarà faremo di tutto per restarne fuori"[11]. Sebbene il governo indiano avesse evitato la rivalità con la Cina e nel '59 si astenne dal prendere posizione sul Tibet, dimostrò un certo timore per le iniziative cinesi in Corea e in Indocina, ma tale politica non impedì comunque nel '62 in concomitanza con l'escalation della crisi dei missili a Cuba, che la Repubblica Indiana venisse aggredita dalla potenza comunista; la guerra fra i due giganti del continente, si concluse favorevolmente allo stato indiano solo grazie l'intervento americano.

Nel '64 rimasta orfana del Pandith l'India ebbe una nuova guida nel moderato Shastri, che legò tuttavia la sua breve vita politica ad una seconda guerra col Pakistan. Le rivalità fra il Pakistan e l'India mai sopite, ritornarono alla luce nel '65 nonostante gli incontri al massimo livello dell'anno precedente. Dopo una breve contesa per le paludi di Kutch, un territorio di scarso interesse nella parte meridionale del territorio di confine indopakistano, si riaccesero i contrasti nel Kashmir. Il governo indiano lamentava la penetrazione di guerriglieri pakistani oltre la linea del cessate il fuoco (infiltrazione riconosciuta dagli stessi osservatori dell'ONU) e nell'agosto, nonostante l'avvicinarsi di una grave carestia nel paese, l'esercito indiano lanciò un'offensiva con quasi un milione di uomini che travolse le difese pakistane. L'intervento della Gran Bretagna che pose il blocco ai rifornimenti indiani e quello americano che interruppe l'invio di materiali bellici ad entrambi i contendenti, spinse le due parti a più miti consigli, anche se il conflitto si poté concludere solo con l'intervento sovietico che riuscì in una brillante opera di mediazione. 

Poche ore dopo la firma dell'armistizio Shastri improvvisamente morì, ma il tragico evento non impedì la prosecuzione dell'opera di pace nella regione. La fine prematura del leader indiano consentì l'ascesa al potere della figlia di Nehru, Indira Gandhi[12] il cui governo continuò e rafforzò la politica economica socialista del governo degli anni precedenti. Secondo la nuova leader infatti "Oggi democrazia significa inevitabilmente sicurezza sociale, uguaglianza di opportunità, livelli di vita tollerabili, e dignità dell'individuo. L'uomo non vive di solo pane, ma di pane ha certo bisogno per poter godere della propria libertà"[13].

I primi anni della nuova amministrazione non furono positivi per la vita economica e politica del paese, non solo a causa della carestia che fra il '65 e il '67 gravò sul paese, ma anche per le agitazioni delle minoranze etniche nel nord del paese, la corruzione che si diffuse all'interno del partito del Congresso, la svalutazione della rupia, fenomeni che diedero vita a numerose manifestazioni studentesche contro il governo. Alle elezioni del 1967 il partito di Indira Gandhi ottenne una ristretta maggioranza, tuttavia ciò non ostacolò la continuazione del programma di governo con la fermezza con cui era solita la signora, programma economico che prevedeva la nazionalizzazione delle banche, restrizioni ai capitali stranieri, e alcuni provvedimenti più incisivi in materia di distribuzione delle terre. La riforma bancaria fu quella che diede maggiori risultati positivi, e favorì la diffusione del risparmio bancario fino allora poco praticato nel paese, negli altri settori non si ebbero invece che scarsi risultati positivi. Sul piano politico non si ebbe una convergenza con i comunisti, tuttavia il nuovo governo promosse un riavvicinamento verso l'Unione Sovietica, e in occasione di una visita di Kossigyn la leader indiana richiese la fine dei bombardamenti americani sul Vietnam del nord.

