28 LUGLIO
Quelle 36 ore
Cercherò di descrivervi le sensazioni che ho provato sabato scorso a
Genova. Non è facile. Sono ancora emotivamente molto scossa. Pensare a quanto
è accaduto mi fa ancora piangere. Mi fa piangere il qualunquismo della gente
con cui ho parlato in questi giorni, la loro indifferenza e cecità, la mancanza
di voglia di capire, la loro ipocrisia. Mi fa piangere perché sto male vedendo
e sentendo tutto ciò. Mi fa piangere perché cosi riesco a sfogare la tensione
che mi ha avvolto e sconvolto in quelle 36 ore. Sabato ho provato, prima, una
gioia infinita. Erano tanti anni che non partecipavo ad una manifestazione di
piazza così gremita, cosi intensa e gioiosa. Si ballava, si cantava, si
battevano le mani. Sembrava quasi di essere ad un concerto. Sai, di quelli che
riescono a raccogliere gente di tutte le età. Giovani ventenni, quindicenni con
i genitori, quaranta cinquantenni con famiglia al seguito e, infine, arzilli
pensionati. Era bellissimo. Un sole stupendo sul lungomare di Genova. Ad un
certo momento (per quanto mi riguarda vero le 17) da lontano (circa 1
chilometro) abbiamo visto un denso fumo che si alzava da quella che poi abbiamo
saputo essere piazza Kennedy. Da lì è cominciata prima una vaga paura, che ci
ha indotti a fare qualche passo indietro.., poi il terrore totale... quando da
un viale laterale che incrociava il lungomare abbiamo visto sbucare due
cingolati, centinaia di poliziotti che cominciavano a caricare e decine di
camionette della polizia al seguito con ricambio di uomini. In quel punto della
manifestazione, come in tanti altri che ho visto con i miei occhi, NON ERA
PRESENTE NESSUN "NERO"!!!. Però siamo stati brutalmente e
gratuitamente attaccati. Noi quattro siamo riusciti a scappare, strisciando
lungo i muri del viale laterale, ma tutti quelli che erano dietro di noi hanno
beccato manganellate, cariche su cariche e lacrimogeni solo per il fatto che
volevano manifestare pacificamente. E non è finita qui. Una volta fuggiti dal
lungomare credevamo di essere al sicuro. Non potevamo certo immaginare che da lì
fino all'una di notte la nostra incolumità personale sarebbe stata
continuamente in pericolo NONOSTANTE FOSSIMO FUORI DAL CORTEO. Passavano
continuamente camionette della polizia pronte a bastonare, sputare, insultare
qualsiasi piccolo e anche involontario raggruppamento (trenta-quaranta persone)
di uomini,donne, anziani che fuggivano. Un clima di terrore che mi ha subito
ricordato (prima ancora di leggerlo nei giornali il giorno dopo) i tempi di
Pinochet in Cile descritti da Isabelle Allende nei suoi libri più belli. Ti
giuro che è così. Ho avuto tanta paura. Ho sentito ragazzi e ragazze come noi
che si mangiavano un panino in disparte assaliti da poliziotti che gratuitamente
li hanno picchiati. Ragazze che sono state toccate sul seno e in mezzo alle
gambe, chiamate puttane. Gente che piangeva mentre raccontava questo ed altro
che in questo momento non sono in grado di ripetere. Gente come me, come noi,
pacifica e tranquilla, assolutamente non violenta. Pensa che una quarantina di
persone (tra cui parecchi anziani) aveva trovato rifugio nel portone di un
palazzo. La polizia se n'è resa conto, ha sfondato il portone, ha buttato
dentro lacrimogeni e ha costretto tutti ad uscire per massacrarli di
manganellate. Tutto questo è vero. Non sono fandonie. Ho visto. Ho sentito. Ho
avuto così tanta paura. Mi sono sentita braccata come mai in vita mia. Nessun
luogo mi sembrava sicuro. Alla fine, verso le nove di sera, siamo scesi verso la
stazione Brignole per aspettare il treno che verso le due ci avrebbe riportati a
Firenze. Ma non siamo andati a Firenze. All'una abbiamo preso il treno per
Torino. Il primo treno che partiva dalla stazione. Non era più sicura neppure
la stazione. Cominciavano a girare poliziotti in divisa ed in borghese. Ho
sentito alla radio la notizia del blitz alla sede del Genoa social forum. Ho
sentito personalmente quattro o cinque quarantenni, di quelli che organizzano i
cortei o simili, che dicevano tra loro (a bassa voce per non diffondere il
panico) che non era più sicuro neppure stare lì. Non era più sicuro stare a
mezzanotte alla stazione, quando la manifestazione era finita. Siamo tornati a
Firenze alle cinque del pomeriggio di domenica, prendendo uno dei primi treni da
Torino. Questo è il mio racconto. Di testimone oculare, presente ai fatti.
Presente ad un assalto ingiustificato ai pacifisti lontani chilometri dai black
block. L'intento era chiaramente quello di spezzare il corteo, impedire la
manifestazione e creare un clima di terrore nei manifestanti... e ci sono
riusciti in pieno. Alcuni ragazzi di Genova mi hanno detto che venerdì mattina
dalle finestre di casa loro hanno visto questi neri saccheggiare parti della
città indisturbati. Perché allora non li hanno fermati? Perché l'on.
Francescato, la sera del blitz, arrivando in taxi in una stradina laterale,
vicina alla scuola sede del forum, ha visto neri che giravano tranquillamente da
quelle parti, mentre la polizia massacrava di botte quelli che stavano dormendo
nella scuola? A questi e a mille altri perché qualcuno deve rispondere. Non
deve passare la giustificazione del governo. Non deve passare il messaggio neri
uguale Genoa social forum. La violenza va condannata; tanto quella dei neri,
quanto quella della polizia. Soprattutto quando è gratuita. E nessuno deve
toglierci il diritto di manifestare. Qui non c'entra il colore politico di
appartenenza. C'entra il rispetto di diritti fondamentalicostituzionalmente
garantiti. Scusa se sono stata lunga. Ti abbraccio forte forte.
Saura
C'era da dire, e da ricordare Carlo
Sabato 21 Luglio mi sono recato con il pullman organizzato dal Prc a
Genova per manifestare, insieme con altre 300mila persone, il mio dissenso a
questo modello di sviluppo.
La mia protesta, come del resto quella della maggioranza dei presenti, era ferma
e decisa, ma assolutamente pacifica, fatta di slogan, di canti, di musica, di
allegria. C'era da dire agli 8 "grandi" che la loro politica e la loro
idea del mondo non ci piacciono, ma c'era anche da ricordare Carlo Giuliani,
reagendo subito alla violenza del giorno prima mostrandoci molto numerosi. Così
era, infatti, con l'intento di poter arrivare tutti in fondo al corteo in piazza
G.Ferraris dove ci saremmo raccolti in un momento di confronto collettivo.
Invece no. Invece una larga parte del corteo è stata dispersa dalla polizia e
dalla violenta stupidità di alcuni gruppi che non so identificare. Alla fine di
corso Italia, verso le 15,30, poche centinaia di ragazzi hanno provocato la
polizia per almeno un'ora, ed alla fine quest'ultima ha deciso di pressarli sul
corteo, che si trovava in alto, anziché isolarli in strade laterali in basso
alla Foce. Io, la mia fidanzata e molti altri amici e compagni ci siamo trovati
nella parte di corteo caricata brutalmente dalla polizia; una violenza
insensata, cieca, indiscriminata, ma legale.
Gli episodi che mi sento di raccontare per dovere di cronaca (vissuta!),
vogliono essere una risposta alla cattiva informazione che si sta producendo nei
confronti del Genoa social forum, del movimento, del "buon operato"
delle forze dell'ordine e ancora, una critica alla violenza, anche quella
istituzionale. Sono stato picchiato dalla polizia e dalla Guardia di finanza
quando non opponevo nessuna resistenza, tentavo semplicemente di respirare; per
un attimo, infatti, in molti abbiamo creduto di morire soffocati a causa dei
fumogeni, dei lacrimogeni, e della calca umana. Abbiamo rischiato di fare la
fine dei topi e quando ci siamo rialzati con le mani alzate cercando aria ci
hanno rispediti a terra col manganello. Una volta caduti ci hanno scaricato
addosso tutto il loro sapere, il loro addestramento: violenza repressiva.
Ho abbracciato la mia ragazza, insieme abbiamo tentato di proteggerci, ma loro
continuavano cambiandosi i ruoli: questo a te, quell'altro a me e poi viceversa.
Ho visto signore cinquantacinquenni sanguinare ed essere ulteriormente
picchiate, li ho visti infierire su un ragazzo oramai "inoffensivo"
perché sdraiato per terra, li ho sentiti ritornare su di me perché mi ero
spostato in difesa delle signore, li ho risentiti picchiare la mia ragazza perché
ha osato difendermi. A rifinire il lavoro con maggiore bestialità ci ha pensato
la Gdf che, reclamando la sua parte, ci ha picchiato ancora un po', anche con
calci, e ci ha spruzzato il famoso spray al peperoncino. Ormai paghi del
"servizio" ci hanno fatti rialzare usando molta violenza verbale anche
nei confronti dei feriti, ci hanno messi al muro e hanno guardato- ipotizzo- se
eravamo davvero così cattivi. Visto che non lo eravamo- ma non potevano
accorgersene prima che ci risparmiavano un sacco di botte e di violenza
psicologica?- ci hanno fatti andare via, sempre a mani alzate, umiliati,
impauriti, violati.
Ricordo tutto questo con sentimenti di rabbia, angoscia, impotenza e le immagini
che mi tornano alla mente spontanee si mescolano. Rivedo così Diego in maglia
bianca, che non conoscevo e con cui avevo portato lo striscione durante il
corteo, a terra disteso come fosse svenuto e ancora picchiato da più celerini.
Rivedo Lidia, una signora non più giovanissima anche lei non conosciuta prima
di allora, picchiata nonostante avesse la testa sanguinante. Rivedo Giuly che
alza le mani in segno di pace ed è scaricata a terra dai manganelli, risento
pure la sua voce urlare: "perché ci fate questo? perché?!". Rivedo
un ragazzo in carrozzella uscire dal caos, protetto e trasportato da altri 4-5
ragazzi, chissà se avranno fatto male anche a lui. Risento il pianto mio e
quello di Giuly abbracciati durante l'aggressione, e più ancora dopo, quando
finalmente potevamo tornare a esprimerci liberamente. Ho descritto attimi
interminabili riassumendoli molto anche perché non riuscirei a fare entrare
tutto in poche pagine, tutti i ricordi, la dinamica, le sensazioni. La
valutazione che mi sento di fare è molto dura nei confronti delle forze
dell'ordine in quanto non hanno isolato, dopo le provocazioni (lancio di oggetti
verso loro stessi, danneggiamenti a cose), il Blocco nero o chi per loro ed
hanno picchiato selvaggiamente- 200 denunce a carico della Ps, tra cui la mia -
della gente disarmata e non violenta. Me la sono cavata con una grossa
contusione al gomito sinistro, con il segno del manganello sulla schiena e le
tracce dello spray al peperoncino sul volto. La mia ragazza con molti lividi e
molti dolori, Diego è ricorso a cure in ospedale Genova e molti altri sono
ricorsi a cure di sanitari presenti sul percorso del corteo. Sabato 21 ci sono
state 105 persone soccorse in ospedale e 123 nelle infermerie del Genoa social
forum, ma è il complessivo clima di tensione e confusione che mi preoccupa
ulteriormente. Nella notte, la perquisizione e il successivo sgombero alla
scuola Diaz e al centro stampa del Gsf. Domenica, le giustificazioni date dalla
questura per la barbara incursione e lo screditamento mediatico che pone sullo
stesso piano il Blocco nero e altri violenti con il resto, la stragrande
maggioranza, del movimento. Per la cronaca ho visto la scuola: macchie di sangue
nel corridoio del secondo piano ovunque, nella tromba delle scale l'impronta di
una testa insanguinata e segni di sangue sul muro.
Circa la gestione dell'ordine pubblico: la libertà di cui hanno goduto i Black
Bloc venerdì e sabato, la violenza sul corteo, gli ausiliari- quindi non
adeguatamente formati- impiegati nella gestione della piazza, l'irruzione cilena
alla scuola Diaz e al centro stampa del Gsf, le foto degli infiltrati della
questura e dei Cc tra i manifestanti.
A queste mie domande e quelle altrettanto sentite di molti altri cittadini
italiani, genovesi compresi, qualcuno, la Ps per prima, dovrà pur rispondere, o
no?
Fabrizio Ascheri
Signori, signore, compagni, compagne, amici, amiche,
anche se in ritardo volevo dire la mia sui fatti di Genova essendo
arrivato a Genova solo in auto venerdì sera. Ero fermo a Modena quando ho
sentito della morte di Carlo Giuliani e sono stato preso da un breve momento di
commozione. Breve anche perché mi aspettavo un esito del genere: è sufficiente
miscelare un governo peronista/mafioso/repubblichino nella colonia più
sgangherata dell'Impero, con l'arrivo dell'Imperatore e la divisione politica
delle sinistre e degli antiglobal per avere deflagrazioni anche peggiori di
quelle viste fin qui. Ho compiuto da poco 40 anni e sono un veterano (77 e
dintorni): solo per questo mi sono salvato anche fisicamente da questa vergogna.
Mi vergogno comunque di non essere stato capace di impedire praticamente nulla
del male che circondava giovani, ragazze, vecchi, bambini e handicappati. Ho
pietà per tutti coloro che nell'ingenuità che ha contraddistinto anche i miei
18 anni mettevano a repentaglio la loro vita e quella degli altri per sfidare
queste forze dell'ordine che non aspettavano altro che un pretesto, un
fiammifero per gridare all'incendio. Ho rischiato di essere investito da un'auto
della Digos che giocava a far sbiancare chi camminava davanti al corteo (ma
perché cercare in ogni istante la provocazione, la reazione anche solo di paura
e di fuga come iene sanguinarie...) . Ho capito fin dalla sera di arrivo a
Genova che questo corteo non si sarebbe dovuto fare. Sabato sera verso le 21,00
sono riuscito a raggiungere la macchina e aspettandomi il peggio ho deciso di
ripartire per Roma senza aspettare un mio fratello che era riuscito a guadagnare
Brignole e a salire su un treno (non poteva raggiungermi io ero a Quarto e la
polizia cercava di ingabbiare tutti quelli intorno la stazione). Nella notte ho
saputo dello scempio della Diaz: stesso discorso della breve commozione di cui
sopra. Un vecchio compagno di Roma incontrato a pranzo prima del corteo di
sabato mi ha detto: "siamo caduti in una trappola". In ciò mi si
consenta una piccola polemica con Stefano Lenzi che conosco politicamente da
quando era un ragazzino poco più grande di me nella fgci del mio stesso liceo a
Roma: non potevate, è vero, prevedere un così tragico esito; ma anche se ci
fosse stato un pericolo cento volte inferiore dovevate sottrarvi a questa infame
trappola che ha avuto come risultato saliente l'annichilimento e la morte forse
più di una persona innocente (è vero si era in 300mila ma questo non è
passato nei media ergo non esiste). Il Gsf non violento non potrà essere
fermato comunque, ma la violenza non può essere semplicemente non gestita o
solamente subita sul piano mediatico e politico. Siamo arrivati alla
criminalizzazione della manifestazione del pensiero ancora prima che questo
possa esplicitarsi. Questo metodo rozzo e arcaico di gestione del potere sembra
confacersi a questo strano nuovo mondo, inimmaginabile fino a pochi giorni fa
anche per me. E tutto sembra avvitarsi in un problema meramente italico: così
non è e non poteva essere poiché l'origine di tutto questo carosello di morte
e violenza ha forse regie straniere, diciamo pure multinazionali e il governo
Berlusconi è servito anche in questo caso come buon maggiordomo di richieste
forse interpretate con troppo cinismo. Comunque su una cosa concordo con Lenzi
quando si chiede se " ... all'alba del XXI secolo il continuo rilancio di
una vuota radicalità, la simbolica conquista del palazzo d'inverno, i servizi
d'ordine inquadrati e lo scimmiottamento di modelli e leader terzomondisti
abbiano un senso".
Il problema è che specularmente le forze della repressione inducono a
cadere in questa rappresentazione qualunque soggetto si costituisca in forma
visibile ai più; è la capacità dei più coscienti, coloro che purtroppo
dobbiamo chiamare ancora "Leaders", a permettere alle masse di
sottrarsi a questa sciocca o tragica messa in scena e di giocare di anticipo.
Riusciremo a sottrarci ora in Italia a questa logica cilena oppure negozieremo
ponendo sulle bilance morti e feriti da una parte e terroristi e infiltrati veri
o presunti dall'altra?
Sono ottimista ingiustificatamente e dico che per fortuna stavolta la storia non
si ripeterà neanche sotto forma di farsa. Intanto che questo governo liberi
tutti gli arrestati e faccia chiarezza sui cittadini europei che mancano
all'appello, il resto è politica con la p meno che minuscola.
Ma oggi Il Leader per antonomasia è la Televisione .....(potremmo andare troppo
in là scusate per l'intervento prolisso).
Genova è libera.
Luciano Di Giacomo
Ero a Genova per il mio caffè dolce
Sono arrivata a Genova perché mi piace il caffè dolce e al mattino
la tazzina mi sembrerebbe molto amara pensando che dietro c'è l'umiliazione e
la sofferenza di uno schiavo invece della dignità di un lavoratore. Per questo
mi sono ritrovata con le amiche e gli amici del Commercio Equo della mia città.
Non mi sono mai sentita contro ogni forma di globalizzazione ma per una
globalizzazione solidale, democraticamente controllabile dai cittadini del
mondo. Mai ho inteso la partecipazione ad una manifestazione come protesta fine
a se stessa, piuttosto critica e proposta, opinione pubblica fisicamente
espressa. In questo caso ritenevo che una grande presenza pacifica il 21 luglio
avrebbe simbolicamente contrastato una minoranza violenta.
Il corteo è infatti tranquillo, composito, con tante identità al suo interno,
non tutte, da parte mia, condivisibili, ma tutte con il diritto di esprimersi.
Incontriamo un gruppo di femministe, è un'appartenenza che sento, insieme ad
altre persone del gruppo decidiamo di rimanere con loro e di non disperderci
fino alla fine della manifestazione. Ci accorgiamo presto che manca un servizio
d'ordine, un gruppo sospetto appare, distante da noi, all'altro lato della
strada, sfilando rapidamente ai margini. Sta andando verso la testa del corteo.
Ma che possiamo fare? Continuiamo a camminare, è comunque tutto tranquillo. Le
strade laterali sono deserte, in lontananza si vedono luccicare gli scudi della
polizia. Da un lato il mare, stabilimenti balneari, balaustre, dall'altro muri,
cancelli. Il corteo procede lentamente. Gli elicotteri della polizia ronzano in
continuazione e molto bassi sulle nostre teste. Ci supera, sfilando come già
abbiamo visto fare, un gruppo di "anarchici", con striscione. Sono
pallidi, quasi emaciati, silenziosi. In un'altra situazione ci sarebbe da
allungar loro un panino, ma nelle loro mani, dalla parte del corteo, si vede
un'ininterrotta linea di spranghe. Ci fermiamo. Il corteo è ora immobile in una
strada senza vie d'uscita laterali, senza che vi sia servizio d'ordine (chi
avrebbe dovuto pensarci?). C'è silenzio. A circa 200-300 metri al massimo
davanti a noi vediamo il fumo, tracce bianche di lacrimogeni. Là c'è la
piazza. Alla nostra sinistra c'è un piccolo slargo, vi compaiono un gruppo di
"socialisti rivoluzionari", con insegne. Stanno tutti insieme, anche
loro immobili, parecchi di loro tengono un fazzoletto sulla bocca. Per me sono
una presenza inquietante. Che fare? Spontaneamente, un gruppetto dopo l'altro,
ci sediamo per terra a braccia alzate in segno di scelta assolutamente non
violenta. Un uomo grida dentro un megafono che non c'è niente da temere: sta
solo bruciando un cassonetto, ma tutti continuiamo a vedere sempre più fumo e i
lacrimogeni arrivare fin dentro il corteo. Il mio gruppetto ha deciso di
sistemarsi nell'aiuola spartitraffico, accanto ad un lampione e ad alcuni massi.
Decidiamo comunque di non scappare se la situazione dovesse peggiorare. Sono
sana e corro bene, ma non sono proprio una giovinetta, non mi piace l'idea di
trovarmi in una folla che si disperde, in una strada senza vie laterali, mentre
dietro di noi il corteo si allunga ancora per molto. E poi qualcosa ci
trattiene: non abbiamo fatto niente di male, e nessuno può volerci fare del
male. "Ci ripariamo, aspettiamo che passi, poi andiamo." Le nostre
previsioni non riescono ad andare oltre uno scioglimento del corteo e poi siamo
abbastanza lontane dalla piazza degli scontri.
Il fumo è all'improvviso più vicino, la folla si muove verso di noi,
"stiamo calmi, stiamo calmi" ripetiamo ad alta voce. I ragazzi al
nostro fianco rimangono immobili. Di nuovo un brusco movimento nella folla.
"Arrivano". Ci sistemiamo al riparo, aspettiamo che passi. Non vedo,
ma sento molto vicino un fortissimo rumore di frenate. I gas ci riempiono di
fumo. Avverto il rumore sordo dei colpi intorno a me, mi sento scavalcare,
spingere. Mi arriva un colpo in testa. Cerco di rimanere aggrappata al lampione
per non farmi travolgere né picchiare. Contemporaneamente tento di salvare gli
occhiali che continuano a salire e scendere, di difendermi con le mani dai gas e
di pulirmi il sangue dal viso. "Al muro, a braccia alzate!". Finita.
L'aria è schiarita, accanto a me c'è un giovane del gruppo, più lontano le
amiche, un ragazzo inglese piange per il dolore provocato dalle sostanze
irritanti, un altro ci versa addosso acqua per dar sollievo. Il bruciore è
veramente molto intenso e capisco di essere piena di sangue in faccia e sugli
abiti. Davanti a me vedo un samurai spaziale con casco e tubo. Incrocio i suoi
occhi scuri, duri, forse sconcertati. "Lei, all'ambulanza". Vado. Il
giovane accanto a me chiede di accompagnarmi. Oltre lo sbarramento formato dai
numerosi mezzi della polizia e della finanza (picchiata da un finanziere?!) mi
pare di vedere anche un blindato, ci sono ambulanze, tra cui quelle del soccorso
del Gsf e giornalisti. Non riesco a contare quante persone ferite ci siano in
giro, mi sembrano parecchie. Una ragazza è su una barella con una spalla ed un
braccio forse fratturati. Sento gridare "Ossigeno, ossigeno!" Rispondo
brevemente ai giornalisti e continuo a ripetere di star bene. Al pronto soccorso
troviamo personale competente, affannato e molto paziente. Ringrazio ancora. In
attesa delle radiografie c'è anche un giovane poliziotto, ferito ad una mano.
Tento un difficile dialogo: "E' andata male a tutti, mi dispiace, ma noi
eravamo pacifici". Mi spiega che è stato ferito nel tentativo di separare
un manifestante "di noi" da un violento. "Perché non li avete
fermati?" mi chiede. Noi? "E per quale motivo ci avete caricati?"
"Non sapete che cosa stava succedendo in piazza."
Usciamo tra due file di poliziotti, tento verso di loro un indolenzito sorriso.
Andando verso Marassi e gli autobus prendiamo per sbaglio una strada che porta
verso la zona rossa. Ci fermano altri poliziotti, a viso scoperto; uno di loro,
giovane, bello, ci indica con cortesia la strada possibile. Incontriamo un
cittadino che porta a spasso il cane e ci accompagna fino alla stazione.
Ringrazio lui e gli altri che lungo la strada ci hanno aiutati a non perderci.
Vediamo le devastazioni, incrociamo gruppi, un piccolo pericoloso corteo,
polizia. Siamo costretti a fermarci, nasconderci, aspettare. Vicino agli autobus
l'atmosfera è tesissima, c'è molta polizia, odore di gas. Si riparte, siamo
tutti, un po' malconci. Cerco di addentare un panino informe, molliccio e un po'
gasato. Riporto a casa gli occhiali, lo zainetto, le scarpe e perfino le
bottigliette vuote di acqua minerale conservate perché lungo la strada,
ovviamente, non c'erano cassonetti. Non sono scappata, non mi sono lamentata,
non ho inveito contro nessuno. Cominciano le domande: era davvero inevitabile la
carica? Perché proprio accanto a noi e su di noi? La piazzolina consentiva
forse ai mezzi di disporsi? O era stato preso di mira qualcuno in particolare?
Perché il corteo era stato lasciato indifeso? Ognuno ha fatto la sua parte, il
pacifico, il violento, il poliziotto, come da copione, e nessuno è stato in
grado di consolare il dolore dell'altro, dolore che si avvertiva su tutti. Nei
giorni successivi mal di testa, solidarietà e sorrisini di commiserazione.
"Eri a Genova? Ma perché? Era inevitabile che finisse così, c'erano gli
infiltrati." Tutto chiaro, tutto semplice. Altri si impegnano a spiegarmi
come sono i governi di destra e come ci si deve comportare in un corteo. Non
sono ascoltata né creduta, soltanto interpretata secondo schemi superficiali,
stantii, inadeguati alla complessità e alla novità della situazione. Ora sento
soltanto il bisogno di raccontare quello che ho fatto, visto, sentito. Ho fatto
un'esperienza per libera scelta personale e l'ho condivisa con migliaia di altre
persone. Vorrei ripartire da qui per non perdere la forza positiva delle
motivazioni che mi hanno portata a Genova.
Gabriella Rustici - Siena
"Zitti, zitti, c'è la stampa!"
Sono circa le 16, siamo a Punta Vagno, vicino ai bagni S.Nazaro c'è
un muretto, sopra il muretto un piccolo terrapieno pieno di pitosfori che
nascondono una rete di cinta alzata a ridosso di un altro muretto. La
manifestazione è imponente e noi siamo contro il muretto pigiati dalla ressa.
Arretriamo per toglierci di lì perché la situazione ci sembra pericolosa.
Ragazzi che hanno bandiere da anarchici ci dicono che non si può risalire il
corteo perché anche alla coda dei manifestanti c'è la polizia. Non abbiamo via
d'uscita: verso la testa del corteo gli scontri, dietro la polizia e noi contro
un muro da cui non riesci a muoverti per la calca. All'improvviso e non sappiamo
perché, la polizia inizia a sparare lacrimogeni, una signora con una bimba per
mano che avrà sette anni, un piccolo cane e un'anziana al seguito corrono
impazzite, la bimba piange in preda alla disperazione. Devono essere i bagnanti
- pensiamo - che la polizia ha fatto allontanare. Tutti, in preda al panico,
scavalcano il muretto, d'istinto. Ma sul terrapieno c'è la rete. Lucia va in
tachicardia, ci perdiamo di vista, abbiamo paura di morire lì, schiacciati
dalla ressa e soffocati dai gas. Per fortuna qualcuno ha aperto una breccia
nella rete, ci passiamo attraverso. Una ragazza col viso gonfio grida a Lucia :
"Signora, mi aiuti ho tanta paura!". Lei le passa mezzo limone sopra
la bocca. Roberto, che non ha fiato per parlare, le fa segno con le mani di
stare calma. Finalmente ricominciamo a respirare, sentiamo Flavio che dalla
strada ci grida di scendere con le mani in alto. Scendiamo in una strada piena
di mezzi blindati, il corteo pacifico è stato disperso, gasato, manganellato. I
poliziotti, in quel deserto, raccolgono come trofei gli adesivi, i cartelli
spezzati, gli striscioni. Vediamo un'ambulanza del Gsf con un vetro sfondato.
Sfiliamo davanti ai poliziotti in assetto di guerra che ci minacciano con i
manganelli e ci urlano attraverso le maschere antigas con una voce che sembra
virtuale: "Bastardi! figli di puttana! la sinistra è morta!" Poi
all'improvviso sentiamo gli stessi poliziotti dire: "Zitti, zitti, c'è la
stampa!" (ci rivedremo su TG2 Dossier con l'audio censurato). Vediamo una
persona, lunga distesa sul marciapiede, è immobile e piena di sangue.
Proseguiamo verso uno slargo sempre con i poliziotti a fianco. I mezzi della
polizia carichi defluiscono. In mezzo ad ogni autoblinda c'è un poliziotto con
quella che ci sembra una mitraglietta puntata. L'ultimo mezzo della polizia
sgomma e fa gimcana a rischio di falciare qualcuno ancora inebetito dallo shock.
Risalendo una scalinata ci ritoviamo davanti alla scuola Diaz e lì aspettiamo
due nostri amici che avevamo perso di vista. Continuano ad arrivare mezzi di
soccorso del Gsf con ragazzi feriti. Rivediamo l'ambulanza con il vetro rotto.
Ci dicono che è stata centrata da un candelotto. La dinamica dell'aggressione
della polizia al corteo ci appare chiarissima dal momento che noi stessi come
tutti, appena compariva qualche tuta nera, le urlavamo di andarsene, mentre la
polizia anziché isolarle le ha spinte sul corteo per poter compiere il lavoro
di cui abbiamo testimoniato sopra. Anche uscire da Genova evitando di essere
randellati è stata un'impresa, la polizia era ovunque, raggiungere Castelletto
dove avevamo parcheggiato una macchina era impossibile, alcuni di noi si sono
rifugiati in casa di amici nella zona di via Isonzo, altri solo dopo aver
percorso parecchi chilometri a piedi verso levante hanno potuto farsi dare un
passaggio in auto.
Lucia Munna giornalista e insegnante
Roberto De Bartolomeis insegnante
Se non c'è la legge
Sono stato a Genova per manifestare contro il Global forum e, come
avvocato, mi sono messo a disposizione del coordinamento legale per fornire
assistenza a chiunque ne avesse avuto bisogno.
Ne avrebbero avuto bisogno in moltissimi, ma noi siamo stati messi
nell'impossibilità di assisterli: quando non c'è più la legge, ovviamente gli
avvocati non servono.
In compenso, con le nostre magliette gialle del Gsf, siamo stati un punto di
riferimento per centinaia di racconti e testimonianze che chiedevano giustizia
per quanto stava succedendo, e quello che ancora adesso rimane nelle facce di
tutti noi è un senso di rabbia e impotenza mista a incredulità per le
innumerevoli e sistematiche violazioni dei principi fondamentali del nostro
ordinamento.
Il punto di partenza per cercare di calarsi nella situazione di Genova è
quello di cancellare dalla mente il presupposto per cui viene punito solo chi
commette un reato ( il famoso nullum crimen sine lege su cui si basa il nostro
diritto penale e l'articolo 13 della Costituzione).
Per le forze dell'ordine, già solo il fatto di essere a Genova significava
essere colpevoli: mi ha raccontato un ragazzo che mentre veniva brutalmente
manganellato ha provato a chiedere spiegazioni ed un agente gli ha risposto che
"doveva morire solo per il fatto di essere lì!" (per la cronaca il
ragazzo e alcuni amici ed amiche si erano trovati davanti ad alcuni agenti perché
in fuga dai lacrimogeni lanciati sulla folla da tetti ed elicotteri: una volta
visti gli agenti il gruppo si è messo a sedere per terra con le mani
alzate….tutto questo non ha minimamente impedito agli agenti di accanirsi con
violenza sul gruppetto).
Una volta eliminato questo presupposto- e mi rendo conto che è estremamente
difficile scardinare dalla mente uno dei principi fondamentali della democrazia
e della convivenza civile- è più facile capire il perché dei rastrellamenti e
delle violenze commesse nei confronti di chiunque fosse in qualche modo
avvicinabile, meglio se trovato in piccoli gruppi e meglio ancora se
potenzialmente innocuo: la preda è più facile, altro che black bloc (in molti
ci riferiscono anzi che l'ordine è stato quello di lasciar perdere i black bloc,
ma queste- sia pur plausibili- sono congetture, le violenze sono e rimangono
dati di fatto).
E allora inizia la paura, la paura di tornare a casa o al campo, la paura di
essere fermato, arrestato o picchiato soltanto per il fatto di essere trovato lì,
come se tutti noi facessimo parte di un progetto destinato a sovvertire l'ordine
pubblico.
"Ordine pubblico" è un'altra delle parole chiave dei fatti di Genova:
sulla base di una generica tutela di un ordine pubblico le forze dell'ordine,
squadre e singoli, hanno potuto avere carta bianca per ogni tipo di intervento.
Tecnicamente la tutela dell'ordine pubblico dovrebbe essere garantita con mezzi
idonei e proporzionati alla minaccia, ma anche questo corollario sembra non
appartenere alle regole di Genova: la violenza su ogni fermato, sistematica e
ripetuta, pareva essere naturalmente connessa all'arresto, come se non fosse
possibile neutralizzare il "colpevole" e trasferirlo in centrale.
Salta poi il diritto di difesa: i fermati e gli arrestati non possono vedere gli
avvocati, fino alla convalida dell'arresto, quindi fino ad almeno 48 ore dopo e
inutilmente ci rechiamo al comando dei carabinieri per chiedere ulteriori
spiegazioni: ci troviamo davanti ad un nuovo secco rifiuto e possiamo soltanto
scorgere vari agenti vestiti da dimostranti che rientrano in caserma e
raccogliere le prime testimonianze di chi, rilasciato e sconvolto, si è trovato
a subire violenze fisiche e morali sia durante il trasporto, sia nelle stanze
della stessa caserma.
Salta il diritto alla salute: i manifestanti che si recano negli ospedali
vengono presi e condotti in questura, solo per il fatto di essere stati feriti:
al danno si aggiunge la beffa e prima di ulteriori e gravi danni; mi raccontano
di una manifestante inglese pacifista, di quelle con le mani dipinte di bianco
che aveva subito un colpo di un manganello sull'avambraccio sollevato in segno
di resa: anche lei, medicata al pronto soccorso, è poi finita dentro con
l'accusa di resistenza a pubblico ufficiale: e a questo punto è inutile pensare
che il codice di procedura penale non ammette in questo caso il fermo, ma solo
l'arresto (facoltativo) se attuato nella flagranza del reato.
Gli episodi della perquisizione (meglio, del massacro) alla scuola Diaz sono
soltanto un riassunto esplicativo di tutte le violazioni commesse: anche volendo
ammettere che nella Diaz vi fosse un covo di criminali (e chi c'è stato sa bene
che non è così) nessuno è stato in grado di spiegare perché dei "tutori
dell'ordine" armati e coperti non si siano limitati ad una perquisizione,
che pure avrebbe raggiunto lo scopo prefisso, semplicemente rendendo inoffensivi
gli occupanti dell'edificio, e non provocando oltre sessanta feriti .
"Picchiavano, ridevano e picchiavano" riferiscono e per ben due ore,
anche in questo caso senza consentire l'ingresso agli avvocati che per legge ne
avrebbero avuto tutto il diritto: le immagini della palestra dopo la
perquisizione sono più eloquenti di qualsiasi ulteriore parola.
Rimangono poi gli episodi forse più gravi, le violenze e le torture subìte
dagli arrestati in carcere, distanti da qualsiasi logica di uno stato che si
definisce democratico.
E ancora è presto per fare il punto sugli scomparsi, ma ancora oggi non è
possibile avere dalle istituzioni liste ufficiali dei fermati, degli arrestati e
dei feriti e rimane nella testa l'eco delle centinaia di telefonate di parenti e
amici da tutta Europa che chiedono notizie dei manifestanti.
A questo punto la violazione del diritto di riunione e di manifestazione del
pensiero sembrano per assurdo meno rilevanti di tutte quelle attuate nei
confronti della persona fisica.
Ho tralasciato volutamente l'omicidio di Carlo Giuliani, che rappresenta solo la
punta dell'iceberg e sul quale già molte parole sono state spese: ne aggiungo
solo una: quale "legittima difesa" avrebbero dovuto attuare le
centinaia di persone accerchiate da gruppi di agenti che infierivano su di esse?
Gli avvocati del coordinamento legale stanno continuando nel loro lavoro, questa
volta nelle aule di Tribunale, e sarà importante che adesso, chiunque abbia subìto
un torto di qualsiasi genere si dia da fare per ottenere giustizia, nella
speranza che gli episodi di Genova costituiscano solo una pagina della nostra
storia recente, sia pur fotocopiata da quelle di un regime sudamericano.
Concludo con una serie di commi, presi qua e là dalla nostra Costituzione, la
più alta fonte legale del nostro ordinamento: alla luce di quanto accaduto si
commentano da soli…
art. 13 - La libertà personale è inviolabile
Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione o perquisizione
personale, se non per atto motivato dell'autorità giudiziaria e nei soli casi e
modi previsti dalla legge
E' punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a
restrizioni di libertà
art. 17 - I cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi
art. 21 - Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero,
con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione
art. 24 - La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del
procedimento
art.32 - La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo
e interesse della collettività.
art.52 - L'ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico
della Repubblica.
Federico Micali
In margine
Sono Raffaele Barbiero, ed oltre ad essere segretario provinciale
della Fim-Cisl Forlì-Cesena, sono il referente di un gruppo nominato
"Gruppo di Affinità Forlì e dintorni" che da 3 mesi circa lavora
sulle tematiche della globalizzazione, del commercio mondiale e della
nonviolenza.
A Forlì, nella nostra città di provenienza, abbiamo organizzato
diverse iniziative: volantinaggi a feste, avvenimenti di rilievo (come lo
spettacolo di Beppe Grillo), una presenza di fronte a Mc Donald's, un corteo
silenzioso e un concerto con lettura di poesie, un tavolino informativo nella
piazza centrale della nostra città, un seminario formativo sulla nonviolenza e
le dinamiche di gruppo, e, ovviamente, la partecipazione alla manifestazione del
21 luglio.
Premetto che la mia è una testimonianza diretta e scriverò solo delle cose di
cui sono stato testimone e che ho visto personalmente.
Noi siamo arrivati alla stazione di Quarto dei Mille in treno, di lì ci siamo
incamminati in una splendida giornata di sole verso piazza Sturla da dove doveva
iniziare il corteo. Eravamo in migliaia con bandiere, striscioni di tutti i
colori. La sinistra con Rifondazione era molto presente e c'erano pure
"formazioni" straniere (greci, spagnoli, francesi).
Eravamo talmente tanti che siamo stati fermi per circa mezz'ora fra l'incrocio
di via Pisa, via Felice Cavallotti e via Caprera.
Lì abbiamo visto una decina di ragazzi, all'apparenza giovanissimi, vestiti con
la "divisa" dei famigerati Black Blocs. Un mio amico, di professione
avvocato che mi era accanto ha chiamato il 113 per segnalare di questa presenza
e si è sentito rispondere pressappoco in questi termini: "Non si
preoccupi, dall'elicottero controlliamo la situazione".
Il corteo ha iniziato a muoversi intorno alle 12/12:30 e fino a corso Italia, in
prossimità dei Giardini Gilberto Govi, vi erano stati la simpatica iniziativa
di alcuni gruppi protestanti inglesi con un pullman rosso di fronte alla chiesa
di Boccadasse e, per me nota stonata, alcuni cori contro la polizia e gesti
offensivi all'avvicinarsi dell'elicottero della polizia; per il resto era un
normale corteo con slogan tutt'altro che offensivi, ma relativi al tema della
manifestazione.
Noi (una decina di persone, fra cui un delegato Fim della Marcegaglia di nome
Montanari Cesare) sfilavamo dietro uno striscione dal titolo "La difesa
popolare nonviolenta è l'alternativa alla difesa armata".
Sul lungomare, 4/500 metri prima di giungere in una grande piazza dove si doveva
svoltare per la parte finale del percorso, il corteo si è fermato.
Si è incominciato a vedere fumo nero e poi lacrimogeni lanciati dalle forze
dell'ordine. Il corteo ha iniziato a indietreggiare, ordinatamente e lentamente.
La strada era in leggera pendenza verso la piazza per cui si poteva scorgere di
lontano che vi era della confusione, anche se non si capiva cosa succedeva.
Ci siamo ammassati fra noi, poi abbiamo alzato le mani e tutti si sono messi ad
urlare "nonviolenza, nonviolenza", in lontananza si vedeva il cordone
della polizia avanzare lentamente, poi si è succeduta una fitta serie di
lacrimogeni e quindi ovviamente la fuga disordinata.
Io, mia moglie Alessandra e Cesare ci siamo arrampicati dentro un caseggiato
alle spalle di un ristorante e ci siamo ritrovati in un cortile di 50m per 10
dove abbiamo capito di essere "in trappola". Un elicottero ci ha
sorvolato una prima volta, alla seconda ha lanciato dei lacrimogeni, se non
abbiamo ricevuto grossi danni è per la generosità di un signore genovese che
ci ha aperto la porta di casa (siamo entrati in una cinquantina) e ci ha fatto
lavare dal liquido dei gas.
Ero molto arrabbiato perché non capivo per quale motivo bisognava lanciare
lacrimogeni in un posto dove si erano rifugiati solo manifestanti impauriti, che
gli occupanti dell'elicottero avevano potuto ben identificare.
Dopo circa 20/30 minuti siamo usciti di casa e dopo alcuni minuti due
poliziotti, uno in tenuta antisommossa e uno senza casco, ci hanno detto di
andare via di là, di ritornare indietro che tutto era tranquillo.
Abbiamo ritrovato due del nostro gruppetto e mano nella mano siamo scesi e ci
siamo incamminati verso il ritorno, la strada era vuota, piena solo di carta,
occhiali rotti, pezzi di bandiere e altro.