La vita politica della regione venne sconvolta negli anni successivi da un nuovo conflitto che per un certo periodo sembrò avere più gravi conseguenze a livello mondiale. Il Bengala, distante oltre 1.500 chilometri dal Pakistan occidentale, non aveva altri legami con il resto della nazione se non per la religione e lamentava una situazione economica gravissima. Nel 1970 si tennero le prime elezioni nel paese che videro l'affermazione dello sceicco Majub favorevole ad un programma di ampia autonomia dal potere centrale. Dopo alcuni infruttuosi negoziati nel marzo dell'anno successivo il generale Yahya, primo ministro di Islamabad, diede l'ordine di attaccare i dimostranti favorevoli al distacco del Bengala dal Pakistan compiendo degli atti di violenza che costarono la vita a centinaia di migliaia di persone e provocarono la fuga di 8-10 milioni di bengalesi oltre il confine indiano. Il governo di Nuova Delhi venne accusato di armare i ribelli, e dopo la firma di un trattato di cooperazione militare con l'Unione Sovietica, nel dicembre di quell'anno si aprì il terzo conflitto fra India e Pakistan. L'India aprì le ostilità quando gli Stati Uniti avevano quasi portato a termine l'opera di convincimento sulle autorità di Islamabad perchè il potere fosse trasferito al governo civile e si arrivasse ad un negoziato con i Pakistan[14] che si concluse in breve tempo con la sconfitta del Pakistan e la creazioneleader dell'opposizione del Bangla Desh. Il Consiglio di Sicurezza fu impedito di prendere provvedimenti per porre fine al conflitto a causa del veto sovietico, l'Assemblea Generale dell'ONU, comunque a larga maggioranza condannò il comportamento dell'India. La Cina scese in campo apertamente a favore del Pakistan, ma anche perché minacciata da un controintervento sovietico, non poté cambiare il corso degli eventi. La guerra sembrò per un certo periodo coinvolgere le maggiori potenze, ma gli Stati Uniti di fronte al gravissimo episodio di violenza di cui si rese responsabile Islamabad si astenne dall'intervenire. La breve guerra indopakistana gestita particolarmente male dall'inetto e spietato Yahyia, rappresentò un grande successo per l'India, e solo l'abile opera leader pakistano Ali Bhutto impedì la disgregazione della nazione mussulmana. 

L'inflazione e il rincaro del prezzo del petrolio provocarono una fase di ristagno economico all'interno della Repubblica Indiana, che se non impedirono la realizzazione dei programmi per la costruzione della bomba atomica, diedero luogo a scioperi e proteste duramente represse. Nel 1975 la situazione si aggravò notevolmente; venne proclamato lo stato d'emergenza, e il governo decise l'arresto di migliaia di oppositori e l'imposizione della censura sulla stampa. Il governo della signora Gandhi perse le ultime aree di consenso nel paese quando impose un drastico programma di controllo delle nascite attraverso la sterilizzazione degli individui maschi con più figli, provvedimento che non rimase senza conseguenze. Alle elezioni del 1977 trionfò l'opposizione che allontanò dal potere la contestata leader, anche se l'estremo frazionamento politico impedì la costituzione di un solido governo e il miglioramento dell'economia. Il ritorno al potere di Indira negli anni successivi fu caratterizzato da nuove sollevazioni etniche, tuttavia la energica leader evitò di perseguire la politica estremista degli anni precedenti.

Una nuova ondata di violenza si abbatté sul paese nel 1984; l'intervento dell'esercito contro le violenze dei rivoltosi Sikh nel Punjab provocò la morte di migliaia di persone e la profanazione del Tempio d'Oro simbolo sacro di questa religione. Pochi mesi dopo la signora Gandhi, ritenuta responsabile del grave gesto venne uccisa da esponenti della setta e nel paese si verificarono nuove violenze. A Nuova Delhi e in altre grandi città bande di indù si abbandonarono a gravissimi atti di violenza che provocarono ingenti distruzioni e la morte di migliaia di Sikh. Le violenze cessarono solo con l'intervento delle forze armate sotto la guida del nuovo leader Rajiv, figlio della signora Gandhi. Il giovane leader cercò di attuare un programma di tolleranza e di sviluppo profondamente innovativo rispetto alla gestione precedente, avviando la liberalizzazione dell'economia e favorendo gli investimenti stranieri, che comunque non diedero i risultati sperati al paese. Rajiv si impegnò anche nel miglioramento dei rapporti con le grandi potenze e i paesi vicini; gli storici incontri con la Cina e il Pakistan non diedero comunque risultati significativi.