Per ritornare al corteo, tre/quattrocento metri dopo, siamo stati costretti ad
attraversare un cordone di black blocs dotato di spranghe, bastoni, elmi di
plexiglas che al nostro passaggio ci ha deriso.
Siamo rimasti stupiti di come queste persone stessero tranquillamente a fare il
battistrada del troncone di corteo che era arretrato notevolmente e di come la
polizia, nel dirci di tornare indietro, ci avesse segnalato che tutto "era
tranquillo".
Un altro tafferuglio l'abbiamo visto sulla strada del rientro quando un piccolo
gruppo di manifestanti ha incominciato ad inveire contro una caserma di polizia
e a lanciare bottiglie piene d'acqua, abbiamo cercato di parlare con questi e
gli abbiamo urlato contro. Si sono però dispersi solo al lancio di un paio di
lacrimogeni.
Infine dopo essere ritornati alla stazione di Quarto, preso un autobus per
Nervi, un treno per Brignole ed aver aspettato fino alle 2 e 30 del mattino,
siamo partiti alla volta di casa dove siamo giunti intorno alle 9 e 30.
La stazione di Brignole aveva un presidio di 30/40 poliziotti a fronte di alcune
migliaia di manifestanti, ma nessuno -giustamente- ha fatto il benché minimo
gesto o ha proferito la benché minima parola di offesa nei loro confronti.
Le forze dell'ordine e chi le governa devono sicuramente riflettere su quello
che è accaduto per recuperare il significato della loro funzione che non è
quello della repressione, ma di tutela della libertà democratica di
manifestazione del pensiero.
Sono convinto però che il Gsf deve ripensare alcune cose:
a) distinguere nettamente fra chi vuole raggiungere gli obiettivi delineati con
la nonviolenza e chi pensa che si possa lasciare correre in determinate
occasioni;
b) organizzare un servizio di accoglienza ai manifestanti (noi giunti a Quarto
non avevamo nessuna indicazione e se non c'era il servizio di Rifondazione non
avremmo avuto nessuna segnalazione utile);
c) organizzare un servizio d'ordine, o almeno un presidio ogni 500/600 metri di
corteo, con personale riconoscibile dotato di megafono e cellulare per poter
dare indicazioni precise ai manifestanti sul comportamento da tenere, sulle cose
da fare;
d) evitare che gruppi di manifestanti gridino slogan offensivi o violenti;
e) chiedere ai manifestanti che si facciano carico dei rifiuti che si portano
appresso. Le vie di Genova toccate dalla manifestazione sembravano una
discarica, nonostante si manifestasse per il rispetto dell'ambiente e la
sottoscrizione del protocollo di Kyoto;
f) in certe occasioni e in certi contesti (dopo il fatto gravissimo di venerdì
a me sembrava di essere in questa situazione) la manifestazione più che
caratterizzarsi per i "colori" e il "rumore" dovrebbe essere
silenziosa e senza bandiere o striscioni di partito. Mi sarebbe sembrato un modo
più rispettoso anche di ricordare il ragazzo morto il giorno prima;
g) infine, se si valuta che il pericolo di atti violenti sia alto, lasciati
correre o provocati "poco importa", forse sarebbe il caso di non
svolgere manifestazioni di questa portata e valutare se fare manifestazioni
locali o regionali, più facilmente gestibili.
Raffaele Barbiero -Alessandra Antonelli
Da ora in poi
Ho ancora negli occhi il corteo immenso, con le donne genovesi che
dalle finestre ci innaffiavano generosamente d'acqua e noi accaldatissimi che
battevamo le mani e ringraziavamo e ne chiedevamo ancora.
Dietro di noi evangelici tedeschi: "Cancelliere, cancella i debiti non
cancellare i poveri". Bandiere rosse, bandiere verdi, i giovani socialisti
belgi, ragazzi della Lipu, delegati dei consigli, disabili in carrozzella.
Lo chiamo, lo chiamiamo "movimento", perché è, grazie al cielo,
un'espressione composita, trasversale per età e intendimenti ideologici e
culturali, non legata (di nuovo grazie al cielo) ad una particolare formazione
politica. Non ha leader, solo portavoce. Non ha teorici, solo seri studiosi che
vogliono capire.
E' un movimento che può avere ed ha riferimenti differenti: da organizzazioni
laiche a organizzazioni di credenti, dalla chiesa cattolica a quella riformata
(io appartengo ad esempio, alla stessa confessione protestante di, ahimé,
George W. Bush, ma anche di Nelson Mandela). Un movimento che ha come
interlocutore chiunque voglia parlare in modo serio dei problemi che mette in
campo.
E qui arriviamo al primo punto che credo che sia chiaro a tutti:
1) Il denominatore comune del "movimento" non può e non deve essere
un'ideologia, ma una serie di valori. O meglio, un insieme di valori da
interconnettere. Questi valori sono ancora in fase di focalizzazione, ma sono già
visibili: solidarietà, giustizia sociale, diritto, rifiuto non violento della
legge del più forte, rispetto per la natura (o, per un credente, del Creato),
umanesimo, accoglienza dei più deboli, di quelli che non ce la fanno,
tolleranza o anche, per un credente, amore (che è concetto più forte).
Esattamente quei concetti che per i potenti e il senso comune che essi vogliono
instillare nella gente, sono utopie più o meno risibili e senza sbocco,
sorgenti di disordine, espressioni ambigue della conservazione, foriere di
disastri economici. E non può essere che così, dato che l'attuale pensiero
unico assume per definizione che la sola fonte di progresso sia il liberismo e
dato che questo, per l'appunto, si basa fin dalle sue teorizzazioni accademiche,
sulla combinazione degli egoismi individuali col suo seguito di controvalori:
l'esclusione, la sopraffazione, l'indifferenza. Un pensiero che è unico perché
non ammette critiche, se non interne, tecniche, di dettaglio o varianti
implementative.
Un pensiero che è unico perché di fatto accomuna la destra e la sinistra, sia
in Italia che in Europa che in America. Un pensiero totalitario, in senso
tecnico-filosofico (ovvero un sistema di concetti che ha la pretesa di
interpretare, definire e regolare tutto) che si rappresenta come fine della
storia (è insuperabile e perfetto in tendenza, non si può concepire
nient'altro di diverso perché è il coronamento della storia umana e il massimo
di razionalità) e come esclusivo generatore di magnifiche sorti e progressive.
Già, "magnifiche sorti e progressive". Quante generazioni umane hanno
dovuto opporsi a questi pensieri unici? (last but not least, i poco felici
sudditi del "socialismo reale" che, sia detto per inciso, il liberista
denuncia come inumano solo quando non permette lauti affari: c'è in giro
qualche difensore dei diritti umani che si ricordi dei diecimila morti di piazza
Tien-an-menn da quando la Cina è diventata un bengodi degli investimenti?).
Anche i pensieri alternativi corrono costantemente il rischio di diventare
pensieri unici. La mia generazione ha fatto questo errore: ha affidato
all'ideologia comunista il compito di costituire il framework che potesse dar
forma a tensioni ideali molto diverse (e, attenzione, ricordiamoci che il primo
ad essere contrario al concetto di "ideologia comunista" era proprio
Marx. Per Marx ogni forma di ideologia è fumo gettato negli occhi alla gente
per non permettergli di ragionare con la propria testa; ha con sé un potenziale
repressivo e totalitario. Tanto è vero che lui affermò esplicitamente di non
essere per niente marxista, cosa che è un paradosso solo per chi non vuole
capire la differenza tra analisi scientifica e, per l'appunto, ideologia).
Non voglio che questo nuovo movimento faccia lo stesso errore. E' un film già
visto. E finisce male. Quindi:
2) Questo movimento non può e non deve combattere il pensiero unico dominante
con un altro pensiero unico. La pluralità è la sua ricchezza.
Se la perde, perde se stesso perché vuol dire che è già dominato dal pensiero
che vuole combattere. Questo movimento non è e non sarà un tentativo di
sostituire un sistema di potere con un altro.
Ma data questa natura e questo programma, il movimento ha di fronte un problema
delicatissimo e complesso.
Infatti, se questo movimento fosse una cosa diversa (e vecchia), fosse cioè un
partito strutturato, con tessere, militanti conosciuti e fidati, con capacità
di espulsione e di scomunica, con capacità di chiudersi a falange per tenere
fuori chi non si riconosce nella sua linea, i rischi di essere investiti da
elementi "altri", "estranei" (vedi black-bloc a Genova)
sarebbe molto ridotto. Ma a che prezzo? In un corteo degli anni settanta le tute
nere sarebbero state inesorabilmente additate come provocatori e inesorabilmente
sprangate da un efficiente servizio d'ordine. Ma quello stesso servizio d'ordine
era espressione proprio di quel concetto di "contro-stato" che è
invece rifiutato a priori dal movimento attuale e che in particolare era
rifiutato dal Genoa social forum.
In vista della manifestazione di sabato 21, Vittorio Agnoletto dichiarò che a
malincuore, ma proprio a malincuore, il Gsf aveva deciso di istituire un
servizio d'ordine, proprio per evitare le provocazioni del giorno precedente. Ma
che tipo di servizio d'ordine? Quello con caschi e spranghe stile anni settanta?
No! Un cordone di gente disarmata che si teneva per mano.
E' del tutto risibile l'accusa al Gsf di non aver neutralizzato le tute nere.
Qualche volta, grazie a circostanze fortunate, c'è riuscito, ma il più delle
volte gli attivisti del Gsf sono solo riusciti a prendersi calci e sprangate.
Anche dopo gli incidenti del giorno precedente e la morte di Carlo Giuliani il
movimento poteva contare solo sulla dimensione e sulla tipologia della propria
mobilitazione e, paradossalmente, sulla capacità e, più che altro, la volontà
delle forze dell'ordine di mantenere per l'appunto l'ordine, perché non aveva
nessuna capacità difensiva e tanto meno offensiva. E qui arriviamo al terzo
tema:
3) Il movimento potrà sopravvivere e ampliarsi solo se sarà in grado di
definire in modo ancora più netto di quanto sia riuscito a fare sinora, un
confine tra i metodi di lotta non violenti e ogni pratica estranea ai suoi
valori. E questi confini vanno tracciati non solo tra i metodi di lotta, ma
anche tra le parole. Per inciso, anche le Tute bianche, devono rivedere
criticamente l'opportunità di alcuni loro metodi. Conosco alcune Tute bianche,
so come la pensano e le ho viste all'opera. Non perseguono lo scontro ma solo la
rappresentazione dello scontro, equipaggiati con strumenti esclusivamente
difensivi e con modalità non molto distanti da quelle ghandiane. Checché ne
dicano i giornalisti benpensanti, il confronto tra Tute bianche e le forze
dell'ordine non è mai stato più violento di quello che avveniva tra il
movimento guidato da Ghandi e la polizia e le truppe inglesi in India.
Questo, almeno fino a Genova. Probabilmente dopo Genova bisognerà ripensare
criticamente a tutte le tecniche di lotta non violente, capirne le modalità e
opportunità tecniche (con tute nere e provocatori in giro anche un certo tipo
di confronto diretto non violento può essere inopportuno. Se ne sono rese conto
troppo tardi anche le Tute bianche venerdì prima dell'uccisione di Carlo
Giuliani. E infatti hanno cercato di fare dietro front e di sganciarsi dagli
scontri. Hanno cercato disperatamente di farlo quando hanno capito di essere
finiti in una trappola congiunta blacks-forze di polizia. Ma ormai era troppo
tardi).
E bisogna capire tutte le implicazioni politiche dei metodi di lotta non
violenti.
E' urgentissimo farlo, perché a Genova decine di migliaia di giovani, dai boy
scout ai volontari delle Ong, dai disabili ai ragazzi down, dai missionari ai
centri sociali, si sono visti caricare e troppo spesso massacrare da chi doveva
garantire il loro diritto a manifestare pacificamente e difenderli dalle
violenze, mentre i violenti scorrazzavano impunemente.
Io ero là, sul lungomare di Genova. Ero in quello spezzone terminale di
ventimila persone che si è preso la carica "finale".
Ho visto la gente che c'era in quello spezzone: pastori evangelici italiani e
stranieri, studentesse di teologia, consigli di fabbrica, un gruppo di
untrasettantenni tedeschi, anziani non vedenti, due persone disabili in
carrozzina (ho poi letto che sono state investite dalla carica della polizia),
ragazzi con le chitarre sulle spalle, ragazzi con il bongo, i visi solari della
ragazza e del ragazzo che sul treno da Milano si ripassavano gli appunti
universitari e avevano nello zainetto l'insalata di riso preparata dalla mamma,
il gruppo di giovani inglesi coi quali siamo arrivati da Genova Nervi
(pericolosi teppisti, ovviamente, che, come noi tutti, hanno timbrato il
biglietto sull'autobus affollatissimo anche se era evidente che nessuno glielo
avrebbe mai controllato). C'eravamo, eravamo con loro, abbiamo parlato con loro,
abbiamo fotografato quelle ventimila persone che con altre duecentomila avevano
superato la paura e l'angoscia con la gioia di poter dire insieme "Dropt
the debt" (e non abbiamo di certo bisogno di guru dell'economia per sapere
che è una parola d'ordine che va articolata in un programma non semplice
-quanti pseudo-ragionamenti supponenti ci vengono riversati addosso, come gas
lacrimogeni o meglio come melassa per impastare e immobilizzare ogni critica).
Ormai lo sanno tutti: la carica violentissima su quella gente è stato un
attacco gratuito. Questi eventi sono già un pezzetto di storia, suggellato
dalle immagini che sono state viste in tutto il mondo.
Non è necessario entrare qui nella polemica tra chi dice che era un piano
preordinato, delirio di singoli poliziotti, rabbia e desiderio di vendetta (è
una scusante?) o frutto d'incapacità.
Probabilmente, quando si saranno dissipate le nebbie del day after, si troverà
che era tutto ciò. Si scoprirà che era localmente un piano preordinato. E si
scoprirà che localmente era anche delirio, incapacità e voglia di rivalsa (sui
deboli).
E' allora compito del movimento bloccare sul nascere ogni possibile deriva che
può essere indotta da questa chiusura ed evitare che migliaia di giovani si
sentano disperati e agiscano in modo disperato. Perché questo è il rischio
maggiore, sul piano umano e politico, delle sconsiderate affermazioni e delle
dissennate rivendicazioni del governo.
Ed è nostro compito, solo nostro, evitare che un giovane di 23 anni cerchi di
gettare un estintore addosso ad una jeep di carabinieri e si faccia ammazzare.
Un nostro giovane, si badi bene; che non si facciano distinzioni manichee, che
non si pronuncino scomuniche, che non si cerchi di evitare responsabilità
tramite dissociazioni vergognose, perché altrimenti non saremo mai in grado di
prevenire queste tragedie.
E' a ragazzi come Carlo Giuliani che innanzitutto doveva arrivare il nostro
messaggio e nella forma più forte. Se non è arrivato è una colpa nostra, non
di altri. Occorre dirlo chiaramente, senza temere che si stia scusando il
governo. Perché lo diciamo in una lingua che l'avversario non capisce e che non
sarà mai in grado di capire. Ed è in questa lingua, che è solo nostra, che
dobbiamo chiederci, perché un giovane obiettore di coscienza, che presta il
servizio civile con Amnesty international, che raccoglie firme contro la pena di
morte, che non ha mai avuto atteggiamenti violenti si trova in un certo momento
della sua vita a cercar di lanciare un estintore contro una jeep con dentro un
carabiniere di leva.
Era compito del movimento additare con forza la propria reale ricchezza a
ragazzi come Carlo Giuliani. Ed ora in avanti sarà un compito ancora più
urgente. Un'emergenza prioritaria, in vista dei confronti sociali che si
apriranno in settembre. I ragazzi del movimento lo stanno capendo benissimo. A
Milano, durante la manifestazione di lunedì pomeriggio, tre ragazzini a lato
del corteo tenevano uno striscione: "Vendetta per Carlo". Io ero con
Emergency e alcuni giovani facevano un cordone laterale. Uno di essi li ha
rimproverati: "Togliete quello striscione. Vendetta‚ non vuole dire
niente".
Sì, vendetta‚ non vuole dire niente. Film già visto; ha un finale
angosciante. E probabilmente vuol dire poco anche "assassini"‚
urlato a
carabinieri e poliziotti. E' solo un pegno che paghiamo a quel pensiero unico
incapace di distinzioni, a quel pensiero di regime che dobbiamo scardinare dalla
nostra coscienza, dal nostro modo di pensare, di agire, di parlare. Dobbiamo
fare come il giovane di Emergency: un servizio d'ordine di idee, un cordone
laterale di valori.
Non è un compito facile. Anzi, in base alla mia esperienza vedo che sarà uno
dei compiti più difficili di questo nuovo movimento.
E questo è dunque il quarto compito:
4) L'avversario non deve poter leggere il movimento, non deve poterlo
decifrare coi suoi schemi. Laddove si aspetta che noi si urli
"assassini", noi saremo muti. Laddove sperano di averci azzittiti, noi
urleremo con tutto il fiato. Quando ci aspetteranno per scontrarsi con noi, noi
saremo altrove. Appena saranno sicuri di averci assopito, noi risveglieremo
migliaia di persone. Se farà così il movimento resisterà e crescerà:
opponendo ricchezza e varietà di azioni, di pensiero e di parole all'orizzonte
monocromatico dell'avversario.
Ecco allora il quinto compito:
5) Mantenere, coltivare e far crescere la ricchezza e il pluralismo di questo
movimento, contro ogni tentativo di egemonia di un pensiero unico.
Piero Pagliani
Senza un centro
Avevo deciso di non andarci questa volta alla manifestazione.
Sono un insegnante e con le scuole chiuse mi sentivo un po' senza punti di
riferimento vicini: amici e amiche, discussioni. E poi avevo paura, della zona
rossa, delle prove di forza, della città militarizzata.
Poi ho visto venerdì che c'era davvero da avere paura, come mai prima forse, e
ho pensato che si doveva andare, esserci. Altrimenti, in un certo senso, voleva
dire non andare mai più: che aveva vinto lo scontro militare, finita la
politica.
Forse ho sbagliato la mia rabbia per coraggio, perché poi là sul lungomare di
Genova, ho avuto paura.
Ma prima?
Non se n'è parlato gran che, ma è stato bellissimo.
Fino a quando non ci hanno fermato su corso Italia, la manifestazione era stata
(almeno per quelli un po' indietro, partiti verso l'una da piazza Sturla) una
incredibile festa di colori, di vitalità, di generazioni e lingue diverse.
Un lungo viale porta al lungomare. C'è un sole
che non dà tregua e il corteo è strettissimo, tutti incredibilmente vicini.
Uno spezzone super organizzato della Fiom, con cordoni anche laterali
ferrei per evitare problemi, accanto al "popolo del bucato" che canta
sul ritmo del girotondo di tutti-giù-per-terra "esponi le mutande,
esponile alla grande, facciamole vedere ai grandi del potere"; e ancora
"oggi c'è il G8, aiuta chi sta sotto, i popoli della terra li aiuta con la
guerra".
E famiglie intere, con figli e figlie di 12-13 anni, dietro striscioni di
comitati e agenzie per la pace.
Dalla cima del lungo viale che porta al mare si vede brillare nel cielo uno
scroscio di acqua che sembrano coriandoli d'argento. È una signora con un
catino che "aiuta chi sta sotto".
Se ne affaccia un'altra, e poi un'altra. Sei, sette insieme. Annaffiatoi,
pentole, un bambino col suo fucile ad acqua. Perfino da sopra i tetti. Sembra di
essere in un film, di quelli epici, con i buoni che alla fine vincono. Le mamme
e le nonne di Genova che vedono giovani combattere sotto il sole e offrono,
avanti e indietro dalle cucine, un po' d'acqua. Che brilla nel cielo come un
abbraccio inatteso, nella città assediata, nella città della peste.
Ho pensato che avevo fatto bene a venire. Che un'emozione così - da piangere
sotto gli occhiali da sole - chissà quando l'avrei rivissuta. Una specie di
riconciliazione con i figli e le figlie, con le mamme dalle terrazze. Con Genova.
Non siamo così pochi. Quasi senza partiti, organizzazioni, rappresentanze
parlamentari; quasi a portare la nostra "nuda vita" che è anche
storia, società e politica. Non siamo così pochi.
Queste ragazze e questi ragazzi sono bellissimi. Non hanno elaborato linee o
programmi - arrivano qui dalle loro pratiche, dal loro modo di essere si
direbbe. Di vivere.
Penso che non può accadere niente. Siamo troppi e troppo grandi.
Mi sbaglio, naturalmente.
Che fine avranno fatto quelle ragazze dei girotondi e le famiglie dei pacifisti?
(e se io avessi portato mia figlia, come mi sarei sentito, con la paura che
avrei letto nei suoi occhi, con la responsabilità che mi sarei sentito
addosso…).