Il Pakistan, soggetto dal 1958 a numerosi colpi di stato militari, in quanto terza nazione del continente asiatico, e maggiore stato mussulmano del mondo non può non avere una qualche attenzione.mondo, conobbe dal 1958 una lunga successione di colpi di stato militari. La vita politica del paese venne caratterizzata dal suo costante statosuodallo stato di costantestato di tensione con la vicina Repubblica Indiana, e per tali ragioni negli anni Cinquanta il paese aderì alla SEATO e alla CENTO, ma negli anni successivi progressivamente si allontanò dall'alleanza occidentale e si avvicinò alla Cina Popolare. Nel 1958 il generale Ayub diede vita ad un governo socialista che promosse la riforma agraria e un piano di industrializzazione che ebbe scarso successo e provocò numerose sollevazioni operaie e studentesche nel paese. L'economia del paese in quegli anni ha risentito inoltre della instabilità interna e dello stato di tensione fra i diversi gruppi etnici, che hanno impedito lo sviluppo della nazione. 

Dopo i gravi fatti del 1971 il paese conobbe un certo miglioramento sotto la guida di Ali Bhutto; personaggio aristocratico, stravagante, di buona cultura e "marxista economico" come egli stesso si definì, si fece promotore di una politica economica moderatamente socialista; secondo il suo programma occorreva "procedere con pazienza attraverso riforme che gradualmente conducano al socialismo: nazionalizzando dove è possibile, rinunciando dove è necessario, rispettando i capitali stranieri di cui abbiamo bisogno"[15]. L'anno successivo al suo insediamento il nuovo leader promosse un incontro di pacificazione con i dirigenti indiani e successivamente preparò il progetto di una costituzione per la realizzazione di una repubblica democratica e federale, ma il suo governo non ebbe lunga vita. Nel '77 il governo di Bhutto venne rovesciato da un gruppo di militari che condannarono a morte il leader progressista e instaurarono la repubblica islamica. Il fanatismo del nuovo governo, che instaurò la shari'a e diede vita a violenze culminate nell'assalto all'ambasciata americana a Islamabad, provocò innumerevoli proteste e l'arresto di migliaia di oppositori al regime. Il potere dei militari ebbe termine nel 1988, ma il paese anche successivamente ha conosciuto una vita politica estremamente travagliata. La coraggiosa Benazir Bhutto, figlia del leader scomparso si impegnò in un programma di modernizzazione del paese che tuttavia non poté impedire il ritorno al potere dei militari. Negli anni successivi in Pakistan venne introdotta la pena capitale per chi recava offesa al Profeta (lasciando incerto su cosa si dovesse intendere per offesa), venne imposta la censura sui serials televisivi, e prescritta la religione d'appartenenza sui documenti d'identità; i gravi provvedimenti hanno turbato la vita politica del paese e hanno limitato notevolmente i rapporti commerciali con gli altri stati.

La guerra del 1971 aveva prodotto l'apparizione di un nuovo stato nel subcontinente indiano, il Bangla Desh. Il nuovo stato afflitto da numerosi disastri naturali provocati anche da una cattiva gestione del territorio, e da problemi economici gravissimi a causa dell'eccessiva concentrazione demografica, conobbe un periodo di instabilità politica. Tre anni dopo la proclamazione dell'indipendenza lo sceicco Mujib fondatore dello stato venne rovesciato dai militari, e da allora il paese è stato gestito dalle giunte militari, mentre le relazioni con l'India sulle quali si reggeva lo stato si sono progressivamente raffreddate. 

All'interno del subcontinente indiano l'isola di Sri Lanka (l'antica Ceylon) per lungo tempo sembrò godere di una situazione politica ed economica migliore degli altri paesi dell'area. Nel campo dell'istruzione e dell'assistenza sociale il paese presentava una situazione superiore aglidiversa dagli altri paesi della regione, favorita anche da una tradizione di moderazione e di rispetto per la democrazia che aveva contrassegnato la vita del paese, ma a più riprese anche questa "oasi di pace" venne turbata da gravi disordini. 

Ottenuta l'indipendenza nel 1948, negli anni successivi si affermò il partito socialdemocratico di Solomon Bandaranaike, uomo di buona cultura, neutralista convinto, vicino alle posizioni di Nehru. Nel 1959 lo stimato uomo politico venne ucciso da un monaco buddista e fu sostituito alla guida del paese dalla moglie Sirimavo Bandaranaike, che proseguiva sostanzialmente la politica dello scomparso. La nuova leader, che parlava di socialismo come "uguaglianza e giustizia sociale nella libertà", priva di grande personalità, ma non di buon senso secondo la testimonianza di Oriana Fallaci, portò avanti un piano di industrializzazione e nazionalizzazione, che ebbe scarso successo ma cercò comunque di salvaguardare l'ordine e la legalità. Il programma di socialismo moderato venne bruscamente interrotto nel '71 da una violenta e singolare insurrezione formata da giovani contestatori ultra comunisti, organizzata secondo le dichiarazioni ufficiali dalla Corea del nord e aiutata dall'Unione Sovietica e forse dalla Cina. La repressione dei moti fu alquanto dura e provocò circa 5.000 morti. 

Negli anni successivi il potere passò nelle mani di Jayewardene che attraverso un programma di liberalizzazione economica ha ampliato notevolmente gli investimenti stranieri nell'isola e migliorato la situazione del paese. Dal 1982 il paese fu investito dalla guerra fra la minoranza Tamil nel nord del paese e la maggioranza cinghalese che ha provocato decine di migliaia di morti in un conflitto dai contorni sempre più contorti. L'intervento dell'esercito indiano nel paese prima richiesto e poi osteggiato dal governo di Colombo, non ha favorito la conclusione del conflitto ed ha avuto come tragica conseguenza la morte di Rajiv Gandhi, ucciso da una terrorista delle Tigri Tamil nel 1991. 


il dramma della Palestina e il terrorismo internazionale


In seguito alla guerra del '48 il territorio palestinese era stato assorbito interamente da Israele e dai paesi arabi vicini, Giordania ed Egitto, e circa mezzo milione di arabi palestinesi avevano abbandonato le loro terre d'origine. 

Con la successiva guerra del '67 si ebbe una nuova ondata di profughi verso i paesi arabi vicini; negli anni Settanta fra crescita demografica e nuovi arrivati si contavano oltre un milione e mezzo di rifugiati, un terzo dei quali ospitati nei miseri campi d'oltre confine assistiti unicamente dalle organizzazioni umanitarie dell'ONU. Secondo gli arabi le popolazioni palestinesi erano state scacciate con la forza dalle loro terre, mentre secondo il governo israeliano furono invece i capi politici dei paesi ospitanti a ordinare il trasferimento delle popolazioni palestinesi; le condizioni difficili di questi profughi che non riuscirono ad integrarsi nelle nazioni ospiti favorirono la nascita di numerosi movimenti estremistici. Quella dei palestinesi non fu comunque l'unica tragedia di quel periodo, negli stessi anni un numero quasi uguale di ebrei sefarditi venne allontanato dai paesi arabi nei quali risiedevano da molte generazioni, e costretti a riparare in Israele. 