Dal lungomare si torna indietro, strettissimi ma adesso muti.
Davanti non si va, c'è la guerra quasi "privata" fra bande dalla
stessa antropologia; fra maschi che si sfidano "virilmente" (e tutto
sommato forse si rispettano nel loro coraggio da sottocultura militare:
picchiati, umiliati, arrestati sono gli altri/altre, i non violenti, i
"politici"…).
I cellulari sono una rete di comunicazione che appare (a me che non l'ho mai
avuto) assolutamente preziosa. Anche tornare indietro dicono sarà difficile:
l'importante è restare compatti, aspettare. Ma siamo così vicini, con le
ambulanze che corrono sull'altra carreggiata del lungomare, che basterebbe il più
piccolo incidente per provocare un disastro. Non siamo arrivati neppure a metà
del percorso della manifestazione. Sembra di avere perduto.
I compagni più "organizzati" mi dicono che dobbiamo d'ora in avanti
proteggere i cortei, proteggere tutti quei ragazzi e ragazze con le manine
bianche e i panni stesi. Se no li faranno a pezzi ancora. Io penso che un po' è
vero, ma penso anche che questo movimento non ce lo vedo con cordoni di bastoni,
caschi e bottiglie… mi sembra una cosa diversa da quelle che ho conosciuto. La
dimensione militare anche solo difensiva (ma non abbiamo sempre detto così la
nostra, negli anni 70? E non è finita comunque con lo scontro militare che
prendeva tutta la scena?) lo stravolgerebbe. Mi vien da pensare a una difesa
disarmata, ma forte della sua autorità e magari del suo numero - un po' stile
Onu, forze d'interposizione eccetera. Mobile. Mi sembra un po' una stupidaggine
(quanti dovrebbero essere per un corteo come quello di sabato, e con quale
straordinaria rapidità di contatti e spostamento…) ma il problema mi pare sia
tutto qui: nel tenere insieme difesa e non violenza.
E poi c'è un'altra cosa: questo popolo variegato e internazionalista, non ha un
centro, neppure assembleare mi sembra. Casomai un coordinamento, una specie di
informale federalismo. Arriva a occupare la scena simbolica - che il G8 pensava
di aver preparato per sé e in realtà ha offerto - a partire dalle sue
relazioni, dagli spazi che ha costruito di altra socialità. Non c'è una
organizzazione possibile.
Ha creato un tessuto politico che è come un grande patchwork. Forse può
esistere senza definire una sintesi, una linea o una piattaforma, senza
avvitarsi in una discussione sul "livello dello scontro" o roba del
genere. Ma ha un'etica ed è capace di sdegno: credo sia stato una specie di
battesimo politico per molti ragazzi e ragazze.
Può sparire dai media (come ha scritto Pierluigi Sullo) e giocare un altro
gioco simbolico, comunicativo, per nulla simile allo Stato e ai suoi Apparati:
dunque davvero pericoloso. Non deve "conquistare il potere" per
cambiare la società e la vita. Mi piace immaginare possa metterlo in crisi
continuando a vivere in quello strano spazio - nella città appestata universale
descritta sul manifesto da Agamben - che poteva sembrare marginalità o nicchia.
E si è visto che non è. Per questo fa paura - forse più di quanta ne abbia
(altrimenti perché saremmo stati così in tanti sabato?).
E dà speranza.
Andrea Bagni,
insegnante, vicedirettore di "école".
Lo rifarei!
Io c'ero. Ho visto coi miei occhi, non con l'obiettivo d'una
telecamera manovrata da altri. Sono un anti-global pacifista e ne sono fiero.
Uno dei 200 o 300 mila, contati non li ho, che a Genova sabato 21 luglio 2001
hanno sfilato nel rispetto della città e della convivenza civile. Il mio volto
non era coperto di nero, e neppure quello dei miei compagni di protesta,
cattolici, ambientalisti, comunisti, pacifisti, autonomi che fossero. Forse è
solo per questo che chi poteva documentare pubblicamente i nostri gesti si è
astenuto dal compiere il suo dovere obiettivamente: non faceva notizia un corteo
lungo qualche chilometro e largo a tratti quanto una strada a 4 corsie, solo
perché era composto da gente tranquilla. I cori ed i ritornelli scanditi
goliardicamente in più lingue, i ritmi di tamburi e tamburelli, i fischietti ed
i battimani non avrebbero costituito certamente una colonna sonora più
eccitante di quella prodotta dai lacrimogeni e dalle sirene, fusi in un sadico
turbinio sfruttato a dovere da chi, all'interno della zona rossa, mirava a
celare all'umanità intera la rivelazione dello sviluppo d'una coscienza nuova,
fatta di tolleranza verso l'essere umano, il suo ambiente naturale e la vita in
generale.
Si è voluto etichettare il cittadino genovese come la vittima di un'invasione
violenta, non con quel ruolo di partecipante, volente o nolente, che gli
spettava di diritto. Ho ancora negli occhi le immagini della gente dei condomini
del centro che ci mandava baci, saluti e segni d'incoraggiamento, ai quali
ricambiavamo col grido "Genova libera!" Sento ancora sulla pelle il
brivido dell'acqua fresca che ci gettavano dalle finestre e l'emozione sincera
nel dedicar loro il coro "grazie Genova". Odo ancora le grida
d'approvazione di fronte agli striscioni esposti dai balconi, ove sventolavano
spesso e volentieri anche diverse paia di mutande in segno di sberleffo. Quale
senso di partecipazione nell'alzare le braccia in migliaia al passaggio degli
elicotteri della polizia, urlando "No violenza!". Non credo proprio
che questi genovesi non vedessero l'ora di vederci partire, cosa che tra l'altro
è stata difficile grazie ai colpi di testa d'un ministro che ha fatto chiudere
le stazioni ferroviarie, cambiando idea a pochi giorni di distanza.
Certo, nemmeno posso scordare i brividi ed il batticuore causati dalla visione
diretta o semplicemente dalle notizie degli scontri che si susseguivano davanti
o dietro il corteo, o nelle strade adiacenti la nostra. E neppure l'acre odore
dei gas, che gonfiano le narici come un getto d'aria compressa e poi cominciano
a farti piangere se non sei adeguatamente protetto (bandana di cotone,
occhialini da sub, limone, aceto, mascherina di carta, acqua: ecco il nostro
temibile armamento)! Ma non era giusto restare a casa a subire censure. No! Ci
sono troppe cose che la gente avrebbe voluto sapere! In questi giorni vengo
tempestato di domande da quei miei conoscenti che mi sapevano là: e tutti
chiedono di parlarmi della manifestazione pacifica. C'è una sete di sapere che
i mass-media non sanno o non vogliono soddisfare.
Ma neanch'io saprei rispondere a tutti i quesiti. Non so dire, ad esempio, chi
fossero quelle persone vestite in borghese che, in compagnia di gruppi di
poliziotti, spiavano il corteo da diversi punti d'osservazione posti lungo la
via per il quartiere Quarto: agenti in borghese, anarchici senza divisa,
giornalisti, militanti d'estrema destra, semplici frontisti… tutto è
possibile. Non sono stato io ad appurare se le forze dell'ordine usavano
proiettili veri o di gomma, com'era accaduto in occasione degli altri G8. Ed ero
già risalito sul treno quando c'è stato il blitz negli uffici del Gsf nella
scuola "A. Diaz" (ma i Black Block non erano stati stanati
nell'adiacente istituto "G. Pascoli"? Almeno così diceva il Televideo
Rai nella giornata di domenica 22)! Mah! Giudicare è sbagliato: non voglio
accusare nessuno. Chiedo solo di sapere la verità. Ho provato a cercarla in
quel di Genova.
E lo rifarei!
Loris Donazzon
Vi mando il mio racconto del 20-21 a Genova. Con altri compagni/e, amici/e stiamo anche noi raccogliendo testimonianze soprattutto dei partecipanti a quelle giornate meno politicizzati, che forse rappresentano la vera novità di questo movimento dalle immense potenzialità. Se pensate che possiamo darvi una mano, anche per evitare inutili sforzi doppi fatecelo sapere, il tutto ovviamente in un'ottica militante e quindi di lavoro volontario. ciao
Sono arrivato venerdì 20 all'alba; il treno speciale sul quale
viaggiavo, proveniente da Roma, non ha potuto proseguire oltre Quarto (proprio
quella dei Garibaldini). Alle 8 siamo arrivati al villaggio del Genoa social
forum sul lungo mare di Genova ( a un paio di km dalla zona rossa che
comprendeva l'intero centro di Genova), in attesa di capire come si sarebbero
mosse le sette diverse manifestazioni per l'assedio alla zona rossa, siamo
andati a fare un giro per renderci conto della situazione e capire dove
depositare il materiale da campeggio. La città aveva un aspetto spettrale, già
sapevamo delle recinzioni alla zona rossa, abbiamo però trovato tutte le
principali strade della zona gialla ostruite con container (10m x 3m) che
lasciavano uno spazio di un metro per passare, i negozi erano quasi tutti
chiusi, le strade principali erano già piene di blindati con poliziotti in
assetto da guerra. Eppure dai primi contatti con i cittadini abbiamo riscontrato
subito un atteggiamento accogliente, ci hanno indicato dove trovare un bar, ci
hanno salutato , ci hanno espresso la loro tranquillità perché dall'inizio
della settimana non era successo nessun episodio di violenza, i pochi esercizi
aperti erano pieni di gente (no global e residenti). Verso le nove ci siamo
spostati verso la zona di Marassi dove era lo stadio in cui avremmo dormito per
depositare ogni bagaglio pesante. Le corse dei bus erano già state deviate, ma
ancora una volta i dipendenti dei trasporti pubblici sono stati più che
disponibili nel verificare come giungere a destinazione, inoltre mentre eravamo
in fermata una signora è uscita da un bar offrendoci della pizza genovese.
Insomma ci stavamo quasi tranquillizzando, al di fuori delle forze dell'ordine
tutti sembravano sereni. Lo stadio di Sciorba, dove abbiamo dormito, è uno
stadio per l'atletica, lo abbiamo trovato pieno di gente che si apprestava a
spostarsi in città, tutto molto ordinato, una situazione quasi idilliaca. Ci è
venuta incontro una troupe della tv giapponese per farci qualche domanda, la
situazione parlava da sé, ci hanno chiesto un parere sugli episodi di lotta
violenta che avrebbero potuto verificarsi. Noi abbiamo risposto che le
intenzioni pacifiche erano palesi, ma che non bisognava dimenticare che non si
era lì per una festa, ma per avvicinarsi il più possibile a quegli otto
signori per gridargli davanti al mondo che non sono nulla più che affamatori e
sfruttatori; vista la militarizzazione della città molto dell'esito della
giornata sarebbe dipesa dall'atteggiamento delle forze dell'ordine. Alle 11
eravamo di nuovo in città al villaggio del Social Forum, volevamo unirci alle
tute bianche ma loro partivano dallo stadio dove dormivano che era distante;così
rischiando di rimanere isolati per strada abbiamo preferito partire in corteo
dal villaggio con il blocco rosa, composto per lo più da stranieri
coloratissimi con tamburi, artisti di strada e ogni tipo di oggetti rumorosi.
Abbiamo fatto un percorso lunghissimo, alla fine abbiamo incrociato il corteo
dei pacifisti e superandoli siamo arrivati davanti la recinzione della zona
rossa. Era chiarissimo che non avremmo potuto superarla, a mani nude come si
era, ci siamo fermati con i blindati oltre la recinzione e abbiamo cominciato a
suonare, cantare e ballare di fronte a camionette con mitra puntati, idranti
piazzati, squadre in assetto da guerra. Un ragazzo a torso nudo si è
arrampicato sulla recinzione con un mazzo di fiori di plastica per omaggiare i
tutori dell'ordine e ovviamente sono partiti gli idranti, nessuno si è
scioccato sapevamo con chi avevamo a che fare, il nostro baccano è aumentato,
sarà volata al massimo qualche bottiglia di plastica vuota. Dopo qualche minuto
è cominciata a chiarirsi la direttiva che avevano le forze dell'ordine a Genova:
negare il minimo diritto di agibilità politica democratica, infatti con i
manifestanti che resistevano agli idranti (con il caldo che faceva !) sono
presto partiti i primi lacrimogeni. Ad ogni lancio, tornavamo verso la strada
dove erano i pacifisti per tornare poi sempre in modo non violento, fino a che
il lancio di lacrimogeni si è fatto troppo fitto e sono scesi molti celerini
dalla strada priva di recinzione; insomma c'era da temere una carica e privi di
protezione si rischiava il massacro, così abbiamo lasciato la piazza. Erano
passate le 14 e si pensava di tornare verso il villaggio del forum, ma
cominciavano le brutte sorprese. Noi eravamo su un punto alto della città e
vedevamo alzarsi da sotto nuvole di fumo nero, incontravamo persone che salivano
sconvolte, dicevano che giù si era scatenato il finimondo. Visto che non c'era
altro modo per tornare verso il mare ci siamo incamminati, il gruppo si è
ingrossato, ma più si camminava più ci si sentiva stretti in una morsa, da
alcune parti c'erano scontri, da altre la polizia impediva di passare. Insomma,
primo non si capiva cosa succedesse ovvero chi si scontrasse con chi e quanti
fossero, secondo la polizia non permetteva a manifestanti pacifici ma
determinati di uscire dalla zona degli scontri. Incontravamo persone che
venivano dai diversi cortei e tutti raccontavano di essere stati caricati più o
meno violentemente. Per strada si vedevano le tracce degli scontri, ma non si
vedevano mai i gruppi protagonisti. Dopo tre ore e mezzo di marcia siamo
riusciti a sbucare sul mare anche grazie ad indicazioni di residenti. Una volta
giunti al villaggio si è cominciata a capire la gravità della situazione. Alle
18 e 30 era prevista una conferenza stampa, intanto si sapeva che il corteo
delle tute bianche, partito al mattino, era ancora bloccato per strada e che la
polizia non li lasciava neanche tornare indietro. Inoltre cominciava il
tormentone del black block, cento, mille o tremila presunti
"anarchici" che avrebbero messo a ferro e fuoco la città. I danni
sono stati fatti, questo è incontestabile, eppure chi ha visto questi
"neri" sfondare le vetrine delle banche giura di aver visto piccoli
gruppi, io per primo non ho visto neanche l'ombra di un grosso gruppo
identificabile come black block. Eppure usando come pretesto la pericolosità di
questi gruppetti, la polizia ha caricato la quasi totalità delle manifestazioni
del venerdì, poi ovviamente i pacifisti hanno risposto alle cariche con le mani
alzate, altri con il lancio di oggetti, ma credo che partendo dalla violenza
subita un minimo di autodifesa se non altro per riuscire a tornare indietro
senza rimanere schiacciati dalle cariche sia oltre che comprensibile, più che
legittima. Comincia la conferenza stampa, siamo diverse migliaia, altrettanti
sono bloccati in diversi punti della città e non possono raggiungere il
villaggio. Immediatamente cala il gelo, un manifestante è stato ucciso con un
colpo di pistola, altri sono feriti in modo gravissimo, un centinaio i fermi di
polizia, un bilancio tremendo. Si vedono molte persone piangere, qualcuno grida
"assassini", altri vogliono andare in soccorso di coloro che sono
ancora bloccati dalle cariche della polizia, altri ancora richiamano alla
necessità di calibrare attentamente ogni decisione visto l'altissimo livello di
provocazioni subite durante la giornata. Sono momenti difficili da descrivere,
hai la sensazione fortissima che nonostante il pericolo sei nel posto giusto e
senti che un potere cieco sta riuscendo a distruggere qualcosa di grande che era
sul nascere. La rabbia è tantissima, a tarda serata torniamo alla tenda e ci
prepariamo ad un sabato che si preannuncia difficilissimo. L'indomani tutti si
muovono presto. Mentre il giorno prima per l'assedio alla zona rossa si erano
fatti sette diversi cortei a seconda dei gruppi di affinità, per il sabato era
prevista una manifestazione unitaria alla quale erano attese almeno 100.000
persone. Fortunatamente non tutto il paese si è anestetizzato e soprattutto dal
nord (Milano e Bologna, le grandi città vicine) ci sono arrivi massicci. La
partenza era prevista alle 14, ma la piazza si riempie presto e alle 13 più di
200.000 persone sono già in movimento. Il Social Forum intende svolgere il
tutto pacificamente per mostrare che, nonostante tutto quello che si è subito,
si rivendica una posizione costruttiva che è invece mancata a governo e forze
dell'ordine. La situazione tuttavia rimane esplosiva, c'è di mezzo un morto, la
rabbia per la feroce violenza subita il giorno prima si fa sentire, è possibile
che molte persone non tollerino di rivedere in parata l'arroganza della polizia.
Si verificano infatti entrambe le situazioni: gran parte del corteo procede
pacifico con grossi cordoni di servizio d'ordine interno per scongiurare
infiltrazioni, molti altri (vuoi per appartenenza politica, vuoi per sensibilità)
decidono di mostrare chiaramente che se l'intenzione della polizia è di giocare
al massacro, non si può pensare di trovare moltitudini di masochisti. In questo
senso non intendo allestire una riflessione sull'appropriatezza della
non-violenza o della violenza come strumento politico, ma solo cercare di
spiegare a chi ha potuto avere solo l'immondizia dei tg, quello che si è visto
per le strade di Genova, poi ognuno si fa la sua idea. E' superficiale fare
distinzioni così drastiche tra buoni e cattivi. Venerdì ci sono sicuramente
stati gruppi estremi che hanno colpito con straordinaria velocità e agilità in
diversi punti della città, ma non mi si venga a dire che la violenza della
polizia sia in relazione con l'azione di questi gruppi, primo perché i suddetti
gruppi non hanno subito pesanti cariche, secondo perché sono stati caricati
cortei pacifici che si trovavano del tutto lontani dalle "tute nere".
L'intenzione della polizia è stata una e una sola, metterla sul piano del
confronto diretto per affossare la forza propositiva della nostra lotta politica
e purtroppo ci sono riusciti. Per sabato non mi sentirei infatti di parlare di
tute nere, bianche, gialle o rosse, ma piuttosto di tante persone che forse
sbagliando non hanno mantenuto i nervi saldi, ma che comunque dopo quanto è
successo venerdì avevano tutte le ragioni per fare quello che hanno fatto,
apportando tra l'altro solo danni a cose e non a persone.
Personalmente non condivido in questa fase atteggiamenti violenti, che non siano
l'autodifesa, ma vorrei portare tutti a riflettere su quanto ho letto sul muro
di una banca devastata "questi danni non sono niente di fronte a quelli
preparati dai g8". Per cui quei danni sono stati inutili, anzi hanno
ostacolato la crescita di un movimento che comincia a promettere bene, eppure
attenzione alla cantilena dei media, non dimenticate contro chi e che cosa si
stava manifestando: i nemici non sono le tute nere, che al limite sono un
fenomeno di devianza sociale, ma Bush, Berlusconi, Blair e i potenti della terra
che ci stanno preparando un futuro di precarietà globale, dove l'unica cosa
sicura saranno i profitti loro e dei loro amici. A Genova si respirava una
volontà di ritornare a fare politica in modo costruttivo e la stragrande
maggioranza delle persone questo ha fatto, ci sono stati incidenti di percorso
ma comunque indietro non si torna, c'è poco da pacificarsi. Infine mi preme
dire che l'attenzione va tenuta sui governanti più che su chi li protegge. Il
carabiniere che ha sparato deve pagare, ma è a sua volta una vittima, i veri
responsabili sono i politici che hanno dato alle forze dell'ordine disposizioni
così repressive. Non fidatevi delle immagini dei tg, vedere centinaia di
persone che devastano non significa molto, fintanto che si nascondono le
centinaia di migliaia che lottano in modo costruttivo. Anche quando le immagini
parlano da sé, come per il blitz di sabato notte nella sede ufficiale del
social forum, con una sede devastata e pozze di sangue ovunque, i media venduti
trovano giustificazioni a tali azioni. Gente attrezzata ce ne era tra di noi, ma
le attenzioni più violente delle forze dell'ordine sono sempre state rivolte ai
manifestanti meno protetti. E attenzione, lì tutti sapevano che non si stava
facendo la rivoluzione, ma semplicemente chiedendo con forza che la fame e le
malattie non siano accresciute dalle brevettazioni delle soluzioni, o che un
lavoratore venga comunque riconosciuto come essere umano con dei suoi diritti e
non come un pezzo della catena di montaggio da buttare all'occorrenza.
Nel mio piccolo, con tantissimi/e che erano a Genova, con il lutto nel cuore, ci
stiamo sforzando di comunicare quello che si è vissuto. Non si tratta di essere
di questo o quello schieramento, ma di capire che la follia omicida che ha
imperversato a Genova negli ultimi giorni aveva un chiaro significato, e non si
dica che abbiamo la generica libertà di parlare, quella anche il fascismo la
riconosceva a chi non si organizzava per contrastarlo. Nessuno chiede la libertà
di lamentarsi, vogliamo semmai la libertà di provare a cambiare alcune cose.