Il nuovo esodo rafforzò le nuove organizzazioni palestinesi e diede un notevole impulso ad una nuova strategia politica che divenne tristemente famosa negli anni successivi, il terrorismo, condotto a livello internazionale contro obbiettivi di natura diversa. Nel 1968 accanto all'organizzazione di Al Fatah (= la vittoria) presieduta da Arafat, all'interno della quale erano ospitati esponenti di tendenze politiche diverse e con diverse fonti di finanziamento (la principale comunque rimaneva l'Arabia Saudita), sorsero diverse altre organizzazioni, alcune delle quali in aperto contrasto con l'Organizzazione per Liberazione della Palestina, che costituiva la rappresentanza legittima dei palestinesi. Fra le numerose organizzazioni si distinguevano il Fronte Popolare di Liberazione della Palestina (FPLP) di George Habbash di tendenze marxiste e contrario non solo a Israele ma anche a tutti i paesi conservatori dell'area mediorientale, il Fronte Democratico Popolare di liberazione della Palestina (FDPLP) derivazione del precedente, il gruppo di Abu Nidal responsabile delle più turpi azioni di violenza, dell'assasinio di uomini vicini ad Arafat, e legato al narcotraffico.

Mentre l'organizzazione di Arafat conduceva un tipo di azione essenzialmente militare contro le forze israeliane (Settembre Nero più estremista sfuggiva probabilmente al controllo del presidente dell'OLP), le altre organizzazioni si abbandonarono ad azioni di terrorismo nel corso delle quali non venne risparmiata la vita di innocenti e di cittadini di paesi estranei al conflitto la cui unica colpa era quella di trovarsi nel posto sbagliato. Alcune delle azioni dell'FPLP in particolare vennero duramente condannate dal Comando unificato palestinese.

Arafat, riconosciuto (anche internazionalmente) come l'uomo più rappresentativo del mondo palestinese, seppe dosare con abilità estremismo e moderazione. Nel '72 così sintetizzò il programma del suo movimento: "La fine di Israele è lo scopo della nostra lotta, ed essa non ammette nè compromessi nè mediazioni. I punti di questa lotta, che piacciano o non piacciano ai nostri amnici, resteranno sempre fissati nei principi che enumerammo nel 1965 con la creazione di Al Fatah [abrogati invece nel 1989]. Primo: la violenza rivoluzionaria è il solo sistema per liberare la terra dei nostri padri; secondo: lo scopo di questa violenza è di liquidare il sionismo in tutte le sue forme politiche, economiche, militari e cacciarlo per sempre dalla Palestina; terzo: la nostra azione rivoluzionaria dev'essere sempre indipendente da qualsiasi controllo di partito o di Stato; quarto: questa azione sarà di lunga durata. Conosciamo le intenzioni di alcuni capi arabi: risolvere il conflitto con un accordo pacifico. Quando questo accadrà ci opporremo"[16]. Successivamente alla guerra dello Yom Kippur, tuttavia il leader palestinese rivide progressivamente le sue posizioni. Nel novembre del 1974 invitato a tenere una relazione all'Assemblea Generale delle NU Arafat affermò: "Colui che lotta per una causa giusta, colui che lotta per ottenere la liberazione del suo Paese, colui che lotta contro l'invasione e contro lo sfruttamento, come contro la colonizzazione, non può mai essere definito terrorista... Sono venuto qui tenendo in una mano il ramoscello d'ulivo e nell'altra il mio fucile di rivoluzionario. Non lasciate che il mio ramoscello d'ulivo cada dalla mia mano"[17].