Una canzone
Questa che segue e' una canzone scritta per Carlo da due
antiglobalizzatori in quel di Hobart, Tasmania, Australia. Non sapendo dove si
possono indirizzare le testimonianze di solidarieta' ho pensato a voi (che del
resto sarete gia' alluvionati dai messaggi...
For Carlo
In Seattle, in Melbourne, In Prague, in Genoa, the story's the same.
The rich and the powerful are gathered together they say in prosperity's name.
They talk about weapons, production, investments, for all that they're worth,
While they cover their ears to the voices for justice that echo all over
this Earth.
They stay in the finest of palaces, locked behind barriers of shame,
Too vain to be bothered by the thousands outside who stand up in humanity's name.
Their democracy's packaged with bullets and comes at the point of a gun,
And as Carlo Guiliani lies silently dying he knows that he's not the
first one.
Don't call it rational, don't call it freedom and don't call it trade.
That's only the new-spin of giant corporations
Who plunder the Earth and impoverish nations
Who each day they face they face new desperations
And who each day become more afraid.
Elected by no-one they dictate to us how we must live by their rules.
But every dictator that ever has risen has only arisen to fall.
The lessons of history are there to be seen, if you'll open your eyes.
The tide of humanity's steadily turning and there's a future
that's
there to be prised.
It's a world without poverty, slavery, exploitation or greed,
A world of respect and of co-operation,
A world without warring of pitiful nations,
A world that's been rescued from disintegration,
Where equality stands as our creed."
(From Peter and Jeoff, Australia)
ma alla manifestazione linda da ogni partito!
Passavamo dentro Genova leggeri
Ad una settimana dalle infauste giornate di Genova, su invito dei
compagni mi decido a tradurre su carta la mia testimonianza e la mia rabbia.
Per chiarezza dico subito di essere uno studente sardo coordinatore dei Giovani
comunisti di Urbino e, in quanto tale, di aver partecipato alla settimana di
laboratorio politico sulla pratica della disobbedienza civile allo stadio
Carlini di Genova (con le Tute Bianche, le reti Rage di Roma , No Global, e
qualche gruppo di anarchici ).
Sin dal nostro arrivo il clima era quello dell'intimidazione: controlli,
perquisizioni, assedi quotidiani, elicotteri costantemente sulle nostre
teste…..
Sin dal primo giorno di Social Forum la deflagrazione delle bombe ci toglieva la
voglia di ridere e copriva il rumore delle nostre idee.
Una bomba ben più forte era ormai stata innescata dai poteri occulti (?) : la
strategia della tensione si imponeva auto-legittimandosi.
Ciò nonostante continuava ad arrivare gente da tutta Europa, centinaia e poi
migliaia di esperienze e contaminazioni culturali.
Ci sballavano più le assemblee delle canne, imparavamo a collaborare e
costruire, confrontavamo idee diverse in lingue diverse……
Passavamo per la città leggeri, accolti splendidamente dai pochi abitanti
rimasti che ci hanno ospitati e coccolati, a volte consigliati e spesso salvati
dalle cariche.
Questa per noi era già una grande vittoria dopo il terrorismo mediatico dei
mesi precedenti.
Giovedì 19 in 15/20.000 abbiamo sfilato, cantato e recitato per i diritti dei
migranti e del lavoro.
E' andato tutto bene tranne le bombe che continuavano ad esplodere ed oscurarci;
una avrebbe anche voluto bruciacchiarci noi del Carlini…..
Venerdì 20, il giorno dell'assedio simbolico alla zona rossa: si trattava di
varcarla per delegittimare agli occhi del mondo l'operato degli 8 Grandi
complici, schiavi e vessilli dell'imperialismo neo-liberista americano.
Noi eravamo organizzati con strumenti di protezione non violenta che
si sono dimostrati inefficaci ed ingombranti nel clima di guerra civile venutosi
a creare.
Appena usciti dallo stadio è per noi cominciata la zona rossa non essendo stato
il nostro corteo autorizzato.
Abbiamo percorso 3 Km lungo vie deserte e devastate dai fantomatici Black Block
che, indisturbati, ci avevano preceduto di circa un'ora.
Poco prima del nostro arrivo i Black hanno provocato le forze dell'ordine che
altro non aspettavano per dare inizio ad una feroce repressione contro l'inerme
corteo.
Non mi soffermo sulle brutalità e le violenze gratuite di cui siamo stati
testimoni e vittime, esse sono già documentate e risapute, voglio invece
sottolineare come un corteo pacifico composto da più di 10.000 persone sia
stato costretto a passare da modalità non-violente a metodi da guerriglia
urbana al solo fine di salvare la pelle.
Di fronte agli abusi ed alle efferatezze dei "paladini dell'ordine"
siamo stati costretti a difenderci con barricate e sampietrini per reggere le
cariche dai vicoli laterali che avrebbero altrimenti spezzato il corteo
intrappolando le centinaia di compagni che, con gli scudi, coprivano la ritirata
degli altri.
Proprio in uno di questi vicoli laterali si è svolta la tragedia, si è
consumato l'assassinio.
Indietreggiavamo frastornati e loro continuavano ad inseguirci caricando,
provavamo a disarmare i Black però troppo mobili e ben armati.
Alle 19.00 siamo riusciti a tornare al campo e là, sotto assedio, contavamo e
piangevamo gli assenti.
Con sgomento abbiamo appreso della morte di Carlo e dell'identica metodologia
che aveva guastato anche gli altri cortei: i Black venivano deliberatamente
usati come giustificazione per caricare i manifestanti pacifici !
Dulcis in fundo la notizia che mi ha fatto più male: i vertici Ds avevano
ritirato la loro partecipazione alla manifestazione del 21: un miope calcolo che
non ha impedito la grande risposta popolare al corteo ma ha favorito (perché in
qualche modo ha legittimato) la reiterata azione repressiva delle forze
dell'ordine.
Anche sabato 21 si sono riprodotte le stesse dinamiche perverse: cariche della
polizia al corteo nell'inseguimento dei Black.
Black Block, strano gruppo senza storia né identità, costruito dal nulla ma
organizzato efficacemente per distruggere le iniziative anti-liberiste.
Non riesco ancora a capire come il 21, bloccate inizialmente a
piazzale Kennedy, le tute nere siano riuscite a passare i cordoni di polizia e
infilarsi nel corteo, l'unica spiegazione sembra essere la connivenza delle
forze dell'ordine.
Giovedì 20 sembrava funzionare la strategia di Berlusconi - estremizzare il
conflitto per marginalizzare il movimento- anche perché avvallata
indirettamente dalle incertezze dei Fassino e dei D'Alema. La risposta del 21 ha
però riaffermato il radicamento e la forza del movimento ed obbligato un
Centro-Sinistra ormai scolorito ad una vera opposizione contro un governo sempre
più spregiudicato ed anti-democratico.
E questa è la vera posta in gioco: un ideale politico di democrazia sostanziale
e partecipata che si contrapponga allo svuotamento della sfera politica da parte
delle forze economiche globali.
Mi auguro dunque che i fatti di Genova si inseriscano nella fase precongressuale
diessina e questo partito riesca a recuperare il rapporto con la società e con
i giovani che del movimento sono parte fondante.
È un augurio giocato su 4 livelli:
- i Ds necessitano identità e forza propulsiva
- il movimento necessita interlocutori istituzionali che concretizzino le sue
istanze
- il paese e la democrazia necessitano di un'opposizione vera che freni
l'arroganza delle destre
- il pianeta necessita un drastico cambiamento di rotta che solo un soggetto
politico sopranazionale potrebbe realizzare.
Dichiarandomi fiducioso e operativo per il prossimo appuntamento romano a
novembre, vi saluto.
Jacopo Cerchi
Sfiniti
Partiamo il 20 alle 5 di mattina, siamo due pulman, un centinaio di
persone.
Il viaggio è tranquillo, all'entrata di Genova ci aspettiamo una perquisizione
invece ci ferma una pattuglia all'uscita del casello autostradale, ci chiedono
quanti siamo, non salgono né ci chiedono i documenti, possiamo ripartire.
Noi siamo nel corteo dei sindacati di base. Prima dell'inizio della
manifestazione facciamo il percorso stabilito per renderci conto della
situazione, la polizia c'è e si vede, la barriera di ferro che ci separa dai
padroni del mondo fa paura, sembra invalicabile, e non solo fisicamente.
All'andata il corteo è tranquillo ma teso per le notizie che arrivano dagli
altri assembramenti. Veniamo a sapere dei Black block che si sono scontrati
anche con le tute bianche e con gli autonomi.
Le notizie sono confuse, incomincia a girare la voce di una morte, poi due, la
rabbia sale ma il corteo resta unito.
Al ritorno il gruppo di anarchici che aveva fatto parte del corteo richiude lo
striscione e incomincia a costeggiare il corteo. Sono tutti mascherati e vestiti
di nero, incominciano i primi scazzi, molti hanno paura di essere coinvolti,
parte una vetrina e due Black block che erano rientrati nel corteo vengono
buttati fuori. C'è chi non è d'accordo sul metodo, questo ti fa sentire uno
sbirro, e litigare con dei compagni per una vetrina di una banca ci sembra
eccessivo. In ogni modo loro capiscono l'antifona, si spostano nella via
laterale dove incominciano a mettere i cassonetti nel mezzo e a spaccare qualche
macchina.
Il corteo si chiude nella piazza da dove eravamo partiti, tutto sembra
tranquillo ma i pullman che devono riportare la gente a casa vengono fatti
arrivare tre ore prima dell'ora stabilita.
Accompagniamo i compagni che non restano per la manifestazione del ventuno,
intanto le voci delle uccisioni da parte della polizia diventano più precise,
si hanno particolari, la rabbia monta.
Dopo che i pullman sono partiti rimaniamo una trentina, la rabbia è al culmine,
arriva una pattuglia della polizia e alcuni tentano di assaltarla ma la macchina
fa retromarcia e scappa.
Ci spostiamo. Arrivano notizie brutte, l'indicazione è di scansare ogni
contatto con le forze dell'ordine perché manganellano e arrestano chiunque,
dovremmo arrivare ad un centro sociale per dormire ma i compagni lo sconsigliano
per paura di retate. Decidiamo di attraversare tutta Genova da ponente a
levante, passando per il lungo mare sarebbero una decina di chilometri ma la
strada è bloccata, ci toccherà aggirare tutta l'ex zona gialla cercando di
scansare gli scontri che sappiamo ci sono alla stazione di Brignole. Qualcuno
preso dalla rabbia assalta un autobus, lo dissuadiamo subito scusandoci con
l'autista terrorizzato, che certamente avrà già acceso l'interfono con la
centrale, da li a poco arriveranno a cercarci. Ci dividiamo in tre piccoli
gruppi di 20 persone. Prendiamo l'autobus "normalmente" fissando un
appuntamento tra quattro fermate, nel posto più vicino al mare, ancora speriamo
di passare.
Da qui incomincia una marcia che durerà a tappe forzate dalle 5 del pomeriggio
fino alle 10 di sera in direzione dell'ospedale Gaslini dove sono accampati gli
autonomi. Durante il percorso molta gente si unisce a noi, più siamo più ci
possiamo difendere. Sappiamo che la polizia e i carabinieri rastrellano la città
picchiando e arrestando chiunque, tuta nera o meno.Ad un certo punto siamo 150
persone. Dei tratti di città sono normali, altri sconvolti, i cubetti di
porfido sono dappertutto, banche e benzinai sono bruciati e con loro qualche
macchina, la strada è disseminata di scudi e protezioni tipici delle tute
bianche. Verso le 9 passiamo sotto il carcere di Marassi, abbiamo saputo che è
stato attaccato ma dalla nostra parte non si nota niente, qualcuno inveisce
contro le guardie carcerarie sulle torrette, loro ci mostrano il mitra, dalle
celle ci chiamano, ci salutano, ringraziano.
Alle 10 arriviamo a destinazione, io e altri tre compagni, sfiniti, ci fermiamo
allo stadio dove campeggiano le tutte bianche, gli altri continuano per il
Gaslini. All'interno la tensione è alta, c'è un'assemblea in corso, gli
interventi sono variegati, anche di segno opposto, li unisce solo la rabbia per
una morte inutile. Ascoltiamo la testimonianza di un ragazzo inglese che era
presente quando è morto Carlo, Carlo Giuliani, cosi si chiamava, lo comunicano
dal palco. Molti vogliono uscire di nuovo ma poi, per fortuna, non se né fa di
nulla. La notte passa tranquilla e la mattina del 21 ci ritroviamo con gli altri
compagni al Gaslini. Ci fermiamo a fare colazione in uno dei pochi bar aperti.
Le camionette delle "forze dell'ordine" passano di continuo a tutto
gas. Molti compagni gridano "assassini", volano delle bottiglie di
plastica vuote. Loro rallentano e ti fanno vedere la pistola dal finestrino.
Parte il corteo, davanti Rifondazione Comunista, poi i Cobas con gli autonomi,
seguiamo noi con alcuni centri sociali.
Fa un caldo allucinante, l'acqua scarseggia, le soste sono lunghe. Si uniscono
altri pezzi di corteo che vengono fatti scorrere in avanti tentando di unire
tutto lo spezzone di Rc alla testa del corteo, non ci riusciranno perché molti
pullman arrivano in ritardo e non riusciranno neanche a vedere da lontano piazza
Kennedy, che è l'obbiettivo del corteo.
La gente dalle finestre ci butta acqua per rinfrescarci, sembra una festa.
Dietro a noi però ci sono gli "anarchici" del giorno prima. Usano la
stessa tattica seguendoti per un pezzo di strada per poi staccarsi e colpire una
macchina o un benzinaio. Qualcuno del nostro servizio d'ordine cerca di farli
smettere e viene minacciato, non ci facciamo intimidire e loro si portano al
lato del corteo. In lontananza si vedono i fumi dei lacrimogeni in piazza
Kennedy, stiamo andando in bocca al lupo e non lo sappiamo.
Polizia non se ne vede ma i cassonetti sono tutti al loro posto, cosi le campane
per la raccolta del vetro e perfino diverse macchine. Arriviamo sul lungo mare,
dietro di noi c'è lo spezzone dei greci. Siamo sotto la caserma dei
carabinieri, ci guardano, due elicotteri ci sorvolano. C'è una stradina che
sale verso l'interno costeggiando la caserma, è chiusa da un cancello, dietro
diversi carabinieri. Un paio di Black block si attaccano al cancello e lo
scuotono, sembra il segnale, partono i lacrimogeni, il corteo viene spezzato in
due, noi rimaniamo nella retroguardia dello spezzone iniziale, i greci sono ad
un centinaio di metri, davanti il fumo di piazza Kennedy, a destra un muraglione
alto più di dieci metri a sinistra un boschetto e poi il mare. Siamo in
trappola. La situazione sembra tranquilla, c'è chi si siede, chi si chiama,
l'intenzione è aspettare che finiscano gli scontri in piazza Kennedy per poi
passare. Siamo pigiatissimi, il servizio d'ordine di Rc si è squagliato, noi ci
chiudiamo a riccio, nessuno lo dice, ma se la polizia carica molti verrebbero
inesorabilmente travolti. Non vediamo partire i primi lacrimogeni ma ne sentiamo
l'odore e la gente comincia a premere sempre più forte, molti gridano di stare
calmi, di non correre, ma si vede che siamo accerchiati da gente che ha già il
terrore negli occhi, persone non abituate a queste situazioni, che mai avrebbero
pensato di trovarsi in quest'incubo. Incominciano a sparare lacrimogeni anche
dagli elicotteri, è il panico totale.
La nostra copertura si sfascia, non ci possiamo più appoggiare l'uno all'altro.
La compagna davanti a me inciampa in una bicicletta abbandonata, me la vedo
brutta, se mi travolgono finiremo calpestati, in una decina decidiamo d'istinto
di infilarci nei cespugli sopra il muretto che stiamo costeggiando sballottati
come pupazzi, tutti gridano. Un candelotto ci piove tra i piedi, non ci vediamo
più, gli occhi bruciano, la bandana, anche se bagnata non serve più a niente.
Riusciamo a salire, la massa scorre sotto di noi, l'assalto sembra finito. Un
elicottero si abbassa e spara un candelotto in mezzo ai cespugli, il panico è
alle stelle, la gente cerca di arrampicarsi su quelli che sono davanti, ognuno
pensa a salvare se stesso. Riusciamo ad arrivare ad una rete, per fortuna
bucata, e mezzo soffocati sbuchiamo in quello che sembra un alberghetto o una
stazione balneare. C'è una terrazza che da sul mare, da lì potremmo scendere
in spiaggia ma al largo stazionano le motovedette della polizia costiera e i
gommoni dei carabinieri. Da lì non si passa, l'elicottero ci gira sopra la
testa, tutti alzano le mani in segno di resa. Le persone che abitano lì ci
aprono l'acqua in giardino e fanno usare il bagno a chi sta male, molti
vomitano, la pelle brucia.
Passano una ventina di minuti, ad un certo punto sbucano due poliziotti che ci
dicono che possiamo scendere, che non ci faranno niente, uno si toglie il casco,
non scorderò mai quello sguardo allucinato, sconvolto. Ci riuniamo, siamo una
cinquantina, decidiamo di fidarci, non c'è alternativa. Ci prendiamo per mano e
in fila indiana incominciamo a scendere. La strada è sgombra, la polizia e i
carabinieri ci fanno cenno di fare alla svelta, ci intimano di andarcene ma
intanto si avvicinano sempre di più. Un primo gruppo riesce a passare senza
danni e rincuorati ci avviamo anche noi ma appena scesi si avvicinano due
carabinieri e cercano di portarsi via due ragazzi, reagiamo strattonandoli e
facendoli scappare, parte un'altra salva di lacrimogeni e l'ennesima carica. Ci
rifugiamo di nuovo sulla terrazza. La rabbia e a mille, qualcuno piange, gli
occhi sono fissi nel vuoto.
Passa un'altra mezzora, qualcuno scende a trattare la resa, risale poco dopo e
se non fossimo disperati ci verrebbe da ridere, la polizia ha detto che possiamo
andare, tranquilli, ci dice il tipo, mai sei sicuro? Ne prendono solo un paio a
caso gli altri possono andare, viene sommerso da una caterva di vaffanculo!
Stufi e rassegnati decidiamo di andare, ci fanno passare e non trattengono
nessuno.
Sarà una ritirata lunga più di tre chilometri dove gli elicotteri non
smetteranno mai di bombardarci con i lacrimogeni e gli sbirri di manganellare
chiunque resti indietro, ferito o meno. Una disfatta. Come ci fa notare un
compagno, sembra il punzecchiare del pastore sul culo delle pecore per farle
rientrare all'ovile.
E' tutto finito, ritroviamo i pullman e tutti i compagni dispersi, nessuno è
stato preso.
Nella notte, tornando, veniamo a sapere dell'irruzione nella sede degli autonomi
e del Genova Social Forum e tutti ci chiediamo se l'Italia è diventata il Cile
di Pinochet o l'Argentina dei Videla e Massera, ma siamo troppo stanchi e
demoralizzati per darci una risposta. Domani sapremo tutto e sarà anche peggio.
A Genova, con i miei compagni, ho visto la morte definitiva della democrazia,
anche se solo per 24 ore.
Il giorno dopo ci sono state manifestazioni di protesta in tutta Italia.
Presidio davanti alla Prefettura. Davanti c'è il Consiglio Regionale. Due tipi
in giacca e cravatta discutono tra loro: "Non vai con il corteo?"
"No, non sono d'accordo, cosi si legittima una minoranza" (sic!).
Accennano ad una fiaccolata, gli ho detto che era meglio se si andavano a fare
una grigliata. Era meglio per tutti.
La sera guardo la televisione. C'è "Terra!", intervistano un prete,
penso sia un cappellano militare, un corvo tutto nero con una piccola croce
d'argento sul bavero della giacca. Cerca di giustificare il carabiniere che ha
ucciso, poi dice: " da una parte è meglio così, questi giovani (i
manifestanti) fanno esperienza, un'altra volta sanno cosa aspettarsi."
Carlo Salvi
Un episodio
Non so quanto possa valere questo episodio rispetto alla gravità
assurda dei fatti di Genova, ma forse può contribuire ad avere un quadro di
insieme:
Ero nel corteo del 20 che è arrivato in via Assarotti.
Verso le 14, vedendo che non succedeva più nulla di significativo ci siamo
incamminati lentamente verso piazza Manin, un giovane ciclista è sceso
trafelato per la via gridando che stavano arrivando i Black block. Abbiamo
deciso di accelerare ma, arrivati in piazza la situazione era così tranquilla
che ci siamo fermati a mangiare e chiacchierare davanti a un negozietto di
alimentari che era rimasto coraggiosamente aperto.
Era passata almeno mezz'ora dall'allarme del ciclista quando è arrivata la
testa dei black block coi tamburini e io e altre persone, presentendo guai, ci
siamo allontanati salendo le scale che dalla piazza portano al livello
superiore. Da sopra abbiamo visto altri black block che, da via Recco,
rovesciavano e incendiavano i cassonetti e i poliziotti che con calma scendevano
dai cellulari avvicinandosi alla piazza. Ci siamo quindi allontanati salendo
verso le strade che stavano sopra di noi.
A questo punto una macchina di grossa cilindrata ha frenato sgommando e un tipo
in borghese sui 35 anni è sceso e ci ha consigliato di salire per il sentiero
del boschetto che avevamo davanti. Abbiamo sperato che fosse un poliziotto
"buono" e siamo saliti sulla strada che porta a Righi. Dopo poco anche
lui arrivava su con la sua macchina come a verificare che avessimo seguito il
consiglio e poi spariva sgommando.
Mi sembrava un po' troppo preoccupato per la nostra sorte. Non è che stava
allontanando le persone che avrebbero potuto vedere dall'alto quello che
succedeva in piazza Manin?
Il ciclista è riuscito ad avvisarci mezz'ora prima dell'intervento della
polizia, non è curioso questo ritardo con le strade di Genova vuote e questi
Black block che marciavano impettiti e senza fretta?
Raffaello Ugo
La nebbia
21 luglio, sabato. Mi sveglio al tuono del corteo che si forma sul
lungomare di Genova. Passata finalmente questa notte inquieta, dopo la guerra
che ieri ha fatto della mia città un inferno di ferro fuoco, ecco che il volto
della grande manifestazione di oggi prende ad incarnarsi nelle parole d'ordine
che rimbombano dalla spiaggia. La pace dell'eco delle onde non placa gli animi
di coloro che hanno ancora spari nelle orecchie. Era un ragazzo italiano,
cresciuto a Genova e figlio di sindacalisti il manifestante ucciso venerdì 20,
alle 17.40, da un carabiniere con un colpo di pistola al viso e successivamente
investito dalla jeep militare che era stata circondata ed aggredita. Entrambi,
carabiniere e ragazzo, coinvolti in uno degli scontri più pesanti della
giornata, in una piazza decentrata rispetto alla 'zona rossa' (con accesso
vietato da altissime transenne) e comunque dopo che la grande massa pacifista
del 'Genoa Social Forum' aveva accolto la richiesta del sindaco della città,
accettando di ritirarsi dai blocchi di sfondamento delle transenne.
Chiede vendetta o pace questa vittima? Il movimento che da mesi si apre varchi
per le manifestazioni di dissenso al vertice degli otto grandi e cerca soluzioni
intermedie tra necessaria non-violenza e violenza inevitabile, tra alternative
per un mondo migliore possibile e boicottaggio di questo potere costituito, è
riuscito a mantenere il dialogo. Questa notte passata, due assemblee plenarie -
le Tute Bianche allo Stadio Atletico Carlini, il Genoa social forum a piazzale
Kennedy - si sono raccolte per raccontarsi reciproche testimonianze, sotto il
volo radente degli elicotteri militari, ed hanno deciso di scendere ancora
uniti, in strada, oggi.
20 luglio, venerdì. La sede organizzativa e sala stampa del Genoa social forum
già dalla mattina è un campo strategico: sulle piantine d'accoglienza in
circolazione fin dall'inizio della settimana si sono apposti cerchi e frecce che
indicano le piazze di concentrazione per gruppi d'affinità ed i corrispettivi
'varchi' nel serraglio della 'zona rossa', cui si tenterà l'assedio e
l'assalto. Zona rossa: si tratta di una città blindata nella città, rubando
agli abitanti porto, centro storico con le sue piazze, vie e palazzi
splendidamente restaurati (tra cui il Palazzo Ducale dove in poche ore saranno
ufficialmente aperti il lavori del vertice); soprattutto tutti i collegamenti
levante-ponente, di modo che lo spostamento dei manifestanti è reso arduo dalla
impervia orografia urbana. Facce che durante la settimana s'erano viste attente,
nella platea affollata del Public Forum ospitato sotto tre tendoni al mare, ora
si preparano alla militanza volontaria con la responsabilità dell'assistenza
medica, legale, di farsi staffetta caso i cellulari siano oscurati, animatori di
corteo o barriera umana tra polizia e manifestanti. A piazza Manin, sulle alture
della città, si danno appuntamento pacifisti, non-violenti, Rete di Lilliput,
Teatro dell'Oppresso, blocco delle donne e blocco rosa dei creativi: scenderanno
fiduciosi nel budello di Via Assarotti intonando canti, slogans, mostrando i
loro cartelli e le loro mani dipinte di bianco, inscenando performances e
animati sit-in, fino alla rete metallica che li separa dalla statua di Garibaldi
che domina la piazza proibita su cui s'affaccia, dall'altra parte, la
prefettura. Affrontando avvisaglie d'attacco da parte della polizia schierata e
in assetto, decorano la rete con fiori, palloni, cartelli e file di mutande
(proibite alle finestre dal Primo Ministro Berlusconi, tra le altre
manifestazioni di vita nella città fatta deserta, come brutture da nascondere
alla vista degli otto grandi). Un gruppo di manifestanti che si é protetto
dietro la trincea di cassonetti rovesciati è isolato, circondato e disperso a
lacrimogeni e getti d'idrante. Quando si torna alla piazza di concentramento
sono le tre del pomeriggio; la calma incerta che vi regna è fatta inquieta
dalla staffetta di notizie che la collegano ad altre piazze. Ovunque sia stato
tentato l'assalto al serraglio, per quanto solo simbolicamente, la polizia ha
attaccato, lanciato lacrimogeni e disperso. Peggio: il temuto black block,
arrivato chissà come (visto lo stato d'assedio della città durante tutta la
settimana) con le sue divise nere e le molotov, scorrazza fin dalle undici nei
viali della zona 'gialla' (che doveva esser tenuta sotto stretto controllo dei
carabinieri ???) in piccoli gruppi, devastando negozi e incendiando cassonetti e
macchine posteggiate, raggiungendo e accerchiando la sede del Genoa social forum
(fortunatamente, quando è già vuota), affrontando e intralciando l'avanzata
della marcia di sfondamento delle Tute Bianche, provocando ovunque scontri tra
blocchi di forze armate e manifestanti. La violenza delle spranghe e del
petrolio incendiario s'impone nel teatro degli scontri e una nebbia tossica
cancella l'immagine delle mani bianche alzate nel silenzio; le manganellate
ormai arrivano a pioggia sul panico di chi fugge; alle suppliche di pace, le
tute nere oppongono l'orribile scherno della forza bruta. Alle 16 e 35 il Genoa
social forum indietreggia su tutti i fronti dell'assedio alla 'zona rossa',
mentre le Tute Bianche invertono la marcia verso lo stadio Carlini; ma le
battaglie di ritirata ai margini del disastro non si fermano. Alle 17 e 40 un
corpo giace esanime a terra ad un incrocio nel quartiere di Tommaseo, colpito al
volto incappucciato da una pallottola; quando lo porta via l'autombulanza gli si
scorge il pallore di un ragazzo di vent'anni. Mentre il lago di sangue si copre
di fiori rossi strappati alle aiuole e lo sgomento si incide negli occhi di chi
ha visto, lo scontro si fa più disperato e estremo. Chiedono vendetta o pace
queste vittime?
19 luglio, giovedì. Cinque fantocci impiccati a dieci metri d'altezza a
sfregiare il bel fondale liberty di Piazza Tommaseo. Donne sepolte in mucchi di
terra. Proprio lì, dove si sarebbe visto il sangue, un centinaio di
rappresentanti del popolo iraniano mostrava in immagini forti, la mattina di
venerdì, il massacro inimmaginabile di cui è vittima: 950 esecuzioni capitali
negli ultimi quattro anni di regime, retto dai Mullah, nell'ultimo anno 17
lapidazioni, 41 delitti politici all'estero e 77 attacchi missilistici
all'esercito di liberazione, la resistenza iraniana. 'Il G8 deve sapere',
urlavano le donne nell'unica frase in italiano che hanno imparato a memoria.
Intorno, telecamere e microfoni dominano la piccola folla di curiosi che ha
resistito all'esodo massiccio dalla città blindata. Sono arrivati 50 registi
italiani, alcuni di grosso calibro (Scola, Monicelli, Comencini, Salvatores,
Archibugi) mescolandosi alla folla di giornalisti 'authorized' della stampa
mondiale. Filmeranno kilometri di pellicola per comporre un documentario
collettivo sul popolo dei manifestanti antiglobali di Genova, i look e gli
slogans della loro protesta, la loro bella contrarietà espressa anche da
capigliature dread, piercing e tatuaggi, l'euforia fra tutti, per un mondo
diverso possibile. Al pomeriggio, della manifestazione dei Migranti, preceduta
da una fantasiosa orchestrina di fiati che dalla scalinata della chiesa di
Carignano serrata anima gli spiriti ad una pacifica festosità, prendon parte
individui, associazioni e bandiere di tutti i colori politici; il Presidente
partigiano Pertini in ritratto, festeggiatissimo da canti di resistenza in
italiano e francese; perfino gli otto grandi, in forma di mostruose maschere
giganti "perché quelli possano vedersi allo specchio" (Attac Italia),
e Manu Chao con la sua musica "così come il fornaio con il suo pane".
I genovesi relitti dall'esodo han steso mutande in lunghi archi da balcone a
balcone, per contrariare i mandamenti cortigiani di Berlusconi; un gruppo di
senegalesi provvede con senso patriottico a distribuire aglio al popolo perchè
si faccia il pesto per la sera, come i grandi a palazzo. Mentre sul mare già
decora l'orizzonte l'aereo del giapponese Koizumi (e qualcuno commenta
"lui, la pasta la voleva con le vongole") - siamo tutti clandestini,
canta il fiume di volti tra cui l'euforia è la stessa, generosa, della notte
trascorsa in concerto, 99 Posse e Manu Chao, spartendosi i panini e le mele
gratis del Bar Clandestino, accomunati dalla voglia di mantenersi disobbedienti
per affrancare la vecchia superba Genova dai muri di grate che ne han fatto un
ridicolo serraglio per polli; dall'esigenza di spezzare l'incubo della trincea,
di là il deserto intorno ai grandi democraticamente eletti, di qua il deserto
della città svuotata. Quelli barricati, e non noi manifestanti circondati da
tutti i lati da squadre armate, hanno paura: a misura della loro paura i cinque
metri di transenne che vogliamo sfondare. Ci unisce il desiderio di violare il
privilegio, e non farsene inglobare, di aprire in quelle recinzioni un varco,
seppur simbolico, entro cui far passare la rabbia e la speranza di quattro
quinti del pianeta cui viene negata una vita dignitosa. L'annuncio d'esser
contro, non genericamente contro la globalizzazione, ma precisamente contro come
essa è governata (privatizzando i privilegi e globalizzando le perdite),
allerta il corteo dei clandestini per un giorno sovrano delle strade che, armato
di solidi argomenti, lancia un invito provocante alla polizia: "Disertate.
Non fatevi usare come carne da macello".
Cristo si è fermato a Genova
Giovedì 19 luglio
Arrivo a Genova nel pomeriggio per partecipare alla manifestazione dei migranti.
Mi unisco alla moltitudine di persone, è un corteo veramente vivace, la gente
canta, balla, grida slogan di ogni tipo, alcuni simpatici. E' una festa
colorata, variegata che contagia i pochi Genovesi rimasti in città. Vedo tanti
Bar aperti sul percorso, pacificamente invasi in cerca di un refrigerio. E'
proprio un buon segno, penso dentro di me ma sono pochi gli immigrati
presenti…il clima di paura dei giorni precedenti ha raggiunto i suoi
obiettivi.
Raggiungo la Chiesa di Boccadasse, luogo dell'iniziativa inter-religiosa di
preghiera-digiuno durante il summit del G8. Anche se è tardi con mia grande
sorpresa trovo la chiesa piena, con tanta gente in piedi: sono molti i giovani e
tra di loro tante suore e sacerdoti e missionari. Sospeso sull'altare ritrovo
dipinto su un grande drappo il "Cristo campesino".
L'immagine è bella, significativa, profetica: riassume bene la sofferenza dei
popoli impoveriti, messi in croce oggi da un sistema ingiusto. Le frasi scritte
sul drappo completano il messaggio indirizzato non solo ai potenti della terra
radunati a Genova, ma ad ognuno dei partecipanti perché si attui un vero
gemellaggio con il Vangelo dei poveri.
Venerdì 20 luglio
Iniziamo la giornata con la preghiera del mattino, è su uno "scoglio"
appena sotto la Chiesa, davanti a noi c'è il mare di Genova, il vento spazza
via la pioggia della notte.
Siamo convocati dai rappresentanti dei popoli dell'Oceania, dell'Africa,
dell'Asia e dell'America Latina. I canti, i vari segni, le preghiere ci
introducono in una dimensione universale attraverso le particolarità di ogni
continente. Viviamo dei momenti nei quali la preghiera tocca veramente il cuore
e scuote i sentimenti dei presenti. Nella Chiesa ascoltiamo un altro messaggio
forte, è quello di p.Alex Zanotelli da Nairobi, anche se la sua voce è
registrata ci sembra di ascoltarlo dal vivo. Snocciola dati, statistiche che in
bocca ad un politico o ad un economista avrebbero annoiato, invece Alex ce le
comunica attraverso i volti di persone, le storie e le situazioni concrete. I
passi della parola di Dio diventano d'improvviso di una concretezza disarmante.
"E' tempo di uscire dai conventi per portare in piazza il grido dei
poveri!". E' questo il suo invito e incoraggiamento ad essere presenti per
dare concretezza al sogno di Dio.
Verso le ore 16.00 durante un momento di pausa un gruppo (circa 200) di giovani,
gran parte vestiti di nero (la stampa li chiama i black block), armati di
bastoni, spranghe di ferro, caschi o volto bendato passa davanti la Chiesa,
sembrano tranquilli, alcuni si fermano a parlare, richiamati forse anche dagli
striscioni esposti fuori, domandano cosa stiamo facendo, hanno tanta sete e
chiedono dell'acqua che viene generosamente offerta… a un certo punto si sente
un fischio, questi improvvisamente scattano e in pochissimo tempo si compattano
e cominciano a devastare le facciate in vetro di una Banca a 200 m. da noi, i
cassonetti vengono ribaltati in mezzo la strada, vedo lanciare molte pietre
all'indirizzo di tanti agenti delle forze dell'ordine rimaste prudentemente a
distanza in una via laterale, ferme, tranquille…li lasciano fare! Intanto
erano giunte le voci di scontri, di devastazioni e di gravi incidenti in città.
Decido di andare a vedere, cammino per delle vie devastate, mi rendo conto della
gravità, della tensione che si respira un po' ovunque: auto ribaltate e
bruciate, fumo nero che si alza in più parti, si odono sirene di autoambulanze,
vigili del fuoco, della Polizia che corrono verso varie direzioni. E' per caso
che arrivo in piazza Alimonda, c'è ancora una forte tensione, da una parte un
centinaio di agenti dall'altra un gruppetto di ragazzi che gridano,
insultano…all'inizio non riesco a capire cosa succede fino a quando vedo un
corpo steso per terra, coperto da un lenzuolo bianco inzuppato di sangue. Si
chiamava Carlo Giuliani, un giovane di vent'anni.
Un po' per la stanchezza ma anche per lo sconcerto mi ritrovo seduto anch'io per
terra con la testa tra le mani, mi sforzo di controllare l'emozione e il pianto.
Cerco di avvicinarmi al cordone dei poliziotti perché penso che quella giovane
vita spezzata meriti "ugualmente" una preghiera e una benedizione ma
vengo allontanato bruscamente prima ancora di presentarmi. Da lontano prego per
lui e lo benedico pensando soprattutto alla sua famiglia.
Assisto alla rimozione del corpo, subito dopo la polizia per disperdere la folla
fa uso di lacrimogeni, mi trovo in mezzo anch'io, con la gola e gli occhi che mi
bruciano scappo via.
Ritornando alla Chiesa di Boccadasse dentro di me noto il contrasto di
sentimenti, emozioni di appena qualche ora prima con quanto stava emergendo in
questi attimi: impotenza, rabbia, delusione, amarezza, pietà per la morte di
questa giovane vita, il G8 che probabilmente in quello stesso momento
banchettava lautamente nel loro palazzo impenetrabile.
Sabato 21 luglio
La conferma della manifestazione popolare del Genoa social forum la si vede
dalle prime ore della mattinata. E' tanta la gente che scende a piedi lungo lo
stupendo viale di corso Italia che costeggia il mare. La Chiesa di Boccadasse è
proprio situata sul percorso previsto ed è un punto di riferimento, non solo
per orientarsi ma anche per moltissimi manifestanti: chi si ferma per curiosità,
chi entra e sosta per pregare qualche istante per poi riprendere il cammino.
"Il grido dei poveri scuote la nostra coscienza", è uno degli
striscioni appeso sulla fiancata.
Difficile ignorarlo, è un forte richiamo per tutti, credenti e laici.
"Come andrà oggi?" E' la domanda che in tanti ci poniamo, bisognerà
attendere le prime ore del pomeriggio per avere la risposta chiara e con essa le
polemiche, gli inevitabili scambi si accuse.
Non entro in merito, il dibattito è ancora in corso e immagino che lo sarà per
non poco tempo.
Sento di condividere la tesi che la stragrande maggioranza dei partecipanti del
Gsf ha manifestato pacificamente e che ha voluto essere presente per un atto di
civiltà e di giustizia.
Senz'altro questa iniziativa popolare nonviolenta ha dato fastidio a tanti,
soprattutto ai potenti che non vogliono essere disturbati e hanno fatto di tutto
per farla fallire e metterla in cattiva luce.
Come mi ha fatto un enorme dispiacere vedere tutta questa devastazione operata
da una minoranza, lasciata indisturbata in questa loro opera vandalica,
altrettanto mi sorprende l'operato delle "Forze dell'Ordine" che hanno
agito con violenza - spesse volte gratuita - verso tanti manifestanti pacifici e
indifesi, che si sono trovati tra due fuochi, quello delle "tute nere"
che aggredivano i manifestanti e quello della polizia.
Certo a Genova abbiamo assistito ad una battuta di arresto, tutti quanti,
soprattutto per quelle associazioni, movimenti, laici e religiosi che si
impegnano perché sia possibile cambiare questo mondo…secondo quel Sogno di
Dio che ha come fondamento la giustizia e il rispetto verso tutta l'umanità e
il creato.
"I figli di questo mondo, infatti, verso i loro pari sono più scaltri dei
figli della luce" ebbe a dire Gesù nel suo tempo, ahimè ci tocca
constatare che questo vale anche per il nostro oggi. "Non abbiate quindi
niente in comune con loro…comportatevi perciò come i figli della luce, il
frutto della luce consiste in ogni bontà, giustizia e verità. Cercate ciò che
è gradito al Signore, e non partecipate alle opere infruttuose delle tenebre,
ma piuttosto condannatele apertamente, poiché di quanto viene fatto da costoro
in segreto è vergognoso perfino parlare. " ( Ef.5, 7-13)
p.Agostino Rota Martir - Coltano (PI), campo nomadi
Succede
Succede che ribolli dentro perché il mondo che ti vedi intorno non
ti piace. Neanche un po'.
Succede che ti senti solo, che nonostante la tua rabbia navighi assonnato nella
tua tranquillità a fari spenti, e pensi alle tue idee e ai tuoi sogni con
nostalgia, come a un qualcosa che è fuori tempo, che non importi più a
nessuno, meno che mai a qualche partito politico.
Succede poi un giorno in cui vedi altri ragazzi come te che sfilano in una
piazza di una città lontana, a migliaia, con il coraggio di portare la loro
indignazione per le strade, manifestando il loro dissenso come una speranza.
Succede che ti informi, che segui un po' cosa si sta preparando, poi, quando
l'appuntamento è nel paese in cui vivi, allora prendi un pullman e ti ritrovi a
Genova, ad urlare anche tu il tuo dissenso in un'aria di festa, insieme a
300mila altre persone venute da tutta Europa, e vedi giovani, anziani, bambini,
preti e suore, persone di tutte le classi sociali che sfilano in corteo e
sorridono e cantano e ballano e in mezzo a tutto quel trambusto, tra voci, suoni
e colori, capisci che non sei più solo, capisci che qualcuno che condivide le
tue idee e le tue rabbie c'è, e che sono tanti, in tutto il mondo, e per un
momento capisci anche cos'è la speranza, e senza sforzo te ne appropri con lo
stesso sorriso che ammiri intorno a te, e alzi gli occhi al cielo.