Ai propositi più moderati Arafat fece seguire la rottura con il fronte arabo estremista formato da Siria, Libia e Irak, e la ripresa di rapporti con re Hussein. Molti paesi arabi avevano interesse che la "ferita" della Palestina non si richiuddesse, e nel maggio del 1983 gruppi palestinesi filo siriani cercarono di rovesciare Arafat e di porre l'assedio ai campi profughi di Tripoli in Libano, ma il tentativo di creare un movimento palestinese allineato non ebbe successo. Coronamentosuccesso. Coronamento della nuova politica palestinese fu nell'87 la proclamazione di una nuova forma di lotta non cruenta, l'intifadah, con la quale i giovani palestinesi hanno cercato di mettere in difficoltà l'esercito israeliano. La rivolta delle pietre, come è stata definita in Occidente, ha messo seriamente in crisi la credibilità del governo israeliano e ha contribuito a dare una nuova immagine al movimento palestinese di fronte all'opinione pubblica mondiale.

Per molti anni George Habbash, un palestinese di fede cristiana ortodossa, fu il principale avversario di Arafat e l'uomo che più di ogni altro legò la causa palestinese ad una soluzione rivoluzionaria; secondo il capo dell'FPLP "Israele è un fenomeno colonialista, il colonialismo è un fenomeno imperialista, l'imperialismo è un fenomemo capitalista: quindi i soli paesi che consideriamo amici, e ai quali non ci sognamo di dirottare gli aerei, sono i paesi socialisti. Il paese più amico di tutti è la Cina"[18]. Nel corso degli anni il movimento terroristico da lui diretto rivendicò numerose azioni fra le quali il triplice dirottamento aereo del settembre 1970 in Giordania e il massacro all'aeroporto israeliano di Lod alcuni anni dopo, condotte sempre con freddezza e notevole professionalità.

Dalla fine degli anni Sessanta si ebbe un incredibile aumento dell'attività terroristica internazionale con dirottamenti aerei, sequestri di persona, attentati, alcuni dei quali condotti in collaborazione con gruppi terroristici tedeschi e di altre nazionalità, contro obbiettivi civili nei paesi europei. Il successo dell'ondata di terrore determinò verso la fine degli anni Settanta una serie di azioni che non avevano più nulla in comune con la questione palestinese e che costituirono una sorta di terrorismo su commissione. La nuova ondata di terrore venne alimentata dai nuovi regimi creatisi nella regione: l'Iran di Khomeini, la Siria di Assad eAssad, la Libia di Gheddafi, e tendeva a neutralizzare l'azione dei paesi occidentali e a combattere i paesi arabi moderati. 

Nel '73 successivamente alla terza guerra arabo israeliana venne lanciata la maggiore sfida dei paesi produttori di materie prime ai paesi occidentali. Il rialzo del prezzo del petrolio deciso dai paesi dell'OPEC nell'ottobre di quell'anno colpì i paesi europei ritenuti ingiustamente filo israeliani, ma colpì in eguale misura anche quei paesi poveri come l'India che dipendevano dal petrolio come principale fonte di energia. 

Di fronte all'iniziativa che vedeva su posizioni comuni monarchie conservatrici e paesi rivoluzionari (anche se nella fase successiva furono soprattutto quest'ultimi a sostenere una politica di scontro con i paesi occidentali) la risposta dell'Occidente fu debole; gli Stati Uniti cercarono di costituire un fronte unico dei paesi consumatori di petrolio ma incontrò l'opposizione della Francia e del Giappone più favorevoli al compromesso. Kissinger nelle sue memorie ricorda che il timore dei governi occidentali che una qualche iniziativa avesse potuto inasprire la politica dell'OPEC paralizzò il mondo occidentale, e che: "Ancor più grave della rivoluzione economica fu l'emergere del petrolio come arma di ricatto politico... Se mai è stato vero che gli aiuti economici erano necessari per impedire la divisione del nostro pianeta tra i pochi che possedevano la ricchezza e i tanti che vivevano nella miseria, e se il mantenimento della pace ci imponeva di chiudere il varco, allora l'aumento del prezzo del petrolio ha agito mirabilmente per impedire il raggiungimento di questi obbiettivi. Quasi tutti i paesi in via di sviluppo dipendono totalmente dalle importazioni di petrolio per la loro espansione industriale e agricola, e tutto dipende dal potenziamento del commercio mondiale e degli investimenti oltre che dagli aiuti ai paesi stessi. Le speranze di questi paesi nel progresso vennero infrante dall'esplosione dei prezzi del petrolio"[19].

Il brusco rialzo del prezzo del petrolio ebbe come conseguenza un aumento dell'inflazione, della disoccupazione e una recessione nel settore industriale, senza produrre apprezzabili benefici reali per i paesi produttori di materie prime: investimenti mal coordinati nell'acquisto di holding internazionali, e incremento delle spese militari non consentirono né il miglioramento delle condizioni di vita delle masse arabe né il decollo economico dell'area mediorientale.di quella parte del mondo.



Verso la fine degli Settanta si ebbe il rilancio del terrorismo come strumento di pressione internazionale. Sebbene numerosi gruppi terroristici fossero formati da palestinesi e una parte degli attentati interessava la regione mediorientale, il nuovo terrorismo aveva ben poco a che vedere con la causa palestinese. Nell'estate del 1975 si ebbe ad opera del terrorista Carlos alias Ramirez Sanchez, il sequestro dei ministri del petrolio riuniti in una conferenza dell'OPEC; l'azione ispirata probabilmente dalla Libia, si concluse con notevoli richieste di denaro e diede notevole impulso alla nuova strategia. Negli anni successivi molte operazioni commissionate dai governi libico, siriano ed iraniano diedero luogo a numerosi atti di efferatezza (talvolta compiuti dagli stessi diplomatici mediorientali accreditati nelle capitali europee) contro i quali i tradizionali sistemi di difesa passiva organizzati dai paesi occidentali risultavano inidonei. Nel 1985 l'attività terroristica raggiunse il culmine con il duplice attentato all'aeroporto di Roma e Vienna nel corso del quale vennero uccise 19 persone. Un salto nella strategia di repressione al terrorismo si ebbe con il presidente americano Ronald Reagan, il quale con alcune azioni aero-navali ben condotte riuscì a mettere fine al terrorismo libico e di riflesso a porre delle pesanti remore agli altri governi che adoperavano la medesima strategia. Con la rappresaglia americana del 1986 contro la Libia nel corso della quale venne bombardata la stessa residenza di Gheddafi, il terrorismo ricevette un colpo dal quale non poté più riprendersi.



Trattando di Israele, dovremo innanzitutto stabilire se lo stato ebraico costituisca un paese del Terzo Mondo e se debba rientrare in questa dissertazione. Un problema ancora più complesso è stabilire la natura della nazione israeliana. Il giovane stato mediorientale è formato da genti che parlano lingue diverse che provengono in prevalenza dall'Europa centrorientale e dai paesi arabi; vi sono ebrei che certamente non appartengono alla stirpe originaria e che, come i falascia dell'Etiopia, sono razzialmente diversi, e vi sono infine cittadini israeliani che sono arabi che hanno preso la cittadinanza di Israele. L'unico legame di queste numerose comunità è sicuramente la religione, ma anche in questo campo ci sono le eccezioni e personaggi di primo piano della vita politica israeliana come la stessa Golda Meir, si professava apertamente non religiosa.

Nonostante la grande varietà etnica, Israele ha costituito e costituisce lo stato più saldo della regione avviato verso un regime democratico non diverso da quello dei paesi europei, anche se il timore dell'accerchiamento da parte dei paesi arabi ha condizionato notevolmente la sua politica interna ed estera e nel corso della sua breve storia non sono mancati episodi infelici di intransigenza e intolleranza.