E in quel momento vedi un elicottero della polizia, due elicotteri della
polizia, tre elicotteri della polizia che si abbassano lentamente sulla tua
testa, la loro ombra cala su di te come una minaccia ma tu li guardi con
stupore, e la curiosità non si mischia ancora alla diffidenza quando da uno
degli elicotteri si stacca e viene giù con la sua scia di fumo un proiettile
che cade a poca distanza da dove sei tu, in mezzo ad altre persone che ripiegano
il loro sorriso velocemente, e poi sono altri i proiettili che ti sfiorano e che
colpiscono vicino, alcuni dal cielo, o da quel poco che ancora è cielo, altri
chissà da dove, sembra dal mare.
E' il caos, il panico ti invade e non vedi più niente, tutto è bianco intorno
a te e la gente sembra scomparsa tra nuvole cadute improvvisamente a terra, non
fosse che per il frastuono, e le urla e le spinte che ti sbattono da una parte e
dall'altra in un ammasso di corpi imbizzarriti, gli occhi sono una sorgente
inesauribile di lacrime e la gola ti si stringe, ed è paura.
Poi, quando il fumo si abbassa finalmente e le lacrime cominciano a rallentare
il loro corso, quando cominci a distinguere cose e persone dalle masse sfuocate
che intravedevi prima, e credi d'esser salvo, vedi i poliziotti che ti corrono
addosso, rabbiosi, sbattendo i manganelli sugli scudi, puntando gli
spara-lacrimogeni ad altezza d'uomo, urlando, e vedi le persone che prima ti
erano accanto in festa inginocchiate per terra con le mani alzate in segno di
resa, o sdraiate per terra con la faccia sulla strada, totalmente inermi, che
sono pestati, massacrati, quattro-cinque poliziotti per ogni manifestante, e
calci e urla e sangue, dappertutto, e non ci sono distinzioni, giovani, vecchi,
donne e boy-scouts, disabili in carrozzina terrorizzati ed ovunque quell'odore,
quell'odore forte di bruciato, di sangue, di sudore, di paura, e di orrore.
Riesci a salvarti dal massacro solo per fortuna, la fortuna di aver trovato
compagni più esperti di te che ti hanno protetto, scortato, guidato tra i resti
di quella che era una festa e che è stata profanata da una violenza tanto
rabbiosa quanto immotivata.
Riesci a raggiungere il pullman e sali sconsolato e mentre il paesaggio sfila
davanti ai tuoi occhi e a poco a poco ridiventa familiare le domande ti si
accalcano nella testa frammiste a immagini diverse, alcune atroci che vorresti
dimenticare, altre strane, legate ad una sensazione di inquietudine che non
riesci a classificare, fotografie che pensavi di non aver scattato e che invece
ricordi con chiarezza, come quella persona vestita tutta di nero (ma con delle
buffe veline bianche in testa per coprirsi dal sole), che colloquiava
tranquillamente con dei poliziotti, e che poi hai visto infilarsi nel corteo dei
"cattivi" del Black Block, oppure quell'immagine sbiadita dal fumo con
i poliziotti che guardavano e commentavano tra loro gli uomini in nero che
stavano appiccando il fuoco a una macchina, e ora, sì, ora hai anche la
sensazione, ben precisa, di ricordare delle macchie nere che ti hanno sfiorato
con un tocco gelido mentre eri ancora dentro alla nuvola di fumo, e le cariche
della polizia non erano ancora cominciate, e subito dopo quella ragazza che
scappava dai poliziotti, raggiunta e percossa con violenza sulla nuca da quattro
di loro che hanno continuato ad infierire sul suo corpo crollato a terra senza
sensi.
Sei un misto di rabbia, paura e delusione, e impotenza. Non riesci ancora a
formare pensieri logici per quello che è accaduto, l'eccitazione della giornata
si scioglie improvvisamente e il tuo corpo si rivela allo stremo delle forze, la
stanchezza sopisce anche la rabbia e chiudi gli occhi.
Poi succede che arrivi a casa e accendi la televisione, e il tuo mondo si
rovescia. E' ancora sangue quello che vedi, il tuo stesso sangue che sporca le
barelle delle ambulanze schierate all'ingresso della scuola in via Diaz, la sede
stampa del Gsf, dove entrano poliziotti ed escono volti tumefatti, che non
diresti umani, ragazzi ancora chiusi nei sacchi a pelo, massacrati nel sonno,
con gli occhi sbarrati ancora a chiedersi cosa gli sia successo. Guardi queste
immagini e ti chiedi se non ti abbia rapito uno di quei tuoi sogni di fascisti e
partigiani, e allora, perplesso, ti metti ad aspettare l'irruzione dall'alto dei
buoni con gli Sten in mano, ma è di nuovo una scia di sangue quella che ti
riporta alla realtà, l'impronta di una testa sanguinante trascinata sul muro
delle scale, e devastazione all'interno della scuola occupata, vetri rotti,
tutti i computer distrutti da una furia cieca che non ha risparmiato
parlamentari, avvocati, giornalisti e fotografi, scacciati fuori a colpi di
manganello dalla polizia e tenuti alla larga dall'incursione devastatrice.
E allora, improvvisamente, capisci, come una freccia ti si conficca nella testa
un'idea, che subito diventa convinzione e tutto comincia a ricomporsi come in un
puzzle, ogni pezzo al suo posto, ogni domanda trova la sua risposta, la stessa
per tutte le domande, le strane immagini che hai visto a Genova, le immagini
della televisione e l'odore acre dei lacrimogeni, e allora quel senso di
inquietudine che sentivi in pullman ti si trasforma lentamente in una rabbia che
sale e ti scuote dentro, una rabbia che ti fa capire che da ora niente sarà più
come prima, perché Genova era una "trappola" orchestrata per
massacrarti e uccidere i tuoi sogni, per umiliarti e distruggerti, e capisci
anche che sei stato usato, che hai fatto la comparsa in un film magistralmente
diretto e preparato da tempo e di cui non sapevi nulla, un copione scritto con
il tuo sangue in cui tu eri la vittima ed il carnefice, ed è uno schiaffo,
improvviso, quello che senti ora, e che ti riporta alla realtà, uno schiaffo
che ti fa spalancare la finestra con forza ed urlare la tua rabbia al vento.
Il giorno dopo è ancora rabbia.
Rabbia per quelle 300mila persone che sono convenute da tutta Europa a Genova
per manifestare il loro dissenso e raccontare il sogno di un mondo diverso, e
che nonostante i moniti di tutti i partiti politici sono scese in piazza ad
urlare la loro voglia di libertà, e che sono state pestate per strada,
massacrate nel sonno.
Rabbia per tutta quella gente che ha lavorato per mesi in vista di questo
appuntamento, che ha creduto fino in fondo che fosse possibile discutere
pacificamente con le istituzioni, parlare ai cittadini, agli uomini di tutta la
terra convinti che il messaggio potesse arrivare, convinti di vivere in una
democrazia in cui la libertà di parola, la libertà di stampa, la libertà di
aggregazione e la libertà di manifestare le proprie idee e portare la propria
coscienza civile per le strade fossero tutti diritti inappellabili ed
indiscutibili.
Rabbia per Carlo Giuliani, una vita spezzata a ventitré anni da un governo
assassino che ha mostrato subito il suo volto rabbioso e feroce, che non ha
esitato ad usare la violenza dei manganelli e le armi da fuoco per spezzare il
dissenso.
Rabbia e indignazione, infine, per le immagini mistificate e le notizie
edulcorate, riviste e corrette dei telegiornali, dirette a ribaltare e
distruggere la verità di ciò che è successo, rabbia nel sentire i comunicati
e le interviste dei politici, di governo e non, e dei capi della Polizia,
indignazione per la presunzione con cui essi hanno cambiato totalmente la
versione dei fatti, con il sorriso beffardo della canaglia sulle labbra, di chi
comunque la passerà liscia.
Non la passeranno liscia, no, perché la tua rabbia glielo impedirà, perché
ora hai capito le regole del gioco e non cadrai più nelle loro trappole, ma
farai di tutto per combatterli, con la tua moralità, con la tua coscienza di
uomo che non accetta limiti alla sua libertà. Dai uno sguardo alle colline, e
ricordi la voce di un vecchio partigiano che diceva: Ora e sempre Resistenza!
Marco Rufini
Io c'ero e ci sarò ancora
Ciao, mi chiamo Roberta, 34 anni, infermiera genovese.
Nei lunghi giorni in piazza io c'ero, facevo parte di un gruppo di sanitari del
Gsf.
Non sto a raccontarvi quello che ho visto perché non farei altro che ripetere
cose già ben conosciute.
I massacri, i pestaggi, gli insulti delle forze dell'ordine: tutto tragicamente
vero!
Io a Genova vivo da sempre e continuerò a viverci pero' adesso ho paura!
Facce di Genova
Ho sempre avuto una propensione per la storia. Non solo: mi piacciono
le storie che nessuno racconta. E così recupero dal passato le reliquie
dimenticate o sotterrate con la fretta di chi è colpevole. Per la prima volta,
però, scopro che anche una realtà immensa e presente può scomparire: sabato
attraversavo piazza Ferraris verso le 8 di sera e pensavo che solo quei resti di
battaglia campale avrebbero fatto parlare di sé. Su un muro i black blockers
avevano scritto la sentenza definitiva: "Voi fate i piani. Noi la
storia". Era vero. Perché la cronaca del G8 li ha resi protagonisti
assoluti della protesta, fino alla beffa finale: Berlusconi tira le somme del
blitz notturno alla scuola Díaz e comunica al paese la complicità di
manifestanti e neri. Fine della storia.
Non sono mai riuscita a quantificare le persone, quindi mi fido delle stime
ufficiali: tra 250 e 300 mila persone, una città nella città. Con il rumore me
la cavo meglio. E a Genova ci siamo fatti sentire: troppo rumore per essere
schiacciato dal silenzio della pubblica informazione.
Punta Vagno, ore 10.30 circa, forum moderato da Riccardo Petrella: uniti contro
il debito, vera malattia endemica del Terzo Mondo, con l'applauso interminabile
al professore di Carlo Giuliani e la promessa di nessuna vendetta. Ho sentito
proposte di unione dei movimenti e delle idee allo scopo di costruire
un'alternativa sufficientemente forte da intaccare un sistema che non può e non
deve essere ineluttabile.
Nel frattempo sfilavano alla spicciolata gruppi di greci e francesi diretti al
corteo: una donna di almeno 75 anni apriva uno stuolo greco e inneggiava alla
libertà in un italiano stentato. Impossibile non pensare al lungo viaggio di
quella donna con il foulard rosso. Ecco cosa mi capita: mi soffermo sui
particolari. E' l'unica cosa che mi riesce negli avvenimenti di massa. Potrei
descrivere un corteo di particolari.
Ho visto pochi assonnati indugiare ai bordi della strada, mentre risalivamo
corso Italia, incontrando gruppi sempre più nemerosi di persone. E poi la
musica (Rage Against) e il furgone degli studenti e tanta, tantissima gente. Era
l'inizio della marcia contro i Grandi.
Ed è tutto presente. Qui ed ora. Ritrovo i greci del mattino, scopro un gruppo
di turchi, mi dicono che ci sono dei kurdi, sento i francesi inneggiare in
spagnolo e i greci in inglese. Non c'è un solo coro e più gruppi si uniscono
più aumentano le voci del dissenso: è il rumore di un popolo in cammino,
inerme, nell'incertezza di chi muove i primi passi della marcia. Emozione tutta
personale per la presenza di Valerio Mastandrea, ma non basta per convincermi a
lasciare il gruppo compatto della Rete di Lilliput: serve la banda e la
complicità dell'amico di sempre. Non c'è protesta senza musica di protesta e
non ho mai saputo resistere al richiamo malinconico della banda. Di fianco a me
un uomo dell'Arci, con due bandiere che porterà per tutto il corteo; davanti un
trampoliere; dietro due ragazzi che tentano a fatica di far avanzare un albero
di stoffa issato su una barca, allegoria di un'umanità che affonda; più avanti
due angeli con ali di carta che parlano di giustizia, dignità e accoglienza. In
fondo c'è Cusani, carcerato d'eccezione in protesta contro la violenza. Sfilano
funghi giganti e mucche stanche del mangia-mangia. E la banda continua a
suonare. L'uomo con il tamburo è scalzo e subito mi ritrovo a pensare che non
ci sia nulla di più coerente che sfilare in un corteo pacifico senza scarpe. Il
coro ora è un canto all'unisono e la moltitudine si fa sciame indissolubile.
Non so che ore si siano fatte, forse le 14:30, o giù di lì: all'orizzonte il
fumo incessante dei lacrimogeni, ma si prosegue. Un po' di paura all'incrocio
con via Torino. Un gruppo di neri sta retrocedendo da piazza Kennedy: il corteo
si spezza, ma tutti si uniscono in un cordone umano contro le infiltrazioni. Due
giovani, visibilmente apparteneti al gruppo nero, frantumano una vetrina e
scappano, raggiunti dalle grida di dissenso di tutti i manifestanti. Entriamo in
via Torino, per unirci all'altro cordone dei no-global, sperando di evitare la
carica che sentiamo molto vicina. Chiediamo di entrare in un corteo di gente che
si tiene per mano: cessato pericolo. Dietro di noi, in lontananza, di nuovo la
musica: la banda è riuscita a passare. E ricomincia la festa. La grande festa
al G8.
Ancora facce amiche a Genova, come le donne affacciate alle finestre, che
lanciano secchiate d'acqua rigeneratrice su una strada che non è più asfalto,
ma è gente che grida: "Genova libera!". Un giovane si affaccia e ci
saluta: porta Che Guevara sulla maglia e un sorriso di condivisione.
E poi l'esplosione di grida e applausi sotto quel ponte che si era fatto
conoscere per gli scontri del giorno prima. E quella certezza che solo
l'appartenenza a un popolo sa dare, quando l'identità del singolo è quella di
tutti. Ci sediamo per goderci la sfilata di quei gruppi che hanno perso lungo la
strada il proprio nome e la propria nazionalità: non ci sono più comunisti e
cattolici, non ci sono ambientalisti e zapatisti, non ci sono evangelici né
sindacalisti, non ci sono italiani, non ci sono spagnoli, né turchi, né greci,
non ci sono inglesi né tedeschi. E allora il primo scopo è stato raggiunto: è
un'onda in piena, che dimentica le differenze per colpire più duro le
coscienze.
Ormai quasi tutti hanno raggiunto piazza Ferraris, ma l'odore dei lacrimogeni ci
avvisa di una nuova carica e così ci disperdiamo prima che i black arrivino a
rovinarci la festa.
Ed eccoci, piazza Ferraris, dopo la battaglia degli sciacalli, che sembra
essersi spazzata via anche le tracce di una grande manifestazione di solidarietà
umana.
Chiapas, 1998: uomini, donne e bambini di un villaggio indigeno senza nome,
armati solo della propria voce, fermano i carri armati dell'esercito messicano.
Il mondo non lo saprà.
Genova, 2001: 300mila persone dicono basta! Facciamo che se ne parli.
Caterina Stefanazzi
Questo è quello che ci hanno fatto Questa e' la testimonianza delle
violenze da parte delle forze dell'ordine subite da me,e altri che erano assieme
a me,nel giorno di venerdì 20. Fatene ciò che meglio credete, tenendomi
informato, possibilmente, sugli eventuali sviluppi
Ciao
Francesco Mason
Fuggiti, nauseati dalla loro violenza, dalle file dei black block, di
cui posso testimoniare la completa libertà d'agire (una vera e propria licenza
di distruggere assegnata loro da un lassismo delle forze dell'ordine troppo
generalizzato per poter essere valutato come non intenzionale) assieme ad sei
altri amici ci raduniamo presso i gazebo di rifondazione comunista e degli
agricoltori, di fronte al piazzale kennedy, vicino ad una grande fontana
circolare.
Dopo aver subito un prima carica della polizia, direzionata a dire il vero, non
su di noi, ma su una coda d'un folto gruppo, per lo più formato da cobas e cani
sciolti del gruppo nero, che stava defluendo nella direzione opposta (verso il
lungo mare), carica farcita da una discreta quantità di lacrimogeni senza alcun
senso né scopo, sia perché sparati su un drappello di persone che stava
muovendosi in direzione contraria alla posizione dello schieramento armato, sia
perché, comunque, i suoi effetti commoventi- un po' a causa del vento contrario
un po' della distanza tra polizia e manifestanti- si sono poi riversati solo su
di noi e coloro che, come noi, stavano pacificamente presidiando i pochi beni e
gli spazi assegnati al partito e ai contadini. Dopo questo velleitario atto di
forza la polizia ritorna nella sua ubicazione iniziale, un centinaio di metri a
destra di noi mentre i manifestanti continuarono a muoversi, molti in cerca di
pace dalla confusione e violenza sviluppatasi nel centro di Genova. Passarono
una decina di minuti in cui credemmo, illusi!, che alle 15 potesse essere tutto
finito, eravamo ormai stanchi, sazi di ciò che avevamo visto, ma il bello
doveva ancora arrivare: in fondo a destra dietro lo schieramento dei
carabinieri, si mossero almeno 6 carri armati e un buon numero di furgoni
blindati.
Seguendo uno sparuto gruppo di tedeschi io e 3 miei compagni decidiamo di fare
un sit-in di fronte le forze dell'ordine allo scopo di bloccare il
largo viale di fronte a piazzale kennedy al loro passaggio; abbiamo modo di
chiarire con uno dei loro superiori le nostre intenzioni assolutamente non
violente e il loro scopo: lasciare che i manifestanti defluiscano e si
disperdano senza ulteriore, inutile, violenza.
Per circa una ventina di minuti tutto fila liscio, nello spazio tra noi e i
militari si esibiscono dei giocolieri, per caricarci intoniamo tutti assieme
(gendarmi esclusi) "Bella ciao"; a un certo momento scatta perfino un
applauso verso le forze dell'ordine che depositano gli scudi: purtroppo è una
falsa gioia, il gesto non significa fine delle ostilità, ma è soltanto
funzionale a quello d'indossare le maschere anti gas.
Da qui inizia la follia.
Un primo drappello di non più d'una ventina di persone in divisa si stacca
dallo schieramento, riesce a superare a piedi il nostro cordone, che, sebbene
notevolmente infoltito con il passare del tempo, non riesce a coprire tutte le 4
corsie del viale; lì lasciamo passare limitandoci ad applaudirli, non vola una
pietra ne volerà nei momenti successivi.
Poco dopo le file dei carabinieri si aprono nuovamente per far passare un carro
armato (impossibile chiamarlo diversamente solo perché non è dotato di
cannone)e due furgoni blindati. Mi alzo e vado a parlare con l'ufficiale che
sembra avere il comando della situazione, lo invito nel modo più gentile che mi
riesce a ritirare quei mezzi palesemente inutili che avrebbero suscitato solo il
risultato di far saltare a tutti i nervi, già abbastanza sollecitati dalle
vicende della mattinata; il milite, ignoto, mi risponde altrettantanto
gentilmente che il cingolato non serve a contrastare i manifestanti ma soltanto
a portare i panini ai suoi compagni impiegati dietro di noi. Credo che qualunque
commento a questa affermazione sia superfluo. Ci risiediamo a terra, il tank si
muove, cerca di schivarci deviando la sua marcia su un'altra corsia, noi ci
alziamo e ci poniamo in una mezza dozzina di persone forse più di fronte al
mezzo a mani alzate; drappelli simili si creano davanti agli altri due mezzi
blindati.(ricorda una scena già vista, con meno personaggi, proveniente da uno
stato che pensavo nemmeno comparabile, per quanto riguarda la tutela dei diritti
umani, alla nostra Italia).
Il carro armato sobbalza un paio di volte- ho ancora in mente lo sguardo del
carabiniere alla guida, mentre mi guarda dritto dal parabrezza, sembrava
drogato- e poi parte a manetta, tra le urla di chi si trova appiccicato alle sue
lamiere; non so come io abbia fatto a gettarmi di lato, ero tra i più al
centro, credo che qualcuno mi abbia tirato per la maglia, nella fuga m'è
perfino rimasto attaccato l'orologio alla carrozzeria del mezzo: per spudorata
fortuna la cinghietta si è rotta, liberandomi da una presa che poteva risultare
fatale (orologio andato perso, presumibilmente schiacciato in mia vece del
valore di circa 150.000,chissà se i danni mi saranno risarciti dal governo!?).
Episodi identici si sviluppano davanti ai due blindati: in un caso un giovane,
che non era riuscito a schivare, riamane appeso al parabrezza del furgone e
viene portato avanti, urlante, per una quarantina di metri a tutta velocità;
solo il frapporsi della folla alla corsa del mezzo gli permette di scendere.
Non so come, in quei lunghissimi istanti, non ci sia scappato il morto; se
credessi ai miracoli penserei a uno di quelli; a quanto risulta dai giornali, in
un'altra strada della stessa città, una giovane straniera ha avuto meno fortuna
di noi ed è stata investita, ora è in coma. Voglio, di nuovo (ma credo sia
necessario date le parole dei capi delle forze dell'ordine in questi giorni)
precisare che, in tutta la durata dei fatti descritti non una pietra è stata
lanciata, né sono stati usati bastoni o alcun oggetto atto a offendere, ancora
meno molotov o armi; ci sono solo stati ragazzi e non solo che hanno frapposto i
loro corpi alla violenza indiscriminata di presunti tutori dell'ordine (quale?).
Tutto ciò che ho scritto sono pronto a testimoniarlo in qualunque sede, e credo
possano e vogliano farlo anche coloro che erano con me. Disponiamo di alcune
foto, ma non dei momenti cruciali; comunque se ben ricordo dovevanoesserci
numerose telecamere a filmare i fatti; intorno a noi si trovava almeno un
centinaio di persone, compresi avvocati e giornalisti.
La penna corre
Sono stato a Genova per la manifestazione del 21luglio, grazie al
pullman organizzato da ''il manifesto''. Beh, quando sono tornato a casa,
nonostante la stanchezza e il nervoso, perché giunti a Roma nel cuore della
notte (2.00) quando la stazione Termini era ancora chiusa (sono poi partito alle
5.30 da Roma per Napoli), la penna correva più veloce del sonno. Ho pensato di
affidare a voi il mio sfogo, perché parliamo lo stesso ''linguaggio'' e siete
fra i pochi ad aiutarmi a sentirmi meno isolato. Per risultare più vero e
diretto avrei potuto scrivere di mio pugno piuttosto che affidarmi ad una fredda
e-mail, ma sarebbe stato necessario usare un fiume di.......CARTA!
Grazie alla vena creativa di Paolo Conte:
Genova per NOI,
Genova per chi non è inebriato dal profumo di un biglietto di carta;
Genova per chi resta indifferente a tutta la carta cui l'essere umano
un giorno ha deciso di assegnare un valore, un nome, un simbolo ($), un numero!
Quella carta con cui pochi hanno costruito la loro fortuna,
con cui pochi impongono la propria ricetta imperialista del benessere,
con cui pochi, quotidianamente, calpestano i sogni e le speranze di tanti,
comperandone la vita.
Allora Genova per chi subisce, prende coscienza, si organizza e reagisce;
Genova per chi vive coltivando semi di speranza, libertà e giustizia sociale. Affinché possano metter radici e chissà, un giorno, sbocciare desideri e sentimenti troppo grandi per essere rinchiusi nel loro ''Castello di Carta''.
Genova per chi contrappone, a questo mondo di celluloide fittizia, il proprio ideale di equità; per chi cerca di costruire un dialogo contro l'arroganza e la sopraffazione; per chi informa correttamente, facendo vacillare il telaio su cui è rilegata tanta di questa carta: i mezzi di informazione!
Genova per chi valuta il progresso non in funzione dei profitti, delle cifre, dei fatturati, della carta appunto, ma per chi è in grado di meravigliarsi ancora, per chi ancora si colpisce nell'apprendere degli sforzi, delle sofferenze, dei sacrifici di chi lavora, sfruttato, per rendere più alti tali numeri.
Genova per chi vuole chiedersi, ad esempio, cosa si cela dietro i sorrisi imposti e di circostanza degli operai delle multinazionali del cibo serializzato (McDonald's e non solo);
Genova per chi vuole chiedersi come possa accadere che un bambino nasca ereditando debiti non suoi, condizionando la propria esistenza e lo sviluppo del proprio paese, relegato nella miseria e nell'indigenza. Laddove viene meno ciò che per principio dovrebbe essere garantito a tutti: non già il benessere, ma la sopravvivenza!
Genova per chi vuole indignarsi di fronte alla decisione dei grandi imperi farmaceutici, detentori dei brevetti sui medicinali atti alle cure dei malati di Aids, di non produrre gli stessi, perché troppo costoso, in quei paesi africani con il più alto tasso di casi. Il che costringe tali paesi alla fabbricazione "fai da te" con tutti i rischi che questo comporta……
Genova per chi vuole opporsi alla distribuzione di cibi geneticamente modificati, già presenti sui nostri scaffali, il cui scopo è quello di ridurre i costi di produzione, aumentare i ricavi e danneggiare "involontariamente", per carità, la nostra salute;
Genova per chi vuole opporsi allo sfruttamento intensivo della Terra, mediante colture nelle quali è previsto l'uso di pesticidi e prodotti che contribuiscono ad inquinare il territorio, le falde acquifere, noi stessi!
Nel "sud del mondo" ciò avviene costantemente con spaventosa regolarità ed indifferenza della cosiddetta società civile.
L'esistenza del Castello di Carta impone tutto questo. Ogni giorno, insomma, provvedono ad ingrandire il castello, aggiungendo una carta (un bigliettone verde) nelle casse alloggiate qualche parallelo più su dell'equatore, sottraendola a quelle, già deficitarie, che si trovano appunto nel "sud del mondo". Quando quest'ottusità raggiungerà il suo apice, la costruzione, ormai priva di fondamenta, crollerà.
Allora ben venga Genova per chi vuole contribuire a sradicare questa cultura, iniziando a cambiare i propri stili di vita: "consumando meno e con intelligenza, acquistando i prodotti garantiti dal commercio equo e solidale, investendo i propri risparmi in 'finanza etica', destinando qualche ora del proprio lavoro a chi è meno fortunato, etc…" (da Jubilee 2000 Coalition).
Ben venga Genova per chi non ha vergogna di scrivere e gridare agli altri
queste cose "già sentite" e mai affrontate, non si ha la presunzione
di sognarle risolte.
E ben venga Genova per chi accetta di vivere considerando la propria vita e il
mondo in cui abita, non un'eredità dei propri padri, ma un prestito dei propri
figli. Trovando sempre la forza di battersi anche per chi vivrà dopo di noi.
Finché quest'ideale vivrà, CARLO vivrà!
AQUì ESTAMOS
KOBA
Suvvia non siamo mica in Cile
Sono stata a Genova solo sabato 21 luglio.
Sono arrivati lì il mattino prestissimo, in una bellissima giornata di sole.
Non ero tranquillissima, però: il ragazzo morto il giorno prima mi aveva
profondamente scosso e al telefono, mia figlia che era lì da giovedì sera, mi
aveva raccontato di cariche e pestaggi; lei ed il suo gruppo (che aderiva al
Genoa social forum) erano stati inseguiti dalla polizia che li aveva poi
continuamente tenuti sotto controllo per tutta la notte creando tensioni molto
forti. Mi aveva parlato di questi blak-bloc che imperversavano per la città e
che cercavano in tutti i modi di mischiarsi con il movimento pur se tutti li
allontanavano. Quando è iniziato il corteo le sensazioni negative sono
aumentate: troppa polizia in assetto da "guerra", troppe camionette,
troppi manganelli, troppe armi!
Ma mi sono detta "usa il cervello crederai mica che la polizia attacchi un
corteo pacifico e democratico. Suvvia non siamo mica in Cile"
E invece l'ha fatto!
Ha attaccato ,scientemente, tutte le persone che insieme a me nello spezzone
della Marcia e negli spezzoni vicini(la Fiom genovese, il Prc di Roma, la
Federazione Anarchica italiana, ecc.) avevano sino ad allora manifestato
pacificamente .
E' stato terribile. Ho partecipato a tanti cortei e manifestazioni, anche
difficili, ma non ho mai provato la paura (letteralmente paura) che ho provato
sabato.
Due riflessioni ,da questa esperienza:
1. si è voluto attaccare tutto il movimento per indebolirlo e frantumarlo. Il
movimento composito che , da Seattle in poi, aveva saputo rimettere insieme i
soggetti che la globalizzazione liberista aveva , sul piano sociale, separato fa
paura ai potenti del mondo. Il movimento che , pur nelle mille anime che lo
compongono, individua a Porto Alegre la possibilità di un progetto politico
comune per la costruzione di una altro mondo, e fa saltare il dominio del
pensiero unico riaprendo la strada ad un positivo e democratico conflitto è
visto come fumo negli occhi da chi vuole continuare a fare,indisturbato,
profitti globalizzati. Proprio per questo è necessario che il movimento non si
disperda ma al contrario, si rafforzi rinsaldando i legami al proprio interno
(senza perdere nessun "pezzo") ed aprendosi il più possibile a tutte
le soggettività critiche. Sarà necessario, a questo proposito, rifuggire ogni
tentazione "militarista" : non c'è nessuna guerra da dichiarare c'è
da continuare a costruire una forza alternativa che sappia costruire le
condizione per una vita migliore.
2. il movimento delle donne deve stare dentro questi processi e questi percorsi.
Ci deve stare come soggetto politico che ha una propria analisi , un proprio
progetto e proprie modalità e che è in grado di interloquire autorevolmente ,
anche in modo conflittuale, con il resto del movimento. Ciò sarà possibile se
sapremo perseguire questa alleanza senza perdere la nostra autonomia di
elaborazione, di iniziativa e di mobilitazione. Occorre mantenere, allora,
quelli reti che ci consentono di produrre collettivamente elaborazioni,
iniziative e mobilitazioni. Mi riferisco in particolare alla Marcia delle donne
perché ho partecipato con la mente e con il cuore alla sua costruzione e perché
, per il sua carattere internazionale , assicura collegamenti assolutamente
necessari e desiderabili , ma penso anche alla Convenzione delle donne contro
tutte le guerre. Ma mantenerle non basta. Dovremo discutere in modo più
approfondito di quanto abbiamo fatto sinora di forme e di modi , sapendo che
potranno "piovere pietre" e che , quindi, dovremo saper essere punto
di riferimento anche per le donne(tante!) che sono ancora lontane da noi.
Proprio a partire da queste riflessioni ( non hanno la pretesa di essere niente di più) la paura che ho provato a Genova si trasforma in voglia di continuare ad esserci e in desiderio di continuare a costruire insieme a voi, e alle/agli che vorranno starci, parole e pratiche di trasformazione del mondo.
Vi abbraccio
Nicoletta
Ci siamo permessi di sognare
Vi racconto la MIA GENOVA. Sono cresciuta in una famiglia che prima di
tutto mi ha insegnato a credere nella giustizia. Che mi ha educato alla legalità.
Che mi ha insegnato l'amore per la società, che mi ha educato al valore del
volontariato, al rispetto del diverso. Su questi valori, con questi valori, sono
cresciuta e ho cominciato ad interessarmi del mondo che mi circonda, della sua
storia, la nostra storia; a cercare di capire le ingiustizie del mondo, le
cause, le possibili soluzioni. Il tutto credendo nella politica quale servizio
alla società per il bene comune. Credendo nella democrazia quale forma suprema
di tutela del valore più alto di tutti, la libertà dei singoli nel rispetto
gli uni degli altri. Ebbene: il mondo in cui vivo non mi va. riassumendo, non mi
piace sapere che troppa gente muore ogni giorno di fame. In poche parole, tra le
altre cose, ritengo che otto grandi (ricchi) non valgano sei miliardi di
persone. Che il G8, rappresentanza di un mondo dove il più ricco conta di più,
sia il simbolo (solo il simbolo!) di un sistema economico che schiaccia i più
deboli. Credo che l'uomo sia prima di tutto persona e non consumatore. Non sono
contro la globalizzazione, è un processo inarrestabile. Sono per una
globalizzazione diversa, che metta l'uomo, qualsiasi uomo, ricco o povero, al
primo posto, e non l'economia. Il discorso si fa complesso, condensare tutto in
poche righe è impossibile. Sono andata a Genova, solo per la manifestazione di
sabato 21 luglio, con la corriera organizzata da Rifondazione comunista solo
perché non sarei potuta partire i treni speciali (colpa del lavoro). I miei
compagni erano già là. Ci sono andata in jeans e maglietta. Sono arrivata di
mattina, una splendida mattina di sole. Azzurro il mare, azzurro il cielo, ma
azzurre anche le divise della polizia. Scendiamo dall'autobus in un clima
irreale di città vuota. E' ancora presto, ma ci incamminiamo verso piazza
Sturla. Piano piano cominciano ad arrivare gli altri manifestanti. Il corteo si
compone, comincia a sfilare pacifico, scendendo verso via Cavallotti. E' una
bellissima festa di popolo, perfino troppo pacifica, in tre meditiamo di
raggiungere i nostri amici che sono con le tute bianche e con gli "studenti
in movimento". Ma non è ancora il momento, ci andremo poi. E' un popolo
che si permette ancora di sognare. Inglesi, greci, italiani, spagnoli. Bandiere
rosse, bandiere arcobaleno che chiedono pace, dei sindacati, della campagna
contro il debito. I cori salgono al cielo riesumando vecchi canti di resistenza,
i tamburi scandiscono gli slogan. L'unico suono minaccioso è il ronzio delle
pale degli elicotteri e, in prossimità di una caserma, l'inevitabile coro
"assassini" rivolto agli agenti che, dall'alto, provocano. Il corteo
è composto anche di anziani, portatori di handicap in carrozzina, famigliole,
mamme. Ma soprattutto tanti, tanti giovani. A me viene in mente Gandhi. Diceva.
"che cosa ci importa se ci prendono per sognatori. ". Scendiamo in
corso Italia, costeggiamo il mare. Il corteo è stranamente lento. Ci arrivano
le notizie di alcuni scontri, in testa e in coda al corteo. Le vie laterali sono
tutte sbarrate dai celerini. Siamo stretti tra mare e cielo, non potranno
caricarci, non ne hanno il motivo, poi è un corteo troppo eterogeneo. I vari
spezzoni di corteo sono chiusi ai lati dai dimostranti che col loro corpo
costruiscono delle transenne umane per evitare l'eventuale infiltrazione di
questi fantomatici "neri". Ad un certo punto, verso la fine del corso,
i megafoni degli organizzatori danno l'alt. Non si capisce cosa avviene avanti a
noi, si vedono salire dei fumi, è piazzale kennedy. Ci sediamo per terra. Gli
slogan si susseguono: non-violenza, non-violenza, non-violenza. Poi i megafoni
dicono di alzarsi e indietreggiare lentamente, a mani alzate. Ci si cala sul
volto chi la kefia chi un foulard. Chi ce l'ha indossa il casco e gli occhiali
da piscina, contro i lacrimogeni. Inizia la danza dei limoni, antidoto contro i
lacrimogeni. Ma la maggior parte dei manifestanti non ha nulla di tutto ciò.
Sale la tensione. Se le prime file indietreggiano di corsa, c'è il rischio
dell'effetto tappo, ci schiacciano. meglio far loro posto. L'unica via di fuga
sarebbe il mare (!), ma anche lì la polizia sta sui gommoni. Poi, e sono forse
le 16.15, il delirio. Dalle prime file corrono indietro. Ci schiacciano contro
il muro. Si soffoca. Le folla terrorizzata scappa travolgendo tutto e tutti. Ci
si copre la bocca coi fazzoletti, arrivano i primi lacrimogeni. Non si respira.
Non si vede niente. Urla. Perdo la mia amica, rimane indietro. Io sono contro il
muro degli edifici. Le forze dell'ordine (!) spingono indietro prima chi si
trova sulla carreggiata.
Manganellate e lacrimogeni sparati ad altezza d'uomo. Alcuni di noi rimangono
accovacciati sul marciapiede o contro il muro e per il momento sono lasciati in
pace. Urla. Non si vede assolutamente nulla. Quando il fumo si dirada, complice
la brezza marina, vedo i celerini avanti, farsi largo a manganellate tra gente
che invoca di smetterla, gente A BRACCIA ALZATE, a volto scoperto, totalmente
disarmata. Dietro di loro, a terra, conto sei persone nei pochi metri vicino a
me, non riesco a vedere oltre causa il fumo. Un ragazzo, in particolare, è
disteso in posizione fetale sulla carreggiata, il sangue gli cola dal viso
gocciolando sull'asfalto, piange, si lamenta con versi indistinti. Una agente lo
calpesta e prosegue a manganello spiegato. Le autoblindo avanzano, la folla
indietreggia, ma finiranno per schiacciarsi gli uni gli altri, non c'è spazio.
Siamo stretti tra mare e cielo. Io paralizzata sto contro il muro, il braccio
sinistro in aria, la mano destra premuta sulla bocca. Piango perché gli occhi
bruciano, e poi ho perso tutti, non vedo venire avanti la mia amica, non so cosa
le sia successo. Mi si avvicina un "agente". Alto. Immenso. Grigio. La
tenuta antisommossa lo fa apparire un irreale gigante, con casco e la maschera
antigas che gli rende la voce metallica, il manganello, leggo la scritta gialla
"guardia di finanza". Mi si avvicina, mi insulta per qualche minuto,
minaccia, mi dice di andarmene, che cosa crediamo di fare lì, il mondo è loro,
noi siamo degli illusi. Accarezza l'aria e le mie gambe con il manganello. Mi
scuoto e scappo. Ma a pochi metri ci sono tre mitra branditi da questi
personaggi e le autoblindo che avanzano. La gente a terra. Le bandiere, di
partito ma anche arcobaleno, calpestate. Sacchi a pelo e caschetti abbandonati,
magliette e cartelli, qualche zaino. Una signora di mezza età gambe all'aria.
Una carrozzina vuota. Il fumo. Il sangue. Sperimento la solidarietà di chi come
me s'è perso, che non sa se i suoi amici stanno bene. Che cerca nell'abbraccio
con sconosciuti altrettanto disperati la speranza che sia tutto un brutto sogno.
Ritroverò la mia amica mezzora più tardi. Li hanno messi in fila contro il
muro. Senza distinzione di sesso e età, indipendentemente da cosa stessero
facendo, una manganellata sì, una no, alternativamente. Piano piano ci
ritroviamo e percorriamo a ritroso la via. Le ambulanze vanno e vengono. Le
sirene. Non siamo mai arrivati alla fine del percorso del corteo, non abbiamo
visto nessuna rete della zona rossa, non abbiamo toccato nessun bastone. Abbiamo
subito una carica del tutto ingiustificata. Non raccontatemi che non si
distinguevano i violenti dai pacifisti! Ci avviamo verso l'autobus. La città è
invasa di gente che cerca altra gente. Pianti. Ferite, labbra spaccate, braccia
contuse. Gente seduta a terra con dipinto sul volto il terrore e l'angoscia per
un attacco del tutto ingiustificato. E' stato attaccato un corteo del tutto
pacifico solo per spezzarlo e impedire il suo arrivo a destinazione. Con che
faccia si potrà giustificare la carica contro una moltitudine a braccia alzate,
semplicemente stupita di tanta violenza? Contro vecchiette e studenti, mamme. Un
amico sorregge la madre, una sconvolta signora bionda sulla cinquantina. Le
faceva scudo con il suo corpo, è stato picchiato. Come posso io ora credere nel
mio stato, se il mio stato mi picchia per le mie idee. Come posso tornare a
credere nella legalità, quando la legalità per me è morta coi manganelli.
Quando ho visto chi mi avrebbe dovuto proteggere accanirsi ingiustificatamente
contro di me, contro mamme e anziani, contro chi non aveva gambe per scappare.
Hanno chiamato la loro violenza giustizia. Ma io ho visto solo violenza
ingiustificata. Ma non riconosco più l'appartenenza ad uno Stato che non
rispetta il mio diritto a pensare, il mio diritto a manifestare, il mio diritto
alla salute. Eppure non c'era alcuna tuta nera tra di noi. Il mio stato mi ha
insegnato la violenza. Non entro in discorsi politici, sapete come la penso.
Come chiamare questo se non abusodi potere, cosa fa venire in mente? rispondete
voi. La nostra costituzione dice: "Tutti hanno diritto di manifestare
liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di
diffusione" (art. 21) "I cittadini hanno diritto di associarsi
liberamente" (art.18). "I cittadini hanno diritto di riunirsi
pacificamente e senz'armi" (art. 17) . lo dice la Dichiarazione dei diritti
dell'uomo del cittadino del 26 agosto 1789: "la libera manifestazione del
pensiero e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo". Lo
dice la L. 4 agosto 1955, n.848, quando è stato ratificata la Convenzione per
la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali: titolo I,
art. 10: "ogni persona ha diritto alla libertà di espressione". E
l'art. 11: "ogni persona ha diritto alla libertà di riunione pacifica e
alla libertà di associazione" . E, soprattutto, l'art. 32: "La
Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse
della collettività". La salute!!! E ci picchiano.
La prossima volta, in piazza, scenderò. Lo ritengo un dovere. Ma scenderò
difesa. Mi porterò il casco e quanto altro per difendermi da chi, invece,
dovrebbe tutelarmi.
Non discuto del resto delle manifestazioni, sarebbe un discorso infinito.
Quello che ho visto io, quello che hanno vissuto i miei amici e compagni di
università, culminato poi nell'attacco a gente che dormiva nei sacchi a pelo
massacrata ingiustificatamente la notte del 21, mi fanno dire che questa è una
guerra. Ci restano solo i nostri cervelli. Resistiamo.