La posizione di Ben Bella su Israele rispecchia una opinione per lungo tempo assai comune nel mondo arabo: "tra Israele e l'imperialismo occidentale c'è una sorta di intesa tacita: Israele dovrebbe sforzarsi di riprendere in Africa [e in Medio Oriente] le posizioni che gli occidentali sono stati costretti ad abbandonare: Così oggi il settantacinque per cento del commercio estero di Israele ha luogo con l'Africa del sud, cosa che dà da pensare se si tiene presente l'odiosa politica razzista di questo paese"[20]. Secondo Arafat le cause del contrasto arabo-israeliano "non discendono da alcun conflitto religioso o nazionalistico. Non si tratta nemmeno di una disputa sui confini tra due stati vicini. Si tratta della causa di un popolo privato delle proprie terre natie, disperso e sradicato, che vive in gran parte in esilio e nei campi profughi"[21]. Diverso è naturalmente il giudizio di molti uomini politici occidentali; secondo Kennedy gli americani dovevano sostenere Israele "di cui tutti gli amici della libertà debbono ammirare l'aderenza ai sistemi della democrazia. Ma facciamo anche in modo che sia chiaro a tutti i paesi del Medio Oriente, che noi vogliamo amici, non satelliti, e che a noi interessa la loro prosperità, quanto la nostra"[22].

Attraverso un grande impegno collettivo il paese fece enormi progressi, vennero notevolmente ampliate le superfici coltivabili strappate al deserto, e dato l'avvio all'industrializzazione. Oggi Israele è di gran lunga il paese più ricco della regione, e nonostante gli impegni militari che hanno gravato pesantemente sull'economia del paese, il tenore di vita non è molto diverso da quello dei paesi industrializzati dell'Occidente.

Alla prevalenza di governi di sinistra incentrati sul partito laburista, corrispose un orientamento socialista nel campo economico, di cui la gestione comunitaria delle terre costituiva l'aspetto più originale. Già prima del 1948 si organizzarono i moshav e i kibbutz. Nel primo la proprietà delle terre è individuale ma i capitali e gli strumenti sono di proprietà comune del villaggio, nel secondo l'aspetto collettivo è ancora più accentuato. Le terre coltivate sono di proprietà della comunità e i membri della stessa non percepiscono un reddito ma gli utili sono ripartiti equamente fra gli stessi. Non solo il lavoro, ma buona parte della vita, anche familiare, risulta comunitaria con mense e cura dei figli in comune. Secondo lo studioso André Chouraqui nel kibbutz "Il lavoro è offerto per amore del bene comune, e la comunità provvede, secondo le sue possibilità, ai bisogni di ciascuno. Una profonda sicurezza, fondata sulla fraterna solidarietà del gruppo dà a questi uomini senza denaro la ragionevole certezza d'essere i padroni del lavoro uscito dalle loro mani: uomini liberi"[23]. Negli anni successivi, anche a seguito della grave inflazione abbattutasi nel paese, tale politica economica venne progressivamente abbandonata e sostituita con imprese che operavano sul mercato.

L'artefice dello stato ebraico e il protagonista di molte sue vicende fu un personaggio di notevole levatura morale, Ben Gurion, un uomo originale ed esuberante, di tendenze laiche di sinistra ma con una sua personale religiosità. Nella sua lunga carriera politica alternò all'attività di governo, impegni spirituali e l'interesse per l'agricoltura; venne criticato anche dal suo partito per il suo temperamento autoritario, ma lanciò anche diverse iniziative per la riconciliazione con l'Egitto. All'indomani della guerra del '67 affermò infatti che "Il vero successo per Israele non sta nel battere i suoi nemici esterni, ma nel vincere le sue battaglie con l'arida terra, nel far fiorire il deserto che costituisce il sessanta per cento del suo territorio"[24]. Secondo quello che venne chiamato il padre della nuova patria israeliana, il rispetto della tradizione ebraica e la democrazia costituivano i cardini dello stato ebraico, e gli estremisti che volevano impossessarsi delle terre arabe rappresentavano una minaccia a questi principi, e un pericolo morale per la nazione.